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COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA

ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU



 
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                        (248 byte) documentazione


Novembre 1953 - una controlettura


di Vincenzo Cerceo
prefazione di Tullio Mayer


pubblicato da "La Nuova Alabarda" - C.P. 57 - 34100 Trieste
nuovaalabarda(a)yahoo.it


Prefazione - di Tullio Mayer

Da vecchio socialista, divenuto nel 1971 (dopo lo strano attentato all’allora senatore Vittorio Vidali, leader storico del PCI triestino, avvenuto alla Stazione ferroviaria centrale) primo presidente del Comitato Unitario contro il fascismo e la repressione, in cui rappresentavo il Movimento dei Giornalisti Democratici, dirò subito che le celebrazioni, tuttora in pieno svolgimento, del 50° anniversario del ritorno di Trieste all’Italia (in cui si inserisce il ricordo dei luttuosi avvenimenti del novembre 1953), così come sono state impostate e vengono condotte dalla Giunta comunale e da quella provinciale espresse dal centro destra (spesso peraltro, e spiace doverlo rilevare, con il pieno consenso dei consiglieri di centrosinistra, degli illyani e dello stesso PRC) assieme ad organizzazioni quali la Lega Nazionale, l’Unione degli Istriani ecc., mi sono sembrate francamente inaccettabili per le accentuate caratterizzazioni nazionaliste, revansciste ed antislave.

Così ne ho parlato con un vecchio amico, il pubblicista Vincenzo Cerceo, che ho conosciuto oltre 20 anni fa quando, ufficiale superiore della Guardia di Finanza, comandava a Trieste il Gruppo Operativo Antidroga prima di venir chiamato a dirigere il GICO (Gruppo Investigativo contro la Criminalità Organizzata) regionale, per esserne quindi allontanato proprio mentre cercava di indagare, senza riguardi per nessuno, su incarico della Procura della Repubblica, su alcuni rilevanti casi di corruzione e di malaffare a livello politico-amministrativo. Con Vincenzo Cerceo abbiamo coinvolto la pubblicista Claudia Cernigoi, direttrice del periodico “La Nuova Alabarda”, che ha curato la pubblicazione di questo dossier.

Il testo di Cerceo fa chiarezza sulle vicende dell’ottobre-novembre 1953 e può considerarsi, a mio giudizio, un utile completamento rispetto al recente volume del collega Silvio Maranzana (“Le armi per Trieste italiana”, Italo Svevo 2003) che, pur interessante e documentato, risente di un equivoco di fondo laddove tende a giustificare, in nome di un “nobile ideale”, i numerosi e gravissimi illeciti, veri e propri reati perseguibili d’ufficio secondo il Codice penale italiano, di cui si sono resi autori, a quell’epoca, esponenti del Governo di Roma, alcuni funzionari dell’amministrazione statale a vari livelli e i dirigenti dei principali partiti filoitaliani e delle squadracce fasciste a Trieste, non ultimo l’allora sindaco, il democristiano Gianni Bartoli.

Intanto, pongo un quesito: si provino oggi (con un governo di centrodestra, ma lo stesso valga per i passati governi dell’Ulivo) gruppi di facinorosi spesso ben addestrati alla guerriglia urbana, armati di pietre, spranghe, bastoni e bombe a mano ad assaltare Questura, Prefettura, sedi politico-culturali e circoli ricreativi, veicoli della Polizia e delle Forze armate: vedremo se l’inevitabile reazione delle forze dell’ordine sarà molto diversa rispetto a quella attuata dai “cerini” della Venezia Giulia Police Force nel novembre 1953.

È tuttora viva la memoria di quanto accaduto a Genova nel luglio 2001 ai tempi del G8, quando le forze dell’ordine reagirono (anche in modo esasperato e non senza contraddizioni) ad oggettive e ripetute quanto gratuite azioni violente messe in atto da no global, black bloc e disobbedienti di varia estrazione. Del resto, negli anni ‘60, sia ai tempi del governo Tambroni sia dopo (in pieno centrosinistra), la Polizia italiana reagì più volte usando le armi da fuoco oltre ai lacrimogeni, sfollagente eccetera, e provocando morti e feriti in gravi situazioni di ordine pubblico: a Reggio Emilia come a Modena, Battipaglia, Avola. Ma nessun pubblico amministratore si è mai sognato di chiedere al Capo dello Stato la concessione della Medaglia d’oro come “eroe nazionale” per Carlo Giuliani o per i cittadini falciati in altri episodi dal piombo delle forze dell’ordine: eppure anch’essi sono morti, magari usando spranghe, pietre, molotov o estintori, in nome di un qualche ideale sulla cui nobiltà non sta a noi giudicare.

