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Novembre 1953 - una controlettura
di Vincenzo Cerceo
prefazione di Tullio Mayer
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pubblicato da
"La Nuova Alabarda" - C.P. 57 - 34100
Trieste
nuovaalabarda(a)yahoo.it
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Prefazione - di
Tullio Mayer
Da vecchio socialista, divenuto nel 1971 (dopo
lo strano attentato all’allora senatore Vittorio
Vidali, leader storico del PCI triestino,
avvenuto alla Stazione ferroviaria centrale)
primo presidente del Comitato Unitario contro il
fascismo e la repressione, in cui rappresentavo
il Movimento dei Giornalisti Democratici, dirò
subito che le celebrazioni, tuttora in pieno
svolgimento, del 50° anniversario del ritorno di
Trieste all’Italia (in cui si inserisce il
ricordo dei luttuosi avvenimenti del novembre
1953), così come sono state impostate e vengono
condotte dalla Giunta comunale e da quella
provinciale espresse dal centro destra (spesso
peraltro, e spiace doverlo rilevare, con il
pieno consenso dei consiglieri di
centrosinistra, degli illyani e dello stesso
PRC) assieme ad organizzazioni quali la Lega
Nazionale, l’Unione degli Istriani ecc., mi sono
sembrate francamente inaccettabili per le
accentuate caratterizzazioni nazionaliste,
revansciste ed antislave.
Così ne ho parlato con un vecchio amico, il
pubblicista Vincenzo Cerceo, che ho conosciuto
oltre 20 anni fa quando, ufficiale superiore
della Guardia di Finanza, comandava a Trieste il
Gruppo Operativo Antidroga prima di venir
chiamato a dirigere il GICO (Gruppo
Investigativo contro la Criminalità Organizzata)
regionale, per esserne quindi allontanato
proprio mentre cercava di indagare, senza
riguardi per nessuno, su incarico della Procura
della Repubblica, su alcuni rilevanti casi di
corruzione e di malaffare a livello
politico-amministrativo. Con Vincenzo Cerceo
abbiamo coinvolto la pubblicista Claudia
Cernigoi, direttrice del periodico “La Nuova
Alabarda”, che ha curato la pubblicazione di
questo dossier.
Il testo di Cerceo fa chiarezza sulle vicende
dell’ottobre-novembre 1953 e può considerarsi, a
mio giudizio, un utile completamento rispetto al
recente volume del collega Silvio Maranzana (“Le
armi per Trieste italiana”, Italo Svevo 2003)
che, pur interessante e documentato, risente di
un equivoco di fondo laddove tende a
giustificare, in nome di un “nobile ideale”, i
numerosi e gravissimi illeciti, veri e propri
reati perseguibili d’ufficio secondo il Codice
penale italiano, di cui si sono resi autori, a
quell’epoca, esponenti del Governo di Roma,
alcuni funzionari dell’amministrazione statale a
vari livelli e i dirigenti dei principali
partiti filoitaliani e delle squadracce fasciste
a Trieste, non ultimo l’allora sindaco, il
democristiano Gianni Bartoli.
Intanto, pongo un quesito: si provino oggi (con
un governo di centrodestra, ma lo stesso valga
per i passati governi dell’Ulivo) gruppi di
facinorosi spesso ben addestrati alla guerriglia
urbana, armati di pietre, spranghe, bastoni e
bombe a mano ad assaltare Questura, Prefettura,
sedi politico-culturali e circoli ricreativi,
veicoli della Polizia e delle Forze armate:
vedremo se l’inevitabile reazione delle forze
dell’ordine sarà molto diversa rispetto a quella
attuata dai “cerini” della Venezia Giulia Police
Force nel novembre 1953.
È tuttora viva la memoria di quanto accaduto a
Genova nel luglio 2001 ai tempi del G8, quando
le forze dell’ordine reagirono (anche in modo
esasperato e non senza contraddizioni) ad
oggettive e ripetute quanto gratuite azioni
violente messe in atto da no global, black bloc
e disobbedienti di varia estrazione. Del resto,
negli anni ‘60, sia ai tempi del governo
Tambroni sia dopo (in pieno centrosinistra), la
Polizia italiana reagì più volte usando le armi
da fuoco oltre ai lacrimogeni, sfollagente
eccetera, e provocando morti e feriti in gravi
situazioni di ordine pubblico: a Reggio Emilia
come a Modena, Battipaglia, Avola. Ma nessun
pubblico amministratore si è mai sognato di
chiedere al Capo dello Stato la concessione
della Medaglia d’oro come “eroe nazionale” per
Carlo Giuliani o per i cittadini falciati in
altri episodi dal piombo delle forze
dell’ordine: eppure anch’essi sono morti, magari
usando spranghe, pietre, molotov o estintori, in
nome di un qualche ideale sulla cui nobiltà non
sta a noi giudicare.
Ma vorrei concludere questo mio intervento con
un ricordo personale dei giorni di novembre ‘53:
avevo quattordici anni e mezzo ed appartenevo ad
una famiglia di sentimenti italiani sì, ma
antifascista e aliena da ogni atto di violenza.
Il mattino del 5 novembre trovai bloccato
l’accesso alla scuola media del Viale XX
Settembre (l’attuale Divisione Julia, allora
scuola media annessa al ginnasio-liceo Francesco
Petrarca) ad opera di ragazzi più anziani di me:
liceali, qualche universitario, ma anche
facinorosi dei Circoli di Cavana e del Viale.
