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Indice:
1. Insabbiate le
denunce alla magistratura italiana
2. Insabbiata la
denuncia alla Corte Internazionale di
Giustizia dell'Aia
3. Insabbiate le
denunce per il bombardamento della
Radiotelevisione serba
include
notizie sul processo
in Olanda riguardante anche il
bombardamento
dei civili al mercato di Niš (15 morti
e 70 feriti)
4. Prosegue lo
sforzo, da parte della magistratura
tedesca, di insabbiare la denuncia per i
10 morti ed i 30 feriti di Varvarin
5. Il "Tribunale ad
hoc" dell'Aia insabbia tutte le denunce
relative ai crimini della NATO
6. US Uses
Past Crimes to Legalize Future Ones
(Diana Johnstone, 2013)
7.
Diritto e ... rovescio internazionale
nel caso jugoslavo (A. Martocchia su
Marx21 n.1/2015)
Flashback / Diritto, adieu /
La notizia più recente / Il Kosovo e la
missione EULEX / Altri aspetti dello
stato di illegalità in Kosovo / Il caso
Jelisić / La magistratura come
prosecuzione della guerra con altri
mezzi
vedi anche, sulle indagini da parte di
organizzazioni indipendenti e sui tribunali
"popolari":
CITAZIONI:
NON-INTERVENTION
IN INTERNAL AFFAIRS
On the matter of non-intervention
in internal affairs the Helsinki
Final Statement of 1975 states:
“VI. Non-intervention in internal
affairs
The participating States will
refrain from any intervention,
direct or indirect, individual or
collective, in the internal or
external affairs falling within the
domestic jurisdiction of another
participating State, regardless of
their mutual relations.
They will accordingly refrain from
any form of armed intervention or
threat of such intervention against
another participating State. They
will likewise in all circumstances
refrain from any other act of
military, or of political, economic
or other coercion designed to
subordinate to their own interest
the exercise by another
participating State of the rights
inherent in its sovereignty and thus
to secure advantages of any kind.
Accordingly, they will, inter alia,
refrain from direct or indirect
assistance to terrorist activities,
or to subversive or other activities
directed towards the violent
overthrow of the regime of another
participating State.”
(Source)
ALTRI LINK:
(Presa
di posizione del Circolo Ufficiali
della Serbia sulla interpretazione
giuridica dei bombardamenti NATO del
1999)
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1. INSABBIATE
LE DENUNCE ALLA MAGISTRATURA ITALIANA
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Denuncia presentata da Pallotti ed
altri (presso avvocato Dall'Asén) contro i
Ministri D'Alema, Scognamiglio, Dini ed
altri, per "concorso nei reati di attentato
contro la Costituzione (art.283 c.p.),
usurpazione di potere (art.287 c.p.),
strage, omicidio plurimo e lesioni; nonchè
di disastro ambientale e crimini di
guerra..." il 13/7/1999 alla Procura
della Repubblica presso il Tribunale di
Bologna
Denuncia
presentata da Cerminara ed altri presso:
PROCURA DELLA REPUBBLICA presso il
Tribunale di Roma, Ufficio Protocollo
Registrato il 13/05/1999 al n. 3863 Prot.
Del.
http://www.pasti.org/avvroma.html
Denuncia
del coordinamento dei comitati contro
la guerra alla Procura della
Repubblica, presso il Tribunale di
Roma, 1
giugno 1999
http://www.pasti.org/comguerr.html
Denuncia
penale presentata dal Movimento
Nonviolento e dal Movimento Internazionale
della Riconciliazione il 7 maggio 1999
alla Procura della Repubblica presso
il Tribunale penale di Verona
Commento: Le
denunce presentate contro il governo
italiano e gli argomeni infondati con
cui vengono respinte
http://www.pasti.org/denunit.html
D’Alema, il Kosovo e la
Cassazione
Francesco Pallante
su Il
Manifesto del 22.06.2017
Uno dei passaggi più applauditi del discorso
con cui Tomaso Montanari ha aperto la
manifestazione di domenica scorsa al Teatro
Brancaccio è stato quello in cui –
ricordando come molti dei «mali» di oggi
originino da politiche avviate nella prima
legislatura dell’Ulivo – ha denunciato
l’«illegittimità» della guerra contro la
Serbia. Intervistato martedì da Daniela
Preziosi su questo giornale, Massimo D’Alema
ha così replicato: «Vorrei spiegare a
Montanari che di questo fui accusato da un
gruppo di giuristi. Poi la Cassazione emise
una sentenza che archiviò tutto riconoscendo
la piena legittimità del mio agire».
In effetti, la Cassazione ha avuto modo
di occuparsi, sia pure in modo peculiare,
della vicenda in due occasioni.
All’origine della prima c’è uno degli
episodi più controversi del conflitto: il bombardamento
della sede della televisione Rts
(Radio televisione serba), compiuto nella
notte del 23 aprile 1999 da aerei della
Nato, dopo che la stessa Rts aveva rifiutato
di cessare le trasmissioni di «propaganda»
(questa l’accusa della Nato) a sostegno del
regime di Milosevic. Dopo la conclusione
delle ostilità, i
parenti di alcune delle sedici vittime si
rivolsero al Tribunale di Roma, per
vedere riconosciuta l’illiceità dell’attacco
alla Rts e ottenere, di conseguenza, il
risarcimento dei danni patiti ai sensi
dell’articolo 2043 del codice civile. In
opposizione, l’Avvocatura dello Stato negò
che la magistratura italiana avesse
competenza in materia, proponendo
regolamento preventivo di giurisdizione e
così chiamando in causa la Corte di
Cassazione. Ne scaturì l’ ordinanza n. 8157 del 5
giugno 2002 delle Sezioni Unite civili,
nella quale venne dichiarato, così come
richiesto dall’Avvocatura dello Stato, il
«difetto di giurisdizione» della
magistratura italiana. Più precisamente
l’ordinanza stabilì che, rispetto agli atti
che costituiscono manifestazione di una
funzione politica, tra cui rientrano gli
atti di guerra, «nessun giudice ha potere di
sindacato circa il modo in cui la funzione è
stata esercitata». In definitiva: la
Cassazione non svolse alcun esame di merito
della controversia, non addivenendo al
riconoscimento né della legittimità né della
illegittimità della guerra o di un suo
episodio. Molto più semplicemente, si fermò
prima: all’affermazione dell’incompetenza
della magistratura a pronunciarsi.
La seconda vicenda nacque invece dalla denuncia
che alcuni cittadini, su iniziativa di
parlamentari di Rifondazione comunista,
presentarono nei confronti di D’Alema per
i delitti di attentato alla Costituzione,
usurpazione di potere politico o militare
e strage, delitti che sarebbero stati
commessi in conseguenza della partecipazione
dell’Italia alla guerra. La denuncia venne
assegnata per competenza al Collegio per i
reati ministeriali presso il Tribunale di
Roma e si concluse, il 26 ottobre 1999, con
l’archiviazione del procedimento:
sostanzialmente, perché i giudici non
ravvisarono anomalie rispetto a quanto
sancito dall’articolo 78 della Costituzione
sulla deliberazione dello stato di guerra. I
ricorrenti si rivolsero allora alla
Cassazione chiedendo l’annullamento del
decreto di archiviazione in virtù di un
vizio procedurale: non essere stati
informati della richiesta di archiviazione
avanzata dal pubblico ministero e, per
l’effetto, non aver potuto adeguatamente
contestare in contraddittorio tale
richiesta. Con la sentenza n. 36274 dell’8
ottobre 2001 la VI sezione penale della
Suprema Corte statuì l’infondatezza del
ricorso, negando che i ricorrenti potessero
considerarsi «persone offese dal reato»,
essendo invece al più semplici «danneggiati
dal reato», e dunque riconoscendo la
correttezza della decisione del Tribunale di
Roma di non dare loro avviso della richiesta
di archiviazione. Anche in questo caso,
dunque, la Cassazione non ebbe modo di
esprimersi né sulla legittimità né sulla
illegittimità della guerra, ma si limitò a
intervenire sui profili procedurali della
vicenda svoltasi nel grado di merito.
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2. INSABBIATA LA DENUNCIA ALLA
CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA DELL'AIA
(Fonte: JUGOINFO
Sab 18 Dic 2004)
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Con la motivazione vergognosa che la materia non
sarebbe di sua competenza poiche'
"all'epoca dei fatti la RF di Jugoslavia non
era membro a pieno titolo dell'ONU", la
Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia
ha provveduto ad insabbiare il procedimento
giudiziario intentato dallo Stato
jugoslavo per i crimini di guerra e contro
l'umanita' commessi dalla Alleanza Atlantica
nella primavera 1999.
Si noti che tutte le analoghe denunce presentate
alle magistrature di vari paesi
(compresa l'Italia) sono state insabbiate
(tranne la causa intentata in Germania per
le vittime di Varvarin); l'illegittimo
"Tribunale ad hoc" (da non confondere con la
Corte Internazionale di Giustizia), dal
canto suo, si e' sempre rifiutato di incriminare
i dirigenti NATO in quanto ad essi deve la
sua stessa esistenza, i suoi stipendi, ed
essi ne sono i principali sponsor.
Le denunce contro Stati Uniti e Spagna erano
gia' state dichiarate
insostenibili dalla Corte Internazionale di
Giustizia dell'Aia poiche' questi due
Stati non hanno mai ratificato la
legislazione internazionale sul
genocidio... Altri paesi, come l'Italia -
gravemente implicata nei crimini di guerra
del 1999 - avevano chiesto alla
Corte internazionale di giustizia dell'Aja
di ''non pronunciarsi'', in attesa del
disfacimento di quanto resta dello Stato
jugoslavo (Serbia e Montenegro).
Il pretesto che all'epoca la Jugoslavia "non era
membro dell'ONU" non regge: la Jugoslavia
era stata sospesa in forza delle pressioni
degli stessi paesi aggressori; ma in
realta', pur sospesa dalle sessioni, la
Jugoslavia era membro fondatore delle
Nazioni Unite.
La Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia ha
impiegato ben cinque anni e mezzo per
giungere a questo esito infame.
Sul caso della
denuncia presentata all'Aia si veda anche:
Sulla
denuncia per crimini di guerra presentata
dalla Jugoslavia contro la NATO
Memorandum
"Slobode" protiv povlacenja tuzbi
BELGRADE
ACTION AGAINST NATO BEGINS
Preliminary hearings in Serbia and Montenegro
vs NATO trial marked by calls for legal action
to be dismissed.
By Rachel S. Taylor in The Hague - IWPR'S
TRIBUNAL UPDATE No. 354, April 2004, 2004
(Note e link a cura di Italo Slavo)
KOSOVO: CORTE AJA RESPINGE ISTANZA SERBIA
[sic] CONTRO PAESI NATO
(ANSA) - BRUXELLES, 15 DIC - La Corte
internazionale di giustizia dell'Aja ha oggi
respinto le accuse per genocidio presentate
dalla Serbia e Montenegro contro otto
paesi della Nato, fra i quali l'Italia,
per la loro partecipazione alla guerra del
Kosovo del 1999. Il principale organo
giudiziario delle Nazioni Unite ha di fatto
dato ragione alla posizione degli otto
paesi (oltre a Italia, Belgio, Francia,
Canada, Germania, Olanda, Portogallo, Gran
Bretagna), secondo i quali il tribunale
dell'Aja non ha alcuna competenza nel caso.
Il presidente della Corte, il cinese Shi
Jiuyong, ha reso noto che i 15 giudici
del tribunale hanno ''all'unanimita'''
dichiarato di ''non avere competenza''
nei confronti delle istanze presentate dalla
Serbia e Montenegro contro i paesi
dell'Alleanza Atlantica nell'aprile del
1999. Si tratta, ha precisato il presidente,
di una decisione finale, contro la quale
non c'e' pertanto possibilita' di appello.
(ANSA) RIG
15/12/2004 17:11
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3. INSABBIATA LA DENUNCIA PER IL
BOMBARDAMENTO
DELLA RADIOTELEVISIONE SERBA
(Fonte:
Andrea Catone / JUGOINFO
Gio 6 Nov 2003)
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Sul bombardamento della RTS di
Belgrado vedi anche:
# NATO murdered
journalists, then jailed TV director
By Heather Cottin - May 1, 2009 - also
in
JUGOINFO
archived post
#
Amnesty: NATO bombing of Serbian TV 'war
crime' (Dusan
Stojanovic, AP April 23, 2009) / AI: Who
will judge NATO's crimes? (Beta News
Agency/Politika - May 4, 2009): see JUGOINFO
archived
posts
# La Denuncia presentata da La Valle ed altri
relativa al bombardamento della televisione
jugoslava al Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale Penale Militare, Roma, 5
maggio 1999: http://www.pasti.org/tvjugo.html
# i commenti
nella Rassegna
Stampa
24-26 aprile 1999
# lo stralcio dal documento di
Amnesty International - 1 Giugno 2000
# http://www.srpskadijaspora.info/vest.asp?id=4265
Serbian Internet News
January 30, 2009
[Republication from 2004]
Humanitarian
Bombers in Court
For the first time since the Nuremburg
trials of the
Nazis in 1946, the former leadership of a
western
country was forced to attend court
yesterday to defend
accusations that their country had
committed war
crimes.
Wim Kok,
who had been a trade union firebrand
before
becoming prime
minister of the Netherlands, and
is now
a corporate board member of Shell and the
Dutch
Telecoms company Telfort, avoided giving a
view on
whether the NATO attack on the Belgrade RTS
TV Studio
was justified, saying he had only found
out after the
bombing that 150 civilians had been inside
the
building at that time.
Ex-foreign
minister van Aartsen, on the
other hand,
appeared enthusiastic about the attack.
When the advocate for the victims'
families, Nico
Steijnen,
asked him about the Amnesty
International
report which concluded that the TV
studio was a purely
civilian site, the former cabinet member
claimed that
the studio was in fact a 'dual use'
installation which
also had a function for the Yugoslavian
armed forces.
Van Aartsen also stated that the Dutch
govenment had
in written correspondence with Amnesty
International
on several occasions before this bombing
stating that
communications centres in general could be
considered
legitimate targets; this, he suggested,
could be
considered sufficient warning to the
civilians inside
the RTS TV building in Belgrade.
Even Judge
P. A. Koppen, presiding over the
courtroom,
appeared to have difficulty concealing his
amazement
at this statement.
Sixteen people, all civilians, died
in the attack,
which put the television station out of
action for
three hours before transmission was
resumed.
When asked about the NATO cluster bomb
attack on Nis,
a Serbian town near a military airfield,
Wim Kok
stated, "It's even more sad, seeing that a
market and
a hospital were hit, that the actual
target was
missed."
Following the 15 dead and 70 injured in Nis,
the Dutch
government decided that its own F16
warplanes would
cease dropping cluster bombs on
Yugoslavia; the other
components of the NATO forces did not
change their
policy of using these terrifying weapons.
The packed courtroom heard an account of
the NATO
strategy of gradually increasing the range
of sites
which it was permissible for US and West
European
forces to attack, moving from strictly
military
targets in phase one of the war, to phase
two, phase
two-plus, and phase three, in which
communications,
transport and other infrastructure would
be destroyed.
Steijnen (for the victims'families):
'What was the
difference between phase two-plus and
phase three''
Kok: 'In the NATO Council, the transition
between
phases two and three was considered
sensitive. So we
had phase two-plus, which included
'C-three centres' '
command, control and communications
targets.'
Steijnen: 'Why was it sensitive, the move
to phase
three''
Kok: 'That was my perception.'
Steijnen: 'A parliamentary document states
explicitly
that civil targets were included. Was that
the cause
of this '"sensitiveness"'
Kok: 'I can't say more. The
decisions on specific
targets were not posed to the Netherlands
and did not
have to be.'
One could conclude that only a
country with no real
possiblity of hitting back at its
opponents could thus
be coldly, systematically brought to its
knees in the
78 days of this bombardment, the first
major war in
Europe since 1945.
The tensions within NATO had more to do
with keeping
public opinion on board than any
likelihood that
Yugoslavia could score any military
successes.
The court appearance was part of a
preliminary hearing
in an
action for compensation from the Dutch
state on
behalf of
victims of the NATO attacks on Nis and
the
RTS TV
Studio. The former
defence minister Frank de
Grave
has yet to to give evidence, and ex-leader
of
parliament Jeltje van Nieuwenhoven is
refusing to
attend the court.
After today's proceedings, Meindert
Stelling, a
leading member of the campaign for the
bombing victims
and a founder member of Lawyers for Peace,
was
optimistic about the outcome.
"We have established that the Dutch
government was
involved all the way, in the
decision-making process
about what kind of targets would be
attacked in which
phases of the war.
"Also, our former foreign minister made it
clear that
NATO forces needed to operate within the
protocol of
international law, meaning that a target
can only be
selected for attack if destroying it or
putting it out
of action will create a definite military
advantage
for the attacking party, according to
plans and in the
circumstances of the time.
"The government will have to prove that
the RTS TV
studio was actually in use by the
Yugoslavian
military. They will also need to show that
it was
reasonable to drop cluster bombs at Nis,
so close to a
civilian inhabited area."
Stelling,
himself a former Dutch Air Force pilot,
commented further on the day's evidence.
"Our former
prime minister showed that he was not in
control in
Holland's relationship with the NATO
military
apparatus. He was not in control of
whether the war
was conducted within international law.
This amounts
to neglect."
Stelling concurs that it might have
been convenient
for the Dutch leadership and some other
European NATO
top politicians not to know which specific
sites were
to be targetted, in case they were
illegal. (...)
LA CASSAZIONE
LIBERALIZZA I CRIMINI DI GUERRA
Le cronache politiche dell’anno
II del Governo Berlusconi sono tutte incentrate
sullo scontro titanico sulla giustizia, (rectius
sull’impunità del Premier e dei suoi sodali),
che si articola fra le aule del Tribunale e i
Palazzi romani. e rimbalza nei girotondi e nella
manifestazioni popolari per la legalità. A
leggere queste cronache sembrerebbe che
l’autorità giudiziaria nel suo insieme fornisca
un baluardo ai progetti di illegalità e di
arbitrio che avanzano prepotentemente nel mondo
politico.
A ben vedere la linea di resistenza all’arbitrio
è molto più frastagliata di quel che appare. Le
esigenze di impunità di questa classe dirigente
hanno trovato, in più di una occasione, una
benevola comprensione fra i guardiani delle
regole. Basti pensare che la c.d. “legge
Cirami”, presentata alla Camera il 9 luglio
2002, ha trovato appiglio in una
“provvidenziale” ordinanza delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, depositata il 5
luglio, che accogliendo la richiesta degli
avvocati di Berlusconi e Previti, sollevava un
dubbio di costituzionalità della norma del
codice di procedura penale che non consentiva il
giochino della rimessione ad altra sede dei
processi di Milano.
Però è passata quasi inosservata una ben più grave
ordinanza, depositata nel corso del mese
di giugno 2002, con la quale le Sezioni
Unite hanno realizzato la più grande
liberalizzazione giudiziaria che si sia
mai verificata dalla fondazione della
Repubblica. In un’epoca in cui trionfa
la liberalizzazione ed arretrano i vincoli
del diritto, le Sezioni Unite hanno dato la
stura alla madre di tutte le
liberalizzazioni. Hanno “liberalizzato” la
guerra, sciogliendola dai vincoli noiosi del
diritto, fino al punto da sancire
l’insindacabilità giudiziaria dei crimini di
guerra.
Così, senza tanto clamore, è
fiorita una nuova libertà per il potere. Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, hanno
riconosciuto, gratis, a Berlusconi una assoluta
(in quanto insindacabile) libertà di
bombardamento.
E’ accaduto che la NATO la notte del 23
aprile 1999 ha attaccato gli studi della
Radio Televisione Serba, provocando la morte
di 16 persone. Tale episodio
bellico è stato fortemente contestato dalle
organizzazioni che si occupano della tutela dei
diritti umani, in primis Amnesty International
in quanto organizzare attacchi contro i civili e
le strutture civili è drasticamente proibito
dalla convenzioni internazionali. In altre
parole la strage che ne è seguita costituirebbe
un crimine di guerra. (si
veda in proposito il documento NATO/RTF:
unlawful killings or collateral damages?,
Londra, giugno 2000, di cui è possibile
leggere una versione italiana sul sito www.domenicogallo.it).