Ma vorrei concludere questo mio intervento con un ricordo personale dei giorni di novembre ‘53: avevo quattordici anni e mezzo ed appartenevo ad una famiglia di sentimenti italiani sì, ma antifascista e aliena da ogni atto di violenza. Il mattino del 5 novembre trovai bloccato l’accesso alla scuola media del Viale XX Settembre (l’attuale Divisione Julia, allora scuola media annessa al ginnasio-liceo Francesco Petrarca) ad opera di ragazzi più anziani di me: liceali, qualche universitario, ma anche facinorosi dei Circoli di Cavana e del Viale. “Muli, ogi no se va a scola, xe sciopero”, venne detto a me ed ai miei coetanei della terza media e delle classi inferiori, con la connivenza, a dire il vero, di parte degli insegnanti. Quando, ingenuamente, chiesi perché avrei dovuto scioperare (“spontaneamente”, s’intende), mi fu risposto che avremmo dovuto manifestare per “Trieste italiana” e che il nostro primo obiettivo sarebbe stato raggiungere in corteo il complesso scolastico di via Foscolo/via Manzoni, dove aveva sede l’Istituto tecnico per geometri Leonardo Da Vinci, i cui allievi, forse meno dotati di sentimento nazionale, stavano regolarmente frequentando le lezioni.

Intanto, da un plotoncino di “cerini” della Divisione Uniforme che presidiava il vicino Supercinema requisito dagli Inglesi, nella regolamentare divisa blu tipo “bobby” di Londra, si staccò un mio secondo cugino, in forza al Distretto centrale di piazza Dalmazia, per sconsigliarmi da partecipare a qualsiasi manifestazione, aggiungendo che la situazione era molto tesa dopo gli incidenti del pomeriggio e della serata precedenti. Così mi accodai al corteo niente affatto spontaneo, ed in via Foscolo, mentre manifestava (tra slogan antijugoslavi, bandiere tricolori, inni e canti del Ventennio, qualcuno provvedeva a divellere dai marciapiedi i paletti reggi-catenelle per impugnarli a mo’ di clava), venne raggiunto da una vettura, una Fiat 1100 a sei posti del servizio di emergenza della Polizia Civile. Il capopattuglia segnalò la situazione via radiotelefono e poco dopo, quando il corteo, ormai ingrossato, sbucò in via Oriani e largo Barriera Vecchia, tra sibili di sirene ecco arrivare una mezza dozzina di jeep del Nucleo mobile, protette da reti metalliche, che con un po’ di caroselli e qualche manganellata dispersero la manifestazione, almeno per il momento.

Ma il raduno dei cortei provenienti dalle varie scuole e ai quali partecipò successivamente meno di un migliaio di persone (mentre la maggior parte della città rimaneva a guardare) era fissato in piazza Sant’Antonio, opportunamente disselciata dagli operai del comune nei giorni precedenti, assieme all’attigua via Dante Alighieri. Proprio in quei paraggi, al numero 2 della via Trenta Ottobre, aveva sede il comando della Polizia Civile (una struttura corrispondente all’attuale Questura), che ospitava anche gli uffici della CID, la Divisione Criminale Investigativa. Lì, a quanto mi ha recentemente riferito un ex ispettore della “sezione speciale”, alcuni poliziotti in contatto con ambienti italiani sarebbero stati pronti ad usare le armi da fuoco contro i loro colleghi e gli ufficiali superiori inglesi, per dare una mano ai dimostranti.

Quanto all’irruzione dei “cerini” nella chiesa, dove si erano rifugiati parecchi giovani manifestanti, irruzione tanto criminalizzata quasi fosse un sacrilegio, mi chiedo se oggi, poniamo un rapinatore armato corre a nascondersi in qualsiasi chiesa, la Polizia o i Carabinieri non debbano inseguirlo ed arrestarlo magari davanti all’altare: nessun Concordato ha mai previsto una sorta di “immunità” per gli edifici di culto, cattolici o di altre religioni.

Io comunque, dopo le cariche in largo Barriera, me ne andai a casa, posai la cartella di scuola e presi la macchina fotografica regalatami da mio padre, una vecchia Kodak (ovviamente, inglese) a soffietto. In quel periodo avevo deciso che, da grande, avrei fatto il giornalista: sempre meglio che lavorare, avrebbe detto più di vent’anni dopo un mio caporedattore alla RAI. E me ne andai in giro per la città, evitando di stare in “prima linea”.

Tullio Mayer (giornalista professionista dall’agosto 1967)



Novembre 1953 - una controlettura

I cinquant’anni dai tragici fatti del novembre 1953, ed i prossimi cinquanta anni dal più che (a parere di chi scrive) legittimo dal punto di vista nazionale ed etnico (almeno per la maggioranza degli abitanti di Trieste) ritorno della città sotto sovranità italiana (vi furono in effetti alcuni rappresentanti della “minoranza” che all’epoca lottarono ed anche morirono per impedire quel ritorno sotto sovranità italiana, ed anch’essi erano triestini) vanno mostrando, ancora una volta, come, nonostante l’ormai considerevole tempo trascorso da quegli eventi, una lettura storica, esclusivamente “storica”, degli stessi sia, in questa città, al momento, impossibile, almeno a livello di opinione pubblica generale.

La ricerca storica vera e propria, in effetti, quella cioè compiuta dagli specialisti, pur sulla base di documentazione ancora parziale, ha già dato di quegli eventi una lettura sufficientemente obiettiva, e lo stesso hanno fatto personaggi pubblici la cui autorevolezza può collocarli “super partes”, (De Castro, ad esempio), ma, in quella pubblicistica, pur a volte interessante, che si concretizza in lavori e testimonianze che emergono sulla stampa quotidiana e periodica, nessuna “obiettività” è ancora possibile.