“Muli, ogi no se va a scola, xe sciopero”, venne
detto a me ed ai miei coetanei della terza media
e delle classi inferiori, con la connivenza, a
dire il vero, di parte degli insegnanti. Quando,
ingenuamente, chiesi perché avrei dovuto
scioperare (“spontaneamente”, s’intende), mi fu
risposto che avremmo dovuto manifestare per
“Trieste italiana” e che il nostro primo
obiettivo sarebbe stato raggiungere in corteo il
complesso scolastico di via Foscolo/via Manzoni,
dove aveva sede l’Istituto tecnico per geometri
Leonardo Da Vinci, i cui allievi, forse meno
dotati di sentimento nazionale, stavano
regolarmente frequentando le lezioni.
Intanto, da un plotoncino di “cerini” della
Divisione Uniforme che presidiava il vicino
Supercinema requisito dagli Inglesi, nella
regolamentare divisa blu tipo “bobby” di Londra,
si staccò un mio secondo cugino, in forza al
Distretto centrale di piazza Dalmazia, per
sconsigliarmi da partecipare a qualsiasi
manifestazione, aggiungendo che la situazione
era molto tesa dopo gli incidenti del pomeriggio
e della serata precedenti. Così mi accodai al
corteo niente affatto spontaneo, ed in via
Foscolo, mentre manifestava (tra slogan
antijugoslavi, bandiere tricolori, inni e canti
del Ventennio, qualcuno provvedeva a divellere
dai marciapiedi i paletti reggi-catenelle per
impugnarli a mo’ di clava), venne raggiunto da
una vettura, una Fiat 1100 a sei posti del
servizio di emergenza della Polizia Civile. Il
capopattuglia segnalò la situazione via
radiotelefono e poco dopo, quando il corteo,
ormai ingrossato, sbucò in via Oriani e largo
Barriera Vecchia, tra sibili di sirene ecco
arrivare una mezza dozzina di jeep del Nucleo
mobile, protette da reti metalliche, che con un
po’ di caroselli e qualche manganellata
dispersero la manifestazione, almeno per il
momento.
Ma il raduno dei cortei provenienti dalle varie
scuole e ai quali partecipò successivamente meno
di un migliaio di persone (mentre la maggior
parte della città rimaneva a guardare) era
fissato in piazza Sant’Antonio, opportunamente
disselciata dagli operai del comune nei giorni
precedenti, assieme all’attigua via Dante
Alighieri. Proprio in quei paraggi, al numero 2
della via Trenta Ottobre, aveva sede il comando
della Polizia Civile (una struttura
corrispondente all’attuale Questura), che
ospitava anche gli uffici della CID, la
Divisione Criminale Investigativa. Lì, a quanto
mi ha recentemente riferito un ex ispettore
della “sezione speciale”, alcuni poliziotti in
contatto con ambienti italiani sarebbero stati
pronti ad usare le armi da fuoco contro i loro
colleghi e gli ufficiali superiori inglesi, per
dare una mano ai dimostranti.
Quanto all’irruzione dei “cerini” nella chiesa,
dove si erano rifugiati parecchi giovani
manifestanti, irruzione tanto criminalizzata
quasi fosse un sacrilegio, mi chiedo se oggi,
poniamo un rapinatore armato corre a nascondersi
in qualsiasi chiesa, la Polizia o i Carabinieri
non debbano inseguirlo ed arrestarlo magari
davanti all’altare: nessun Concordato ha mai
previsto una sorta di “immunità” per gli edifici
di culto, cattolici o di altre religioni.
Io comunque, dopo le cariche in largo Barriera,
me ne andai a casa, posai la cartella di scuola
e presi la macchina fotografica regalatami da
mio padre, una vecchia Kodak (ovviamente,
inglese) a soffietto. In quel periodo avevo
deciso che, da grande, avrei fatto il
giornalista: sempre meglio che lavorare, avrebbe
detto più di vent’anni dopo un mio caporedattore
alla RAI. E me ne andai in giro per la città,
evitando di stare in “prima linea”.
Tullio Mayer (giornalista
professionista
dall’agosto 1967)
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Novembre 1953 -
una controlettura
I cinquant’anni dai tragici fatti del novembre
1953, ed i prossimi cinquanta anni dal più che
(a parere di chi scrive) legittimo dal punto di
vista nazionale ed etnico (almeno per la
maggioranza degli abitanti di Trieste) ritorno
della città sotto sovranità italiana (vi furono
in effetti alcuni rappresentanti della
“minoranza” che all’epoca lottarono ed anche
morirono per impedire quel ritorno sotto
sovranità italiana, ed anch’essi erano
triestini) vanno mostrando, ancora una volta,
come, nonostante l’ormai considerevole tempo
trascorso da quegli eventi, una lettura storica,
esclusivamente “storica”, degli stessi sia, in
questa città, al momento, impossibile, almeno a
livello di opinione pubblica generale.
La ricerca storica vera e propria, in effetti,
quella cioè compiuta dagli specialisti, pur
sulla base di documentazione ancora parziale, ha
già dato di quegli eventi una lettura
sufficientemente obiettiva, e lo stesso hanno
fatto personaggi pubblici la cui autorevolezza
può collocarli “super partes”, (De Castro, ad
esempio), ma, in quella pubblicistica, pur a
volte interessante, che si concretizza in lavori
e testimonianze che emergono sulla stampa
quotidiana e periodica, nessuna “obiettività” è
ancora possibile.
