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Milena
Gabanelli a Vukovar
Il
testo che segue, della nota
giornalista d'inchiesta Milena
Gabanelli, è stato pubblicato
sul libro di Marco
Guidi "La sconfitta dei
media" (Bologna, ed.
Baskerville)
nell'ormai lontano 1993. Esso
contiene una testimonianza
diretta doppiamente
sconvolgente: da un lato, la
Gabanelli fu testimone di
crimini gravissimi commessi dai
secessionisti croati a Vukovar
agli inizi della guerra
fratricida; dall'altro lato, non
appena ne riferì, la giornalista
fu oggetto di un vero e proprio
linciaggio professionale da
parte di quei settori,
soprattutto legati al Vaticano,
che in Italia fomentavano il
secessionismo croato e perciò
imposero, "con le buone o con le
cattive", che tutta la vicenda
fosse screditata e nascosta. E'
noto che la giornalista ha poi
passato un lungo periodo di
"oscuramento" mediatico e da
allora ha limitato la sua
attività alle questioni interne
italiane (si veda l'ottima
trasmissione "Report"
attualmente condotta).
A Vukovar e
ritorno
Giovedì 14
novembre 1991, Giovanni Minoli mi chiede di
andare a Belgrado. Vorrebbe un pezzo sul
conflitto serbo-croato visto dalla parte dei
serbi. "Vanno tutti a Zagabria", mi dice
"perché non tentiamo di vedere cosa succede
sull'altro fronte?". Faccio un rapido conto di
tutti i cronisti che in pochi mesi sono stati
direttamente rimpatriati per degna sepoltura e
mi chiedo "ma perché proprio io?", poi la
risposta che mi do è quella che più mi
conviene, cioè quella di avergli dimostrato di
sapermi destreggiare rapidamente in Paesi a
regime comunista e in situazioni piuttosto
complesse, come la Cina, il Vietnam e la
Cambogia. Mi invita ad essere cauta e a non
espormi troppo "raccogli materiale alla TV di
Belgrado e se valuti di avere sufficienti
garanzie di protezione, raccogli qualche
testimonianza dal fronte". La partenza è
prevista per sabato 16. Verso l'est europeo
non ho mai nutrito particolare curiosità e le
faccende della Jugoslavia non erano il mio
punto di interesse. Semplicemente non le
capivo. Tutto quello che sapevo proveniva
dalla cronaca dei giornali o dai servizi
televisivi: pochi, confusi, con un dato chiaro
— la Comunità europea permette la
frammentazione della Federazione jugoslava, la
Croazia vuole l'indipendenza, e la Serbia ha
attaccato. Con la riluttanza di chi deve
bussare alla porta dell'aggressore, mi leggo
240 pagine di rassegna stampa. Cronache e
analisi troppo ravvicinate per capire
l'insieme. Passo un pomeriggio a conversare
con un professore di origine polacca
dell'Università di Udine, esperto di storia
dei popoli slavi, Richard Lewanski. Lui è
filo-niente, semplicemente uno storico puro e
ne ricavo una grande lezione sulla
composizione etnica di quello strano Paese,
con origini, conseguenze, fatti e dati.