I parenti di alcune vittime che, per loro
sfortuna conoscevano l’Italiano, hanno letto la
Costituzione italiana, in particolare l’art. 2,
che assicura che esistono dei diritti dell’uomo
che – addirittura - sono inviolabili; l’art. 24
che assicura che tutti possono agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti e l’art. 113
che assicura che la tutela dei diritti è
garantita – persino – contro gli atti della
Pubblica Amministrazione. Trattandosi di persone
semplici e sprovvedute, costoro hanno commesso
l’imperdonabile ingenuità di credervi. Per
questo hanno citato in giudizio, innanzi al
Tribunale civile di Roma, la Presidenza del
Consiglio dei Ministri ed il Ministro della
Difesa chiedendo che il Giudice accertasse se i
loro congiunti avevano il dovere di morire o se
anche per essi valeva il principio che la vita
umana vale qualcosa, tanto che non può essere
soppressa se le convenzioni internazionali lo
vietano.
C’è da premettere che negli Stati Uniti una
causa del genere non sarebbe stata possibile
perché in quell’ordinamento, tanto più civile
del nostro, vige da tempo immemorabile il
principio della immunità dalla giurisdizione
degli atti di sovranità. Questo grande principio
di civiltà giuridica assicura al Presidente
degli Stati Uniti la libertà di bombardare chi
vuole, quando vuole e come vuole, senza dover
renderne conto a nessuno. Questo non vuol dire
che il Presidente degli Stati Uniti possa fare
quello che vuole, tanto da essere sottratto al
controllo dei giudici. E’ vero che è libero di
sganciare una bomba atomica e – magari -
provocare la morte di qualche milione di
persone, però se tradisce la moglie sono guai,
ed i giudici in quel paese sanno essere
inflessibili, come insegna la vicenda di Bill
Clinton e Monica Lewinski.
In Italia questo principio non è mai esistito.
Esisteva una più modesta immunità degli atti
puramente politici (come promulgare una legge o
indire un referendum), che non potevano essere
sottoposti a sindacato giurisdizionale in quanto
espressione di una attività politica, non
assoggettabile a parametri di riferimento
giuridici, essendo libera nel fine, ed in quanto
non incidenti su diritti soggettivi garantiti
dall’ordinamento.
C’è da premettere che di fronte alla Corte
Europea dei Diritti dell’uomo si è svolta
un’altra causa promossa da altri parenti
della vittime della stessa strage compiuta
negli studi della televisione serba, i
quali – a loro volta - hanno commesso
l’ingenuità di leggersi la Convenzione
Europea dei Diritti dell’uomo e di credere
che la stessa si applicasse anche alle
nefandezze compiute in Jugoslavia.
Nel corso del giudizio i giudici di
Strasburgo hanno rivolto una domanda al
Governo italiano, chiedendogli “se la
dottrina dell’immunità della sovranità è
riconosciuta nel diritto italiano?”
A questa domanda il co-agente italiano (con
una nota del 13 novembre 2001) ha risposto
richiamando la dottrina dell’immunità degli
atti politici ed ha poi dichiarato: “E’
perfettamente possibile arguire che, mentre
la partecipazione dell’Italia alla campagna
militare contro la Repubblica Federale
Jugoslava è essa stessa un atto politico,
come tale in suscettibile di sindacato
giurisdizionale, non vi sono ostacoli al
sindacato giurisdizionale rispetto alle
singole operazioni eseguite in tale contesto
(come per esempio il bombardamento
dell’edificio della RTS) sulla base
dell’allegazione che esse sono state
illecite ed hanno causato danni ingiusti a
singoli individui ”.
Com’è noto alle Corti internazionali non si
possono raccontare balle, tanto più che a
Strasburgo siede un giudice italiano. Per questo
– in via del tutto eccezionale - il co-agente
italiano ha detto la verità.
Ma torniamo al giudizio pendente innanzi al
Tribunale di Roma. L’avvocatura
dello Stato, che per legge difende i
Ministri, si è costituita e non ha speso una
parola per controbattere gli argomenti
giuridici e di fatto sollevati dai parenti
delle vittime. Ha invocato semplicemente la
carenza di giurisdizione, cioè ha detto che
il giudice non doveva permettersi di
giudicare. Poiché tale maleducata eccezione,
oltretutto non argomentata dal punto di
vista giuridico, aveva una possibilità di
essere accolta equivalente a zero,
l’Avvocatura ha chiamato in soccorso le
Sezioni Unite della Cassazione, ricorrendo
ad un espediente procedurale: il ricorso per
regolamento preventivo di giurisdizione. Quando
viene proposto il Regolamento preventivo il
giudice deve fermarsi ed attendere che le
Sezioni Unite risolvano il problema.
Ed è proprio quello che è successo, la causa
iniziata innanzi al Tribunale di Roma è stata
immediatamente sospesa dopo la prima udienza.
Tuttavia la strada scelta dall’Avvocatura per
bloccare il giudice naturale del processo
appariva tecnicamente impraticabile. Infatti le
Sezioni Unite delle Cassazione avevano da anni
assunto un indirizzo giurisprudenziale che
dichiarava inammissibile il ricorso per
regolamento preventivo di giurisdizione nei casi
di difetto assoluto di giurisdizione, In questi
casi – sostenevano le Sezioni Unite – non si
pone un problema di giurisdizione, ma una
questione di merito. E’ il giudice di merito che
deve conoscere il fatto e decidere se la pretesa
fatta valere in giudizio può essere tutelata o
meno. A questo punto il lettore sprovveduto si
chiederà, come hanno fatto
le Sezioni Unite a dichiarare ammissibile il
ricorso se in base alla loro giurisprudenza
esso era palesemente inammissibile?
La risposta è semplice. Avete mai sentito
parlare del miracolo italiano? L’Italia è un
paese dove i miracoli esistono, anche in
Cassazione. Così al primo punto della
motivazione dell’ordinanza i sommi giudici
dicono: “il regolamento di giurisdizione è
ammissibile”. Quindi precisano che è questione
di giurisdizione “anche quella su cui si deve
statuire che ogni giudice difetta di
giurisdizione” e richiamano una precedente
pronunzia del 1978, tacendo sull’indirizzo
contrario che esse avevano introdotto e
consolidato negli ultimi venti anni. Come
motivano le Sezioni Unite questo miracoloso
cambiamento di indirizzo? E’ semplice, non lo
motivano affatto. Al di sopra delle Sezioni
Unite c’è solo il tribunale di Dio, non c’è
bisogno, quindi, di motivare. Entrando nel vivo
del problema le Sezioni Unite affermano: “La
domanda riferisce allo Stato italiano una
responsabilità che è fatta dipendere da un atto
di guerra, in particolare da una modalità di
conduzione delle ostilità belliche rappresentata
dalla guerra aerea.” Quindi sentenziano: “La
scelta di una modalità di conduzione delle
ostilità rientra fra gli atti di Governo”. Si
tratta di atti che costituiscono manifestazione
di una funzione politica, rispetto alla quale
non è possibile configurare una situazione di
“interesse protetto a che gli atti in cui si
manifesta assumano o non assumano un determinato
contenuto”. Ragion per cui “rispetto ad atti di
questo tipo nessun giudice ha il potere di
sindacato circa il modo in cui la funzione viene
esercitata”. Insomma, i giudici devono tacere.
Peccato, però, che i parenti delle vittime non
avevano mai contestato alcuna funzione politica
dello Stato italiano. Essi, infatti non avevano
mai chiesto al giudice italiano di sindacare le
scelte di politica internazionale compiute dal
nostro governo, né, avevano chiesto di applicare
l’art. 11 della Costituzione, secondo cui
l’Italia - addirittura - ripudia la guerra (che
esagerazione!), né - tanto meno - avevano
chiesto di sindacare le modalità di conduzione
della guerra aerea.
I meschini avevano avuto solo l’ardire di
chiedere al giudice italiano di valutare se la
strage compiuta in loro danno fosse stata
realizzata secondo diritto o meno, poiché – in
teoria – esiste un diritto che regola anche
queste cose.
La teoria avanzata dalle Sezioni Unite è
veramente singolare. Infatti è la prima volta
che in Italia una strage viene dichiarata un
atto politico e gli viene fornita l’immunità
giurisdizionale. Dal punto di vista delle
fenomenologia giuridica, una strage non è un
atto deliberativo (che sia esso politico o meno)
bensì è il risultato di una operazione
materiale, come ha osservato in proposito il
co-agente italiano a Strasburgo. Tuttavia se la
si fosse considerata nella sua natura di
operazione materiale, la strage non avrebbe
potuto essere coperta con il pietoso velo
protettivo dell’atto politico. Ecco perché le
Sezioni Unite, a prezzo di una piccolissima
forzatura della logica e della lingua italiana,
(l’Accademia della Crusca non gliene voglia!)
definiscono la strage una “modalità di
conduzione della guerra aerea”.
La dilatazione fino all’infinito del concetto di
atto politico, però, non bastava a mettere al
riparo l’ “atto di Governo” da ogni critica
giuridica. Infatti le vittime hanno sostenuto la
fastidiosa tesi che persino gli atti di Governo
o di sovranità sono assoggettati a delle regole
giuridiche che ne limitano la libertà (come
ribadisce lo Statuto istitutivo della Corte
Penale Internazionale) vietando – per esempio –
il genocidio, la tortura o i crimini di guerra,
ed hanno invocato i trattati internazionali
firmati dall’Italia. A questo riguardo le
Sezioni Unite osservano: “Le norme del
Protocollo di Ginevra del 1977 e della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, hanno
come oggetto la protezione dei civili in caso di
attacchi, ma in quanto norme di diritto
internazionale regolano i rapporti fra Stati.”
Poi osservano che le leggi che hanno dato
applicazione a tali Trattati internazionali nel
nostro ordinamento interno “non contengono norme
espresse che consentono alle persone offese di
chiedere allo Stato riparazione dei danni loro
derivati dalla violazione delle norme
internazionali” Quindi osservano “che
disposizioni di questo contenuto siano
implicitamente risultate introdotte
nell’ordinamento per effetto dell’esecuzione
data alle norme di diritto internazionale è
principio che trova, poi, ostacolo in quello
contrario, per cui alle funzioni di tipo
politico non si contrappongono situazioni
soggettive protette.” Traducendo in soldoni, con
questo linguaggio paludato le Sezioni Unite
hanno espresso un concetto molto semplice e
neppure tanto originale: i trattati
internazionali sono pezzi di carta (soprattutto
quelli che riguardano i diritti dell’uomo). Di
fronte a questa affermazione tanto drastica e
perentoria, quanto surreale, appare come un faro
di civiltà giuridica persino lo Stato di Israele
che, dinanzi alla sua Corte Suprema, ha
espressamente riconosciuto che le sue forze
armate, nelle conduzione delle ostilità, sono
giuridicamente vincolate al rispetto delle norme
del diritto bellico e non ha mai rivendicato, né
ottenuto (almeno formalmente) l’immunità dal
controllo di legalità dei propri giudici- (cfr.
Sentenza n. 2941 del 8 aprile 2002).
Invece in Italia il potere esecutivo, grazie a
questa generosa ordinanza delle Sezioni Unite, è
diventato un princeps legibus solutus poiché di
fronte all’esercizio della funzione politica di
compiere un bombardamento ed una strage
conseguente, non si possono contrapporre
“situazioni soggettive protette”. Insomma le
vittime di crimini di guerra devono crepare e
non possono accampare diritti. E che non si
azzardino a rivolgersi ad un giudice!
A questo punto non ci resta che sperare che
il Ministro dell’Interno non legga
l’ordinanza. Non si sa mai. Domani qualcuno
potrebbe scoprire che sparare
sull’opposizione in piazza è esercizio di
una insindacabile funzione politica.
il manifesto - 23 Aprile 2003
GIORNALISMO TARGET
Dalla tv di Belgrado all'Hotel Palestine.
Quel «vicino» 23
aprile
di DOMENICO GALLO
Ksenija Bankovic aveva 28 anni il 23 aprile del
1999 ed era molto contenta del suo lavoro di
assistente al montaggio, anche Jelika Munitlak
aveva 28 anni ed era contenta del suo lavoro di
truccatrice.Oggi, dopo quattro anni, Ksenija e
Jelika hanno ancora 28 anni. Infatti sono state
spogliate della vita alle ore 2,06 del 23 aprile
1999, assieme ad altre quattordici persone, come
loro addette al lavoro presso gli studi della
Rts (Radio Televisione Serba) di Belgrado. Un
missile «intelligente» della NATO aveva deciso
di impadronirsi della loro vita e c'è riuscito,
centrando, con precisione millimetrica, l'ala
centrale dell'edificio della televisione, dove
ferveva il lavoro dell'equipe tecnica. I vertici
dell'Alleanza sono così riuscite a spegnere per
sempre il sorriso di Ksenija e di Jelika che,
chissà per quale oscura ragione, dava loro tanto
fastidio. Quattro anni fa l'opinione pubblica
non era ancora abituata a considerare le equipe
televisive ed i giornalisti addetti al loro
lavoro come obiettivi militari, come bocche e
come occhi da chiudere per sempre, con
l'argomento irresistibile del tritolo. Per
questo, all'epoca si levò un fremito di
indignazione che raggiunse, addirittura, i
vertici politici coinvolti in quella sciagurata
impresa. Il ministro italiano degli Esteri
dell'epoca, l'on. Dini, da Washington, dove si
era riunito il Summit dell'Alleanza per
celebrare i 50 anni della Nato, dichiarò ai
giornalisti italiani «è terribile, disapprovo,
non credo che fosse neppure nei piani». Ma fu
immediatamente sconfessato dal suo Presidente
del Consiglio, l'on. Massimo D'Alema, che
dichiarò: «Non si può commentare ogni giorno
dov'è caduta una bomba», precisando che la sua
reazione alla notizia risultava «attenuata dal
fatto che in Jugoslavia non esiste una stampa
libera» (Corriere della Sera, 24 aprile 1999).
Così il 23 aprile del 1999, nel processo della
modernizzazione che incombe sul nostro tempo, è
entrato una preziosa acquisizione giuridica: il
diritto alla vita dei giornalisti (e di tutti
coloro che lavorano nel mondo dei media) è un
diritto affievolito, dipende dal grado di
libertà di stampa esistente in un determinato
contesto. Quando la televisione costituisce uno
strumento di propaganda di un regime politico
autoritario, allora può essere silenziata con la
giusta dose di tritolo. D'altronde è proprio
quello che sostenevano i portavoce della Nato,
nel briefing quotidiano con la stampa. Il
colonnello Konrad Freytag, sempre nella fatidica
giornata del 23 aprile, dichiarava che la Nato
aveva continuato gli attacchi volti a indebolire
gli apparati di propaganda della Jugoslavia e
per questo aveva colpito gli studi
radiotelevisivi della Tv di Belgrado: «la più
grande istituzione dei mass media in Yugoslavia,
che orchestra la maggior parte dei programmi di
propaganda del regime».
Anche in Iraq, come tutti sanno, non esisteva
una stampa libera, per questo le forze
dell'Alleanza del bene, il giorno prima della
capitolazione di Baghdad hanno distrutto il
terrazzo da cui trasmetteva la Tv Al Jazeera,
uccidendone l'inviato, ed hanno bombardato
l'Hotel Palestine, uccidendo altri due
giornalisti, che non avevano capito bene che il
regime di Saddam non garantisce la libertà di
stampa. L'esempio della Rts ha fatto scuola.
Sono passati solo quattro anni da quell'evento,
ma sembra che sia trascorso un secolo. In
Jugoslavia del regime di Milosevic non è rimasta
più traccia alcuna: i dignitari del regime o
sono morti per faide interne o sono finiti in
prigione all'Aja. La stessa Jugoslavia non
esiste più, ha cambiato nome: adesso si chiama
Serbia e Montenegro. Apparentemente ci sono
tutte le ragioni per aprire una casella negli
scaffali della storia dove archiviare
definitivamente la guerra Nato di Jugoslavia e
passare ad altro. Ma i conti non tornano, questa
stagione non riesce a concludersi, perché sino
ad oggi nessuno ci ha dato conto della atroce
morte di Ksenija e dei suoi compagni. Nessuno ha
pronunziato una parola di giustizia che
consentisse ai morti di riposare in pace. Di
fronte a questo evento sta il silenzio
assordante delle Corti e dei sistemi giudiziari
di cui l'Occidente mena gran vanto.
In primo luogo il silenzio di quell'organo che
l'Onu aveva creato per proteggere gli abitanti
della ex Jugoslavia dalla barbarie della guerra.
Il Tribunale penale per i crimini commessi nella
ex Jugoslavia non ha detto una parola. Non ha
potuto, in quanto il suo Procuratore, Carla Del
Ponte, ha deciso di non chiedere ai suoi giudici
di giudicare ed ha dichiarato, il 5 giugno del
2000 al Consiglio di Sicurezza dell'ONU di
essere «molto soddisfatta» per aver archiviato
le denunzie relative ai crimini commessi dai
vincitori - accuse depositate da Amnesty
International e Human Right Watch. In secondo
luogo il silenzio di quella Corte Europea dei
Diritti dell'Uomo, che ha deciso, il 12 dicembre
2001, pronunziandosi sul ricorso presentato dal
papà di Ksenija Bankovic, di non giudicare,
decretandoche i diritti dell'uomo non sono poi
tanto universali. In terzo luogo il silenzio
della Cassazione, le cui Sezioni unite civili
hanno imposto, nel giugno del 2002, ai giudici
italiani di tacere, di non raccogliere il grido
di dolore delle vittime, per non disturbare la
libertà di bombardamento del sovrano. Com'è
noto, al di sopra delle Sezioni Unite, c'è solo
il Tribunale di Dio. Quindi i sommi giudici
credevano di mettere la parola fine a questa
vicenda, ma hanno commesso uno sbaglio. I morti
non sono d'accordo. Lo spettro delle sedici
vittime innocenti (che tornano in questi giorni
d'attualità) continua ad aggirarsi nelle
Cancellerie e nelle Corti di Giustizia. I
leaders politici, responsabili della morte
fisica, ed i magistrati, responsabili della
morte giudiziaria, non se ne potranno liberare e
trasaliranno, vedendoseli comparire dinanzi,
come Macbeth quando vedeva riaffiorare lo
spettro di Banquo.
TRIBUNALE
CIVILE DI ROMA
ATTO DI
CITAZIONE
La sig. Ambretta Rampelli, nata a Napoli il
22 agosto 1933, residente in Roma, Piazza
Buenos Aires 14, non in proprio ma nella
qualità di procuratrice speciale del sig.
Dusan Markovic, cittadino Jugoslavo, nato a
Cortanovci (YU) il 5/8/1924 e residente a
Belgrado, Vojvode Stepe n. 287 e della
signora Dusica Jontic, cittadina Jugoslava
nata a Beli Potok (YU) il 27/2/1948 e
residente a Belgrado, Brace Jerkovic 85, in
virtù di procura speciale rilasciata innanzi
al Cancelliere del Consolato dell’Ambasciata
italiana in Belgrado il 7 aprile 2000,
nonché nella qualità di procuratrice
speciale del sig. Markovic Zoran, cittadino
jugoslavo, nato a Belgrado il 25 marzo 1952,
ivi residente in Proleterkih Brigada 73 e
del sig. Jontic Vladimir, nato a Belgrado il
14 agosto 1978, cittadino jugoslavo,
residente a Belgrado, Brace Jerkovic n. 85,
in virtù di procura speciale rilasciata
innanzi al Cancelliere del Consolato
dell’Ambasciata italiana in Belgrado il 16
maggio 2000 (doc. 1 e 2), elettivamente
domiciliata in Roma, Via degli Scipioni n.
268/a presso lo studio dell’avv. Prof.
Giuseppe Bozzi, che la rappresenta e
difende, congiuntamente e disgiuntamente
all’avv. Marina Mattina come da mandato in
calce al presente atto;
Premesso
In fatto
1. E’ noto che a partire dal 24 marzo 1999
la NATO ha scatenato una offensiva militare
contro la Repubblica Federale Jugoslava
utilizzando mezzi militari aereonavali. Si è
trattato di una offensiva su vasta scala che
si è protratta ininterrottamente per 78
giorni (sino al 10 giugno 1999), durante i
quali sono stati colpiti numerosi obiettivi
civili, economici e militari posti su tutto
il territorio della Repubblica Federale
Jugoslava (Kosovo, Montenegro, Serbia e
Voivodina). In particolare sono stati
distrutti i ponti sul Danubio (tranne che a
Belgrado), e quasi tutti i principali ponti
del paese, sono state distrutte le
raffinerie petrolifere, il complesso
dell’industria chimica in Pancevo, impianti
industriali di ogni genere, sono state
colpite scuole, ospedali, monumenti, chiese,
impianti turistici e termali. (doc.3)
2. In questo contesto, il 23 aprile 1999
alle ore 2,06 alcuni missili o munizioni di
precisione lanciate da mezzi aerei della
NATO hanno colpito, nel centro di Belgrado
l’edificio che ospita gli studi e gli uffici
della Radio Televisione Serba (RTS).