Segno evidente, questo, che l’opinione pubblica
triestina, nella sua globalità, al di fuori
delle componenti specialistiche della ricerca
storica, non ha ancora raggiunto quella maturità
di emozioni e di giudizio critico che consenta
di porre in essere quella categoria crociana
dello Spirito che, evitando di sconfinare
nell’interesse politico, renda possibile la pura
e semplice ricerca della verità storica, “sine
ira ac studio”, appunto.
È un peccato tutto ciò, perché, soprattutto, la
dovizia di mezzi economici che viene impiegata
in pubblicazioni, (a volte con il solo pregio
della eleganza e della “patinatura”), non si
concretizza in progresso per la ricerca storica,
e, sono, dunque, soldi a tal fine in gran parte
sprecati.
Trattasi, in effetti, di lavori non destinati ad
incidere a livello scientifico, ed a durare lo
spazio puro e semplice di una contingenza.
I cinquanta anni del ritorno della città sotto
sovranità italiana (per inciso chi scrive è ben
lieto che ciò sia avvenuto) lasciano prevedere,
per questo 2004, che questa tendenza dispendiosa
ed inutile continuerà.
Sui “mass media”, quelle verità che gli storici
hanno, abbastanza concordemente, acclarato, o
vanno definendo, traspare come velata, come se
si avesse timore di esprimerla apertamente. Come
se si avesse timore di dispiacere troppo a parte
dell’opinione pubblica.
Ma la verità, dopo cinquant’anni, va rivelata,
noi riteniamo, senza più veli che la offuschino,
anche sui giornali.
Questa è la nostra opinione.
Proviamo a dare una nostra lettura, a decifrare
quegli eventi, senza particolare aggiunta di
inediti, ma elaborando solo diversamente quei
dati già da altri forniti.
Una opinione, come tante altre.
Chi non è nato a Trieste, forse, può farlo
meglio dei locali.
*****
È significativa la pagina che “ Il Piccolo” di
Trieste, quotidiano che quasi monopolizza
l’opinione pubblica della città, (cosa che non è
affatto positiva), dedica, il 5.11.1993, agli
eventi del 6.11.1953: si riproduce,
testualmente, la prima pagina del “Giornale di
Trieste” di quarant’anni prima, la quale,
ovviamente, essendo stata stampata in situazioni
del tutto diverse ed altamente drammatiche, non
poteva che portare un messaggio, ai lettori di
allora, dall’impatto estremamente emotivo. Vi
appaiono, infatti, alcune foto di quelle
giornate di incidenti (che, come tutte le
foto,ben difficilmente, quando si tratta di
disordini, riescono a chiarire qualcosa, ma,
anzi, possono ben essere soggette ad
interpretazioni mistificanti di ogni tendenza),
e, soprattutto, vi appare un titolo dal
contenuto assolutamente unidimensionale: “La
polizia spara sulla folla inerme”.
La prima vista di quel messaggio giornalistico a
grandi caratteri trascura completamente le
sassaiole che vi furono ad opera dei dimostranti
né pacifici né inermi, le bombe a mano lanciate
(una sola, verrà minimizzato successivamente, ma
furono invece 5 o 6 ) dai dimostranti cosiddetti
“inermi”; la gigantesca serie di reati che gli
stessi stavano, obiettivamente (se pur per una
causa che ritenevano nobile) ponendo in essere
contro le leggi del governo in carica (legittimo
in quanto riconosciuto anche da Roma, sia pur
perché imposto dal Trattato di pace), le
camionette della Polizia rovesciate e bruciate,
i tentativi di disarmo di agenti da parte di
alcuni dimostranti, i feriti tra i poliziotti
(uno dei quali, con i polmoni perforati, morì
l’anno successivo per le conseguenze di quegli
eventi). Il fatto che quaranta anni dopo, senza
alcuno spirito critico oppure semplicemente
analitico, il quotidiano di massima informazione
della città riproduca testualmente, come
“immagine”, (le immagini hanno di per se stesse,
come è noto, un valore mediatico ben più forte
dei commenti scritti che passano rispetto alle
stesse decisamente in secondo piano) quella
lontana pagina di giornale, in una situazione
storica, politica ed emotiva del tutto diverse,
dà chiaramente l’idea di come poco sia cambiato,
da allora, nei sentimenti dell’opinione pubblica
di questa città, e di come, soprattutto, che
potrebbe favorire una evoluzione dell’opinione
pubblica stessa in senso positivo
sull’argomento, per favorire la razionalità
anziché l’emotività, si astenga dal farlo; anzi:
lavori per il mantenimento dello stato di
emotività di quell’epoca, senza che, oramai, ve
ne sia, storicamente, più alcuna necessità. Dal
punto di vista politico contingente, ovviamente,
è tutta un’altra cosa.
*****
La bibliografia, e la pubblicistica, sugli
eventi del 1953-1954 in Trieste è davvero
notevole, ed in fase di continuo accrescimento;
per ultimo, tra le serie di testi che emergono
dalla piattezza nazionalistica, vanno ricordati
quegli scritti, sia pur in gran parte con
finalità più ampie, del giornalista Maranzana,
e, soprattutto, quello, egregio ed insuperabile,
dell’Ambasciatore “ad acta” De Castro
intitolato: “ Memorie di un novant’enne”, ma in
questa sede, come abbiamo già preannunziato,
molto più semplicemente tenteremo di dare dei
fatti già da tempo acquisiti, e da tutti (o
quasi) condivisi, (in ogni caso dei fatti già
passati per un sufficiente vaglio da parte della
critica storica), una lettura diversa da quella
che la marea di pubblicazioni di orientamento
nazionalistico, abbondantemente finanziate con
denaro pubblico, tende a dare. Tra le voci
critiche del settore giornalistico, vanno
altresì ricordati gli interventi e gli scritti
di Tullio Mayer, che all’epoca dei fatti fu
presente ed attento osservatore.