Segno evidente, questo, che l’opinione pubblica triestina, nella sua globalità, al di fuori delle componenti specialistiche della ricerca storica, non ha ancora raggiunto quella maturità di emozioni e di giudizio critico che consenta di porre in essere quella categoria crociana dello Spirito che, evitando di sconfinare nell’interesse politico, renda possibile la pura e semplice ricerca della verità storica, “sine ira ac studio”, appunto.

È un peccato tutto ciò, perché, soprattutto, la dovizia di mezzi economici che viene impiegata in pubblicazioni, (a volte con il solo pregio della eleganza e della “patinatura”), non si concretizza in progresso per la ricerca storica, e, sono, dunque, soldi a tal fine in gran parte sprecati.

Trattasi, in effetti, di lavori non destinati ad incidere a livello scientifico, ed a durare lo spazio puro e semplice di una contingenza.

I cinquanta anni del ritorno della città sotto sovranità italiana (per inciso chi scrive è ben lieto che ciò sia avvenuto) lasciano prevedere, per questo 2004, che questa tendenza dispendiosa ed inutile continuerà.

Sui “mass media”, quelle verità che gli storici hanno, abbastanza concordemente, acclarato, o vanno definendo, traspare come velata, come se si avesse timore di esprimerla apertamente. Come se si avesse timore di dispiacere troppo a parte dell’opinione pubblica.

Ma la verità, dopo cinquant’anni, va rivelata, noi riteniamo, senza più veli che la offuschino, anche sui giornali.

Questa è la nostra opinione.

Proviamo a dare una nostra lettura, a decifrare quegli eventi, senza particolare aggiunta di inediti, ma elaborando solo diversamente quei dati già da altri forniti.

Una opinione, come tante altre.

Chi non è nato a Trieste, forse, può farlo meglio dei locali.

*****

È significativa la pagina che “ Il Piccolo” di Trieste, quotidiano che quasi monopolizza l’opinione pubblica della città, (cosa che non è affatto positiva), dedica, il 5.11.1993, agli eventi del 6.11.1953: si riproduce, testualmente, la prima pagina del “Giornale di Trieste” di quarant’anni prima, la quale, ovviamente, essendo stata stampata in situazioni del tutto diverse ed altamente drammatiche, non poteva che portare un messaggio, ai lettori di allora, dall’impatto estremamente emotivo. Vi appaiono, infatti, alcune foto di quelle giornate di incidenti (che, come tutte le foto,ben difficilmente, quando si tratta di disordini, riescono a chiarire qualcosa, ma, anzi, possono ben essere soggette ad interpretazioni mistificanti di ogni tendenza), e, soprattutto, vi appare un titolo dal contenuto assolutamente unidimensionale: “La polizia spara sulla folla inerme”.

La prima vista di quel messaggio giornalistico a grandi caratteri trascura completamente le sassaiole che vi furono ad opera dei dimostranti né pacifici né inermi, le bombe a mano lanciate (una sola, verrà minimizzato successivamente, ma furono invece 5 o 6 ) dai dimostranti cosiddetti “inermi”; la gigantesca serie di reati che gli stessi stavano, obiettivamente (se pur per una causa che ritenevano nobile) ponendo in essere contro le leggi del governo in carica (legittimo in quanto riconosciuto anche da Roma, sia pur perché imposto dal Trattato di pace), le camionette della Polizia rovesciate e bruciate, i tentativi di disarmo di agenti da parte di alcuni dimostranti, i feriti tra i poliziotti (uno dei quali, con i polmoni perforati, morì l’anno successivo per le conseguenze di quegli eventi). Il fatto che quaranta anni dopo, senza alcuno spirito critico oppure semplicemente analitico, il quotidiano di massima informazione della città riproduca testualmente, come “immagine”, (le immagini hanno di per se stesse, come è noto, un valore mediatico ben più forte dei commenti scritti che passano rispetto alle stesse decisamente in secondo piano) quella lontana pagina di giornale, in una situazione storica, politica ed emotiva del tutto diverse, dà chiaramente l’idea di come poco sia cambiato, da allora, nei sentimenti dell’opinione pubblica di questa città, e di come, soprattutto, che potrebbe favorire una evoluzione dell’opinione pubblica stessa in senso positivo sull’argomento, per favorire la razionalità anziché l’emotività, si astenga dal farlo; anzi: lavori per il mantenimento dello stato di emotività di quell’epoca, senza che, oramai, ve ne sia, storicamente, più alcuna necessità. Dal punto di vista politico contingente, ovviamente, è tutta un’altra cosa.

*****

La bibliografia, e la pubblicistica, sugli eventi del 1953-1954 in Trieste è davvero notevole, ed in fase di continuo accrescimento; per ultimo, tra le serie di testi che emergono dalla piattezza nazionalistica, vanno ricordati quegli scritti, sia pur in gran parte con finalità più ampie, del giornalista Maranzana, e, soprattutto, quello, egregio ed insuperabile, dell’Ambasciatore “ad acta” De Castro intitolato: “ Memorie di un novant’enne”, ma in questa sede, come abbiamo già preannunziato, molto più semplicemente tenteremo di dare dei fatti già da tempo acquisiti, e da tutti (o quasi) condivisi, (in ogni caso dei fatti già passati per un sufficiente vaglio da parte della critica storica), una lettura diversa da quella che la marea di pubblicazioni di orientamento nazionalistico, abbondantemente finanziate con denaro pubblico, tende a dare. Tra le voci critiche del settore giornalistico, vanno altresì ricordati gli interventi e gli scritti di Tullio Mayer, che all’epoca dei fatti fu presente ed attento osservatore.