Nell’edificio si trovavano in quel momento
numerose persone, fra giornalisti, tecnici
ed impiegati, addette al lavoro ed era in
corso una trasmissione televisiva. (doc.4)
3. A seguito delle esplosioni una intera ala
dell’edificio è crollata. Sono stati
estratti dalle macerie i corpi di 14
vittime, mentre altre di altre due persone
presenti nell’edificio non sono stati
trovati i corpi in quanto – evidentemente –
polverizzati per effetto delle esplosioni.
(doc.4)
4. Fra i corpi delle vittime estratti dalle
macerie veniva rinvenuti quelli di Dejan
Markovic, e Slobodan Jontic che al momento
dell’attacco della NATO, si trovavano
all’interno dell’edificio in quanto addetti
al loro lavoro di impiegati. La causa della
morte per entrambi è da attribuirsi per
entrambi agli effetti distruttivi delle
esplosioni, come risulta dalle autopsie, che
si allegano corredate delle relative
foto(doc. 5,6, 7 e 8)
5. Il sig. Dejan Markovic, che al momento
del decesso aveva 39 anni, essendo nato in
Belgrado il 15/5/1959, era residente in
Belgrado, Via Vojvode Stepe n. 287 e
conviveva con il padre Dusan Markovic.
Lavorava presso la R.T.S. percependo un
salario mensile di 1.735 dinari. Oltre il
padre, ha lasciato il fratello Markovic
Zoran (doc. 9, 10)
6. Il sig. Slobodan Jontic, che al momento
del decesso aveva 54 anni, essendo nato a
Pirot il 22 gennaio 1945, era residente in
Belgrado, Via Brace Jerkovic 85 e conviveva
con la moglie Jontic Dusica e con il figlio
Jontic Vladimir. Lavorava presso la R.T.S.
percependo un salario di 1.533 dinari
mensili (doc. 11,12 e 13)
In diritto.
7. Con la Carta della Nazioni Unite,
ispirata dall’esigenza – com’è scritto nel
preambolo – di ” salvare le future
generazioni dal flagello della guerra che
per ben due volte nel corso di questa
generazione (quella del 1945) ha provocato
sofferenze indicibili all’umanità” è stato
abrogato un antico istituto del diritto
internazionale, conosciuto con il nome di
jus ad bellum, ovvero è stato abolita la
prerogativa degli Stati sovrani di
esercitare il potere di guerra poiché, ai
sensi dell’art. 2, comma 4, “I membri devono
astenersi nelle loro relazioni
internazionali dalla minaccia o dall’uso
della forza, sia contro l’integrità
territoriale e l’indipendenza politica di
qualsiasi Stato, sia in qualunque altra
maniera incompatibile con i fini delle
Nazioni Unite.”
8. Il sistema di sicurezza delineato dalla
Carta delle Nazioni Unite prevede dei
meccanismi coercitivi, indicati nel Cap.
VII, che consentono in determinate
circostanze al Consiglio di Sicurezza di
“intraprendere, con forze aeree, navali o
terrestri, ogni azione che sia necessaria
per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionale” (art.41). In
questo contesto l’art. 53 della Carta
prevede che: “Il Consiglio di Sicurezza
utilizza, se del caso, gli accordi o le
organizzazioni regionali per azioni
coercitive sotto la sua direzione. Tuttavia,
nessuna azione coercitiva potrà venire
intrapresa in base ad accordi regionali o da
parte di organizzazioni regionali senza
l’autorizzazione del Consiglio di
Sicurezza.”
9. E’ evidente che, al di fuori del contesto
dei meccanismi coercitivi previsti dalla
Carta delle Nazioni Unite nessuno Stato o
Organizzazione regionale di sicurezza può
intraprendere azioni che comportino il
ricorso alla violenza bellica.
10. E’ stato osservato in sede di dottrina
internazionalistica che: “secondo
l’impostazione più conseguente
l’eliminazione dello jus ad bellum, ovvero
la soppressione della compétence de guerre
si traduce nell’abrogazione del potere di
promuovere lo Stato di guerra; e poiché
questo, com’è ben noto, consiste in un
assetto dell’ordinamento internazionale tale
da consentire ai belligeranti il compimento
di attività, nei loro reciproci confronti e
nei confronti dei neutrali, le quali
sarebbero altrimenti illecite,
l’impossibilità di promuoverlo porta alla
illiceità di tutte le operazioni militari
delle quali uno Stato prendesse l’iniziativa
e che ledessero interessi protetti dal
diritto internazionale di pace. L’uccisione
di ogni nemico sarebbe un assassinio,
l’impossessamento di beni suscettibili di
preda sarebbe un furto o una rapina, il
bombardamento di impianti un danneggiamento,
e via discorrendo. L’aggressore i cui organi
militari compissero tali operazioni dovrebbe
puntualmente risponderne.” (cfr Augusto
Curti Cialdino, voce Guerra (dir. Int.) in
Enciclopedia del Diritto).
11. Senza bisogno di accedere ad una tesi
così rigorosa, non v’è motivo di dubitare
che, sia pure in violazione degli obblighi
derivanti dalla loro qualità di membri delle
Nazioni Unite, e per l’Italia in violazione
dell’art. 11 della Costituzione, gli Stati
membri della NATO, attraverso l’azione
militare condotta contro la Jugoslavia,
abbiano inteso chiaramente operare per
promuovere la trasformazione dell’assetto
dell’ordinamento internazionale da uno stato
di pace ad uno stato di guerra con tutte le
conseguenze che ciò comporta sotto il
profilo del diritto internazionale. Ciò
rende in linea generale leciti quelle
operazioni e quegli atti di violenza che
altrimenti cadrebbero sotto l’imperio del
diritto comune ma nello stesso tempo
sottopone tutte le attività dei belligeranti
all’obbligo dell’osservanza rigorosa delle
norme del diritto bellico umanitario.
12. Tali norme, per quanto riguarda il
ricorso ai metodi ed ai mezzi di guerra,
pongono una netta distinzione fra
popolazione civile, che deve, per quanto
possibile, essere protetta dalla violenza
delle armi, e soggetti che partecipano
all’azione bellica contro i quali è lecito
lo spiegamento della violenza.
13. In particolare il I Protocollo di
Ginevra del 1977 (ratificato in Italia con
legge 11 dicembre 1985 n. 672) all’art. 35
prevede che: “In ogni conflitto armato il
diritto delle Parti in conflitto di
scegliere metodi e mezzi di guerra non è
illimitato”; all’art. 48 prevede che: “Allo
scopo di assicurare il rispetto e la
protezione della popolazione civile e dei
beni di carattere civile, le Parti in
conflitto dovranno fare, in ogni momento,
distinzione fra la popolazione civile ed i
combattenti, nonché fra beni di carattere
civile e gli obiettivi militari, e, di
conseguenza, dirigere le operazioni soltanto
contro obiettivi militari”; all’art. 51
prevede che: “..2. Sia la popolazione civile
che le persone civili non dovranno essere
oggetto di attacco.(..) 4. Sono vietati gli
attacchi indiscriminati..”
14. Sono queste le regole fondamentali sulle
quali si basa il diritto “umanitario” di
guerra, che gli articoli menzionati del I
Protocollo di Ginevra del 1977, ribadiscono
riproducendo dei precetti consuetudinari,
già riconosciuti dalle Convenzioni dell’Aja
del 1899, del 1907 e da altri strumenti del
diritto internazionale.
15. Lo stato di guerra quindi non
attribuisce ai belligeranti la possibilità
di fare un ricorso illimitato alla violenza.
16. Questo concetto era stato acquisito nel
diritto internazionale ancor prima dello
Statuto del Tribunale di Norimberga e delle
grandi codificazioni incarnate dalle IV
Convenzioni di Ginevra del 1949 e dai due
Protocolli del 1977.
17. Infatti il codice penale militare di
guerra, promulgato nel 1941, prevede un
apposita sezione, il Capo III, per punire
gli “atti illeciti di guerra”, nei quali
rientra l’uso di quei mezzi o modi di guerra
vietati dalla legge o dalle convenzioni
internazionali o contrari all’onore
militare.
18. Nel corso delle operazioni militari,
avviate a partire dal 24 marzo 1999,
l’aviazione della NATO ha causato numerose
stragi, colpendo ripetutamente obiettivi
civili, fra questi un treno di pendolari in
movimento (il 12 aprile), provocando la
morte di una dozzina di persone, un corteo
di profughi albanesi che fuggivano dalle
zone di guerra (il 14 aprile), provocando la
morte di 73 persone. Il 27 aprile a
Surdulica, nella Serbia meridionale, è stato
raso al suolo un intero quartiere
residenziale, provocando circa 20 morti ed
un numero imprecisato di feriti fra gli
abitanti del villaggio. L’8 maggio la NATO
ha colpito l’ambasciata cinese, provocando
la morte di tre persone. Il 13 maggio a
Prizen è stata colpita un’altra colonna di
profughi albanesi provocando la morte di 48
persone.(cfr doc. 3). In tutti questi casi
le stragi sono state considerate frutto di
errori e i civili uccisi non sono stati
rivendicati come “obiettivi militari”,
tutt’al più sono stati considerati come
“danni collaterali” rispetto all’azione
militare. Nel caso dell’attacco alla TV di
Belgrado, invece, la strage dei civili è
stata deliberatamente pianificata e
rivendicata come conseguimento di un
obiettivo militare
19. L’edificio della Televisione certamente
non è stato colpito per errore e coloro che
hanno diretto l’attacco erano a perfetta
conoscenza che gli Uffici erano frequentati
da giornalisti e tecnici per la semplice
ragione che al momento dell’attacco le
trasmissioni erano ancora in corso.
20. Lo stesso giorno, infatti, nel briefing
quotidiano con la stampa internazionale, i
portavoce della NATO, hanno rivendicato
l’attacco contro la Radio Televisione Serba.
In particolare il colonnello Konrad Freytag,
ha dichiarato che la NATO ha continuato gli
attacchi volti a indebolire gli apparati di
propaganda della RFY e per questo ha colpito
gli studi radiotelevisivi della TV di
Belgrado: “la più grande istituzione dei
mass media in Yugoslavia, che orchestra la
maggior parte dei programmi di propaganda
del regime.” (doc.14)
21. Il Comandante in capo delle forze NATO
in Europa, gen. Welsey Clark, responsabile
della pianificazione e dell’esecuzione di
tutte le operazioni militari compiute dalla
NATO nel territorio della ex Yugoslavia, non
solo non ha sconfessato tale operazione, ma
ne ha assunto la responsabilità nel corso di
una conferenza stampa svoltasi il 27 aprile
1999, durante la quale ha riconfermato che
l’attacco all’edificio della RTS rientrava,
a pieno titolo, nella strategia militare
dell’Alleanza (doc.15).
22. Le vittime di questa strage, pertanto,
non costituiscono un “danno collaterale”, in
quanto essi stessi erano l’obiettivo
preselezionato dell’attacco.
23. Orbene è sin troppo evidente che i
giornalisti e le strutture della
comunicazione civile e dei mass media, per
quanto possano agevolare con la propaganda o
con la censura di guerra, la macchina
bellica, dall’una o dall’altra parte,
cionondimeno restano, per loro natura,
soggetti e strutture civili e non diventano
combattenti, contro i quali sia lecito
rivolgere la violenza delle armi.
24. Al riguardo è chiarissima la norma di
cui all’art. 50 del I Protocollo, che
recita: “1. E’ considerata civile ogni
persona che non appartiene a una delle
categorie indicate nell’art. 4 A. 1), 2), 3)
e 6) della III Convenzione e nell’art. 43
del presente Protocollo. In caso dubbio, la
detta persona sarà considerata civile”.
25. Sono considerati, pertanto,
belligeranti, ai sensi della III Convenzione
di Ginevra, soltanto coloro che portano le
armi o seguono le forze armate, senza farne
direttamente parte come i piloti, i membri
civili degli equipaggi, i fornitori, i
prestatori di servizi incaricati del
benessere delle forze armate, i
corrispondenti di guerra, gli apprendisti
della marina mercantile, gli equipaggi
dell’aviazione civile, etc. Tutti gli altri
soggetti sono considerati civili, contro i
quali non è lecito portare attacchi armati.
26. Addirittura per i giornalisti una norma
ad hoc del Protocollo, l’art. 79 (misure di
protezione dei giornalisti) specifica che
(persino): “i giornalisti che svolgono
missioni professionali pericolose nelle zone
di conflitto armato saranno considerati
persone civili, ai sensi dell’art. 50, par.
1”.
27. La distinzione fondamentale del diritto
umanitario fra belligeranti e popolazione
civile non avrebbe senso se si includessero
nel concetto di “obiettivi militari” i
civili che partecipano alla vita culturale.
Se si adoperasse il criterio di legittimità
rivendicato dalla NATO sarebbero possibili
attacchi indiscriminati, rivolti contro
tutti, anche contro le scuole e gli studenti
che le frequentano. Dichiarare “obiettivo
militare” una televisione o un giornale (e
coloro che vi lavorano), significa che
durante un conflitto armato, qualunque
stazione televisiva, qualunque giornale può
essere oggetto di attacco armato.
28. L’opinione pubblica italiana si è
giustamente indignata perchè la polizia
Jugoslava, il 16 aprile del 1999, ha
intimidito e minacciato la giornalista Lucia
Annunziata ed il Governo italiano -
giustamente - ha deprecato l’episodio con le
autorità della Repubblica Federale
Jugoslava. (doc.16). Non è possibile,
pertanto, che – in una situazione di guerra
- sia considerato illecito infastidire una
giornalista italiana e viceversa sia
considerato lecito uccidere decine di
giornalisti (e tecnici) jugoslavi sul posto
di lavoro ed a causa del loro lavoro.
29. Pianificare l’assassinio di giornalisti,
come di qualunque altra categoria di civili
non belligeranti, significa pianificare dei
crimini di guerra, come tali non consentiti
dal nostro ordinamento, in particolare
dall’art. 174 del C.P.M.G., che punisce “Il
Comandante di una forza militare che, per
nuocere al nemico, ordina o autorizza l’uso
di alcuno dei mezzi o dei modi di guerra
vietati dalla legge o dalle convenzioni
internazionali, o comunque contrari
all’onore militare.”
30. Nel caso di specie, sebbene l’evento
dannoso sia avvenuto a Belgrado, l’illecito
deve ritenersi commesso nel territorio dello
Stato, ai sensi dell’art. 6 del Codice
penale, poichè qui è avvenuta in tutto o in
parte l’azione criminosa che lo ha
realizzato, dal momento che è un fatto
notorio che gli attacchi contro la
Jugoslavia sono partiti dalle basi militari
dislocate in territorio italiano, oppure da
navi militari che appoggiate a basi
dislocate in territorio italiano e che in
Italia si trovano numerosi comandi NATO, che
hanno diretto, coordinato ed organizzato le
azioni militari indirizzate nel teatro
jugoslavo;
31. In ogni caso l’esponente, avvalendosi
dei poteri a lei conferiti, dichiara
espressamente di rinunziare all’applicazione
delle legge jugoslava regolante le
obbligazioni nascenti da fatto illecito e
chiede che sia applicata la legge nazionale
italiana ed in particolare gli articoli 2043
e seguenti del Codice civile. Fa presente,
tuttavia, che nell’ordinamento jugoslavo è
presente una norma, in tema di risarcimento
dei danni derivanti da fatto illecito,
simile all’art. 2043 c.c. (doc. 17).
Inoltre, con riferimento alla materia
specifica, sia in Jugoslavia, sia in Italia,
trova applicazione la norma di cui all’art.
91 del I° Protocollo di Ginevra relativa
all’obbligo delle parti in conflitto di
risarcire il danno in caso di violazione
delle disposizioni delle Convenzioni o del
Protocollo.
32. Sebbene la responsabilità dell’azione
criminosa sia stata rivendicata
impersonalmente dalla NATO e non sia stata
comunicata la nazionalità del mezzo aereo
impegnato in tale operazione, è
indiscutibile che sussiste una
responsabilità diretta ed immediata del
Ministero della Difesa nella causazione del
fatto dannoso, anche sotto il profilo
dell’art. 2051 c.c.
33. Il Ministero della Difesa, infatti, è
l’Ente proprietario e custode delle basi,
degli impianti, degli aeroporti, dei porti,
delle c.d. “militar facilities” utilizzate
dalla NATO in Italia per la proiezione di
potenza nel teatro jugoslavo, nonché il
gestore del personale militare che ha
coadiuvato e sostenuto l’attività bellica
della NATO.
34. In particolare, secondo quanto rivelato
dalla Rivista dell’Unione Nazionale
Ufficiali in congedo d’Italia, risulta che:
“nel corso della campagna aerea l’Alleanza
ha effettuato ben 36.000 sortite, di cui
13.000 di attacco. La flotta aerea che ha
svolto queste missioni ha raggiunto un picco
di circa 900 velivoli, di cui 800 basati a
terra e 100 imbarcati. Di questi 800
velivoli, oltre 450, con punte fino a 500,
sono stati schierati sulle basi italiane
che, di conseguenza, hanno ospitato il 60%
di tutti i velivoli. Per quanto riguarda il
nostro paese, i 50 velivoli
dell’aereonautica militare, affiancati per
la prima volta nei combattimenti dai
velivoli AV-8B della marina operanti dalla
portaerei Garibaldi, hanno compiuto un
ingente sforzo con oltre 1100 sortite, di
cui meta’di attacco ad obiettivi
militari.”(doc.18)
35. La responsabilità dello Stato italiano,
tuttavia, sussiste anche sotto un altro
profilo. Anche a voler ammettere – per
assurdo – che i missili che hanno provocato
l’evento siano stati sparati da una base
della NATO posta sulla Luna, non per questo
verrebbe meno la responsabilità dello Stato
italiano.
36. La NATO, infatti, a differenza della
Comunità Economica Europea, non è una
istituzione sopranazionale. La
partecipazione alla NATO non comporta dal
punto di vista formale alcuna cessione di
sovranità nazionale. La NATO è un organismo
internazionale nel quale si realizza la
cooperazione di più Stati nel settore
dell’integrazione militare e della difesa.
Nella struttura militare integrata della
NATO tutti i paesi membri partecipano in
condizioni di eguaglianza giuridica, così
come avviene nel Consiglio Atlantico,
l’organo politico posto al vertice
dell’Alleanza. Ufficiali italiani sono
presenti nel Comitato militare della NATO e
nelle varie strutture militari di comando e
di controllo, mentre il rappresentante
politico del Governo italiano siede in
permanenza nel Consiglio Atlantico e
partecipa alle decisioni politiche ed
operative che ivi vengono assunte in
condizioni di perfetta parità con gli altri
membri permanenti. In particolare va
rilevato che il Comitato militare della
NATO, l’organo posto al vertice della
complessa struttura militare integrata è
presieduto da un ufficiale italiano,
l’ammiraglio Guido Venturoni (doc.19).
37. Quindi le azioni realizzate
dall’Alleanza, in esecuzione delle decisioni
assunte dai vertici politici e militari
della NATO, non sono un quid alii,
nell’ipotesi tali azioni siano fonte di
responsabilità civile, è evidente che questa
responsabilità è condivisa – proprio a
cagione della sua condizione di parità – dal
Governo italiano assieme ai Governi degli
altri paesi membri. E’ noto che gli
obiettivi degli attacchi aerei sono stati
oggetto di discussione e di approvazione da
parte di tutti i paesi membri della NATO,
tanto che in alcuni casi i bombardieri sono
stati richiamati mentre erano in volo a
cagione del veto opposto da taluni paesi
della NATO, come lamenta il generale
americano Michael Short (doc.20). Nel caso
di specie non risulta che l’Italia abbia
posto alcun veto all’attacco contro la TV e
i giornalisti serbi. Del resto se l’Italia
avesse posto il veto l’attacco non si
sarebbe verificato. Da ciò deriva che il
Governo italiano, nella persona della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, è
comunque responsabile dell’azione criminosa
realizzata dalla NATO, indipendentemente dal
grado di coinvolgimento delle strutture
militari italiane.
38. Sotto il profilo civile la
responsabilità diretta ed immediata del
fatto illecito che ha cagionato la morte di
MARKOVIC Dejan e JONTIC Slobodan deve essere
attribuita al Comando delle Forze Alleate
dell’Europa Meridionale (AFSOUTH), Quartier
generale Supremo dell’Alleanza atlantica con
sede in Napoli, la cui responsabilità
operativa copre un settore di circa 4
milioni di km quadrati, che comprende
Italia, Grecia, Turchia, il Mar Mediterraneo
dallo stretto di Gibilterra alle coste della
Siria, il Mar di Marmara e il Mar Nero. Da
tale Comando dipendono una serie di Comandi
subordinati che comprendono tutte le forze
terrestri, aeree e navali dell’Alleanza che
operano nel settore del Mediterraneo e che
nel caso di specie hanno partecipato agli
attacchi contro la Jugoslavia (doc. 21 e
22).