*****
Diego De Castro, intellettuale di gran livello,
professore universitario e “diplomatico” per la
contingenza triestina, e tra coloro che più di
tutti conoscono dal vivo la questione triestina,
relativamente al decennio post bellico.
Persona di origine e cultura decisamente
borghese, ma di quella borghesia che ancora
riusciva ad esprimere nobiltà interiore (oggi
non esiste quasi più!), il professor De Castro,
di origine istriana, legatissimo alla sua terra,
e perciò al di fuori di ogni possibile
contestazione da parte nazionalistica, riuscì a
convivere con il fascismo senza sporcarsi con lo
stesso.
A guerra iniziata, e dopo essersi
sostanzialmente opposto all’infamia delle leggi
razziste o razziali che dir si voglia in base
alla sua competenza scientifica di studioso di
demografia, di livello internazionale, il De
Castro attese gli alleati a Roma nel giugno del
1944, e, una volta giunti gli stessi, entrò in
contatto organico con l’“Intelligence” inglese.
Ormai novantenne, dopo aver scritto (a mano,
precisa, come si usava allora!) centinaia di
milioni di parole e pubblicato innumerevoli
scritti di ricerca scientifica e di storia, ha
deciso di dare alle stampe un libro di memorie,
la cui lettura (trattavasi, per il professor De
Castro di recente scomparso, di un autentico
“archivio vivente” che metteva alcune cose, solo
alcune di quelle che conosceva, ma importanti! A
disposizione della conoscenza scientifica) è di
valore altissimo.
La ricerca storica, soprattutto, può trarne
vantaggio per le precisazioni decisive che
questa sua testimonianza apporta su molti punti
controversi. È strano che la documentazione del
professor De Castro venga tenuta in così poco
conto dalla pubblicistica nazionalista.
Per fare qualche esempio è sua ferma convinzione
che Mussolini fosse convinto fin dal primo
momento della sua alleanza con Hitler, della
necessità di cedere Trieste al Reich; a questa
città, infatti, Hitler non era disposto
assolutamente a rinunziare, ed al Duce del
Fascismo l’italianità della città non stava a
cuore fino al punto da costituire un tabù.
Ancor più importante, poi, è la conferma che De
Castro dà circa le “manovre” atte a stipulare un
accordo, in queste terre, tra la X mas di
Borghese e la brigata partigiana Bianca”
“Osoppo”(parte di quale fu poi eliminata proprio
per questo motivo dagli uomini del partigiano
“Giacca”) al fine di fronteggiare, tutti
insieme, con le armi, gli Jugoslavi a guerra
finita.
Un ufficiale di Marina, il Comandante Medaglia
d’Oro Marcecaglia, già collega di corso e di
armi del Borghese, prigioniero degli inglesi a
Malta, era stato inviato, in queste zone, dagli
Alleati proprio con questo compito.
Infine, De Castro parla delle iniziative da lui
perorate per far effettuare uno sbarco alleato
in Istria (doveva operare la Marina italiana che
era a Malta) al fine di evitare che gli
jugoslavi di Tito occupassero l’Istria e
Trieste; ma si trovò di fronte ad un ostacolo
insormontabile: Stalin e Roosvelt avevano deciso
già che quella zona di operazioni era riservata
alle truppe di Tito!
Per quanto riguarda più specificamente il nostro
campo, una sua affermazione riteniamo rilevante:
all’epoca, Trieste era percorsa in continuazione
da cortei che inneggiavano all’italianità, ma
c’erano anche vari cortei, (sicuramente in
numero minore, ma pur ben presenti!) che
inneggiavano all’annessione alla Jugoslavia.
C’era, poi, un’altra minoranza che ipotizzava
soluzioni diverse (tutt’ora presenti sulla scena
politica della città) e cioè l’Indipendentismo.
La città, dunque, era realmente divisa: accanto
ad una maggioranza attiva filo-italiana, c’era
anche (lo dice De Castro) una minoranza attiva
filo-jugoslava.
Il voler negare tutto ciò, equivale a voler
negare la realtà dei fatti.
Non tutti i triestini volevano Trieste italiana.
*****
Una volta partite da Trieste le truppe
jugoslave, che avevano liberato la città dai
nazisti, fu subito posto il problema del futuro
della città stessa, e presto fu risolto in linea
di principio.
Nel 1948, infatti, la cosiddetta “Dichiarazione
tripartita” (Londra, Washington e Parigi)
stabilì il diritto per l’Italia di rientrare in
possesso pieno della città. Se la cosa non ebbe
subito attuazione, ciò fu perché si tentò, ed a
ragione, di ottenere anche il resto dei
territori già italiani, tuttavia, fin dal 1948,
nessun dubbio poteva più ragionevolmente esservi
circa l’intenzione piena degli occidentali di
restituire la città all’amministrazione e,
quindi, alla sovranità italiana.
Con la rottura anti-Cominform di Tito, quello
stesso anno, la questione venne ad essere messa
“in sonno” circa l’effettiva attuabilità; la
politica degli alleati verso Tito era cambiata,
e l’Italia dovette attendere ancora anni prima
di riavere la città giuliana. Non si voleva
scontentare Tito, ma nemmeno dargli troppo
potere ed autorità. Trieste era una carta di
questo gioco diplomatico.