*****

Diego De Castro, intellettuale di gran livello, professore universitario e “diplomatico” per la contingenza triestina, e tra coloro che più di tutti conoscono dal vivo la questione triestina, relativamente al decennio post bellico.

Persona di origine e cultura decisamente borghese, ma di quella borghesia che ancora riusciva ad esprimere nobiltà interiore (oggi non esiste quasi più!), il professor De Castro, di origine istriana, legatissimo alla sua terra, e perciò al di fuori di ogni possibile contestazione da parte nazionalistica, riuscì a convivere con il fascismo senza sporcarsi con lo stesso.

A guerra iniziata, e dopo essersi sostanzialmente opposto all’infamia delle leggi razziste o razziali che dir si voglia in base alla sua competenza scientifica di studioso di demografia, di livello internazionale, il De Castro attese gli alleati a Roma nel giugno del 1944, e, una volta giunti gli stessi, entrò in contatto organico con l’“Intelligence” inglese.

Ormai novantenne, dopo aver scritto (a mano, precisa, come si usava allora!) centinaia di milioni di parole e pubblicato innumerevoli scritti di ricerca scientifica e di storia, ha deciso di dare alle stampe un libro di memorie, la cui lettura (trattavasi, per il professor De Castro di recente scomparso, di un autentico “archivio vivente” che metteva alcune cose, solo alcune di quelle che conosceva, ma importanti! A disposizione della conoscenza scientifica) è di valore altissimo.

La ricerca storica, soprattutto, può trarne vantaggio per le precisazioni decisive che questa sua testimonianza apporta su molti punti controversi. È strano che la documentazione del professor De Castro venga tenuta in così poco conto dalla pubblicistica nazionalista.

Per fare qualche esempio è sua ferma convinzione che Mussolini fosse convinto fin dal primo momento della sua alleanza con Hitler, della necessità di cedere Trieste al Reich; a questa città, infatti, Hitler non era disposto assolutamente a rinunziare, ed al Duce del Fascismo l’italianità della città non stava a cuore fino al punto da costituire un tabù.

Ancor più importante, poi, è la conferma che De Castro dà circa le “manovre” atte a stipulare un accordo, in queste terre, tra la X mas di Borghese e la brigata partigiana Bianca” “Osoppo”(parte di quale fu poi eliminata proprio per questo motivo dagli uomini del partigiano “Giacca”) al fine di fronteggiare, tutti insieme, con le armi, gli Jugoslavi a guerra finita.

Un ufficiale di Marina, il Comandante Medaglia d’Oro Marcecaglia, già collega di corso e di armi del Borghese, prigioniero degli inglesi a Malta, era stato inviato, in queste zone, dagli Alleati proprio con questo compito.

Infine, De Castro parla delle iniziative da lui perorate per far effettuare uno sbarco alleato in Istria (doveva operare la Marina italiana che era a Malta) al fine di evitare che gli jugoslavi di Tito occupassero l’Istria e Trieste; ma si trovò di fronte ad un ostacolo insormontabile: Stalin e Roosvelt avevano deciso già che quella zona di operazioni era riservata alle truppe di Tito!

Per quanto riguarda più specificamente il nostro campo, una sua affermazione riteniamo rilevante: all’epoca, Trieste era percorsa in continuazione da cortei che inneggiavano all’italianità, ma c’erano anche vari cortei, (sicuramente in numero minore, ma pur ben presenti!) che inneggiavano all’annessione alla Jugoslavia.

C’era, poi, un’altra minoranza che ipotizzava soluzioni diverse (tutt’ora presenti sulla scena politica della città) e cioè l’Indipendentismo.

La città, dunque, era realmente divisa: accanto ad una maggioranza attiva filo-italiana, c’era anche (lo dice De Castro) una minoranza attiva filo-jugoslava.

Il voler negare tutto ciò, equivale a voler negare la realtà dei fatti.

Non tutti i triestini volevano Trieste italiana.

*****

Una volta partite da Trieste le truppe jugoslave, che avevano liberato la città dai nazisti, fu subito posto il problema del futuro della città stessa, e presto fu risolto in linea di principio.

Nel 1948, infatti, la cosiddetta “Dichiarazione tripartita” (Londra, Washington e Parigi) stabilì il diritto per l’Italia di rientrare in possesso pieno della città. Se la cosa non ebbe subito attuazione, ciò fu perché si tentò, ed a ragione, di ottenere anche il resto dei territori già italiani, tuttavia, fin dal 1948, nessun dubbio poteva più ragionevolmente esservi circa l’intenzione piena degli occidentali di restituire la città all’amministrazione e, quindi, alla sovranità italiana.

Con la rottura anti-Cominform di Tito, quello stesso anno, la questione venne ad essere messa “in sonno” circa l’effettiva attuabilità; la politica degli alleati verso Tito era cambiata, e l’Italia dovette attendere ancora anni prima di riavere la città giuliana. Non si voleva scontentare Tito, ma nemmeno dargli troppo potere ed autorità. Trieste era una carta di questo gioco diplomatico.