39. La questione della responsabilità civile
per i danni cagionati a terzi dalle forze
armate dei paesi membri dell’Alleanza,
dislocate sul territorio di altri paesi
membri, è regolata dalla Convenzione di
Londra del 19 giugno 1951 sullo Statuto
delle Forze Armate (approvata in Italia con
legge 30 novembre 1955 n. 1335) e dal
Protocollo sullo Statuto dei Quartieri
Generali militari internazionali istituiti
in base al Trattato Nord-Atlantico (redatto
a Parigi il 28 agosto 1952 e approvato in
Italia con legge 30 novembre 1955, n. 1338).
Ai sensi dell’art. VIII, paragrafo 5, della
Convenzione di Londra lo Stato di soggiorno
(in questo caso l’Italia) è obbligato al
risarcimento dei danni causati a terzi per
fatti illeciti commessi dagli appartenenti
alle forze Armate di altri paesi della NATO,
in sostituzione dello Stato di origine
dell’autore del fatto. In questo contesto il
Quartiere Generale da cui dipendono i
militari responsabili del fatto illecito,
pur non essendo contraddittore necessario, è
legittimato a partecipare al giudizio
poiché, ai sensi dell’art. XI del
Protocollo, i Quartieri Generali Supremi
hanno la personalità giuridica e possono
agire in giudizio sia come attori che come
convenuti.
CITA
1) La Presidenza del Consiglio dei Ministri,
in persona del Presidente del Consiglio
pro-tempore on. Giuliano Amato, domiciliato
per legge presso l’Avvocatura dello Stato in
Via dei Portoghesi 12
2) Il Ministero della Difesa in persona del
Ministro pro-tempore, on. Sergio Mattarella,
domiciliato per legge presso l’Avvocatura
dello Stato in Via dei Portoghesi 12
3) Il Comando delle Forze Alleate
dell’Europa Meridionale (AFSOUTH), in
persona del Comandante pro tempore
Ammiraglio James O. ELLIS jr., domiciliato
in Napoli, Viale della Liberazione
a comparire davanti l’intestato Tribunale di
Roma, nella sua nota sede di Viale Giulio
Cesare n. 54/b, Sezione e Giudice
designandi, all’udienza che ivi sarà tenuta
il 2 ottobre 2000, ore di rito, con invito a
costituirsi nei modi di cui all’art. 166 cpc
entro il termine di giorni 20 dall’udienza
indicata e con l’esplicito avviso che
adempiendo oltre tale termine incorrerà
nelle decadenze di cui all’art. 167 c.p.c.
ed in difetto si procederà nella loro
dichiarata contumacia per ivi sentire
accogliere le seguenti
CONCLUSIONI
Piaccia all’illustrissimo Tribunale adito,
ogni altra eccezione o deduzione reietta,
accertare e dichiarare le responsabilità dei
convenuti per il fatto illecito, da
considerarsi reato, che ha determinato la
morte di Dejan MARKOVIC e Slobodan JONTIC e
per l’effetto condannare i convenuti in
solido al risarcimento dei danni materiali e
dei danni morali subiti dagli attori che si
indicano nella misura di cui alle note
tabelle in uso all’Ufficio, moltiplicata per
due, trattandosi di fatto doloso, in
particolare
per Dusan MARKOVIC (padre di Dejan MARKOVIC)
in £. 529.000.000 per danno danno morale e
£. 20.000.000 per lucro cessante;
per Markovic Zoran (fratello di Dejan
MARKOVIC) in £. 210.000.000;
per Dusica JONTIC, (moglie di Slobodan
JONTIC) in £. £. 529.000.000 264.700.000 per
danno danno morale e £. 20.000.000 per lucro
cessante;
per Vladimir Jontic, (figlio di Slobodan
JONTIC) in £. 423.000.000
ovvero quelle diverse somme che saranno
reputate di giustizia, oltre interessi e
rivalutazione come per legge.
Con vittoria di spese, competenze ed onorari
del giudizio, da distrarsi a favore
dell’avv. Marina Mattina
In via istruttoria
Si depositano i seguenti documenti:
1. Proc. Speciale Rep. n. 8/2000 (doc.1)
2. Proc. Speciale Rep. n. 11/2000 (doc.2)
3. fascicolo composto da 28 fotocopie tratte
dal volume: Nato crimes in Yugoslavia,
pubblicato in Belgrado, maggio 1999
4. fascicolo composto da 4 fotocopie tratte
dal volume di cui sopra, relative al
bombardamento dell’edificio della Radio
Televisione Serba (R.T.S.) (doc.4)
5. Verbale dell’autopsia eseguita sul corpo
di Markovic Dejan e relativa traduzione
giurata, composto da 12 pagine (doc.5)
6. Verbale dell’autopsia eseguita sul corpo
di Jontic Slobodan e relativa traduzione
giurata, composto da 13 pagine (doc.6)
7. fascicolo fotografico relativo
all’autopsia di Markovic Dejan, composto da
tre fogli e 9 fotografie (doc.7)
8. fascicolo fotografico relativo
all’autopsia di Jontic Slobodan, composto da
tre fogli e 9 fotografie (doc.8)
9. certificati anagrafici di Markovic Dejan:
certificato di nascita (doc. 9/a);
certificato di residenza (doc. 9/b);
certificato di morte (doc. 9/c)
10. dichiarazioni (n.2) relative al reddito
percepito da Markovic Dejan, rilasciate dal
datore di lavoro (R.T.S.) (doc.10)
11. certificati anagrafici di Jontic
Slobodan: certificato di nascita (doc.11/a);
certificato di residenza (doc.11/b);
certificato di morte (doc.11/c)
12. certificati anagrafici relativi ai
prossimi congiunti di Jontic Slobodan::
certificato di nascita di agli Dusica Jontic
(nata Nikolic) (doc. 12/a; certificato di
matrimonio della stessa (doc. 12/b) e
certificato di nascita e cittadinanza
Vladimir Jontic (doc. 12/c)
13. dichiarazioni (n.2) relative al reddito
percepito da Jontic Slobodan, rilasciate dal
datore di lavoro (R.T.S.) (doc.13)
14. conferenza stampa della NATO in data 23
aprile 99 (6 pagine) (doc.14)
15. conferenza stampa della NATO in data 27
aprile 99 (14 pagine) (doc.15)
16. fotocopia tratta dall’Unità del 17
aprile 1999
17. normativa jugoslava di riferimento, art.
154 del cod. civ. con traduzione in italiano
(doc. 17);
18. estratto della Rivista dell’Unione
Nazionale degli Ufficiali in congedo
d’Italia, composto da 4 fotocopie;
19. vertici militari della NATO: Nato
Military Representatives (doc. 17/a);
Chairmen of the NATO Military Committee
(doc. 17/b)
20. The Kosovo Campaign: Airpower made it
work
21. Estratto dal Manuale della NATO,
composto da 16 fogli (doc. 19);
22. Estratto dal sito internet del Comando
Alleato delle Forze del sud Europa: Fact
sheet (doc. 19/a); Biography (doc. 19/b)
23. Fascicolo con il teso delle Convenzioni
internazionali e delle altre norme
richiamate nella narrativa.
Si Chiede ammettersi interrogatorio formale
del sig. Presidente del Consiglio, on.
Giuliano Amato, del sig. Ministro della
Difesa, on. Sergio Mattarella, del sig.
Comandante delle Forze Alleate dell’Europa
Meridionale, Ammiraglio James O. ELLIS jr.,
sul seguente capitolo:
1) Vero che nel corso della campagna aerea
contro la Jugoslavia l’ Alleanza ha
effettuato ben 36.000 sortite, di cui 13.000
di attacco; che la flotta aerea che ha
svolto queste missioni ha raggiunto un picco
di circa 900 velivoli, di cui 800 basati a
terra e 100 imbarcati; che di questi
velivoli, oltre 450, con punto fino a 500
sono stati schierati sulle basi italiane;
che, per quanto riguarda l-Italia, i 50
velivoli dell’Aereonautica Militare,
affiancati dai velivoli AV 8B della Marina
operanti dalla portaerei Garibaldi, hanno
compiuto un ingente sforzo con oltre 1100
sortite, di cui la meta’ di attacco ad
obiettivi militari?
2) vero che il 23 aprile 1999 mezzi aerei
della NATO, in partenza da basi italiane ed,
in ogni caso sottoposti al Comando
dell’AFSOUTH, hanno colpito con missili o
munizioni di precisione nel centro di
Belgrado l’edificio che ospita gli studi e
gli Uffici della Radio Televisione serba,
provocando la morte di 16 persone, fra le
quali i signori Dejan MARKOVIC e Slobodan
JONTIC?
Roma, il 31 maggio 2000
Prof. Avv. Giuseppe Bozzi Avv. Marina
Mattina
Nella qualita’ delego a rappresentarmi e
difendermi, anche disgiuntamente, nel
presente giudizio, il prof. avv. Giuseppe
Bozzi e l’avv. Marina Mattina, ai quali
conferisco ogni potere di legge inerente al
mandato.
Eleggo domicilio in Via degli Scipioni,
n.268/a presso lo studio del primo.
Ambretta Rampelli
ORDINANZA DELLA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
(Bombardamenti
alla tv serba: l'Italia non deve risarcire
le vittime. Le norme
interne che recepiscono quelle
internazionali non prevedono
quest'obbligo. Dopo la dichiarazione
d'inammissibilità della Corte dei diritti
nel dicembre 2001, le sezioni unite
respingono il ricorso di
altri due cittadini serbi. Documenti
Correlati: Sezioni unite,
ordinanza 8157/02; depositata il 5 giugno
2002)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Oggetto
Dott. Nicola MARVULLI - Primo Presidente
Dott. Alfio FINOCCHIARO- Presidente di sezione-
Dott. Paolo VITTORIA Rel. Consigliere R.G.N.
20569/
Dott. Ernesto LUPO - Consigliere - Cron.
Dott. Roberto PREDEN - Consigliere - Rep.
Dott. Enrico ALTIERI - Consigliere - Ud.08102/02
Dott. Michele VARRONE - Consigliere - C.C.
Dott. Luigi Francesco DI NANNI - Consigliere -
Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
O R D I N A N Z
A
sul ricorso proposto da:
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in
persona del Presidente pro-tempore, MINISTERO
DELLA DIFESA, in persona del Ministro
pro-tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE
DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope
legis;
ricorrenti
contro
DUSAN MARKOVIC, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268/A, presso lo studio
dell'avvocato GIUSEPPE BOZZI, che lo rappresenta
e difende, giusta delega in calce al
controricorso;
controricorrente
nonchè contro
COMANDO DELLE FORZE ALLEATE DELL'EUROPA
MERIDIONALE
(AFSOUTH) e AMBRETTA RAMPELLI, nella qualità di
procuratrice speciale dei sigg.ri MUSICA JONTIC,
MARKOVIC ZORAN, JONTIC VLADIMIR;
intimati
per regolamento preventivo di giurisdizione in
relazione al giudizio pendente n. 39329/00 del
Tribunale di ROMA;
udita la relazione della causa svolta nella
camera di consiglio il 08/02/02 dal Consigliere
Dott. Paolo VITTORIA;
lette le conclusioni scritte dal Sostituto
Procuratore Generale Dott. Antonio MARTONE il
quale chiede che le Sezioni unite della Corte di
Cassazione, dichiarino inammissibile il
regolamento con le conseguenze di legge.
La Corte
Premesso in fatto.
l. - Ambretta Rampelli, agendo in qualità di
procuratrice speciale di Dusan Markovic, Dusica
Jontic, Zoran Markovic e Vladimir Jontic, ha
convenuto in giudizio davanti al tribunale di
Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri,
il Ministero della difesa ed il Comando delle
Forze Alleate dell'Europa Meridionale -Afsouth.
Ha proposto una domanda di condanna al
risarcimento dei danni.
I fatti esposti nella citazione sono i seguenti.
L'edificio che ospitava gli studi della Radio
Televisione Serba, nella notte del 23.4.1999, è
stato deliberatamente colpito nel corso di una
delle operazioni aeree condotte dalla Nato
contro la Repubblica federale di Jugoslavia.
Una parte dell'edificio è crollata e nel crollo
hanno trovato la morte Dejan Markovic e Slobodan
Jontic, congiunti degli attori.
Queste le ragioni di diritto poste a base della
domanda.
Essere stato scelto come bersaglio l'edificio
della emittente televisiva costituisce un modo
di conduzione delle ostilità non consentito dal
I Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di
Ginevra del 12.8.1949, perché diretto contro un
obiettivo non militare e rivolto
intenzionalmente a colpire civili; è poi vietato
dall'art. 174 del Codice penale militare di
guerra.
La responsabilità per le conseguenze che ne sono
derivate deve essere riferita allo Stato
italiano, sia perché come paese membro della
Nato ha concorso alla determinazione di adottare
l'indicato modo di condurre le ostilità, sia
perché l'operazione bellica è stata compiuta a
partire dal suo territorio e dunque trovano
applicazione le norme dettate dall’art. VIII,
paragrafo 5, della Convenzione di Londra del 19
giugno 1951, approvata con la L. 30 novembre
1955, n. 1335.
2. - I convenuti si sono costituiti in giudizio.
Le amministrazioni dello Stato hanno eccepito il
difetto assoluto di giurisdizione, l'Afsouth il
difetto di giurisdizione del giudice italiano.
3. - Le due amministrazioni, con ricorso
notificato a tutte le altre parti, hanno poi
chiesto che la questione di giurisdizione sia
risolta dalle sezioni unite e sia dichiarato il
difetto di giurisdizione dell'Autorità
giudiziaria.
Hanno svolto queste considerazioni.
Lo Stato è assoggettato alla giurisdizione dei
suoi giudici solo quando si presenta come
'Stato-amministrazione", perché in questo caso
il potere giudiziario può porsi rispetto ad esso
in posizione di alterità e quindi di terzietà.
Questa posizione dì alterità e terzietà del
giudice non può configurarsi quando lo Stato è
chiamato davanti al giudice nella sua unitaria
soggettività di “Stato-comunità" ed è ciò che
accade quando in suo confronto sono fatte valere
pretese che rilevano da comportamenti tenuti
come soggetto sovrano nel campo dei rapporti
internazionali.
In questo caso i suoi atti possono solo essere
sindacati da Corti Internazionali alla cui
competenza giurisdizionale lo Stato si sia
assoggettato in relazione a specifiche materie.
La domanda è stata proposta in confronto del
Ministero della difesa sul presupposto che
ricorra la competenza giurisdizionale prevista
dall'art. VIII n. 5 della Convenzione di Londra
del 19.6.1951, ratificata con la L. 30 novembre
1955, n. 1335.
Ma nel caso ne manca il presupposto dato dal
fatto che i danni siano stati causati nel
territorio dello Stato di soggiorno.
4. - Gli attori, che hanno resistito e chiesto
sia dichiarato che la giurisdizione sussiste,
hanno svolto queste considerazioni.
Al primo argomento hanno contrapposto che
deliberare e porre in atto un'operazione bellica
è comportamento che si imputa allo Stato
apparato e non allo Stato comunità e che,
comunque, dalle convenzioni internazionali sul
diritto umanitario bellico derivano limiti alla
scelta dei modi in cui condurre un'azione di
guerra, oltrepassati i quali lo Stato risponde
dei danni provocati dal suo atto anche nei
confronti dei singoli che li subiscono, ai quali
si deve quindi riconoscere il diritto di adire
lo Stato davanti ai suoi giudici.
Al secondo argomento hanno contrapposto che
potersi o no considerare il fatto avvenuto sul
territorio italiano attiene non alla
giurisdizione, ma alla responsabilità.
5. Il pubblico ministero ha concluso per
iscritto, chiedendo sia dichiarata la
giurisdizione del giudice ordinario.
Ha osservato che non è in questione la
giurisdizione, ma l'esistenza di norme o
principi che consentano di affermare la
responsabilità fatta valere con la domanda.
Le parti hanno depositato una memoria.
Ritenuto in diritto.
l. - Il regolamento di giurisdizione è
ammissibile.
E' questione di giurisdizione, la cui soluzione
può essere chiesta alle sezioni unite con
l'istanza di regolamento, anche quella su cui si
deve statuire che ogni giudice difetta di
giurisdizione (art. 382 secondo comma, cod.
proc. civ.) Sez. Un. 9 gennaio 1978 n. 53.
2. - La domanda riferisce allo Stato italiano
una responsabilità che è fatta dipendere da un
atto di guerra, in particolare da una modalità
di conduzione delle ostilità belliche
rappresentata dalla guerra aerea.
La scelta di una modalità di conduzione delle
ostilità rientra tra gli atti di Governo.
Sono questi atti che costituiscono
manifestazione di una funzione politica, della
quale è nella Costituzione la previsione della
sua attribuzione ad un organo costituzionale:
funzione che per sua natura è tale da non
potersi configurare, in rapporto ad essa, una
situazione di interesse protetto a che gli atti
in cui si- manifesta assumano o non. assumano un
determinato contenuto - Sez. Un. 12 luglio 1968
n- 2452; 17 ottobre 1980 n. 5583; 8 gennaio 1993
n. 124.
Rispetto ad atti di questo tipo nessun giudice
ha potere di sindacato circa il modo in cui la
funzione è stata esercitata.
3. - Le norme del Protocollo di Ginevra del 1977
(artt. 35.2, 48, 49, 51, 52 e 57) e della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo (artt.
2 e 15.2), che disciplinano la condotta delle
ostilità, hanno bensì come oggetto la protezione
dei civili in caso di attacchi,, ma in quanto
norme di diritto internazionale regolano
rapporti tra Stati.
Gli stessi trattati strutturano i procedimenti
per accertare le violazioni, prevedono le
sanzioni in caso di responsabilità (art. 91 del
Protocollo; art. 41 della Convenzione), indicano
le Corti internazionali competenti ad
affermarla.
Le leggi che vi hanno dato applicazione nello
Stato italiano non contengono per contro norme
espresse che consentano alle persone offese di
chiedere allo Stato riparazione dei danni loro
derivati dalla violazione delle norme
internazionali.
Che disposizioni con questo contenuto siano
implicitamente risultate introdotte
nell'ordinamento per effetto della esecuzione
data alle norme di diritto internazionale è
principio che trova poi ostacolo in quello
contrario, di cui si è fatto cenno, per cui alle
funzioni di tipo politico non si contrappongono
situazioni soggettive protette.
Del resto, per assicurate nell'ambito
dell'ordinamento interno una riparazione per il
pregiudizio risentito in conseguenza della
violazione di norme della Convenzione sui
diritti dell'uomo, con riguardo all'art. 6 ed a
proposito del mancato rispetto del termine di
ragionevole durata del processo, si è provveduto
con apposita legge (la L. 24 marzo 2001, n. 89).
4. - La possibilità di assoggettare a sindacato
la determinazione del Governo circa la condotta
delle ostilità nell'ambito delle operazioni
aeree della Nato contro la Repubblica federale
di Jugoslavia non può d'altra parte essere
tratta dalla Convenzione di Londra del 1951.
La circostanza che gli aerei impiegati nel
bombardamento della stazione radio televisiva di
Belgrado possano avere utilizzato basi ubicate
sul territorio italiano costituisce un momento
della più complessa operazione di cui si chiede
dì valutare la liceità e dunque non rileva ai
fini della applicazione della norma dettata dal
paragrafo 5 dell'art. VIII della Convenzione,
che presuppone al contrario la commissione di un
atto al riguardo del quale la valutazione di
illiceità possa essere compiuta.
5. - Decidendo sulla questione di giurisdizione,
di cui la Presidenza del Consiglio dei ministri
ed il Ministero della difesa hanno chiesto la
soluzione in relazione alla domanda proposta
dagli attori nei loro confronti, si deve
statuire che conoscere della controversia non
spetta al giudice ordinario né ad alcun altro
giudice.
5.1. - Nessuna pronuncia sulla giurisdizione
deve essere resa in relazione alla domanda che
gli attori hanno proposto, con -,.a stessa
citazione, in confronto del Comando delle Forze
Alleate dell'Europa Meridionale, ed in relazione
alla quale lo stesso Comando davanti al giudice
di merito ha sollevato eccezione di difetto di
giurisdizione del giudice italiano.