Alla luce di questi fatti politici
internazionali di grande importanza va vista la
figura del governatore Winterton e del suo
asserito anti-italianismo.
Winterton, come tutti i militari, eseguiva,
semplicemente, le direttive del suo governo,
quello inglese, come aveva, in precedenza, fatto
il suo predecessore, Airey.
La differenza sta solo nel fatto che Airey,
avendo governato prima della svolta
anti-cominforrmista di Tito, doveva svolgere,
per ordini superiori, una politica totalmente
filo-italiana, mentre Winterton, per non
dispiacere a Tito, aveva molto meno possibilità
di compiacere gli italiani. Tutto qui.
Anche nel novembre del 1953, se la polizia
triestina sparò sui dimostranti, oltre alle loro
provocazioni che qui in seguito diremo, fu anche
perché il superiore di Winterton, il generale
Alexander, dal suo comando in Germania, aveva
dato allo stesso ordini precisi di reprimere con
tutti i mezzi uno eventuale tentativo gestito
dal governo Italiano di occupazione della città
tramite disordini, cosa che Alexander riteneva
fosse possibile. Ce anche da tener presente la
tradizione tipica dei militari inglesi per cui
chi usa la forza nei confronti delle loro forze
armate va annientato e umiliato.
All’epoca, purtroppo, tutte le decisioni
venivano prese a Londra e Washington, e
notificate, semplicemente, a Roma, a volte con
la clausola diplomatica del “ne varietur”:
prendere o lasciare, e lasciare voleva dire
perdere tutto.
L’8 marzo 1953, durante una manifestazione
autorizzata che rischiava di sfociare in gravi
incidenti provocati, uno dei dimostranti tentò
di liberarsi di una bomba a mano che portava in
tasca (evidentemente per usarla al momento
opportuno; o no?). La bomba esplose, e ferì,
oltre allo stesso, (un neofascista), anche
alcuni dimostranti, vittime, questa volta, non
certo della polizia civile:
Il fatto servì a calmare gli animi; i
neofascisti, vistisi scoperti, invitarono alla
calma, e lo stesso sindaco Bartoli, che era il
principale sostenitore del nazionalismo,
(insieme al vescovo Santin) fecero la stessa
cosa.
Gli incidenti cessarono. La folla, da sola, non
si muoveva, ma era manovrata. Lo fu anche a
novembre.
Oggi sappiamo con certezza che, a prescindere da
ogni azione ed iniziativa di quelle persone che,
in buona fede (i più) o per “ordini superiori”
(alcuni, qualcuno dei quali anche retribuito)
scendevano i piazza a difesa di una italianità
di Trieste che dal 1948 nessuno metteva più
seriamente in discussione, a livello
internazionale, la partita che si giocava era di
ordine diverso, molto più complessa,
esclusivamente di politica internazionale, e si
decideva non a Trieste e neppure a Roma e
Belgrado, ma, come già detto a Londra,
Washington, Mosca.
Il quadro, oggi, è chiaro: la rottura di Tito
con Mosca, nel 1948, aveva ulteriormente reso
complessa una situazione già fin dal primo
momento complicata.
Se, prima di allora, lo scontro tra oriente e
occidente si definiva bene nei termini, da quel
momento furono introdotte nuove variabili
distinguibili solo sotto la prospettiva dei più
sottili giochi diplomatici, che il De Castro,
protagonista di parte degli stessi, mette bene
in evidenza.
Rimaneva lo scontro tra “mondo libero” e
comunismo, (e di quest’ultimo faceva parte
sicuramente la Jugoslavia di Tito) ma esigenze
militari immediate rendevano
necessaria una collaborazione attiva e diretta
seppur anomala degli alleati e della NATO con il
governo del maresciallo Tito, che garantiva
fortemente dal temuto “colpo di maglio”
dell’armata rossa conto gli stati occidentali
attraverso la cosiddetta “porta di Lubiana” che
Tito provvedeva a tenere chiusa. Era questa
un’esigenza fondamentale e prioritaria per gli
occidentali.
Lo stesso Tito, d’altra parte, assicuratosi il
vantaggio base per lui fondamentale del sostegno
economico occidentale al suo paese in funzione
antisovietica, provava a giocare la carta
tendente a creare una “superpotenza” (!)
jugoslava a livello balcanico, cosa che gli USA
non erano, però, disposti ad accettare.
La questione triestina era parte minore ma pur
sempre importante di questo complesso gioco, per
cui i primi ad avere interesse, all’inizio degli
anni ’50, ad una definizione della intera
vicenda erano proprio i paesi NATO, che
intendevano togliere dalle mani dell’abile
maresciallo almeno questo strumento minore di
pressione.
Il maresciallo, ovviamente, aveva tutto
l’interesse opposto.
La lunga serie di progetti, in proposito,
gestiti e diretti in prima persona dal De
Castro, parlano chiaro.
A tutti, però, dovrebbe apparire evidente, che,
in simile contesto, le manifestazioni di piazza
contavano molto poco, per non dire nulla.
Questa è la verità storica.
Obiettivo americano, semmai, era quello di
trovare una soluzione adatta alle esigenze di
entrambi, sia a quelle di Belgrado, che da tempo
aveva rinunciato ad occupare Trieste, (le
dichiarazioni ai fini di propaganda sono
un’altra cosa) sia a quelle di Roma, che da
tempo, (anche se tacitamente, e De Gasperi ne
era ben consapevole) aveva dovuto rinunciare a
rientrare in possesso dei territori istriani.
Ma questo accordo era impresa del tutto degna
del letto di Procuste!