Alla luce di questi fatti politici internazionali di grande importanza va vista la figura del governatore Winterton e del suo asserito anti-italianismo.

Winterton, come tutti i militari, eseguiva, semplicemente, le direttive del suo governo, quello inglese, come aveva, in precedenza, fatto il suo predecessore, Airey.

La differenza sta solo nel fatto che Airey, avendo governato prima della svolta anti-cominforrmista di Tito, doveva svolgere, per ordini superiori, una politica totalmente filo-italiana, mentre Winterton, per non dispiacere a Tito, aveva molto meno possibilità di compiacere gli italiani. Tutto qui.

Anche nel novembre del 1953, se la polizia triestina sparò sui dimostranti, oltre alle loro provocazioni che qui in seguito diremo, fu anche perché il superiore di Winterton, il generale Alexander, dal suo comando in Germania, aveva dato allo stesso ordini precisi di reprimere con tutti i mezzi uno eventuale tentativo gestito dal governo Italiano di occupazione della città tramite disordini, cosa che Alexander riteneva fosse possibile. Ce anche da tener presente la tradizione tipica dei militari inglesi per cui chi usa la forza nei confronti delle loro forze armate va annientato e umiliato.

All’epoca, purtroppo, tutte le decisioni venivano prese a Londra e Washington, e notificate, semplicemente, a Roma, a volte con la clausola diplomatica del “ne varietur”: prendere o lasciare, e lasciare voleva dire perdere tutto.

L’8 marzo 1953, durante una manifestazione autorizzata che rischiava di sfociare in gravi incidenti provocati, uno dei dimostranti tentò di liberarsi di una bomba a mano che portava in tasca (evidentemente per usarla al momento opportuno; o no?). La bomba esplose, e ferì, oltre allo stesso, (un neofascista), anche alcuni dimostranti, vittime, questa volta, non certo della polizia civile:

Il fatto servì a calmare gli animi; i neofascisti, vistisi scoperti, invitarono alla calma, e lo stesso sindaco Bartoli, che era il principale sostenitore del nazionalismo, (insieme al vescovo Santin) fecero la stessa cosa.

Gli incidenti cessarono. La folla, da sola, non si muoveva, ma era manovrata. Lo fu anche a novembre.

Oggi sappiamo con certezza che, a prescindere da ogni azione ed iniziativa di quelle persone che, in buona fede (i più) o per “ordini superiori” (alcuni, qualcuno dei quali anche retribuito) scendevano i piazza a difesa di una italianità di Trieste che dal 1948 nessuno metteva più seriamente in discussione, a livello internazionale, la partita che si giocava era di ordine diverso, molto più complessa, esclusivamente di politica internazionale, e si decideva non a Trieste e neppure a Roma e Belgrado, ma, come già detto a Londra, Washington, Mosca.

Il quadro, oggi, è chiaro: la rottura di Tito con Mosca, nel 1948, aveva ulteriormente reso complessa una situazione già fin dal primo momento complicata.

Se, prima di allora, lo scontro tra oriente e occidente si definiva bene nei termini, da quel momento furono introdotte nuove variabili distinguibili solo sotto la prospettiva dei più sottili giochi diplomatici, che il De Castro, protagonista di parte degli stessi, mette bene in evidenza.

Rimaneva lo scontro tra “mondo libero” e comunismo, (e di quest’ultimo faceva parte sicuramente la Jugoslavia di Tito) ma esigenze militari immediate  rendevano necessaria una collaborazione attiva e diretta seppur anomala degli alleati e della NATO con il governo del maresciallo Tito, che garantiva fortemente dal temuto “colpo di maglio” dell’armata rossa conto gli stati occidentali attraverso la cosiddetta “porta di Lubiana” che Tito provvedeva a tenere chiusa. Era questa un’esigenza fondamentale e prioritaria per gli occidentali.

Lo stesso Tito, d’altra parte, assicuratosi il vantaggio base per lui fondamentale del sostegno economico occidentale al suo paese in funzione antisovietica, provava a giocare la carta tendente a creare una “superpotenza” (!) jugoslava a livello balcanico, cosa che gli USA non erano, però, disposti ad accettare.

La questione triestina era parte minore ma pur sempre importante di questo complesso gioco, per cui i primi ad avere interesse, all’inizio degli anni ’50, ad una definizione della intera vicenda erano proprio i paesi NATO, che intendevano togliere dalle mani dell’abile maresciallo almeno questo strumento minore di pressione.

Il maresciallo, ovviamente, aveva tutto l’interesse opposto.

La lunga serie di progetti, in proposito, gestiti e diretti in prima persona dal De Castro, parlano chiaro.

A tutti, però, dovrebbe apparire evidente, che, in simile contesto, le manifestazioni di piazza contavano molto poco, per non dire nulla.

Questa è la verità storica.

Obiettivo americano, semmai, era quello di trovare una soluzione adatta alle esigenze di entrambi, sia a quelle di Belgrado, che da tempo aveva rinunciato ad occupare Trieste, (le dichiarazioni ai fini di propaganda sono un’altra cosa) sia a quelle di Roma, che da tempo, (anche se tacitamente, e De Gasperi ne era ben consapevole) aveva dovuto rinunciare a rientrare in possesso dei territori istriani.

Ma questo accordo era impresa del tutto degna del letto di Procuste!