Quando sbarco
a Belgrado mi intoppo nella burocrazia
comunista: niente permessi, tempi lunghissimi
per accedere agli archivi della TV, problemi
per avere una troupe. Aggiro l'ostacolo
facendo un salto nel bar dove vengono
reclutati i volontari. Belgrado è una città
tranquilla che non dà segni di tensione, e i
ragazzotti in tuta mimetica, che si aggirano
fra le coppiette sedute ai tavolini del famoso
bar, con mitragliatore e corredo di pistole
infilati nel cinturone, mi sembrano
francamente degli esaltati che giocano alla
guerra. In mezzo a loro c'è il comandante
Arkan, un tipo con la faccia più da barista
che da guerriero, nonostante il suo torbido
passato. Gli chiedo notizie su Vukovar
(secondo la stampa italiana del giorno era
caduta in mano ai serbi), lui mi dice che ci
sono 2000 civili in ostaggio degli "ustascia"
dentro una fabbrica di scarpe e che la
situazione laggiù andrebbe vista per essere
capita. Mi offrono un passaggio per il campo
base di Erdut (20 Km. da Vukovar). E'
mezzanotte e parto così come sono, con una
video8 male equipaggiata (solo un paio di
batterie e cassette) e una giacca a vento
bianca (!), ma è meglio di niente. Mentre la
jeep con il suo carico di soldati e un prete
ortodosso viaggia verso Vukovar, mi compiaccio
della mia rapida scelta: all'indomani girerò
qualcosa mentre partono per il fronte, un paio
di interviste ai soldati, altre due in un
campo profughi, in serata di ritorno a
Belgrado e la faccenda è chiusa. Quando
imbocchiamo la statale in direzione di
Vukovar, nei villaggi non c'è più luce e
cominciano i posti di blocco; i federali
vogliono vedere il mio permesso, ma la parola
di Arkan sembra valere come un timbro
ufficiale. Alle 3 mi dà un cuscino e una
coperta. I tonfi sordi dei cannoni, a poca
distanza dal campo base, non hanno su di me un
effetto rilassante e quando alle 5 Arkan mi
sveglia, l'occhio era ancora sbarrato. "Si va
al fronte, se non hai paura puoi venire, a
patto che tu stia dove c'è il centro di
raccolta profughi e non ti metta a girare da
sola come un'idiota". Tira un'aria decisamente
diversa da quella di Belgrado e non mi
entusiasma l'idea di muovermi di lì, ma
l'orgoglio professionale supera la
ragionevolezza. La strada taglia in due la
pianura infinita della Krajina, ora seminata a
cannoni e cani armati.
"Lo sai che da
10 anni è in corso una trattativa con la
Germania per la costruzione di una centrale
nucleare tedesca proprio qui" mi dice Arkan.
"No, non lo so". "Allora informati!". Quando
compaiono le prime case mi sembra di entrare
nella memoria dei racconti di mia madre dei
bombardamenti a Milano. "Voi avete fatto tutto
questo?" chiedo ad Arkan. E lui mi risponde
"Chi ha distrutto Anzio? Categoria infame,
pensate sempre che la guerra si combatta su un
fronte solo?". Mi scarica alle 6 del mattino
in un quartiere di Vukovar (Borovo) e lì passo
tutta la giornata su una strada fangosa, al
freddo, insieme a una quarantina di soldati.
Ogni tanto un camion scarica vecchi, 20, 30
per volta. Sono serbi e croati. Si ammassano
in una delle tante case sulla quale si è
abbattuta una punizione troppo grande per
essere umana. Quando ci piombano addosso i
colpi di mortaio, i soldati mi trascinano in
un scantinato che normalmente usano come
latrina. Ci rimaniamo 4 ore. Nel pomeriggio
arriva l'autobus della stampa, scendono i
cronisti, si mescolano ai profughi, registrano
il loro "stand-up" e 10 minuti dopo se ne
vanno. Vorrei andarmene anche io, ma senza il
famoso permesso non si sale; così non posso
fare altro che aspettare la sera, quando Arkan
mi riporterà al campo base. Non ho mangiato,
non ho bevuto, ho contato 25 camion che
caricavano e scaricavano un'umanità trovata
nascosta in qualche scantinato chissà da
quanto tempo. Gente che non aveva nessuna
voglia di schierarsi da una parte o
dall'altra. Qualcuno mi mostra la sua vita:
tutta dentro un sacchetto di plastica, un
maglione, un cappotto, una mela. Come un
indumento delicato passato attraverso l'alta
temperatura di una centrifuga. Attorno alla
fabbrica di scarpe si continua a sparare
ferocemente, mentre dentro ci sono ostaggi sia
serbi che croati. Quella sera nessuno torna a
Belgrado, e il giorno dopo, replica. Un uomo
viene accompagnato dentro un'ambulanza
militare. Bisogna identificare un corpo
decapitato e mutilato. E' suo figlio. Penso
che mi infilerò a tutti i costi nell'autobus
della stampa, che corromperò qualcuno, che me
ne voglio andare. Ma quel giorno l'autobus non
arriva. E di nuovo nessuna jeep va a Belgrado.