Intanto, si trattava, si progettava, si
temporeggiava, si faceva diplomazia; ma solo sui
dettagli del nuovo confine, oramai!
Ci fu chi, da noi, dal punto di vista
nazionalista, incominciò anche a sperare in
Mosca ed in Malencov, che, forse, in funzione
antititina, avrebbero potuto essere utili al
recupero di quelle terre ed al ritorno degli
esuli! La stessa speranza che, negli anni ‘90,
con il disfacimento della Jugoslavia hanno
riposto coloro che volevano sostenere la Serbia
contro la Croazia per tentare così di riottenere
Zara e Spalato. La storia, a volte, è strana e
segue strade tortuose.
*****
Nell’estate del 1953, le elezioni politiche in
Italia videro l’instaurarsi, a Roma, di un
governo di centro destra.
Quest’evento fu determinante, ai fini della
comprensione dei fatti dell’autunno di quello
stesso anno nella città di Trieste. Con De
Gasperi, forse, le cose sarebbero andate
diversamente.
De Gasperi, infatti, aveva sempre mostrato,
circa la questione jugoslava, una notevole
moderazione, tenendo anche ben conto della
situazione internazionale, degli interessi
difensivi della NATO, e della volontà americana
di non scontentare Tito, in quel periodo più che
mai necessario agli interessi strategici
dell’occidente in funzione antisovietica.
Il cambio di governo a Roma avvenne, con una
“svolta a destra”, nel momento in cui i
tentativi di approccio titini verso Mosca, dopo
la morte di Stalin, inducevano il nuovo
presidente americano Eisenhower a più larghi
sorrisi ed a maggiore disponibilità verso
Belgrado.
Eisenhower non voleva scontentare Tito, e questi
ne approfittava per avere il più possibile,
anche dal punto di vista dell’importanza
politica data la sua nota vanagloria.
Il governo Pella si reggeva sul sostegno delle
destre e dei monarchici, ed il suo atteggiamento
verso il problema jugoslavo ne risentì
immediatamente. Era la carta vincente affinché
il governo italiano si stabilizzasse e durasse
di più.
Tito, approfittando di ciò, oltre a compiere
gesti simbolici come il raduno di partigiani sul
confine a San Basso, vicino a Gorizia, dichiarò
anche la volontà di formalizzare l’annessione
(già di fatto avvenuta!) della zona B.
Sapeva che il nuovo presidente americano,
Eisenhower, aveva troppo interesse alla sua
amicizia per poter reagire in maniera eccessiva
a tutto ciò.
Dovendo fronteggiare l’opinione pubblica di
destra, a puro titolo propagandistico, Pella
decise, come risposta a Tito, di schierare
truppe sul confine orientale.
Era, più che altro, un messaggio agli alleati
occidentali, affiche tenessero maggior conto del
governo di Roma, dagli stessi tenuto, fino a
quel punto, in ben poca considerazione circa la
vicenda triestina, oltre che uno sfogo per
l’opinione pubblica italiana, ma ciò urtò a
fondo la nota caratterialità del maresciallo
Tito, il quale a sua volta, schierò le
truppe.
Ormai lo stato di tensione si era creato proprio
come aveva voluto il governo Pella, per
accelerare la definizione della questione
triestina: si mirava, in sostanza, al recupero
rapido della sola città, rinunciando, di fatto,
a tutto il resto, ma all’opinione pubblica si
faceva credere altrimenti.
Che si trattasse solo di una sceneggiata lo
dimostra ulteriormente il fatto che il delegato
italiano De Castro, che in quel periodo era a
Montecatini per trascorrere un periodo di cura,
chiese al Ministero di rientrare subito in sede,
ma, con sua somma sorpresa, si senti rispondere
che rimanesse pure li; evidentemente, gli
“addetti ai lavori” sapevano benissimo che nulla
di grave sarebbe accaduto, e che si stava
recitando solo una parte sullo scenario della
politica estera di quel tempo, al fine di dare
finalmente uno sbocco alla vicenda.
A lavorare, e molto, erano solo le cancellerie
dei due ministeri degli esteri, di Roma e
Belgrado, che sfornavano a raffica note di
protesta e contro note di risposta, ben sapendo,
da entrambe le parti, che la cosa valeva solo
per le opinioni pubbliche.
Se, poi, qualcuno dei volenterosi cittadini
sdegnati moriva in incidenti di piazza, la cosa
era prevista. Diplomazia!!
Che le cose stessero così, lo dimostra un fatto
significativo: al momento dello schieramento di
ruppe da parte del governo Pella, alle richieste
di chiarimenti da parte degli alleati
infastiditi, da Roma si rispondeva che
trattavasi di truppe di quantità minima, e,
quindi, il governo di Belgrado poteva stare da
quel punto di vista assolutamente sicuro. Tito
sapeva, ma fingeva diversamente.
A scanso di equivoci, comunque, il governo
americano volle dare un messaggio chiaro al
governo italiano, e affermò che la dichiarazione
tripartita (quella che dal 1948 dichiarava il
diritto dell’Italia alla città di Trieste in
linea di principio) “non era eterna”, e, quindi,
poteva essere modificata se il governo italiano
avesse fatto colpi di testa. “Sutor, ne ultra
crepidam”!!
Anche a Trieste, l’opinione pubblica aveva
accolto negativamente quello schieramento di
truppe. La gente temeva molto una nuova guerra
in città, a qualsiasi costo.