Intanto, si trattava, si progettava, si temporeggiava, si faceva diplomazia; ma solo sui dettagli del nuovo confine, oramai! 

Ci fu chi, da noi, dal punto di vista nazionalista, incominciò anche a sperare in Mosca ed in Malencov, che, forse, in funzione antititina, avrebbero potuto essere utili al recupero di quelle terre ed al ritorno degli esuli! La stessa speranza che, negli anni ‘90, con il disfacimento della Jugoslavia hanno riposto coloro che volevano sostenere la Serbia contro la Croazia per tentare così di riottenere Zara e Spalato. La storia, a volte, è strana e segue strade tortuose.

*****

Nell’estate del 1953, le elezioni politiche in Italia videro l’instaurarsi, a Roma, di un governo di centro destra.

Quest’evento fu determinante, ai fini della comprensione dei fatti dell’autunno di quello stesso anno nella città di Trieste. Con De Gasperi, forse, le cose sarebbero andate diversamente.

De Gasperi, infatti, aveva sempre mostrato, circa la questione jugoslava, una notevole moderazione, tenendo anche ben conto della situazione internazionale, degli interessi difensivi della NATO, e della volontà americana di non scontentare Tito, in quel periodo più che mai necessario agli interessi strategici dell’occidente in funzione antisovietica.

Il cambio di governo a Roma avvenne, con una “svolta a destra”, nel momento in cui i tentativi di approccio titini verso Mosca, dopo la morte di Stalin, inducevano il nuovo presidente americano Eisenhower a più larghi sorrisi ed a maggiore disponibilità verso Belgrado.

Eisenhower non voleva scontentare Tito, e questi ne approfittava per avere il più possibile, anche dal punto di vista dell’importanza politica data la sua nota vanagloria.

Il governo Pella si reggeva sul sostegno delle destre e dei monarchici, ed il suo atteggiamento verso il problema jugoslavo ne risentì immediatamente. Era la carta vincente affinché il governo italiano si stabilizzasse e durasse di più.

Tito, approfittando di ciò, oltre a compiere gesti simbolici come il raduno di partigiani sul confine a San Basso, vicino a Gorizia, dichiarò anche la volontà di formalizzare l’annessione (già di fatto avvenuta!) della zona B.

Sapeva che il nuovo presidente americano, Eisenhower, aveva troppo interesse alla sua amicizia per poter reagire in maniera eccessiva a tutto ciò.

Dovendo fronteggiare l’opinione pubblica di destra, a puro titolo propagandistico, Pella decise, come risposta a Tito, di schierare truppe sul confine orientale.

Era, più che altro, un messaggio agli alleati occidentali, affiche tenessero maggior conto del governo di Roma, dagli stessi tenuto, fino a quel punto, in ben poca considerazione circa la vicenda triestina, oltre che uno sfogo per l’opinione pubblica italiana, ma ciò urtò a fondo la nota caratterialità del maresciallo Tito, il quale a sua volta, schierò le truppe.  

Ormai lo stato di tensione si era creato proprio come aveva voluto il governo Pella, per accelerare la definizione della questione triestina: si mirava, in sostanza, al recupero rapido della sola città, rinunciando, di fatto, a tutto il resto, ma all’opinione pubblica si faceva credere altrimenti.

Che si trattasse solo di una sceneggiata lo dimostra ulteriormente il fatto che il delegato italiano De Castro, che in quel periodo era a Montecatini per trascorrere un periodo di cura, chiese al Ministero di rientrare subito in sede, ma, con sua somma sorpresa, si senti rispondere che rimanesse pure li; evidentemente, gli “addetti ai lavori” sapevano benissimo che nulla di grave sarebbe accaduto, e che si stava recitando solo una parte sullo scenario della politica estera di quel tempo, al fine di dare finalmente uno sbocco alla vicenda.

A lavorare, e molto, erano solo le cancellerie dei due ministeri degli esteri, di Roma e Belgrado, che sfornavano a raffica note di protesta e contro note di risposta, ben sapendo, da entrambe le parti, che la cosa valeva solo per le opinioni pubbliche.

Se, poi, qualcuno dei volenterosi cittadini sdegnati moriva in incidenti di piazza, la cosa era prevista. Diplomazia!!

Che le cose stessero così, lo dimostra un fatto significativo: al momento dello schieramento di ruppe da parte del governo Pella, alle richieste di chiarimenti da parte degli alleati infastiditi, da Roma si rispondeva che trattavasi di truppe di quantità minima, e, quindi, il governo di Belgrado poteva stare da quel punto di vista assolutamente sicuro. Tito sapeva, ma fingeva diversamente.

A scanso di equivoci, comunque, il governo americano volle dare un messaggio chiaro al governo italiano, e affermò che la dichiarazione tripartita (quella che dal 1948 dichiarava il diritto dell’Italia alla città di Trieste in linea di principio) “non era eterna”, e, quindi, poteva essere modificata se il governo italiano avesse fatto colpi di testa. “Sutor, ne ultra crepidam”!!

Anche a Trieste, l’opinione pubblica aveva accolto negativamente quello schieramento di truppe. La gente temeva molto una nuova guerra in città, a qualsiasi costo.