Il Comando non ha dal canto suo presentato
istanza di regolamento né ha preso parte a
questa fase del giudizio chiedendo una
statuizione sulla giurisdizione nei suoi
confronti.
Si tratta di domanda contro diverso convenuto e
la circostanza che sia stata proposta con la
medesima citazione non toglie che si sia in
presenza di causa diversa, sebbene riunita in un
unico processo, sicché non può esercitarsi a suo
riguardo, in questa sede, il potere di rilievo e
decisione di ufficio sulle questioni di
giurisdizione.
6. Le spese di questa fase e dell'intero
giudizio, tra i ricorrenti e gli attori, debbono
essere dichiarate compensate in considerazione
della natura degli argomenti trattati.
P.Q.M.
La Corte dichiara il difetto di giurisdizione;
compensa le spese dell'intero giudizio.
Così deciso il giorno 8 febbraio 2002, in Roma,
nella camera di consiglio delle sezioni unite
civili della Corte di cassazione.
Il Presidente
CONSIGLIO
D'EUROPA
GRANDE CHAMBRE
DÉCISION
SUR LA
RECEVABILITÉ
de la requête
n° 52207/99
présentée par
Vlastimir et Borka BANKOVIC, Zˇivana
STOJADINOVIC, Mirjana STOIMENOVSKI,
Dragana JOKSIMOVIC et Dragan SUKOVIC
contre
la Belgique, la
République tchèque, le Danemark, la
France, l’Allemagne, la Grèce, la Hongrie,
l’Islande, l’Italie, le Luxembourg, les
Pays-Bas, la Norvège, la Pologne, le
Portugal, l’Espagne, la Turquie et le
Royaume-Uni
La Cour européenne des Droits de l’Homme,
siégeant en une Grande Chambre composée de:
M. L. WILDHABER, président,
Mme E. PALM,
MM. C.L. ROZAKIS,
G. RESS,
J.-P. COSTA,
GAUKUR JÖRUNDSSON,
L. CAFLISCH,
P. KURIS,
I. CABRAL BARETTO,
R. TÜRMEN,
Mme V. STRAZNICKA,
MM. C. BIRSAN,
J. CASADEVALL,
J. HEDIGAN,
Mme W. THOMASSEN,
MM. A.B. BAKA,
K. TRAJA, juges,
et de M. P.J. MAHONEY, greffier,
Vu la requête susmentionnée, introduite le
20 octobre 1999 et enregistrée le 28 octobre
1999,
Vu la décision du 14 novembre 2000 par
laquelle la chambre de la première section à
laquelle l’affaire avait à l’origine été
attribuée s’est dessaisie en faveur de la
Grande Chambre (article 30 de la
Convention),
Vu les observations déposées par les
gouvernements défendeurs et celles soumises
en réponse par les requérants,
Vu les observations orales présentées par
les parties le 24 octobre 2001 et les
commentaires écrits soumis par elles
ultérieurement en réponse aux questions des
juges,
Après en avoir délibéré le 24 octobre et le
12 décembre 2001, rend la décision que
voici, adoptée à cette dernière date :
EN FAIT
1. Les requérants
sont tous ressortissants de la République
fédérale de Yougoslavie (« RFY »). Les deux
premiers requérants, Vlastimir et Borka
Bankovic, sont nés en 1942 et en 1945
respectivement, et ils saisissent la Cour en
leur nom propre et au nom de leur fille
décédée, Ksenija Bankovic. La troisième
requérante, Zˇivana Stojanovic, est née en
1937, et elle saisit la Cour en son nom
propre et au nom de son fils décédé,
Nebojsˇa Stojanovic. La quatrième
requérante, Mirjana Stoimenovski, saisit la
Cour en son nom propre et au nom de son fils
décédé, Darko Stoimenovski. La cinquième
requérante, Dragana Joksimovic, est née en
1956, et elle saisit la Cour en son nom
propre et au nom de son mari décédé, Milan
Joksimovic. Le sixième requérant, Dragan
Sukovic, saisit la Cour en son nom propre.
2. Les requérants sont représentés devant la
Cour par M. Anthony Fisher, solicitor
exerçant dans l’Essex, M. Vojin
Dimitrijevic, directeur du Centre des droits
de l’homme de Belgrade, M. Hurst Hannum,
professeur de droit international à
l’université Tufts de Medford, dans le
Massachusetts, aux Etats-Unis, et Mme
Françoise Hampson, barrister et professeur
de droit international à l’université
d’Essex. Les représentants précités ont
assisté à l’audience publique devant la Cour
conjointement avec leurs conseillers, M.
Rick Lawson, Mme Tatjana Papic et M. Vladan
Joksimovic. La troisième requérantes, Mme
Zˇivana Stojanovic, était également
présente.
3. Les Gouvernements sont représentés devant
la Cour par leurs agents. Lors de
l’audience, les gouvernements ci-après
étaient représentés comme suit : Le
Royaume-Uni (dont les observations ont été
déposées au nom de l’ensemble des
défendeurs) par MM. Christopher Greenwood,
Q.C. et professeur de droit international,
et James Eadie, conseils, par M. Martin
Eaton, agent, du ministère des Affaires
étrangères et du Commonwealth, et par M.
Martin Hemming, conseiller ; la Belgique par
M. Jan Lathouwers, agent adjoint ; la France
par M. Pierre Boussaroque, conseil ;
l’Allemagne par M. Christoph Blosen, adjoint
au représentant permanent de l’Allemagne
auprès du Conseil de l’Europe ; la Grèce par
M. Michael Apessos, conseiller ; la Hongrie
par M. Lipót Höltzl et Mme Monika Weller,
agent et coagent respectivement ; l’Italie
par M. Francesco Crisafulli, coagent adjoint
; le Luxembourg par M. Nicolas Mackel, agent
; les Pays-Bas par Mme Jolien Schukking,
agent ; la Norvège par M. Frode Elgesem,
agent faisant fonction ; la Pologne par M.
Christophe Drzewicki, agent, et Mme Renata
Kowalska, conseil ; et la Turquie par Mme
Deniz Akçay, coagent.
A. Les circonstances de l’espèce
4. Les faits de la cause, tels qu’ils ont
été exposés par les parties, peuvent se
résumer comme suit.
5. Les gouvernements défendeurs estiment la
requête irrecevable sans qu’il y ait lieu
d’aborder les faits de la cause et précisent
qu’une non-contestation explicite par eux
d’un élément de fait ne doit en aucun cas
être retenue contre eux. Dans son résumé
ci-dessous des circonstances de l’espèce, la
Cour n’a pas interprété les
non-contestations explicites d’éléments de
fait comme des acceptations de ces éléments
par la partie concernée.
1. Le contexte
6. De nombreux documents traitent du conflit
qui opposa les forces serbes et albanaises
du Kosovo en 1998 et 1999. Devant l’escalade
de la violence et eu égard aux
préoccupations grandissantes de la
communauté internationale et à l’échec des
initiatives diplomatiques, le Groupe de
contact composé des représentants de six
pays (institué en 1992 par la Conférence de
Londres) se réunit et décida d’organiser des
négociations entre les parties au conflit.
7. Le 30 janvier 1999, à la suite d’une
décision de son Conseil de l’Atlantique Nord
(« CAN »), l’Organisation du Traité de
l’Atlantique Nord (« OTAN ») annonça que des
frappes aériennes seraient effectuées sur le
territoire de la FRY en cas de non-respect
des exigences de la Communauté
internationale. Des négociations eurent
alors lieu entre les parties au conflit, du
6 au 23 février 1999 à Rambouillet, et du 15
au 18 mars 1999 à Paris. L’accord de paix
proposé à l’issue des pourparlers fut signé
par la délégation albanaise du Kosovo, mais
pas par la délégation serbe.
8. Considérant que tous les efforts
entrepris pour parvenir à une solution
politique négociés de la crise du Kosovo
avaient échoué, le CAN décida de commencer
les frappes aériennes (opération Force
alliée) contre la RFY, mesure que le
Secrétaire général de l’OTAN annonça le 23
mars 1999. Les frappes aériennes
s’échelonnèrent du 24 mars au 8 juin 1999.
2. Le bombardement de la Radio-Televizije
Srbije (« RTS »)
9. Trois chaînes de télévision et quatre
stations de radio se partageaient les locaux
de la RTS à Belgrade. Les installations de
production les plus importantes se
trouvaient dans trois bâtiments de la rue
Takovska. La régie finale était abritée au
premier étage de l’un d’eux ; elle employait
principalement du personnel technique.
10. Le 23 avril 1999, juste après 2 heures
du matin, l’un des bâtiments de la RTS de la
rue Takovska fut touché par un missile tiré
d’un avion de l’OTAN, qui provoqua
l’effondrement de deux des quatre étages de
l’immeuble et détruisit la régie finale.
11. La fille des deux premiers requérants,
les fils des troisième et quatrième
requérantes et le mari de la cinquième
requérante furent tués, le sixième requérant
s’en tirant avec des blessures. Le
bombardement fit seize morts et seize
blessés graves. Vingt-quatre cibles furent
touchées en RFY au cours de la même nuit,
dont trois à Belgrade.
3. Procédures engagées devant d’autres
juridictions internationales à la suite du
bombardement
12. Le 26 avril 1999, la RFY déposa entre
les mains du Secrétaire général des Nations
unies sa déclaration reconnaissant la
juridiction obligatoire de la Cour
internationale de Justice (« CIJ »). Le 29
avril 1999, la RFY engagea contre la
Belgique et neuf autres Etats une procédure
visant leur participation à l’opération
Force alliée et présenta une demande en
indication de mesures provisoires au titre
de l’article 73 du règlement de la CIJ. Par
une ordonnance datée du 2 juin 1999, la CIJ
écarta cette demande. Les autres questions
soulevées dans le cadre de la cause sont
toujours pendantes.
13. En juin 2000, le comité institué pour
examiner l’opération Force alliée fit
rapport au procureur du Tribunal pénal
international pour l’ex-Yougoslavie (« TPIY
»). Il ne recommanda pas l’ouverture d’une
enquête. Le 2 juin 2000, ledit procureur
informa le Conseil de sécurité des Nations
unies de sa décision de ne pas ouvrir
d’enquête.
B. Textes de droit international pertinents
1. Le Traité de Washington de 1949
14. Entré en vigueur le 24 août 1949, le
Traité de Washington créa une alliance,
matérialisée dans l’Organisation du Traité
de l’Atlantique Nord (« OTAN »), entre dix
Etats européens (la Belgique, la France, le
Luxembourg, les Pays-Bas, le Royaume-Uni, le
Danemark, l’Islande, l’Italie, la Norvège et
le Portugal), le Canada et les Etats-Unis.
La Grèce et la Turquie y adhérèrent en 1952,
la République Fédérale d’Allemagne en 1959,
puis l’Espagne en 1982. Ces pays furent
imités le 12 mars 1999 par la République
Tchèque, la Hongrie et la Pologne.
15. Le but essentiel de l’OTAN est de
sauvegarder la liberté et la sécurité de
tous ses membres par des moyens politiques
et militaires dans le respect des principes
de la Charte des Nations unies. Le principe
fondamental régissant son fonctionnement est
celui d’un engagement commun en faveur d’une
coopération entre Etats souverains fondée
sur l’indivisibilité de la sécurité des pays
membres.
2. La Convention de Vienne de 1969 sur le
droit des traités (« la Convention de Vienne
de 1969 »)
16. L’article 31 de la Convention de Vienne
de 1969 est intitulé « Règle générale
d’interprétation ». Sa partie pertinente en
l’espèce est ainsi libellée :
« Un traité doit être interprété de bonne
foi suivant le sens ordinaire à attribuer
aux termes du traité dans leur contexte et à
la lumière de son objet et de son but.
(...)
3. Il sera tenu compte, en même temps que du
contexte :
(...)
b) de toute pratique ultérieurement suivie
dans l’application du traité par laquelle
est établi l’accord des parties à l’égard de
l’interprétation du traité ;
c) de toute règle pertinente de droit
international applicable dans les relations
entre les parties. »
17. L’article 32 est intitulé « Moyens
complémentaires d’interprétation ». Il
dispose :
« Il peut être fait appel à des moyens
complémentaires d’interprétation, et
notamment aux travaux préparatoires et aux
circonstances dans lesquelles le traité a
été conclu, en vue, soit de confirmer le
sens résultant de l’application de l’article
31, soit de déterminer le sens lorsque
l’interprétation donnée conformément à
l’article 31 :
a) laisse le sens ambigu ou obscur, ou
b) conduit à un résultat qui est
manifestement absurde ou déraisonnable. »
18. Dans son commentaire à leur sujet, la
Commission du droit international releva que
les articles 31 et 32 devaient opérer
conjointement et n’avaient nullement pour
effet de tracer une ligne de démarcation
rigide entre la « règle générale » et les «
moyens complémentaires » d’interprétation.
Elle précisa par ailleurs que la distinction
elle-même se justifiait, dès lors que les
éléments d’interprétation énumérés à
l’article 31 se rapportaient tous à l’accord
intervenu entre les parties au moment où il
a reçu son expression authentique dans le
texte ou ultérieurement. Les travaux
préparatoires n’avaient selon elle pas le
même caractère d’authenticité, « quelle que
[pût] être leur valeur, dans certains cas,
pour éclairer l’expression que le texte
donne à l’accord » (Annuaire CDI, 1966, vol.
II, p. 240).
3. La genèse de l’article 1 de la Convention
19. Le texte rédigé par la commission des
affaires juridiques et administratives de
l’Assemblée consultative du Conseil de
l’Europe prévoyait, dans ce qui allait
devenir l’article 1 de la Convention, que
les « Etats membres s’engage[aie]nt à
garantir à toute personne résidant sur leur
territoire les droits (...) ». Le comité
d’experts intergouvernemental qui se pencha
sur le projet de l’Assemblée consultative
décida de remplacer les mots « résidant sur
leur territoire » par les termes « relevant
de leur juridiction ». Les motifs ayant
présidé à cette modification se trouvent
décrits dans l’extrait suivant du Recueil
des travaux préparatoires de la Convention
européenne des Droits de l’Homme (vol. III,
p. 260):
« Le projet de l’Assemblée avait attribué le
bénéfice de la Convention à « toute personne
résidant sur le territoire des Etats
signataires. » Il a semblé au Comité que le
terme « résidant » pourrait être considéré
comme étant trop restrictif. En effet, il y
aurait lieu d’accorder le bénéfice de la
Convention à toute personne se trouvant sur
le territoire des Etats signataires, même à
celles qui ne sauraient être considérées
comme y résidant au sens juridique du mot.
D’ailleurs, ce sens n’est pas le même selon
toutes les législations nationales. Le
Comité a donc remplacé le terme « résidant »
par les mots « relevant de leur juridiction
», qui figurent également dans l’article 2
du projet de Pacte de la Commission des
Nations Unies. »
20. L’adoption de l’article 1 de la
Convention fut encore précédée d’une
observation du représentant belge, qui, le
25 août 1950, lors de la séance plénière de
l’Assemblée consultative, s’exprima comme
suit :
« (...) actuellement le droit de protection
de nos Etats, en vertu d’une clause formelle
de la Convention, pourra s’exercer
intégralement et sans division ni
distinction en faveur des individus quelle
qu’en soit la nationalité qui, sur le
territoire de l’un quelconque de nos Etats,
auraient eu à se plaindre d’une violation de
[leurs] droit[s]. »
21. Il est ensuite précisé dans les travaux
préparatoires que le libellé de l’article 1
comportant les mots « relevant de leur
juridiction » ne prêta pas à discussion et
que le texte tel qu’il se présentait alors
(et tel qu’il existe aujourd’hui) fut adopté
par l’Assemblée consultative le 25 août 1950
sans subir de nouveaux amendements (Recueil
précité, vol. VI, p. 132).
4. La Déclaration américaine des droits et
devoirs de l’homme de 1948
22. L’article 2 de cette déclaration est
ainsi libellé :
« Toutes les personnes, sans distinction de
race, de sexe, de langue, de religion ou
autre, sont égales devant la loi et ont les
droits et les devoirs consacrés dans cette
déclaration. »
23. Dans son rapport sur l’affaire Coard
(Rapport n° 109/99, affaire n° 10 951, Coard
et al. v. the United States, 29 septembre
1999, §§ 37, 39, 41 et 43), la Commission
interaméricaine des droits de l’homme se
pencha sur des griefs relatifs à la
détention et au traitement infligés aux
requérants par les forces des Etats-Unis
dans les premiers jours de l’opération
militaire menée à Grenade. Elle s’exprima
comme suit :
« Si l’application extraterritoriale de la
Déclaration américaine n’a pas été débattue
par les parties, la Commission juge
pertinent de relever que, dans certaines
circonstances, l’exercice de sa juridiction
sur des actes se caractérisant par leur
extraterritorialité est non seulement
conforme aux normes en vigueur mais exigé
par elles. Les droits fondamentaux de
l’individu sont proclamés dans les Amériques
sur la base des principes d’égalité et de
non-discrimination – « sans distinction de
race, de nationalité, de religion ou de sexe
». (...) Etant donné que les droits
individuels procèdent directement de la
qualité d’être humain de tout individu,
chaque Etat américain est tenu d’assurer à
toute personne relevant de sa juridiction le
bénéfice des droits protégés. Si sont ainsi
le plus souvent concernées les personnes se
trouvant sur le territoire de l’Etat
envisagé, il peut arriver que le soient
aussi des personnes dont la situation
présente un élément d’extraterritorialité,
ce qui est le cas de celles qui se trouvent
sur le territoire d’un Etat mais relèvent du
contrôle d’un autre Etat – d’ordinaire au
travers des actes accomplis par les agents
de ce dernier à l’étranger. En principe
l’examen ne tourne pas autour de la
nationalité de la victime présumée ou de sa
présence sur une aire géographique
déterminée, mais autour de la question de
savoir si, dans les circonstances de
l’espèce, l’Etat mis en cause a respecté les
droits d’une personne relevant de son
autorité et de son contrôle. »
24. La partie pertinente en l’espèce de
l’article 1 de la Convention américaine des
droits de l’homme de 1978, sur lequel se
fonde la compétence matérielle de la Cour
interaméricaine des droits de l’homme, est
ainsi libellée :
« Les Etats parties s’engagent à respecter
les droits et libertés reconnus dans la
présente Convention et à en garantir le
libre et plein exercice à toute personne
relevant de leur compétence, sans aucune
distinction (...) »
5. Les quatre Conventions de Genève de 1949
sur le droit humanitaire de la guerre
25. L’article 1 de chacune de ces
Conventions (« Les Conventions de Genève de
1949 ») prévoit que les Parties
contractantes « s’engagent à respecter et à
faire respecter la présente Convention en
toutes circonstances ».
6. Le Pacte de 1966 relatif aux droits
civils et politiques (« le Pacte de 1966 »)
et son Protocole facultatif de 1966
26. La partie pertinente en l’espèce de
l’article 2 § 1 du Pacte de 1966 est ainsi
libellée :
« Les Etats parties au présent Pacte
s’engagent à respecter et garantir à tous
les individus se trouvant sur leur
territoire et relevant de leur compétence
les droits reconnus dans le présent Pacte,
(...) »
La Commission des Droits de l’Homme des
Nations unies approuva lors de sa sixième
session, en 1950, une motion tendant à faire
insérer dans le texte de l’article 2 § 1 du
projet de Pacte les mots « se trouvant sur
leur territoire et relevant de leur ». Des
propositions subséquentes visant à
l’exclusion de ces termes échouèrent en 1952
et 1963. Par la suite, la Commission des
Droits de l’Homme chercha à développer, dans
certains contextes limités, la
responsabilité des Etats contractants pour
les actes accomplis par leurs agents à
étranger.
27. La partie pertinente en l’espèce de
l’article 1 du Protocole facultatif de 1966
est ainsi libellée :
« Tout Etat partie au Pacte qui devient
partie au présent Protocole reconnaît que le
Comité a compétence pour recevoir et
examiner des communications émanant de
particuliers relevant de sa juridiction qui
prétendent être victimes d’une violation,
par cet Etat partie, de l’un quelconque des
droits énoncés dans le Pacte. (...) »
GRIEFS
28. Les
requérants dénoncent le bombardement du
bâtiment de la RTS effectué par les forces
de l’OTAN le 23 avril 1999. Ils invoquent
les dispositions suivantes de la Convention
: l’article 2 (droit à la vie), l’article 10
(droit à la liberté d’expression) et
l’article 13 (droit à un recours effectif).