Il 19 non è giornata di fronte. Seguo Arkan in
un giro di routine: visite in ospedale ai suoi
soldati feriti, torturati e a civili senza più
famiglia che mi raccontano di essere
sopravvissuti ai più efferati massacri. In un
paese fra Novi Sad e Vukovar, Arkan si ferma
ad una stazione radio; è considerato un idolo,
ed ha un collegamento diretto con gli
ascoltatori. Non mi pare che quel genere di
"fan" meriti particolare attenzione, e vado a
farmi un giro per le strade. Entro in uno
stanzone dove una lunga coda di persone
attende qualcosa, l'assistente sociale mostra
un elenco: "Solo nomi, niente cognomi; non
vogliamo sapere se siano serbi o croati, ma
solo trovargli una sistemazione, perché non
hanno più nulla!". Verso le 4 del pomeriggio
si ritorna ad Erdut, e da lì finalmente a
Belgrado. Ad un posto di blocco Arkan viene
informato di un massacro di bambini a Borovo
Naselje. Mi chiede se me la sento di filmarli.
Durante il tragitto gli dico che preferirei
parlare con qualche prigioniero, poiché scene
di massacri ne abbiamo viste già troppe. In
realtà vorrei evitare di vedere. Chissà quanti
cronisti durante la giornata saranno già
passati di là e le immagini saranno comunque
reperibili. Durante il tragitto, interrotto da
controlli di prigionieri, posti di blocco,
cambi di jeep il mio pensiero è paralizzato.
Non sto guardando la guerra da una prospettiva
ampia, ci sono dentro e non posso
allontanarmi. Un gruppo di volontari non ha
cambiato la fascia di riconoscimento sulla
divisa e si sono sparati addosso con i soldati
federali. Arkan urla come un pazzo. Troppi
profughi nelle strade, troppi arresti. Bisogna
uscire rapidamente dalla jeep perché ci stanno
sparando addosso dalle case. I soldati si
riparano correndo da un muro all'altro, da un
camion a un carro armato, loro mi spingono e
io li seguo di corsa con la faccia a terra;
dalle finestre delle case sventrate sparano in
tutte le direzioni e noi stiamo in mezzo. Loro
hanno il giubbotto antiproiettile e io una
giacca a vento bianca che con il buio sembra
un bersaglio. Do una cassetta ad un militare
con la telecamera a tracolla e gli chiedo di
girare qualcosa per me. Non sono un cameraman
di guerra io, e la sola cosa che mi interessa
è di riportarmi a casa la pelle e ho paura di
doverla lasciare li per terra, dove i tre che
tentano di farmi scudo mi buttano. Faccia
contro il muro. Uno di loro mi indica di
seguirlo strisciando lungo la parete. Qualche
metro e un piccolo volto mi balza negli occhi.
Accanto a lui altri, buttati lì come cose
senza significato. I piccoli senza vita
sembrano ancora più piccoli. Lo stomaco si
ribella e le gambe si piegano sotto al terrore
dei proiettili che bucano il muro sopra la mia
testa. Devo filmare. Tre operazioni: togliere
il tappo, camera, standby, pulsante rosso.
Impiego troppo tempo e delle braccia mi
trascinano via, dentro un trasporto truppe
pieno di prigionieri. Vedo Arkan, che mi dice:
"Devi andare con loro, perché poi li
consegnamo ai federali " ma non c'è posto e i
soldati mi spingono fuori. Lui mi pigia dentro
e il portellone si chiude.