Tito, a coronamento di tutta la vicenda, pronunciò in proposito, un discorso ironico e sarcastico, ricordando i crimini compiuti dai nostri soldati sui territori jugoslavi occupati durante la guerra. Di recente, è stato pubblicato un documento dello stato maggiore italiano denominato “operazione delta” che prevedeva l’occupazione militare di Trieste e provincia, ma lo stesso non dimostra affatto che il governo italiano avesse intenzione di porlo in atto. È da tener presente che gli stati maggiori di tutto il mondo preparano piani di operazione nei territori confinanti, ad esempio esiste un piano di operazioni qualora fosse necessario spingersi in territorio svizzero, e viceversa per l’esercito del governo svizzero, ma ciò non dimostra che i due paesi vogliano occuparsi militarmente.

*****

La sorte del “territorio libero” A e B, fu decisa definitivamente l’8 ottobre 1953, quando fu consegnata al governo italiano la “dichiarazione bipartita”, che prevedeva la riconsegna “provvisoria” della zona A all’autorità italiana, ed un secondo documento, segretissimo, che, praticamente, toglieva ogni speranza sulla possibilità, anche futura, di rientrare in possesso dei territori della zona B.

Benché tutti i governanti fossero costernati, ma impotenti, i giornali dell’epoca in Italia magnificarono ampiamente il risultato ottenuto della riconsegna promessa della zona A all’Italia.

Mostrare i denti rende, fu detto!

Tito, furibondo per non essere stato preventivamente informato, schierò di nuovo le truppe sul confine, ma Winterton rimase assolutamente tranquillo e lascio le sue nelle caserme: sapeva bene il ruolo formale di tali azioni del maresciallo, e non riteneva fosse il caso di mandare i suoi soldati al freddo che era molto intenso ed alla bora per un pericolo del tutto inesistente.

Il governo italiano non aveva tale sensibilità: voglio citare il seguente particolare; ricordo che all’epoca di quei fatti, nella piccolissima località dell’Abruzzo dove vivevo, un giovane del paese era stato mandato sul confine triestino, e tutti erano preoccupati; la mamma piangeva, e le donne recitavano con lei il rosario perché tutto finisse bene. Quando il giovane tornò, le cose che più raccontava erano queste: “quanto freddo e vento abbiamo preso! Stavamo dentro le tende al gelo giorno e notte! Che siano maledetti tutti!”

Anche Vidali, leader dei comunisti triestini filo-moscoviti, pensò bene, da consumato politico, di fare la sua “sceneggiata” e di trarre qualche profitto da quel gigantesco “gioco di ruolo”.

Ben sapendo come stavano le cose, ricevendo notizie direttamente da Mosca, dichiarò, il 21 ottobre 1953, ché, se gli jugoslavi avessero invaso Trieste i comunisti l’avrebbero difesa.

Da soli, evidentemente, visto che l’esercito italiano, in proposito, aveva già previsto per l’eventuale invasione dall’est, la ritirata tattica e l’inizio della difesa nella pianura friulana.

Che però l’iniziativa di Vidali non fosse affatto sprovveduta lo si vide subito: tutti i partiti triestini si rivolsero a lui, affinché coordinasse gli eventuali gruppi armati di difesa.

Vidali, sornione, rispose che era a loro completa disposizione con la sua lunga esperienza, ma…occorrevano le armi!

Le chiedessero a Roma, loro che avevano “audience”, e gliele portassero. (Vidali, naturalmente, aveva armi proprie, ma si guardava bene dal rivelarlo).

Il ministro degli interni, però, rispose di no: le paure verso i titini erano esagerate! Vidali dunque fallì nel colpo maestro di farsi rifornire di armi direttamente dalla NATO.

Tutto questo però proprio mentre sui giornali di tutta Italia si parlava di una invasione jugoslava imminente.

Ma questa è la politica!

Le armi, comunque, il ministro degli interni Taviani le dette ai triestini, subito dopo, ma non a Vidali, naturalmente bensì a Martini Mauri, con l’incarico di consegnarle solo agli anticomunisti convinti.

Erano le premesse di quella che sarebbe stata poi la “gladio”.

Winterton sapeva e avallava, in funzione antisovietica, come misura di garanzia, se, mai, l’armata rossa (non quella “amica” jugoslava) fosse arrivata da queste parti.

Ma tutto questo circa la gladio e le armi è stato rivelato solo molti anni dopo dalle inchieste del giudice veneziano Mastelloni.

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Se una vera paura aveva, in quell’autunno del 1953, l’opinione pubblica triestina, nella sua quasi totalità, questa era che scoppiasse una nuova sia pur limitata e parziale guerra che vedesse coinvolta la città.

Questa ipotesi era, come già detto, assolutamente respinta, e per il mantenimento della pace tutti erano disposti a fare qualsiasi sacrificio, incluso il mantenimento a tempo indeterminato dello status quo che stavano vivendo.

Questo elemento di tensione, non è da sottovalutare per spiegare i tragici e luttuosi incidenti del novembre 1953 ma la vera genesi degli stessi va, però, cercata altrove.

Il maresciallo Tito, rabbioso per non essere stato preventivamente informato circa le ultime decisioni di riconsegnare la città all’amministrazione italiana, ben sapeva che a simili decisioni non avrebbe potuto in alcun modo opporsi; aveva già da tempo rinunciato ad occupare Trieste, e, tra l’altro, incassava l’assicurazione di proprietà definitiva di tutte le altre terre che aveva occupato, inoltre aveva lo sbocco a mare della Slovenia che tanto aveva voluto.