EN DROIT
29. Les cinq
premiers requérants invoquent les article 2,
10 et 13 en leur nom propre et au nom de
leurs proches décédés. Le sixième, qui fut
blessé lors de l’opération, invoque les
mêmes articles en son nom propre. Avec
l’accord de la Cour, les parties ont limité
leurs observations écrites et orales aux
seules questions de recevabilité, les
Gouvernements précisant par ailleurs qu’ils
ne plaideraient pas le caractère
manifestement mal fondé des griefs.
30. En ce qui concerne la recevabilité de
l’affaire, les requérants soutiennent que la
requête est compatible ratione loci avec les
dispositions de la Convention au motif que
les actes incriminés, qui soit ont été
accomplis en RFY, soit l’ont été sur le
territoire des Etats défendeurs mais ont
produit leur effets en RFY, les ont fait
entrer, eux et leurs proches décédés, dans
la sphère de juridiction desdits Etats. Ils
considèrent également que les Etats
défendeurs sont solidairement responsables
du bombardement nonobstant le fait que
celui-ci a été effectué par les forces de
l’OTAN, et affirment qu’ils ne disposaient
d’aucun recours interne effectif.
31. Les Gouvernements plaident quant à eux
l’irrecevabilité de l’affaire. Ils
soutiennent pour l’essentiel que la requête
est incompatible ratione personae avec les
dispositions de la Convention au motif que
les requérants ne relevaient pas de la
juridiction des Etats défendeurs, au sens de
l’article 1 de la Convention. Ils
considèrent également que, conformément au «
principe Or monétaire » dégagé par la CIJ,
la Cour ne peut statuer sur le bien-fondé de
l’affaire car cela reviendrait pour elle à
se prononcer sur les droits et obligations
des Etats-Unis, du Canada et de l’OTAN
elle-même, alors qu’aucune de ces entités
n’est Partie contractante à la Convention,
ni, en conséquence, partie à la présente
procédure (Or monétaire pris à Rome en 1943,
Recueil CIJ 1954, p. 19, appliqué dans
l’affaire du Timor oriental, Recueil CIJ
1995, p. 90).
32. Le gouvernement français soutient de
surcroît que le bombardement litigieux est
imputable non aux Etats défendeurs mais à
l’OTAN, organisation dotée d’une personalité
juridique internationale distincte de celle
de ses Etats membres. Le gouvernement turc
formule par ailleurs certaines observations
précisant son analyse de la situation qui
prévaut dans la partie nord de Chypre.
33. Enfin, les gouvernements de la Hongrie,
de l’Italie et de la Pologne considèrent
que, contrairement à ce qu’exige l’article
35 § 1 de la Convention, les requérants
n’ont pas épuisé les voies de recours qui
s’ouvraient à eux dans lesdits Etats.
A. Les requérants et leurs proches décédés
relevaient-ils de la « juridiction » des
Etats défendeurs, au sens de l’article 1 de
la Convention ?
34. Dès lors que c’est principalement sur la
base d’une réponse négative à cette question
que les Gouvernements contestent la
recevabilité de la requête, la Cour se
penchera tout d’abord sur ce point.
L’article 1 de la Convention est ainsi
libellé :
« Les Hautes Parties contractantes
reconnaissent à toute personne relevant de
leur juridiction les droits et libertés
définis au titre I de la (...) Convention »
1. Les observations des gouvernements
défendeurs
35. Les Gouvernements soutiennent que les
requérants et leurs proches décédés ne
relevaient pas, à l’époque pertinente, de la
« juridiction » des Etats défendeurs, la
requête étant dès lors incompatible ratione
personae avec les dispositions de la
Convention.
36. Quant au sens précis à attribuer au
terme « juridiction », ils considèrent que
celui-ci doit être interprété suivant le
sens ordinaire et bien établi qu’il revêt en
droit international public. L’exercice par
un Etat de sa « juridiction » impliquerait
ainsi l’affirmation ou l’exercice d’une
autorité juridique actuelle ou présumée sur
des personnes redevable d’une certaine forme
d’allégeance à l’Etat en question ou ayant
été placées sous son contrôle. Par ailleurs,
le terme de « juridiction » supposerait
généralement une forme de relation
structurée existant normalement pendant un
certain laps de temps.
37. Les Gouvernements s’estiment confortés
dans leur analyse à cet égard par la
jurisprudence de la Cour ayant appliqué la
notion de juridiction pour affirmer que
certains individus subissant les effects
d’actes accomplis par un Etat défendeur en
dehors de son territoire peuvent passer pour
relever de la juridiction de cet Etat au
motif que celui-ci exerçait sur eux une
certaine forme d’autorité juridique.
L’arrestation et la détention des requérants
en dehors du territoire de l’Etat défendeur
dans les affaires Issa et Öcalan (Issa et
autres c. Turquie (déc.), n° 31821/96, 30
mai 2000, non publiée, et Öcalan c. Turquie
(déc.), n° 46221/99, 14 décembre 2000, non
publiée) relèveraient ainsi d’un exercice
classique, par des forces militaires opérant
sur un sol étranger, de pareille autorité
juridique ou compétence sur les personnes
concernées, tandis que dans l’affaire
Xhavara, qui concernait une allégation aux
termes de laquelle un navire de guerre
italien avait délibérément pris pour cible
un navire albanais à quelque 35 milles
nautiques au large des côtes italiennes
(Xhavara et autres c. Italie et Albanie
(déc.), n° 39473/98, 11 janvier 2001, non
publiée), la juridiction était partagée en
vertu d’un accord écrit entre les Etats
défendeurs. Les Gouvernements voient
également une confirmation de leur
interprétation de la notion de juridiction
dans les travaux préparatoires de la
Convention et dans la pratique suivie par
les Etats relativement à l’application de
celle-ci depuis qu’ils l’ont ratifiée. Ils
se réfèrent, sur ce dernier point, à la
non-notification de dérogations au titre de
l’article 15 pour les opérations militaires
auxquelles les Etats contractants ont
participé en dehors de leur territoire.
38. Les Gouvernement concluent que le
comportement incriminé par les requérants ne
peut manifestement être décrit comme
l’exercice de semblable autorité juridique
ou compétence.
39. Les Gouvernements se tournent ensuite
vers les principaux arguments des requérants
relatifs à la portée de la notion de «
juridiction » figurant à l’article 1 de la
Convention, la thèse des intéressés
consistant à dire que l’obligation positive
de protection que prévoit cette clause
s’applique proportionnellement au contrôle
exercé.
40. A cet égard, les Gouvernements
considèrent premièrement que le texte même
de l’article 1 ne fournit aucun appui à
pareille interprétation. Si les auteurs
avaient souhaité mettre en place ce qui
constitue en vérité un type de
responsabilité « de cause à effet », ils
auraient pu adopter un libellé analogue à
celui de l’article 1 des Conventions de
Genève de 1949 (cité ci-dessus, § 25). En
tout état de cause, l’interprétation prônée
par les requérants du terme de « juridiction
» donnerait à l’obligation positive des
Etats contractants de reconnaître les droits
matériels définis dans la Convention une
portée qui n’a jamais été envisagée par
l’article 1 de celle-ci .
41. Les Gouvernements estiment deuxièmement
que l’invocation par les requérants de
l’article 15 à l’appui de leur
interprétation extensive de l’article 1 est
erronée et que ladite clause renforce en
fait leur thèse à eux. Rien en effet dans le
texte ou l’application de l’article 15 de la
Convention n’impliquerait, comme les
requérants le supposeraient à tort, que le
second paragraphe de cet article vise les
situations de « guerre » ou d’« urgence »
tant à l’extérieur qu’à l’intérieur du
territoire des Etats contractants. Dès lors,
l’article 15 § 2 ne corroborerait pas
l’interprétation large de l’article 1
proposée par les requérants.
42. Troisièmement, et quant à l’observation
des requérants selon laquelle les citoyens
de la RFY se verraient privés de tout
recours au sens de la Convention, les
Gouvernements rappellent qu’un constat aux
termes duquel la Turquie n’était pas
responsable au titre de la Convention dans
les affaires concernant la partie nord de
Chypre aurait privé les habitants dudit
territoire du bénéfice des droits garantis
par la Convention dont ils auraient
autrement eu la jouissance (arrêts Loizidou
c. Turquie du 23 mars 1995 (exceptions
préliminaires), série A n° 310, Loizidou c.
Turquie du 18 décembre 1996 (fond), Recueil
des arrêts et décisions 1996–VI, n° 26, et
Chypre c. Turquie [GC], n° 25781/94, CEDH
2001). Ils relèvent qu’en l’espèce la RFY
n’était pas et n’est toujours pas partie à
la Convention, et que ses habitants ne
pouvaient puiser aucun droit dans la
Convention.
43. Quatrièmement, les Gouvernements
contestent avec vigueur les arguments des
requérants relatifs au risque qu’il y aurait
à ne pas rendre responsables au titre de la
Convention les Etats participant à des
missions militaires du type de celle
incriminée en l’espèce. Selon eux, ce serait
plutôt la théorie nouvelle de type causal de
la juridiction extraterritoriale prônée par
les requérants qui entraînerait de graves
conséquences au plan international. Combinée
avec l’affirmation préconisée par les
intéressés de la responsabilité solidaire de
l’ensemble des Etats du fait de leur qualité
de membres de l’OTAN, pareille théorie
mettrait gravement à mal le but et le
système de la Convention. En particulier,
elle aurait des conséquences sérieuses sur
toute action collective militaire
internationale, dans la mesure où elle
rendrait la Cour compétente pour contrôler
la participation des Etats contractants à
des missions militaires menées où que ce
soit sur le globe dans des conditions où il
serait impossible auxdits Etats d’assurer
aux habitants des territoires concernés la
jouissance de l’un quelconque des droits
garantis par la Convention, y compris dans
les situations où un Etat contractant ne
prendrait aucune part active à la mission
incriminée. Le danger de violer la
Convention qui en résulterait risquerait,
d’après les Gouvernements, de saper de
manière significative la participation des
Etats à de telles missions et déboucherait
en tout état de cause sur des dérogations au
titre de l’article 15 de la Convention qui
seraient bien plus protectrices pour les
Etats. De plus, le droit humanitaire
international, le TPIY et, depuis peu, la
Cour pénale internationale (« CPI »)
seraient là pour réguler ce type de
comportement des Etats.
44. Enfin, les Gouvernements récusent
également les théories subsidiaires
développées par les requérants quant à la
responsabilité des Etats au titre de
l’article 1 de la Convention. En ce qui
concerne l’argument tiré du contrôle que les
forces de l’OTAN auraient exercé sur
l’espace aérien au-dessus de Belgrade, ils
démentent que pareil contrôle existât et
contestent en tout état de cause que la
maîtrise d’un espace aérien puisse être mise
sur le même plan qu’un contrôle territorial
d’une nature et d’une étendue, telles
qu’identifiées dans les arrêts précités
concernant la partie nord de Chypre, propres
à faire conclure à l’exercice d’un contrôle
effectif ou d’une autorité juridique. Ils
jugent par ailleurs erronée la comparaison
faite par les requérants entre la présente
espèce et l’affaire Soering (arrêt Soering
c. Royaume-Uni du 7 juillet 1989, série A,
n° 161). A l’époque où devait être prise la
décision litigieuse concernant l’opportunité
d’extrader M. Soering, ce dernier se
trouvait en effet détenu sur le territoire
de l’Etat défendeur, situation correspondant
à un exercice classique par l’Etat de son
autorité juridique sur un individu auquel il
est en mesure de garantir le respect de
l’ensemble des droits consacrés par la
Convention.
45. En résumé, les Gouvernements soutiennent
que les requérants et leurs proches décédés
ne relevaient pas de la juridiction des
Etats défendeurs et que, par conséquent,
leur requête est incompatible ratione
personae avec les dispositions de la
Convention.
2. Les arguments des requérants
46. Les requérants considèrent que la
requête est compatible ratione loci avec les
dispositions de la Convention, dans la
mesure où le bombardement de la RTS les a
placés dans la sphère de juridiction des
Etats défendeurs. Ils soutiennent en
particulier que la « juridiction » desdits
Etats peut se déterminer à partir d’une
adaptation des critères du « contrôle
effectif » dégagés par la Cour dans les
arrêts Loizidou précités (exceptions
préliminaires et fond), de sorte que
l’étendue de l’obligation positive procédant
de l’article 1 de la Convention de
reconnaître les droits consacrés par
celle-ci serait proportionnée à l’ampleur du
contrôle effectivement exercé. Ils estiment
que cette conception de la notion de
juridiction au sens de l’article 1 est de
nature à fournir à la Cour des critères
exploitables pour le traitement des plaintes
pouvant naître à l’avenir de situations
comparables.
47. Ainsi, lorsque la Cour, dans les arrêts
Loizidou précités (exceptions préliminaires
et fond), jugea que les forces turques
exerçaient un contrôle effectif sur la
partie nord de Chypre, il était juste de
considérer que la Turquie avait l’obligation
de garantir le respect sur le territoire en
question de l’ensemble des droits consacrés
par la Convention. En revanche, lorsque les
Etats défendeurs frappent une cible située
en dehors de leur territoire, ils ne sont
pas tenus à l’impossible (assurer le respect
de l’éventail complet des droits reconnus
par la Convention), mais ils doivent être
jugés responsables des violations des droits
garantis par la Convention dont ils avaient
la possibilité d’assurer le respect dans la
situation en cause.
48. Les requérants soutiennent que cette
approche se concilie parfaitement avec
l’état actuel de la jurisprudence issue de
la Convention, et ils invoquent en
particulier les décisions sur la
recevabilité adoptées dans les affaires
Issa, Xhavara et Öcalan précitées, ainsi que
celle rendue dans l’affaire Ilascu (Ilascu
c. Moldova et Fédération de Russie (déc.),
n° 48787/99, 4 juillet 2001, non publiée).
Ils la jugent également compatible avec
l’interprétation d’expressions similaires
donnée par la Commission interaméricaine des
Droits de l’Homme (voir le rapport relatif à
l’affaire Coard précité, § 23). Se référant
à une affaire du Comité des Droits de
l’Homme des Nations unies, ils affirment que
ledit Comité est parvenu à des conclusions
analogues relativement à l’article 2 § 1 du
Pacte de 1966 et à l’article 1 du Protocole
facultatif à cet instrument.
49. Ils estiment en outre que leur approche
du concept de « juridiction » trouve un
appui dans le texte et la structure de la
Convention, en particulier dans l’article 15
: celui-ci serait en effet, selon eux, privé
de sens s’il ne s’appliquait pas également
aux situations de guerre ou d’urgence
extraterritoriales. Dès lors, en l’absence
de notification de dérogation à cette
disposition, la Convention s’appliquerait
même pendant de tels conflits.
50. Quant à l’invocation par les
Gouvernements des travaux préparatoires, les
requérants font observer que ceux-ci ne
constituent pas une source de preuve
essentielle ou définitive quant au sens à
attribuer au terme « juridiction » figurant
à l’article 1 de la Convention. Ils relèvent
en effet que l’« autorité juridique » et la
« relation structurée » dont les
Gouvernements font des éléments essentiels
de la notion de juridiction ne sont pas
mentionnées dans les travaux préparatoires.
51. Ils rejettent par ailleurs la thèse des
Gouvernements selon laquelle leur
interprétation de l’article 1 constituerait
un dangereux précédent. La présente espèce
ne concernerait pas un accident ou une
omission survenus à l’occasion d’une mission
de maintien de la paix des Nations unies, ni
des actes commis par des « soldats voyous ».
Elle mettrait en cause un acte délibéré,
approuvé par chacun des Etats défendeurs et
exécuté conformément au plan établi. Les
requérants soutiennent que ce qui serait
dangereux, ce serait de ne pas rendre les
Etats responsables des violations de la
Convention pouvant résulter de ce type
d’actions. Mettant en exergue la prééminence
du droit à la vie et le rôle de la
Convention comme instrument de l’ordre
public européen, ils soulignent que le fait
d’écarter la responsabilité des Etats
défendeurs laisserait les requérants sans le
moindre recours et les armées des Etats
défendeurs libres d’agir en toute impunité.
La CIJ ne serait pas compétente pour
recevoir des plaintes individuelles, le TPIY
statuerait sur la responsabilité d’individus
accusés de graves crimes de guerre et la CPI
n’aurait pas encore été établie.
52. A titre subsidiaire, les requérants
allèguent qu’eu égard à l’ampleur de
l’opération aérienne et au nombre
relativement faible de victimes le contrôle
qu’exerçait l’OTAN sur l’espace aérien était
pratiquement aussi complet que celui
qu’exerçait la Turquie sur le territoire de
la partie nord de Chypre. Il s’agissait
certes d’un contrôle de portée limitée (il
ne s’exerçait que sur l’espace aérien), mais
l’obligation positive résultant de l’article
1 pourrait être limitée de manière analogue.
Les notions de « contrôle effectif » et de «
juridiction » devraient être suffisamment
flexibles pour tenir compte de la
disponibilité et de l’usage d’armes de
précision modernes, qui autoriseraient des
actions extraterritoriales de grande
précision et de fort impact sans nécessiter
la présence de troupes au sol. Compte tenu
de ces progrès de la technique moderne,
l’invocation d’une différence entre des
attaques aériennes et des actions menées par
des troupes au sol serait aujourd’hui
dépourvue de pertinence.
53. A titre plus subsidiaire encore, les
requérants, comparant les circonstances de
la présente espèce et celles qui
caractérisaient l’affaire Soering précitée,
soutiennent que l’acte incriminé n’était en
réalité que l’effet extraterritorial de
décisions antérieures, prises sur le
territoire des Etats défendeurs, de
bombarder la RTS et de lancer le missile. On
pourrait dès lors considérer, pour les mêmes
motifs que ceux retenus dans l’affaire
Soering, qu’ils relevaient de la juridiction
des Etats défendeurs.
3. L’appréciation de la Cour
54. La Cour relève que le lien réel entre
les requérants et les Etats défendeurs est
constitué de l’acte incriminé, qui, où qu’il
ait été décidé, a été accompli ou a déployé
ses effets en dehors du territoire desdits
Etats (« l’acte extraterritorial »). Elle
estime qu’il s’agit donc essentiellement de
rechercher si l’on peut considérer que, du
fait de l’acte extraterritorial, les
requérants et leurs proches décédés étaient
susceptibles de relever de la juridiction
des Etats défendeurs (arrêts Drozd et
Janousek c. France et Espagne du 26 juin
1992, série A n° 240, § 91, Loizidou
(exceptions préliminaires et fond) précités,
§ 64 et § 56 respectivement, et Chypre c.
Turquie précité, § 80).
a) Les règles d’interprétation applicables
55. La Cour rappelle que la Convention doit
être interprétée à la lumière des règles
fixées dans la Convention de Vienne de 1969
(arrêt Golder c. Royaume-Uni du 21 février
1975, série A n° 18, § 29).
56. Elle cherchera donc à déterminer le sens
ordinaire devant être attribué aux termes «
relevant de leur juridiction » dans leur
contexte et à la lumière de l’objet et du
but de la Convention (article 31 § 1 de la
Convention de Vienne de 1969 et, parmi
d’autres, l’arrêt Johnston et autres c.
Irlande du 18 décembre 1986, série A n° 112,
§ 51). Elle tiendra compte également de «
toute pratique ultérieurement suivie dans
l’application du traité par laquelle est
établi l’accord des parties à l’égard de
l’interprétation du traité » (article 31 § 3
b) de la Convention de Vienne de 1969 et
arrêt Loizidou (exceptions préliminaires)
précité, § 73).
57. De surcroît, l’article 31 § 3 c) indique
qu’il y a lieu de tenir compte de « toute
règle pertinente du droit international
applicable dans les relations entre les
parties ». D’une manière plus générale, la
Cour réaffirme que les principes qui
sous-tendent la Convention ne peuvent
s’interpréter et s’appliquer dans le vide.
Elle doit aussi prendre en compte toute
règle pertinente du droit international
lorsqu’elle se prononce sur des différends
concernant sa compétence et, par conséquent,
déterminer la responsabilité des Etats
conformément aux principes du droit
international régissant la matière, tout en
tenant compte du caractère particulier de la
Convention, instrument de protection des
droits de l’homme (arrêt Loizidou (fond)
précité, §§ 43 et 52). Aussi la Convention
doit-elle s’interpréter, dans toute la
mesure du possible, en harmonie avec les
autres principes du droit international,
dont elle fait partie (Al-Adsani c.
Royaume-Uni [GC], n° 35763, § 60, à paraître
dans CEDH 2001).