Tito, a coronamento di tutta la vicenda,
pronunciò in proposito, un discorso ironico e
sarcastico, ricordando i crimini compiuti dai
nostri soldati sui territori jugoslavi occupati
durante la guerra. Di recente, è stato
pubblicato un documento dello stato maggiore
italiano denominato “operazione delta” che
prevedeva l’occupazione militare di Trieste e
provincia, ma lo stesso non dimostra affatto che
il governo italiano avesse intenzione di porlo
in atto. È da tener presente che gli stati
maggiori di tutto il mondo preparano piani di
operazione nei territori confinanti, ad esempio
esiste un piano di operazioni qualora fosse
necessario spingersi in territorio svizzero, e
viceversa per l’esercito del governo svizzero,
ma ciò non dimostra che i due paesi vogliano
occuparsi militarmente.
*****
La sorte del “territorio libero” A e B, fu
decisa definitivamente l’8 ottobre 1953, quando
fu consegnata al governo italiano la
“dichiarazione bipartita”, che prevedeva la
riconsegna “provvisoria” della zona A
all’autorità italiana, ed un secondo documento,
segretissimo, che, praticamente, toglieva ogni
speranza sulla possibilità, anche futura, di
rientrare in possesso dei territori della zona
B.
Benché tutti i governanti fossero costernati, ma
impotenti, i giornali dell’epoca in Italia
magnificarono ampiamente il risultato ottenuto
della riconsegna promessa della zona A
all’Italia.
Mostrare i denti rende, fu detto!
Tito, furibondo per non essere stato
preventivamente informato, schierò di nuovo le
truppe sul confine, ma Winterton rimase
assolutamente tranquillo e lascio le sue nelle
caserme: sapeva bene il ruolo formale di tali
azioni del maresciallo, e non riteneva fosse il
caso di mandare i suoi soldati al freddo che era
molto intenso ed alla bora per un pericolo del
tutto inesistente.
Il governo italiano non aveva tale sensibilità:
voglio citare il seguente particolare; ricordo
che all’epoca di quei fatti, nella piccolissima
località dell’Abruzzo dove vivevo, un giovane
del paese era stato mandato sul confine
triestino, e tutti erano preoccupati; la mamma
piangeva, e le donne recitavano con lei il
rosario perché tutto finisse bene. Quando il
giovane tornò, le cose che più raccontava erano
queste: “quanto freddo e vento abbiamo preso!
Stavamo dentro le tende al gelo giorno e notte!
Che siano maledetti tutti!”
Anche Vidali, leader dei comunisti triestini
filo-moscoviti, pensò bene, da consumato
politico, di fare la sua “sceneggiata” e di
trarre qualche profitto da quel gigantesco
“gioco di ruolo”.
Ben sapendo come stavano le cose, ricevendo
notizie direttamente da Mosca, dichiarò, il 21
ottobre 1953, ché, se gli jugoslavi avessero
invaso Trieste i comunisti l’avrebbero difesa.
Da soli, evidentemente, visto che l’esercito
italiano, in proposito, aveva già previsto per
l’eventuale invasione dall’est, la ritirata
tattica e l’inizio della difesa nella pianura
friulana.
Che però l’iniziativa di Vidali non fosse
affatto sprovveduta lo si vide subito: tutti i
partiti triestini si rivolsero a lui, affinché
coordinasse gli eventuali gruppi armati di
difesa.
Vidali, sornione, rispose che era a loro
completa disposizione con la sua lunga
esperienza, ma…occorrevano le armi!
Le chiedessero a Roma, loro che avevano
“audience”, e gliele portassero. (Vidali,
naturalmente, aveva armi proprie, ma si guardava
bene dal rivelarlo).
Il ministro degli interni, però, rispose di no:
le paure verso i titini erano esagerate! Vidali
dunque fallì nel colpo maestro di farsi
rifornire di armi direttamente dalla NATO.
Tutto questo però proprio mentre sui giornali di
tutta Italia si parlava di una invasione
jugoslava imminente.
Ma questa è la politica!
Le armi, comunque, il ministro degli interni
Taviani le dette ai triestini, subito dopo, ma
non a Vidali, naturalmente bensì a Martini
Mauri, con l’incarico di consegnarle solo agli
anticomunisti convinti.
Erano le premesse di quella che sarebbe stata
poi la “gladio”.
Winterton sapeva e avallava, in funzione
antisovietica, come misura di garanzia, se, mai,
l’armata rossa (non quella “amica” jugoslava)
fosse arrivata da queste parti.
Ma tutto questo circa la gladio e le armi è
stato rivelato solo molti anni dopo dalle
inchieste del giudice veneziano Mastelloni.
*****
Se una vera paura aveva, in quell’autunno del
1953, l’opinione pubblica triestina, nella sua
quasi totalità, questa era che scoppiasse una
nuova sia pur limitata e parziale guerra che
vedesse coinvolta la città.
Questa ipotesi era, come già detto,
assolutamente respinta, e per il mantenimento
della pace tutti erano disposti a fare qualsiasi
sacrificio, incluso il mantenimento a tempo
indeterminato dello status quo che stavano
vivendo.
Questo elemento di tensione, non è da
sottovalutare per spiegare i tragici e luttuosi
incidenti del novembre 1953 ma la vera genesi
degli stessi va, però, cercata altrove.
Il maresciallo Tito, rabbioso per non essere
stato preventivamente informato circa le ultime
decisioni di riconsegnare la città
all’amministrazione italiana, ben sapeva che a
simili decisioni non avrebbe potuto in alcun
modo opporsi; aveva già da tempo rinunciato ad
occupare Trieste, e, tra l’altro, incassava
l’assicurazione di proprietà definitiva di tutte
le altre terre che aveva occupato, inoltre aveva
lo sbocco a mare della Slovenia che tanto aveva
voluto.