Il trasporto
blindato parte velocemente, sbandando sul
fango e io non ho appoggi e sbatto la testa e
le ginocchia contro il ferro. Un tragitto di
un'ora senza un pensiero, solamente l'attesa
di un'esplosione improvvisa e una vampata di
fuoco. Al campo base dei soldati mi dicono che
ogni notte pregano Dio perché non li risvegli
più. lo penso a mia figlia di 7 anni e a
quelle madri a cui la pietà divina ha forse
risparmiato l'orrore portandosele via prima.
Non ho avuto il tempo di mettere nessuna
protezione su quella parte fragile che vive
candidamente in tutti gli uomini e così
l'insopportabile è penetrato senza ostacoli.
Piango come solo una madre può fare. Vorrei
parlare con mio marito, ma mi sembra una
crudeltà inutile. Telefono a Minoli, gli
racconto la giornata e mi scuso per non essere
stata in grado di fare il mio Iavoro, per aver
scelto male stavolta il suo inviato. Al
contrario di quel che si pensa di lui, mi ha
pregato di non tornare più a Vukovar, che non
gliene importava nulla e che un altro forse si
sarebbe fermato a Belgrado. All'alba del
giorno 20 chiedo se mi danno una scorta per
ritornare sul luogo della sera prima. Arriva
una jeep con una prigioniera, mi dicono che ha
ammazzato una decina di persone con l'aiuto
del fidanzato. Le chiedo perché, e lei mi
risponde che il prete della sua parrocchia,
durante la messa diceva sempre che appena la
guerra sarebbe esplosa bisognava fare fuori i
serbi. Sul luogo della sera prima non c'è più
traccia dei bambini, l'esercito federale li ha
portati via durante la notte. La storia di
Vukovar è finita e quello che ha lasciato nei
cortili, dentro ai forni delle cucine o
attaccato ai pali della luce non è altro che
l'impronta della guerra: una condizione nella
quale nessuno si fa del bene. Anche se i
nostri focolari si spaventano e ci persuadono
della barbarie dell'Altro. Il 19/20/21
novembre l'Ufficio Informazione del Ministero
della Difesa di Belgrado aveva bloccato i
permessi di accesso a Vukovar e Borovo a tutti
i cronisti. Il 21 novembre leggo in aeroporto
la notizia del massacro. La fonte è l'agenzia
Reuters. Qualche ora dopo, quando arrivo a
Roma, è già stata diramata la smentita. Quale
comportamento occorre adottare quando hai
visto qualcosa che le fonti ufficiali
smentiscono? Quando non hai prove e neppure
autorevolezza? Io ho seguito, con convinzione,
le indicazioni del Direttore della testata per
cui stavo lavorando. Minoli non ha appreso la
notizia dai giornali, ma due giorni prima da
me, e il mio rapporto di collaborazione con
Mixer non è mai sconfinato in eccessi. Ho
fatto la cronaca del mio viaggio "casuale"
(Mixer 2/12/91) e montato le interviste
raccolte senza l'asetticità dell'inviato che
morde e fugge, poiché la mia condizione era
diversa. Il mio compito era chiaro e
dichiarato in apertura di trasmissione "dalla
parte dei serbi". Ero con i volontari serbi
perché era il solo modo di arrivare in quei
luoghi in quei giorni. Ho vissuto il loro
odio, le loro paure, ho visto lo strazio di
civili che hanno subito scelte senza
condividerle, e ho cercato di esprimere tutto
questo. In guerra anche i bambini muoiono, ma
su quei corpi si era accanita una volontà
precisa. Con quale coscienza avrei potuto
ignorarlo? Ho avuto la percezione, solo la
percezione, mai la certezza, che si trattasse
di bambini serbi e ho lasciato che si
intuisse. Non ho sposato nessuna causa, e
credo che sia onestamente azzardato farlo in
una guerra civile; ho solo seguito la linea
editoriale che, in quel caso, proponeva il
racconto di un'esperienza personale.