58. La Cour rappelle par ailleurs que les
travaux préparatoires peuvent également être
consultés en vue de confirmer le sens
résultant de l’application de l’article 31
de la Convention de Vienne de 1969 ou de
déterminer le sens lorsque l’interprétation
donnée conformément audit article 31 laisse
le sens « ambigu ou obscur », ou conduit à
un résultat qui est « manifestement absurde
ou déraisonnable » (article 32). La Cour a
également pris note du commentaire de la CDI
sur la relation entre les règles
d’interprétation codifiées dans lesdits
articles 31 et 32 (dont le texte ainsi qu’un
résumé du commentaire fait à leur sujet par
la CDI figurent aux paragraphes 16-18
ci-dessus).
b) Le sens devant être attribué aux mots «
relevant de leur juridiction »
59. En ce qui concerne le « sens ordinaire »
des termes pertinents figurant dans
l’article 1 de la Convention, la Cour
considère que, du point de vue du droit
international public, la compétence
juridictionnelle d’un Etat est
principalement territoriale. Si le droit
international n’exclut pas un exercice
extraterritorial de sa juridiction par un
Etat, les éléments ordinairement cités pour
fonder pareil exercice (nationalité,
pavillon, relations diplomatiques et
consulaires, effet, protection, personnalité
passive et universalité, notamment) sont en
règle générale définis et limités par les
droits territoriaux souverains des autres
Etats concernés (Mann, « The Doctrine of
Jurisdiction in International Law », RdC,
1964, vol. 1 ; Mann, « The Doctrine of
Jurisdiction in International Law, Twenty
Years Later », RdC, 1984, vol. 1 ;
Bernhardt, Encyclopaedia of Public
International Law, édition 1997, vol. 3, pp.
55–59 (« Jurisdiction of States »), et
édition 1995, vol. 2, pp. 337–343 («
Extra-territorial Effects of Administrative,
Judicial and Legislative Acts ») ;
Oppenheim’s International Law 9è édition
1992 (Jennings and Watts), vol. 1, § 137 ;
P.-M. Dupuy, Droit international public, 4è
édition 1998, p. 61 ; Brownlie, Principles
of International Law, 5è édition 1998, pp.
287, 301 et 312–314).
60. Ainsi, par exemple, la possibilité pour
un Etat d’exercer sa juridiction sur ses
propres ressortissants à l’étranger est
subordonnée à la compétence territoriale de
cet Etat et d’autres (Higgins, « Problems
and Process » (1994), p. 73 ; et Nguyen Quoc
Dinh, Droit international public, 6è édition
1999 (Daillier et Pellet), p. 500). De
surcroît, un Etat ne peut concrètement
exercer sa juridiction sur le territoire
d’un autre Etat sans le consentement,
l’invitation ou l’acquiescement de ce
dernier, à moins que le premier ne soit un
Etat occupant, auquel cas on peut considérer
qu’il exerce sa juridiction sur ce
territoire, du moins à certains égards
(Bernhardt, précité, vol. 3, p. 59, et vol.
2, pp. 338–340 ; Oppenheim, précité, § 137 ;
P.-M. Dupuy, précité, pp. 64-65 ; Brownlie,
précité, p. 313 ; Cassese, International
Law, 2001, p. 89 ; et tout récemment, le
Rapport sur le traitement préférentiel des
minorités nationales par leur Etat-parent,
adopté par la Commission de Venise lors de
sa 48ème réunion plénière (Venise, les 19-20
octobre 2001).
61. Aussi la Cour estime-t-elle que
l’article 1 de la Convention doit passer
pour refléter cette conception ordinaire et
essentiellement territoriale de la
juridiction des Etats, les autres titres de
juridiction étant exceptionels et
nécessitant chaque fois une justification
spéciale, fonction des circonstances de
l’espèce (voir, mutatis mutandis et en
général, le Comité restreint d’experts sur
la compétence pénale extraterritoriale,
Comité européen pour les problèmes
criminels, Conseil de l’Europe, « Compétence
pénale extraterritoriale », rapport publié
en 1990, pp. 8–30).
62. La Cour considère que la pratique suivie
par les Etats contractants dans
l’application de la Convention depuis sa
ratification montre qu’ils ne redoutaient
pas l’engagement de leur responsabilité
extraterritoriale dans des contextes
analogues à celui de la présente espèce. Si
certains Etats contractants ont participé,
depuis leur ratification de la Convention, à
un certain nombre de missions militaires qui
les ont amenés à accomplir des actes
extraterritoriaux (notamment dans le Golfe,
en Bosnie-Herzégovine et en RFY), aucun
d’eux n’a jamais indiqué par la notification
d’une dérogation au titre de l’article 15 de
la Convention qu’il considérait que les
actes extraterritoriaux impliquaient
l’exercice d’un pouvoir de juridiction au
sens de l’article 1 de la Convention. Les
dérogations existantes ont été notifiées par
la Turquie et par le Royaume-Uni
relativement à certains conflits internes
(dans le Sud-Est de la Turquie et en Irlande
du Nord respectivement), et la Cour ne
décèle aucun élément qui lui permettrait
d’accueillir la thèse des requérants selon
laquelle l’article 15 couvre l’ensemble des
situations de « guerre » et d’« urgence »,
tant à l’intérieur qu’à l’extérieur du
territoire des Etats contractants. De fait,
l’article 15 lui-même doit se lire à la
lumière de la limitation de « juridiction »
énoncée à l’article 1 de la Convention.
63. Enfin, la Cour trouve une confirmation
claire de cette conception essentiellement
territoriale de la juridiction des Etats
dans les travaux préparatoires de la
Convention, lesquels révèlent que si le
comité d’experts intergouvernamental
remplaça les termes « résidant sur leur
territoire » par les mots « relevant de leur
juridiction », c’était afin d’étendre
l’application de la Convention aux personnes
qui, sans résider, au sens juridique du
terme, sur le territoire d’un Etat se
trouvent néanmoins sur le territoire de cet
Etat (paragraphe 19 ci-dessus).
64. Il est vrai que le principe selon lequel
la Convention est un instrument vivant qui
doit être interprété à la lumière des
conditions actuelles est solidement ancré
dans la jurisprudence de la Cour. Celle-ci
l’a appliqué non seulement aux dispositions
normatives de la Convention (par exemple,
dans les arrêts Soering précité, § 102,
Dudgeon c. Royaume-Uni du 22 octobre 1981,
série A n° 45, X, Y et Z c. Royaume-Uni du
22 avril 1997, Recueil 1997–II, V. c.
Royaume-Uni [GC] n° 24888/94, § 72, CEDH
1999–IX, et Matthews c. Royaume-Uni [GC], n°
24833/94, § 39, CEDH 1999–I), mais
également, et c’est davantage pertinent pour
la présente espèce, lorsqu’il s’est agi pour
elle d’interpréter les anciens articles 25
et 46 de la Convention relativement à la
reconnaissance par un Etat contractant de la
compétence des organes de la Convention
(arrêt Loizidou (exceptions préliminaires)
précité, § 71). La Cour considéra, dans le
dernier arrêt cité, que les anciens articles
25 et 46 de la Convention ne pouvaient
s’interpréter uniquement en conformité avec
les intentions de leurs auteurs, telles
qu’elles avaient été exprimées plus de
quarante ans auparavant, dans la mesure où
même s’il s’était trouvé établi que les
restrictions en cause devaient passer pour
admissibles au regard desdites clauses à
l’époque où une minorité des Parties
contractantes existant à l’époque de l'arrêt
de la Cour avaient adopté la Convention,
pareille preuve ne pouvait « être
déterminante ».
65. Or, contrairement à la question de la
compétence des organes de la Convention pour
connaître d’une espèce, qui était débattue
dans l’affaire Loizidou (exceptions
préliminaires), la portée de l’article 1,
qui se trouve au cœur du présent litige, est
déterminante pour celle des obligations
positives pesant sur les Parties
contractantes et, partant, pour la portée et
l’étendue de tout le système protection des
droits de l’homme mis en place par la
Convention. En tout état de cause, les
passages des travaux préparatoires cités
ci-dessus fournissent une indication claire
et ne pouvant être ignorée du sens que les
auteurs de la Convention ont entendu donner
audit article 1. La Cour souligne qu’elle
n’interprète pas la disposition en cause «
uniquement » en conformité avec les travaux
préparatoires et qu’elle ne juge pas ceux-ci
« déterminants » ; elle voit plutôt dans les
travaux préparatoires une confirmation non
équivoque du sens ordinaire de l’article 1
de la Convention tel qu’elle l’a déjà
identifié (article 32 de la Convention de
Vienne de 1969).
66. Ainsi, comme la Cour l’a dit dans
l’affaire Soering :
« L’article 1 (...) fixe une limite,
notamment territoriale, au domaine de la
Convention. En particulier, l’engagement des
Etats contractants se borne à reconnaître «
(en anglais « to secure ») aux personnes
relevant de leur « juridiction » les droits
et libertés énumérés. En outre, la
Convention ne régit pas les actes d’un Etat
tiers, ni ne prétend exiger des Parties
contractantes qu’elles imposent ses normes à
pareil Etat. »
c) Actes extraterritoriaux reconnus comme
s’analysant en l’exercice par l’Etat
concerné de sa juridiction
67. En conformité avec la notion
essentiellement territoriale de juridiction,
la Cour n’a admis que dans des circonstances
exceptionnelles que les actes des Etats
contractants accomplis ou produisant des
effets en dehors de leur territoire peuvent
s’analyser en l’exercice par eux de leur
juridiction au sens de l’article 1 de la
Convention.
68. Elle a évoqué dans sa jurisprudence, à
titre d’exemples censés montrer que la
juridiction d’un Etat défendeur « ne se
circonscrit pas [à son] territoire national
» (arrêt Loizidou (exceptions préliminaires)
précité, § 62), des situations dans
lesquelles l’extradition ou l’expulsion
d’une personne par un Etat contractant peut
soulever un problème au regard des articles
2 et/ou 3 (ou, exceptionnellement, au regard
des articles 5 et/ou 6), donc engager la
responsabilité de l’Etat au titre de la
Convention (arrêts Soering précité, § 91,
Cruz Varas et autres c. Suède du 20 mars
1991, série A n° 201, §§ 69 et 70, et
Vilvarajah et autres c. Royaume-Uni du 30
octobre 1991, série A n° 215, § 103).
La Cour note toutefois que, dans les cas
précités, les Etats défendeurs avaient
engagé leur responsabilité par des actes
concernant des personnes qui avaient été
accomplis alors que celles-ci se trouvaient
sur leur territoire et qu’elles relevaient
dès lors manifestement de leur juridiction,
et que pareils cas ne concernent pas
l’exercice actuel par un Etat de sa
compétence ou juridiction à l’étranger (voir
également l’arrêt Al-Adsani précité, § 39).
69. Un autre exemple mentionné au paragraphe
62 de l’arrêt Loizidou (exceptions
préliminaires) précité était l’arrêt Drozd
et Janousek, dans lequel la Cour, citant un
certain nombre de décisions sur la
recevabilité adoptées par la Commission,
avait admis que la responsabilité des
Parties contractantes (en l’occurrence la
France et l’Espagne) pouvait en principe
entrer en jeu à raison d’actes émanant de
leurs organes (en l’occurrence des juges)
ayant été accomplis ou ayant produit des
effets en dehors de leur territoire (arrêt
Drozd et Janousek précité, § 91). Dans
ladite affaire, les actes incriminés ne
pouvaient, eu égard aux circonstances, être
imputés aux Etats défendeurs, dès lors que
les juges mis en cause n’avaient pas agi en
leur qualité de juges français ou espagnols
et que les juridictions andorrannes
fonctionnaient indépendament desdits Etats.
70. En outre, dans son premier arrêt
Loizidou (exceptions préliminaires), la Cour
jugea que, compte tenu de l’objet et du but
de la Convention, une Partie contractante
pouvait voir sa responsabilité engagée
lorsque, par suite d’une action militaire –
légale ou non –, elle exerçait en pratique
son contrôle sur une zone située en dehors
de son territoire national. Elle estima que
l’obligation d’assurer dans une telle région
le respect des droits et libertés garantis
par la Convention découlait du fait de ce
contrôle, qu’il s’exerçât directement, par
l’intermédiaire des forces armées des Etats
concernés ou par le biais d’une
administration locale subordonnée. Elle
conclut que les actes dénoncés par la
requérante étaient « de nature à relever de
la juridiction de la Turquie au sens de
l’article 1 de la Convention ».
Statuant au fond, la Cour jugea qu’il ne
s’imposait pas de déterminer si la Turquie
exerçait en réalité dans le détail un
contrôle sur la politique et les actions des
autorités de la « République turque de
Chypre du Nord » (« RTCN »). Le grand nombre
de soldats participant à des missions
actives dans le nord de Chypre attestait
selon elle que l’armée turque exerçait « en
pratique un contrôle global sur cette partie
de l’île ». La Cour estima que, d’après le
critère pertinent et dans les circonstances
de la cause, ce contrôle engageait la
responsabilité de la Turquie à raison de la
politique et des actions de la « RTCN ».
Elle considéra que les personnes touchées
par cette politique ou ces actions
relevaient donc de la « juridiction » de la
Turquie aux fins de l’article 1 de la
Convention, et que l’obligation qui
incombait audit Etat de garantir à la
requérante les droits et libertés définis
dans la Convention s’étendait en conséquence
à la partie septentionale de Chypre.
Dans son arrêt Chypre c. Turquie précité,
adopté ultérieurement, la Cour ajouta
qu’étant donné que la Turquie exerçait en
pratique un contrôle global sur le
territoire concerné, sa responsabilité ne
pouvait se circonscrire aux actes commis par
ses propres agents sur ce territoire mais
s’étendait également aux actes de
l’administration locale qui survivait grâce
à son soutien. Elle jugea ainsi qu’en vertu
de la « juridiction » exercée par lui au
sens de l’article 1 de la Convention, ledit
Etat devait assurer dans la partie
septentrionale de Chypre le respect de la
totalité des droits matériels consacrés par
la Convention.
71. En résumé, il ressort de sa
jurisprudence que la Cour n’admet
qu’exceptionnellement qu’un Etat contractant
s’est livré à un exercice extraterritorial
de sa compétence : elle ne l’a fait
jusqu’ici que lorsque l’Etat défendeur, au
travers du contrôle effectif exercé par lui
sur un territoire extérieur à ses frontières
et sur ses habitants par suite d’une
occupation militaire ou en vertu du
consentement, de l’invitation ou de
l’acquiescement du gouvernement local,
assumait l’ensemble ou certains des pouvoirs
publics relevant normalement des
prérogatives de celui-ci.
72. C’est ainsi que, conformément à cette
approche, la Cour a jugé récemment que la
participation d’un Etat en qualité de
défendeur à une procédure dirigée contre lui
dans un autre Etat n’emporte pas par cela
seul exercice extraterritorial par lui de sa
juridiction (McElhinney c. Irlande et
Royaume-Uni (déc.), n° 31253-96, p. 7, 9
février 2000, non publiée). La Cour
s’exprima ainsi :
« Dans la mesure où le requérant se plaint,
sur le terrain de l’article 6 (...), de
l’attitude adoptée par le gouvernement
britannique dans la procédure irlandaise, la
Cour ne juge pas nécessaire d’examiner dans
l’abstrait la question de savoir si les
actes accomplis par un gouvernement en sa
qualité de partie à des procédures
judiciaires menées dans un autre Etat
contractant sont de nature à engager sa
responsabilité au titre de l’article 6 (...)
La Cour considère que, compte tenu des
circonstances particulières de l’espèce, le
fait que le gouvernement britannique ait
soulevé devant les juridictions irlandaises
une exception tirée de son immunité
souveraine dans une procédure dont
l’initiative avait été prise par le
requérant ne suffit pas à faire relever ce
dernier de la juridiction du Royaume-Uni au
sens de l’article 1 de la Convention. »
73. La Cour note par ailleurs qu’on
rencontre d’autres cas d’exercice
extraterritorial de sa compétence par un
Etat dans les affaires concernant des actes
accomplis à l’étranger par des agents
diplomatiques ou consulaires, ou à bord
d’aéronefs immatriculés dans l’Etat en cause
ou de navires battant son pavillon. Dans ces
situations spécifiques, il est clair que le
droit international coutumier et des
dispositions conventionnelles ont reconnu et
défini l’exercice extraterritorial de sa
juridiction par l’Etat concerné.
d) Dans ces conditions, les requérants en
l’espèce étaient-ils susceptibles de relever
de la « juridiction » des Etats défendeurs ?
74. Les requérants soutiennent que le
bombardement de la RTS par les Etats
défendeurs constitue un exemple
supplémentaire d’acte extraterritorial
susceptible d’entrer dans le champ
d’application de la notion de « juridiction
» au sens de l’article 1 de la Convention et
proposent ainsi un affinement de la
définition du sens ordinaire du terme «
juridiction » figurant audit article. La
Cour doit donc se convaincre qu’il existe en
l’espèce des circonstances également
exceptionnelles propres à faire conclure à
un exercice extraterritorial de leur
juridiction par les Etats défendeurs.
75. A cet égard, les requérants suggèrent
premièrement d’appliquer de manière
spécifique les critères du « contrôle
effectif » développés dans les affaires
relatives à la partie septentrionale de
Chypre. Ils soutiennent que l’obligation
positive résultant de l’article 1 va jusqu’à
astreindre les Etats à assurer le respect
des droits consacrés par la Convention à
proportion du contrôle exercé dans une
situation extraterritoriale donnée. Pour les
Gouvernements, admettre cela reviendrait à
entériner une conception causale de la
notion de juridiction qui n’aurait pas été
envisagée par l’article 1 de la Convention
ou qu’il ne serait pas approprié de retenir.
La Cour estime que la thèse des requérants
équivaut à considérer que toute personne
subissant des effets négatifs d’un acte
imputable à un Etat contractant « relève »
ipso facto, quel que soit l’endroit où
l’acte a été commis et où que ses
conséquences aient été ressenties, « de la
juridiction » de cet Etat aux fins de
l’article 1 de la Convention.
La Cour incline à souscrire à l’argument des
Gouvernements selon lequel le texte de
l’article 1 ne s’accomode pas d’une telle
conception de la notion de « juridiction ».
Certes, les requérants admettent que
pareille « juridiction » et la
responsabilité au regard de la Convention
qui en découlerait pour l’Etat concerné se
limiteraient aux circonstances ayant entouré
l’accomplissement de l’acte et aux
conséquences de celui-ci. La Cour estime
toutefois que le texte de l’article 1
n’offre aucun appui à l’argument des
requérants selon lequel l’obligation
positive que fait cette disposition aux
Etats contractants de reconnaître « les
droits et libertés définis au titre I de la
(...) Convention » peut être fractionnée et
adaptée en fonction des circonstances
particulières de l’acte extraterritorial en
cause. Elle considère au demeurant que la
même conclusion découle du texte de
l’article 19 de la Convention. De surcroît,
la thèse des requérants n’explique pas
l’emploi des termes « relevant de leur
juridiction » qui figurent à l’article 1 et
va même jusqu’à rendre ceux-ci superflus et
dénués de toute finalité. Du reste, si les
auteurs de la Convention avaient voulu
assurer une juridiction aussi extensive que
ne le préconisent les requérants, ils
auraient pu adopter un texte identique ou
analogue à celui, contemporain, des articles
1 des quatre Conventions de Genève de 1949
(paragraphe 25 ci-dessus).
Par ailleurs, l’interprétation donnée par
les requérants de la notion de juridiction
revient à confondre la question de savoir si
un individu « relève de la juridiction »
d’un Etat contractant et celle de savoir si
l’intéressé peut être réputé victime d’une
violation de droits garantis par la
Convention. Or il s’agit là de conditions de
recevabilité séparées et distinctes devant
chacune être remplie, dans l’ordre précité,
pour qu’un individu puisse invoquer les
dispositions de la Convention à l’encontre
d’un Etat contractant.
76. Deuxièmement, et à titre subsidiaire,
les requérants soutiennent que la portée
limitée à l’espace aérien du contrôle exercé
par les Etats contractants n’excluait pas
pour ces derniers l’obligation positive de
protéger les requérants, mais ne faisait que
circonscrire son étendue. La Cour considère
que cet argument est essentiellement le même
que celui avancé à titre principal et le
rejette pour les mêmes raisons.
77. Troisièmement, les requérants
développent un autre argument subsidiaire,
tiré d’une comparaison avec l’affaire
Soering précitée, en faveur de l’exercice de
leur juridiction par les Etats défendeurs.
La Cour juge cet argument peu convaincant,
compte tenu des différences fondamentales
déjà relevées entre l’affaire Soering et la
présente espèce (paragraphe 68 ci-dessus).
78. Quatrièmement, la Cour ne juge pas
nécessaire de se prononcer sur le sens
précis à attribuer dans divers contextes aux
clauses présentées comme analogues relatives
à la notion de juridiction qui figurent dans
les instruments internationaux mentionnés
par les requérants, car les observations des
intéressés à cet égard (paragraphe 48
ci-dessus) n’emportent pas sa conviction.