Tra l’altro, i suoi rapporti all’epoca con gli USA di Eisenhower erano particolarmente favorevoli, e su gli stessi egli contava particolarmente.

Inoltre, la sicurezza da parte sovietica ancora non c’era: gli aveva iniziato un sicuro ma lento riavvicinamento a Mosca dopo la morte di Stalin, e Mosca non avrebbe certo avallato iniziative militari per una questione marginale a livello mondiale quale era quella di Trieste.

Rimaneva, però, la carta politica da giocare, (es. in politica Tito era maestro) della “strategia della tensione” sul confine.

Truppe schierate, incidenti, dichiarazioni bellicose, che non certo sulle cancellerie che ben conoscevano la situazione sottostante, ma su l’opinione pubblica avevano grosso effetto.

A Trieste la tensione era al massimo: gli italiani temevano una invasione slava, su cui insisteva la stampa di destra manovrata dal governo di Roma, gli sloveni, di ogni tendenza, che vivevano sul territorio di Trieste, non gradivano un ritorno dell’Italia memori delle precedenti persecuzioni fasciste e pre-fasciste, gli indipendentisti erano insoddisfatti perché vedevano sfumare il loro progetto, gran parte della popolazione che viveva dell’indotto dell’occupazione paventava una crisi economica poi regolarmente verificatasi.

Oltre a ciò, però c’era un altro elemento assolutamente determinante, e, cioè, la necessità di politica interna del governo Pella, che, con la sua precaria maggioranza poggiante sulla destra, aveva assoluto bisogno di galvanizzare l’opinione pubblica con una battaglia dai forti contenuti emotivi.

Per questo favorì gli incidenti del novembre 1953, ed accettò una conclusione minimale, e molto sfavorevole, della questione triestina.

Tale è anche l’opinione di De Castro.

Tutti quegli eventi già fin troppo dettagliati in migliaia di pubblicazioni, vanno letti, ed hanno una spiegazione soddisfacente, solo alla luce di questa prospettiva.

La città fu riempita di attivisti inviati da fuori a cura della “intelligence” italiana, tra cui anche militari in borghesi, agli studenti fu impedito di andare a scuola (cosa che gli stessi gradirono molto) un’organizzazione centrale molto efficiente e fornita di mezzi guidava le manifestazioni.

In precedenza, il sindaco Bartoli aveva fatto disselciare la piazza S. Antonio Nuovo, procurando così ottimi “proiettili” di pietra di cui i manifestanti avrebbero fatto largo uso.

Il vescovo Santin, che, con Bartoli, dava una mano consistente al governo di Roma, riconsacrò solennemente la chiesa di S. Antonio Nuovo “profanata” dalla polizia, accendendo ancora di più gli animi.

Finita la cerimonia i poliziotti del maggiore Willams furono bersagliati dai pesantissimi cubetti di porfido che Bartoli aveva fatto accumulare per riparare la piazza, e, temendo un assalto alla loro caserma vicina, aprirono il fuoco.

Da allora fu un succedersi di scontri e di colpi di arma da fuoco.

Il giorno successivo, mentre la tensione era al massimo e De Castro cercava una soluzione negoziata, Bartoli fece esporre di nuovo la vietata bandiera italiana sul palazzo del municipio.

Era autentica benzina sul fuoco. Senza quest’ultimo episodio, in particolare, quelle vittime sarebbero state risparmiate e Trieste sarebbe comunque ritornata all’Italia.

Dimostranti addestrati lanciarono tre bombe a mano contro le camionette, ed i poliziotti aprirono il fuoco.

Solo allora il vescovo Santin uscì a calmare gli animi che aveva purtroppo contribuito a infiammare, mentre De Castro provvide, da solo, e con il consenso evidente del governo militare alleato a far uscire dal territorio i numerosi provocatori venuti da fuori, ed ora terrorizzati dalla piega degli eventi.

Alcuni di loro dissero successivamente che erano stati condotti in alcuni alberghi della zona di Rimini in attesa che le acque si calmassero.

Le autorità alleate, ovviamente, non vollero dare agli stessi nessuna caccia.

Le condanne che la corte alleata inflisse ai dimostranti furono abbastanza leggere, nonostante le numerose bombe lanciate e i numerosi poliziotti feriti.

Non restò che celebrare i funerali, ed il governo Pella tentò di approfittarne per fini propagandistici.

Il presidente del consiglio voleva venire, ma Winterton rifiutò.

Terminata la cerimonia funebre, che vide un autentico dolore, i rapporti della popolazione triestina nel suo complesso con le autorità di occupazione furono assolutamente normali.

Rimanevano i morti, vittime di una logica politica che sovrasta gli individui.

Qui sopra abbiamo descritto il nostro punto di vista, tendente a spiegare che il ritorno di Trieste all’Italia fu un’operazione di politica internazionale decisa altrove fin dal 1948, messa in “sonno” dati i rapporti tra la Nato e il governo di Tito, e conclusa alla fine per esaurimento dei motivi di tensione.

È nostra opinione che anche senza quegli incidenti Trieste sarebbe ritornata all’Italia.

(fine)