Da allora, e
per lungo tempo, sconosciuti hanno
subdolamente minacciato me e Minoli al
telefono, mentre in forma ufficiale le
Associazioni, e il Comitato Pro-Croazia, hanno
iniziato una campagna di protesta indirizzata
al Direttore e al Presidente della Rai e
presentato un esposto alla Commissione
Parlamentare di vigilanza sottolineando quanto
segue:
"... mai una
volta la Vostra "inviata" ha evidenziato la
verità dei fatti e cioè che Vukovar è stata
attaccata e distrutta e le popolazioni uccise
e deportate dall'esercito serbo e dai
sanguinari cetnici, violando la Convenzione di
Ginevra. Neanche il sig. Goebbels avrebbe
effettuato una così sfacciata manipolazione
delle notizie come invece avete inteso fare
Voi utilizzando una TV di Stato".
"... Dal punto
di vista dell'etica giornalistica la Gabanelli
ha fatto un pessimo servizio alla verità e
alla sua rete Tv. La giornalista afferma di
aver visto molti bambini sgozzati, ma non li
ha filmati, non li ha contati e soprattutto
non ha potuto verificare se si tratta di
bambini croati o serbi. Tuttavia ha lasciato
l'impressione che si tratti di bambini serbi.
Non si è premurata di verificare chi sia in
realtà il comandante "Arkan", un criminale. I
bambini di Borovo Naselje erano tutti
croati.... Disgustoso poi l'interrogatorio
della povera ragazza, dai cui occhi traspariva
il terrore di una prigioniera che attende dì
essere scannata e che recita una parte che le
è stata imposta. Dalla diocesi di Djakovo ci
giunge la conferma che non esiste alcun
sacerdote cattolico che risponde al nome detto
dalla prigioniera. Chiediamo rettifica a nome
dell'obiettività e dell'imparzialità".
"... per oltre
20 minuti mai una volta la Signora Milena
Gabanelli ha riferito il vero, Vukovar è una
città croata, attaccata e distrutta dai
guerriglieri serbi, e la popolazione uccisa e
deportata è di nazionalità croata".
Le suddette
contestazioni, il cui obbiettivo era quello di
ottenere una rettifica da pare del garante per
l'editoria, hanno certamente una legittimità.
Le persone che, in Italia, sostengono la causa
croata, difficilmente accettano che venga
messa in discussione l'innocenza del popolo
croato, cioè di tutti i croati, nessuno
escluso. Mi sembra inevitabile però fare un
paio di precisazioni: Vukovar è una città a
popolazione mista (secondo i croati a
maggioranza croata e per i serbi a maggioranza
serba), e tutto quello che ne consegue
(distruzioni, omicidi e deportazioni) ha
toccato entrambe le etnie. Io ero da parte
serba e quindi parlavo di loro, né più né meno
come i miei colleghi fanno quando si trovano
da parte croata (cosa che succede molto più
spesso). Non ho filmato il massacro. E a
questo punto è legittimo il dubbio, ma la
certezza mi sembra un po' azzardata, poiché io
ero là, mentre chi mi accusa si trovava in
Italia. Non li ho contati e non ho controllato
i documenti per verificarne la nazionalità, è
vero. Vorrei solo un altro esempio di collega
diligente che in una situazione analoga abbia
agito diversamente. Mi sembra opportuno
ricordare che la paternità degli eccidi viene
addebitata solamente al fronte opposto
rispetto a quello in cui l'inviato si trova.
Trattandosi di un terreno sul quale non è
facile muoversi da soli, è evidente che in
qualche modo la verità è sempre deformata. Io
ho parlato di "percezione" e non di certezza.
In altri casi (dal fronte croato) si parla
sempre di certezze. Non esistendo in Italia un
Comitato pro-Serbia, queste certezze non
vengono mai contestate. Per quel che riguarda
la prigioniera, io mi sono limitata a fare
"un'intervista", avvenuta senza essere
concordata con nessuno. La traduzione si è
rivelata fedele alle mie domande, quindi non
ho ragione di pensare che siano state fatte
delle pressioni in quella circostanza.