Tra l’altro, i suoi rapporti all’epoca con gli
USA di Eisenhower erano particolarmente
favorevoli, e su gli stessi egli contava
particolarmente.
Inoltre, la sicurezza da parte sovietica ancora
non c’era: gli aveva iniziato un sicuro ma lento
riavvicinamento a Mosca dopo la morte di Stalin,
e Mosca non avrebbe certo avallato iniziative
militari per una questione marginale a livello
mondiale quale era quella di Trieste.
Rimaneva, però, la carta politica da giocare,
(es. in politica Tito era maestro) della
“strategia della tensione” sul confine.
Truppe schierate, incidenti, dichiarazioni
bellicose, che non certo sulle cancellerie che
ben conoscevano la situazione sottostante, ma su
l’opinione pubblica avevano grosso effetto.
A Trieste la tensione era al massimo: gli
italiani temevano una invasione slava, su cui
insisteva la stampa di destra manovrata dal
governo di Roma, gli sloveni, di ogni tendenza,
che vivevano sul territorio di Trieste, non
gradivano un ritorno dell’Italia memori delle
precedenti persecuzioni fasciste e pre-fasciste,
gli indipendentisti erano insoddisfatti perché
vedevano sfumare il loro progetto, gran parte
della popolazione che viveva dell’indotto
dell’occupazione paventava una crisi economica
poi regolarmente verificatasi.
Oltre a ciò, però c’era un altro elemento
assolutamente determinante, e, cioè, la
necessità di politica interna del governo Pella,
che, con la sua precaria maggioranza poggiante
sulla destra, aveva assoluto bisogno di
galvanizzare l’opinione pubblica con una
battaglia dai forti contenuti emotivi.
Per questo favorì gli incidenti del novembre
1953, ed accettò una conclusione minimale, e
molto sfavorevole, della questione triestina.
Tale è anche l’opinione di De Castro.
Tutti quegli eventi già fin troppo dettagliati
in migliaia di pubblicazioni, vanno letti, ed
hanno una spiegazione soddisfacente, solo alla
luce di questa prospettiva.
La città fu riempita di attivisti inviati da
fuori a cura della “intelligence” italiana, tra
cui anche militari in borghesi, agli studenti fu
impedito di andare a scuola (cosa che gli stessi
gradirono molto) un’organizzazione centrale
molto efficiente e fornita di mezzi guidava le
manifestazioni.
In precedenza, il sindaco Bartoli aveva fatto
disselciare la piazza S. Antonio Nuovo,
procurando così ottimi “proiettili” di pietra di
cui i manifestanti avrebbero fatto largo uso.
Il vescovo Santin, che, con Bartoli, dava una
mano consistente al governo di Roma, riconsacrò
solennemente la chiesa di S. Antonio Nuovo
“profanata” dalla polizia, accendendo ancora di
più gli animi.
Finita la cerimonia i poliziotti del maggiore
Willams furono bersagliati dai pesantissimi
cubetti di porfido che Bartoli aveva fatto
accumulare per riparare la piazza, e, temendo un
assalto alla loro caserma vicina, aprirono il
fuoco.
Da allora fu un succedersi di scontri e di colpi
di arma da fuoco.
Il giorno successivo, mentre la tensione era al
massimo e De Castro cercava una soluzione
negoziata, Bartoli fece esporre di nuovo la
vietata bandiera italiana sul palazzo del
municipio.
Era autentica benzina sul fuoco. Senza
quest’ultimo episodio, in particolare, quelle
vittime sarebbero state risparmiate e Trieste
sarebbe comunque ritornata all’Italia.
Dimostranti addestrati lanciarono tre bombe a
mano contro le camionette, ed i poliziotti
aprirono il fuoco.
Solo allora il vescovo Santin uscì a calmare gli
animi che aveva purtroppo contribuito a
infiammare, mentre De Castro provvide, da solo,
e con il consenso evidente del governo militare
alleato a far uscire dal territorio i numerosi
provocatori venuti da fuori, ed ora terrorizzati
dalla piega degli eventi.
Alcuni di loro dissero successivamente che erano
stati condotti in alcuni alberghi della zona di
Rimini in attesa che le acque si calmassero.
Le autorità alleate, ovviamente, non vollero
dare agli stessi nessuna caccia.
Le condanne che la corte alleata inflisse ai
dimostranti furono abbastanza leggere,
nonostante le numerose bombe lanciate e i
numerosi poliziotti feriti.
Non restò che celebrare i funerali, ed il
governo Pella tentò di approfittarne per fini
propagandistici.
Il presidente del consiglio voleva venire, ma
Winterton rifiutò.
Terminata la cerimonia funebre, che vide un
autentico dolore, i rapporti della popolazione
triestina nel suo complesso con le autorità di
occupazione furono assolutamente normali.
Rimanevano i morti, vittime di una logica
politica che sovrasta gli individui.
Qui sopra abbiamo descritto il nostro punto di
vista, tendente a spiegare che il ritorno di
Trieste all’Italia fu un’operazione di politica
internazionale decisa altrove fin dal 1948,
messa in “sonno” dati i rapporti tra la Nato e
il governo di Tito, e conclusa alla fine per
esaurimento dei motivi di tensione.
È nostra opinione che anche senza quegli
incidenti Trieste sarebbe ritornata all’Italia.
(fine)
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