Elle relève que l’article 2 de la
Déclaration américaine des Droits et des
Devoirs de l’Homme adoptée en 1948 et
mentionné dans le rapport Coard précité de
la Commission interaméricaine des droits de
l’homme (paragraphe 23 ci-dessus) ne
comporte aucune limitation explicite de
juridiction. Par ailleurs, pour ce qui est
de l’article 2 § 1 du Pacte de 1966
(paragraphe 26 ci-dessus), dès 1950 les
auteurs de l’instrument avaient
définitivement et expressément limité sa
portée territoriale, et l’on peut
difficilement soutenir qu’une reconnaissance
exceptionnelle par le Comité des droits de
l’homme des Nations unies de certains cas de
juridiction extraterritoriale (dont les
requérants ne fournissent au demeurant qu’un
seul exemple) soit de nature à battre en
brèche la portée explicitement territoriale
conférée à la notion de juridiction par
ledit article du Pacte de 1966 ou à
expliquer le sens précis devant être
attribué à la notion de « juridiction »
figurant à l’article 1 du Protocole
facultatif de 1966 (paragraphe 27
ci-dessus). Si le texte de l’article 1 de la
Convention américaine des droits de l’homme
de 1978 (paragraphe 24 ci-dessus) comporte
une condition de juridiction analogue à
celle figurant à l’article 1 de la
Convention européenne, les requérants n’ont
produit devant la Cour aucune jurisprudence
pertinente concernant son interprétation.
79. Cinquièmement, et de façon plus
générale, les requérants soutiennent qu’une
décision affirmant qu’ils ne relevaient pas
de la juridiction des Etats défendeurs irait
à l’encontre de la mission d’ordre public
impartie à la Convention et laisserait une
lacune regrettable dans le système de
protection des droits de l’homme institué
par la Convention.
80. L’obligation de la Cour à cet égard
consiste à tenir compte de la nature
particulière de la Convention, instrument
constitutionnel d’un ordre public européen
pour la protection des êtres humains, et son
rôle, tel qu’il se dégage de l’article 19 de
la Convention, est d’assurer le respect par
les Parties contractantes des engagements
souscrits par elles (arrêt Loizidou
(exceptions préliminaires) précité, § 93).
Aussi peut-on difficilement prétendre qu’une
décision refusant d’admettre la juridiction
extraterritoriale des Etats défendeurs
méconnaîtrait l’objectif d’ordre public de
la Convention, lequel souligne lui-même la
vocation essentiellement régionale du
système de la Convention, ou l’article 19 de
celle-ci, qui ne fournit pas un éclairage
particulier du champ d’application
territorial dudit système.
Certes, en adoptant son arrêt Chypre c.
Turquie précité, la Cour a eu conscience de
la nécessité d’éviter une « lacune
regrettable dans le système de protection
des droits de l’homme » (§ 78) dans la
partie nord de Chypre. Toutefois, les
Gouvernements l’ont d’ailleurs relevé, cette
observation se rapportait à une situation
entièrement différente de celle incriminée
en l’espèce. Les habitants de la partie nord
de Chypre se seraient en effet trouvés
exclus, du fait du « contrôle effectif »
exercé par la Turquie sur le territoire
concerné et de l’impossibilité concomitante
pour le gouvernement de Chypre, Etat
contractant, de satisfaire aux obligations
résultant pour lui de la Convention, du
bénéfice des garanties et du système
résultant de celle-ci qui leur avait
jusque-là été assuré.
En résumé, la Convention est un traité
multilatéral opérant, sous réserve de son
article 56 , dans un contexte
essentiellement régional, et plus
particulièrement dans l’espace juridique des
Etats contractants, dont il est clair que la
RFY ne relève pas. Elle n’a donc pas
vocation à s’appliquer partout dans le
monde, même à l’égard du comportement des
Etats contractants. Aussi la Cour n’a-t-elle
jusqu’ici invoqué l’intérêt d’éviter de
laisser des lacunes ou des solutions de
continuité dans la protection des droits de
l’homme pour établir la juridiction d’un
Etat contractant que dans des cas où,
n’eussent été les circonstances spéciales
s’y rencontrant, le territoire concerné
aurait normalement été couvert par la
Convention.
81. Enfin, les requérants se réfèrent, en
particulier, aux décisions sur la
recevabilité des affaires Issa et Öcalan
précitées, adoptées par la Cour. Il est vrai
que la Cour a déclaré ces deux affaires
recevables et que celles-ci comportent
certains griefs relatifs à des actions
qu’auraient commises des agents turcs en
dehors du territoire de la Turquie. En
revanche, ni dans l’une ni dans l’autre la
question de la juridiction n’a été soulevée
par le gouvernement défendeur ou examinée
par la Cour, et en tout état de cause le
fond de ces affaires demeure à trancher. De
même, on ne trouve trace d’aucune exception
se rapportant à la notion de juridiction
dans la décision d’irrecevabilité de
l’affaire Xhavara (précitée), à laquelle les
requérants se réfèrent également. Quoi qu’il
en soit, les requérants en l’occurrence ne
contestent pas les éléments de preuve
fournis par les Gouvernements concernant le
partage, en vertu d’un accord écrit
préalable, de la juridiction entre l’Albanie
et l’Italie dans ladite espèce. Quant à
l’affaire Ilascu, également invoquée par les
requérants et citée ci-dessus, elle a trait
à des allégations aux termes desquelles les
forces russes contrôlent une partie du
territoire de la Moldova, question qui devra
être tranchée définitivement lors de
l’examen au fond de la cause. Dans ces
conditions, les affaires précitées ne
fournissent aucun appui à l’interprétation
préconisée par les requérants de la
juridiction des Etats contractants, au sens
de l’article 1 de la Convention.
4. Conclusion de la Cour
82. Compte tenu de ce qui précède, la Cour
n’est pas persuadée de l’existence d’un lien
juridictionnel entre les personnes ayant été
victimes de l’acte incriminé et les Etats
défendeurs. En conséquence, elle estime que
les requérants n’ont pas démontré
qu’eux-mêmes et leurs proches décédés
étaient susceptibles de « relever de la
juridiction » des Etats défendeurs du fait
de l’acte extraterritorial en cause.
B. Autres questions de recevabilité
83. Eu égard à sa conclusion ci-dessus, la
Cour considère qu’il ne s’impose pas
d’examiner les autres observations des
parties sur la recevabilité de la requête.
Les questions qui s’y trouvaient abordées se
rapportaient à la possibilité d’engager la
responsabilité solidaire des Etats
défendeurs pour un acte accompli par une
organisation internationale dont ils sont
membres, à l’épuisement des voies de recours
internes au sens de l’article 35 § 1 de la
Convention, et à la compétence de la Cour
pour examiner l’affaire, compte tenu des
principes établis par l’arrêt Or monétaire
précité de la CIJ.
C. Résumé et conclusion
84. En résumé, la Cour conclut que l’action
incriminée des Etats défendeurs n’engage pas
la responsabilité de ceux-ci au regard de la
Convention et qu’en conséquence il ne
s’impose pas d’examiner les autres questions
de recevabilité soulevées par les parties.
85. La requête doit dès lors être déclarée
incompatible avec les dispositions de la
Convention et, partant, irrecevable,
conformément à l’article 35 §§ 3 et 4 de la
Convention.
Par ces motifs, la Cour, à l’unanimité,
Déclare la requête irrecevable.
Paul MAHONEY Luzius WILDHABER
Greffier Président
|
4. SULLA DENUNCIA
ALLA MAGISTRATURA TEDESCA
PER I 10
MORTI E 30 FERITI DI VARVARIN
|
Varvarin: licenza di uccidere
(a cura del CNJ)
La Corte di Appello di Colonia ha rigettato ieri
l'istanza dei parenti
delle vittime e dei sopravvissuti al raid NATO
sul paesino serbo di
Varvarin contro il governo federale tedesco.
Nel bombardamento del ponte a Varvarin, il 30
maggio 1999, dieci
persone rimasero uccise, 17 riportarono ferite
gravi e altre 30
rimasero ferite lievemente. Il ponte non era un
obbiettivo militare.
Gli aerei Nato lo colpirono in due attacchi
consecutivi; la
maggiorparte delle vittime furono abitanti
accorsi per soccorrere i
feriti del primo raid.
Furono centinaia, d'altronde, gli obbiettivi
civili colpiti, e circa
1500 le vittime civili di quella aggressione
criminale della quale si
resero corresponsabili i governi europei di
"centrosinistra".
La decisione della Corte di Appello di Colonia
rappresenta l'ennesimo
penoso tentativo di insabbiare le cause
intentate contro la NATO per
la aggressione del 1999. Tutte le altre denunce,
presentate a numerose
istanze - di vari paesi o sovranazionali - sui
crimini di guerra della
Nato in Jugoslavia sono state già bloccate per
"ragion di Stato",
comprese quelle italiane, e quella presentata
dalla Jugoslavia alla
Corte Internazionale dell'Aia (vedi
sopra).
Tuttavia, come è spiegato nella intervista ad
uno degli avvocati
tedeschi che difendono la parte offesa, la causa
per Varvarin verrà
portata alle istanze superiori. Perciò, le
vittime di Varvarin hanno
tuttora urgente bisogno del nostro sostegno. Per
contribuire, si puo'
versare sul
conto tedesco:
Vereinigung deutscher
Juristen,
Berliner Sparkasse,
BLZ 100 500 00,
Kto.: 33 52 20 14
Sulla causa intentata in Germania per il
bombardamento di Varvarin si
veda anche, ad esempio:
IL SITO INTERNET DEL COMITATO TEDESCO CHE
SOSTIENE LA CAUSA:
German court rejects Serbs' appeal over 1999
bridge bombing (AFP) / Deutsches Gericht
wies serbische Klage wegen NATO-Bombenkrieg
1999 erneut ab / Ergänzende
Ausführungen zu den die gesamtschuldnerische
Haftung begründenden Tatsachen...
(Annotazioni aggiunte alla Memoria d'Appello,
giugno 2005)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4512
Varvarin-Klage:
Kostenknebel
aus Berlin (26 Ott 2004)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3942
NATO-Kriegsopfer
klagen gegen die Bundesrepublik Deutschland
(Memoria d'appello per la Corte Suprema di
Colonia, 3/9/2004)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3770
Projekt
"NATO-Kriegsopfer klagen auf Schadenersatz"
(13 Feb 2004)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3192
Varvarin
citizens to appeal to Higher Court in Cologne
(19/12/2003)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3037
Varvarin/Germania:
sancito
il diritto di ammazzare i civili ?
(11/12/2003)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3009
Varvarin-Bürger
gegen
Deutschland (9 Dic 2003)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3000
Varvarin
30/5/1999 (30 Ott 2003)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2910
Primo processo
per i raid del 1999 (16 Ott 2003)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2867
Varvarin "pictures" here:
http://web.archive.org/web/20041009153546/www.sramota.com/nato/varvarin/
(WARNING: SOME PICTURES ARE VERY GRAPHIC AND
DISTURBING!!!)
nonche' larga parte del libro di Jürgen Elsässer
Kriegslügen
("Menzogne di guerra"), specialmente
nell'edizione aggiornata tedesca (2004):
https://www.cnj.it/documentazione/sanja.htm
(L'ultimo
giorno di Sanja - Cosa racconterebbe della
guerra una una ragazza serba perita nel
bombardamento di Varvarin)
|
5. IL "TRIBUNALE
AD HOC" DELL'AIA
INSABBIA
TUTTE LE DENUNCE CONTRO LA NATO
|
http://www.pasti.org/denlaia.html
|
6. UNITED STATES USE PAST
CRIMES TO LEGALIZE FUTURE ONES
|
US Uses Past Crimes
to Legalize Future Ones
by DIANA
JOHNSTONE in Paris
The liberal warhawks are groping
around for a pretext they can call “legal”
for waging war against Syria, and have come
up with the 1999 “Kosovo war”.
This is not surprising insofar as a
primary purpose of that US/NATO 78-day
bombing spree was always to set a precedent
for more such wars. The pretext of
“saving the Kosovars” from an imaginary
“genocide” was as false as the “weapons of
mass destruction” pretext for war against
Iraq, but the fakery has been much more
successful with the general public.
Therefore Kosovo retains its usefulness in
the propaganda arsenal.
On August 24, the New York Times
reported that President Obama’s national
security aides are “studying
the NATO air war in Kosovo as a
possible blueprint for acting without a
mandate from the United Nations.” (By the
way, the “air war” was not “in Kosovo”, but
struck the whole of what was then
Yugoslavia, mostly destroying Serbia’s
civilian infrastructure and also spreading
destruction in Montenegro.)
On Friday, Obama admitted that going
in and attacking another country “without a
U.N. mandate and without clear evidence”
raised questions in terms of international
law.
According to the New York Times,
“Kosovo is an obvious precedent for Mr.
Obama because, as in Syria, civilians were
killed and Russia had longstanding ties to
the government authorities accused of the
abuses. In 1999, President Bill Clinton used
the endorsement of NATO and the rationale of
protecting a vulnerable population to
justify 78 days of airstrikes.”
“It’s a step too far to say we’re
drawing up legal justifications for an
action, given that the president hasn’t made
a decision,” said a senior administration
official, who spoke on the condition of
anonymity to discuss the
deliberations. “But Kosovo, of course,
is a precedent of something that is perhaps
similar.”
Ivo H. Daalder, a former United States
ambassador to NATO, suggests that the
administration could argue that the use of
chemical weapons in Syria amounts to a grave
humanitarian emergency, just as the Clinton
administration argued in 1999 that “a grave
humanitarian emergency” presented the
“international community” with “the
responsibility to act”.
This amounts to creative legality
worthy of the planet’s number one Rogue
State.
An Illegal War as Precedent for
More War
The US/NATO war against Yugoslavia,
which used unilateral force to break up a
sovereign state, detaching the historic
Serbian province of Kosovo and transforming
it into a US satellite, was clearly in
violation of international law.
In May 2000, the distinguished British
authority on international law, Sir Ian
Brownlie (1936-2010), presented a 16,000-word
Memorandum, evaluating the war’s legal
status for the Select Committee on Foreign
Affairs of the British Parliament.
Brownlie recalled that key provisions
of the United Nations Charter state quite
clearly that “All Members shall refrain in
their international relations from the
threat or use of force against the
territorial integrity or political
independence of any State, or in any other
manner inconsistent with the Purposes of the
United Nations.”
Brownlie added that the alleged right
to use force for humanitarian purposes was
not compatible with the UN Charter.
During the past decade, the Western
powers have invented and promoted a
theoretical “right to protect” (R2P) in an
effort to get around the UN Charter in order
to clear the way for wars whose final
purpose is regime change. The use of R2P to
overthrow Gaddafi in Libya gave the game
away, ensuring Russian and Chinese
opposition for any further such manoeuvre in
the UN Security Council.
Concerning the Kosovo war, in his
Memorandum Professor Brownlie reached the
following major conclusions:
- The primary justification for
the bombing of Yugoslavia was always the
imposition of the NATO plans for the
future of Kosovo. It was in this context
that the bombing campaign was planned in
August 1998.
– The threats of massive
air strikes were made in the same context
and were first made public in October
1998. Neither the purpose of the planned
air strikes nor their implementation
related to events on the ground in Kosovo
in March 1999.
– The cause of the air
strikes was quite simple: given that
Yugoslavia had not given in to threats,
the threats had to be carried out.
– The legal basis of the
action, as presented by the United Kingdom
and other NATO States, was at no stage
adequately articulated.
– Humanitarian
intervention, the justification belatedly
advanced by the NATO States, has no place
either in the United Nations Charter or in
customary international law.
– If the view had been held that the
Permanent Members of the Security Council
would recognise the need for humanitarian
action, then no doubt a resolution would
have been sought.
– The intentions of the United
States and the United Kingdom included the
removal of the Government of Yugoslavia.
It is impossible to reconcile such
purposes with humanitarian intervention.
– The claim to be acting on
humanitarian grounds appears difficult to
reconcile with the disproportionate amount
of violence involved in the use of heavy
ordnance and missiles. The weapons had
extensive blast effects and the missiles
had an incendiary element. A high
proportion of targets were in towns and
cities. Many of the victims were women and
children. After seven weeks of the bombing
at least 1,200 civilians had been killed
and 4,500 injured.
– In spite of the
references to the need for a peaceful
solution to be found in Security Council
Resolutions, the public statements of Mrs
Albright, Mr Cook, Mr Holbrooke, and
others, and the reiterated threats of
massive air strikes, make it very clear
that no ordinary diplomacy was envisaged.
The “Kosovo treatment”
As a final synopsis, Brownlie wrote a
prophetic note on future use of “the Kosovo
treatment”:
“The writer has contacts with a
great number of diplomats and lawyers of
different nationalities. The reaction to
the NATO bombing campaign outside Europe
and North America has been generally
hostile. Most States have problems of
separatism and could, on a selective
basis, be the objects of Western ‘crisis
management’. The selection of crises for
the ‘Kosovo’ treatment will depend upon
the geopolitical and collateral agenda. It
is on this basis, and not a humanitarian
agenda, that Yugoslavia is marked out for
fragmentation on a racial basis, whilst
Russia and Indonesia are not.”
He added: “Forcible intervention to
serve humanitarian objectives is a claim
which is only open to powerful States to
make against the less powerful. The fate of
Yugoslavia will have caused considerable
damage to the cause of
non-proliferation of weapons of mass
destruction.”
The Brownlie Memorandum to the British
Parliament is the most thorough assessment
of the legal status of the Kosovo War.
It is quite remarkable that the liberal
warhawks around Obama talk of using that war
as a “legal precedent” for a new war against
Syria.
This amounts to saying that a crime
committed once becomes a “precedent” to
justify the crime being committed the next
time.
How Many Times Can You Fool
Most of the People?
If understood correctly, the Kosovo
war was indeed a precedent that should act
as a warning signal.
How many times can the United States
use a false alarm to start an aggressive
war? Non-existent “genocide” in Kosovo
and Libya, non-existent weapons of mass
destruction in Iraq, and now what looks to
much of the world like a “false flag”
chemical weapons attack in Syria.
The United States habitually announces
the presence of a desired casus belli,
dismissing demands for concrete evidence.
In Kosovo, the United States obtained
withdrawal of international observers who
could have testified whether or not there
was evidence of “genocide” of
Kosovars. The accusations escalated
during the war, and when, afterwards, no
evidence of such mass murder was found, the
matter was forgotten.
In Iraq, there was never any proof of
WMD, but the US went ahead and invaded.
In Libya, the pretext for war was a
misquoted statement of Gaddafi threatening a
“massacre of civilians” in Benghazi.
This was exposed as a fake, but again, NATO
bombed, the regime was toppled, and the
pretext falls into oblivion.
Sunday, just as the Syrian government
announced readiness to allow international
inspectors to investigate allegations of
chemical weapons use, the White House
responded, “too late!”
A senior Obama administration official
demanding anonymity (one can reasonably
guess the official was Obama’s hawkish
National Security Advisor Susan Rice) issued
a statement claiming that there was “very
little doubt” that President Bashar
al-Assad’s military forces had used chemical
weapons against civilians and that a promise
to allow United Nations inspectors access to
the site was “too late to be credible.”
In the world beyond the beltway, there
is a great deal of doubt – especially about
the credibility of the United States
government when it comes to finding pretexts
to go to war. Moreover, setting
“chemical weapons” as a “red line” obliging
the US to go to war is totally
arbitrary. There are many ways of
killing people in a civil war.
Selecting one as a trigger for US
intervention serves primarily to give rebels
an excellent reason to carry out a “false
flag” operation that will bring NATO into
the war they are losing.
Who really wants or needs US
intervention? The American
people? What good will it do them to
get involved in yet another endless Middle
East war?
But who has influence on Obama?
The American people? Or is it rather
“our staunchest ally”, who is most concerned
about rearranging the Middle East
neighborhood?
“This situation must not be allowed to
continue,” Prime Minister Benjamin Netanyahu
said, expressing remarkable concern for
Syrian civilians “who were so brutally
attacked by weapons of mass destruction.”
“The most dangerous regimes in the
world must not be allowed to possess the
most dangerous weapons in the world,”
Netanyahu added.
Incidentally, polls have been taken
showing that for much of the world, the most
dangerous regime in the world is Israel,
which is allowed to possess the most
dangerous weapons – nuclear weapons.
But there is no chance that Israel will ever
get “the Kosovo treatment”.
DIANA JOHNSTONE is
the author of Fools
Crusade: Yugoslavia, NATO and Western
Delusions.
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