Comunque durante la trasmissione, dopo la
testimonianza della prigioniera, il filmato è
stato interrotto dalla seguente precisazione
di Minoli: "La signora fa affermazioni molto
pesanti, ma ricordiamoci di Moro, Cocciolone
ecc. Si tratta di una prigioniera e quindi
potrebbe sentirsi costretta a fare queste
affermazioni per tentare di salvarsi". E a
questo intervento io ho ribadito dicendo "la
sola cosa che si può dire è che in una
condizione di non libertà la prigioniera
sostiene che il prete Borislav Petrovic
incitava all'omicidio. Non possiamo dire che
questa sia in assoluto la verità".
La cronaca ci
ha mostrato in seguito e in varie occasioni un
serbo prigioniero dei musulmani, che
dichiarava di essersi a lungo allenato a
sgozzare maiali, prima di eseguire la pratica
su qualche decina di "nemici". Si è gridato
all'orrore, senza valutare la sua condizione
dì prigioniero.
Il 13 gennaio
1991, il garante per l'Editoria, Giuseppe
Santaniello, con una pronuncia di 13 pagine,
ordina alla Concessionaria per il servizio
radiotelevisivo la rettifica adducendo le
seguenti motivazioni:
"Appare
accoglibile la richiesta a che venga
rettificata l'affermazione che nell'ambito
delle ostilità del conflitto jugoslavo vi
sarebbe stata una strage di bambini, lasciando
intendere, dal contesto della trasmissione,
che i bambini fossero serbi e gli autori
dell'eccidio croati. La verità appare smentita
dalle deduzioni del Comitato Pro-Croazia e
dalle risultanze documentali, ivi comprese
notizie di cronaca di testate giornalistiche".
Però
nell'ordinanza del garante c'è un riscontro
interessante:
"Con
riferimento alla notizia secondo cui tal
sacerdote Borislav Petrovic avrebbe incitato
dal pulpito eccetera,... la Sacra
Congregazione per il Clero ha evidenziato le
seguenti circostanze: nello schematismo della
chiesa cattolica esiste un sacerdote di nome
Borislav Petrovic [1], ma a giudizio dei suoi
diretti Superiori, si tratta di un sacerdote
assai pio e assolutamente alieno da ogni forma
di fanatismo e nazionalismo. La notizia quindi
riportata dalla rubrica Mixer va rettificata
nel senso che non sussistono elementi
oggettivi, idonei a dimostrare le circostanze
dell'incitamento al massacro di serbi da parte
di tal sacerdote Borislav Petrovic".
Sul piatto
della bilancia pesano di più le deduzioni del
Comitato Pro-Croazia della mia testimonianza,
peraltro non supportata da alcunché. E'
evidente. Per quel che riguarda le notizie di
cronaca di testate giornalistiche, si basano
essenzialmente sulla notizia diffusa dalla
Reuters secondo la quale un fotografo
jugoslavo ha prima denunciato il massacro e in
seguito ha precisato: " Ho visto solo qualche
corpo di bambino che veniva messo nei sacchi
di plastica ".
Nessuno si è
preoccupato di andare a verificare sul posto,
tranne l'inviato del settimanale "Oggi",
Andrea Biavardi. Ma il suo pezzo, nel quale
venivano riportate testimonianze di
sopravvissuti che dichiaravano di essere a
conoscenza dell'eccidio, non è stato tenuto in
considerazione. Invece Andrea Biavardi mi ha
in seguito riferito di essere stato oggetto di
pesanti diffamazioni.
Per quel che
riguarda la testimonianza della prigioniera,
ho già detto che è stata fatta una
precisazione durante la trasmissione. Che
altro si pretendeva? Che l'intervista venisse
censurata perché alcuni argomenti
infastidiscono? E' sufficiente l'opinione dei
diretti Superiori del sacerdote per ordinare
una rettifica? Evidentemente sì. I colleghi,
ad esclusione del Corriere della Sera e di
Repubblica non hanno perso l'opportunità di
spargere un po' di facile veleno (poteva
essere un'ottima occasione per smentirmi coi
fatti, ma era un tantino rischioso e forse
anche un po' complicato). Sul fronte dei
quotidiani mi limito a citare l'Avvenire del 4
dicembre 1991: "Milena Gabanelli, serba,
regista di professione, coniugata con un
italiano, inviata a Vukovar da "Mixer'' come
giornalista (sic!) ... è stata condotta in
tarda serata in uno scantinato buio per farle
intravedere cadaverini inesistenti di bimbi
massacrati dai croati ... Quanto è stata
disgustosa quell'intervista che la nostra
"giornalista" ha effettuato a una povera donna
croata prigioniera, con evidenti segni di
violenza sul volto, torturata e costretta ad
accusarsi di crimini non commessi. Quella di
Milena Gabanelli è stata una sporca propaganda
serba ...". L'articolo è firmato da Giovanna
Sopianac e Maja Snajder. Io non ho pregiudizi
verso i loro cognomi, ma sembrano indicare una
origine diversa dalla mia, italiana da sempre,
e che metteva piede in Jugoslavia per la prima
volta nella sua vita [2]. Ma non è questo il
punto, pare invece che essere serbi significhi
"non diritto alla parola". Può darsi che le
due signore abbiano ragione, ma forse non è il
pulpito più adatto per calare una simile
sentenza. Per quel che riguarda la mia
professione, sempre messa in dubbio con
virgolette o (sic!), sarebbe stato più
corretto verificarla presso l'Ordine dei
Giornalisti, visto che nello stesso articolo
si accusa me di non aver verificato cose
inverificabili. Il resto non merita commento.
Purtroppo la
storia non si ferma qui. Continuo a fare il
mio mestiere e oltre alla striscia di Gaza, il
Nagorno Karabah, c'è anche un ritorno a
Vukovar. In quell'occasione pubblico un pezzo
su un settimanale nel quale non cito mai serbi
o croati, ma descrivo semplicemente quello che
rimane dopo una guerra. Al direttore di quel
settimanale viene inviato il seguente
telegramma: "... Protestiamo vivamente che sia
consentito a questa signora, sotto accusa
presso ordine professionale su nostra
iniziativa per clamorose falsità... di poter
aprire la bocca sui tragici avvenimenti di
Vukovar obliando proprie gravissime
responsabilità e sottacendo quanto compiuto in
vile collaborazione con la politica di inganno
difformativo promossa dai servizi segreti
serbi. Ove trattasi di una Maddalena pentita
bene sarebbe stato prima di tutto come la
Maddalena evangelica confessare le colpe
trascorse. Sicuri che non pubblicherete ma
tanto per mettervi di fronte alle Vostre
responsabilità e alla Vostra coscienza inviamo
non cordiali saluti. Comitato Pro-Croazia.
Professor Vittorio Menesini". In tutte le
guerre ci sono sempre stati gli schieramenti,
durante la guerra del Vietnam, nessun inviato
è stato processato per aver raccontato le
atrocità che compivano i vietnamiti ai danni
degli americani. Sappiamo che è successo, e
sappiamo anche che gli americani avevano
torto. Nel caso della guerra in Jugoslavia la
verità "deve" stare da una sola parte,
altrimenti sei un "collaboratore dei servizi
segreti serbi".
E la storia
continua, e si ridiscute di fronte al
Consiglio del mio Ordine Regionale. C'è
l'esposto dell'Avvocato Menesini e quindi si
avvia la procedura. "Signora Gabanelli, ci
racconti cosa è successo quel giorno a
Vukovar" mi chiede il presidente della
Commissione, Luca Goldoni. La sottoscritta
racconta, ancora una volta. E' umiliante, ma è
la procedura. "Era mai stata precedentemente
inviata su un fronte di guerra?".
"Ero stata in
zone di guerriglia. La mia esperienza riguarda
pezzi di approfondimento di politica estera.
Doveva essere così anche stavolta, poi le cose
sono andate diversamente. Con l'esperienza
dell'inviato di guerra sarei stata più cauta e
certamente testimone di nulla". "Signora
Gabanelli, io non ho ragione di non credere a
una sola parola di quello che ci ha
raccontato. Purtroppo non possiamo
sottovalutare l'esistenza di una pronuncia del
Garante" mi dice Luca Goldoni.
Il mese dopo
una raccomandata mi informa sulla decisione
dell'Ordine. Nessuna sanzione disciplinare
(come chiedeva l'esposto del Comitato
Pro-Croazia facendo appello al codice di
deontologia professionale), ma un innocuo
"avvertimento". Dopo avermi concesso il
beneficio della buona fede e l'oggettiva
difficoltà del lavoro, il Consiglio
dell'ordine concludeva così la propria
sentenza "... inquadrando il caso nel clima di
quanto sta accadendo nel vicino territorio, e
dunque in un contesto stravolto da rivalse
etniche, politiche, religiose, Mixer, forse
con eccessiva precipitazione, ha calato Milena
Gabanelli, giornalista senza una specifica
scorza da inviato, in una realtà bellica
'anomala e confusa' che pertanto ha avuto come
relatrice televisiva 'una cronista altrettanto
anomala e sicuramente occasionale'"
Avrebbero
potuto darmi una sospensione, (e poi saremmo
finiti in tribunale) e invece mi hanno detto
"attenta, non lo fare più". Infinitamente
ringrazio. "Anomala e occasionale"?
Considerando la piattezza che mi circonda non
posso nemmeno offendermi. Come non mi
offendono Riva e Ventura quando nel loro
pregiatissimo libro "Jugoslavia, il Nuovo
Medio Evo", scrivono: "... Mixer rilancia il
massacro, ospitando la testimonianza ambigua
di una collaboratrice da Belgrado" [3]. La
grande accusa che in tutta questa faccenda mi
è stata rivolta, è quella di non aver
"verificato"; eppure coloro che hanno riempito
pagine non si sono neppure degnati di
controllare la mia nazionalità. Non mi risulta
che un'informazione del genere rischi di
essere sulle traiettorie delle pallottole. Per
il resto, vorrei solo sottolineare che non ho
speculato sulle disgrazie altrui affinché il
mio nome emergesse. Era un'ottima occasione,
eppure ho rifiutato il bombardamento della
stampa e della televisione che è seguito alla
trasmissione. Soprattutto ho voluto evitare di
cadere nella facile trappola dalla quale si
sarebbe a tutti i costi voluto far emergere
una persona filo-serba. Avevo un compito, ho
cercato di svolgerlo nel migliore dei modi.
Poi, sono passata ad altro.
[1] Una posizione parecchio divergente da
quella del Comitato Pro-Croazia, che, come
abbiamo visto, dichiarava: “non esiste alcun
sacerdote cattolico che risponde al nome ...”.
[2] Che Milena fosse serba, o moglie di un
serbo, o comunque legata a Belgrado, mi fu
detto più volte da molti giornalisti croati
(Marco Guidi).
[3] Riva-Ventura, Jugoslavia, cit., [Gigi Riva
e Marco Ventura, Jugoslavia. Il nuovo
Medioevo, Milano, Mursia 1992] p. 112.
Uno
stralcio della testimonianza resa da Milena
Gabanelli a Mixer, il 2 dicembre 1991 su Rai 2,
è visionabile su
YouTube
Sulla disinformazione strategica nel caso di
Vukovar si veda anche l'opuscolo IL DRAMMA BELLICO
DI VUKOVAR interamente scaricabile
dal nostro sito internet (26Mb)
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