La
difficile liberazione dal giogo ottomano
L’attuale obiettivo di creare una “Grande
Albania”, con la
proclamazione unilaterale del "Kosovo
indipendente" sostenuta
dalla maggior parte dei paesi dell’UE, già in
passato trovava
sostegno e ispirazione negli interessi
geostrategici italiani e
nelle mire del Vaticano e degli albanesi
romano-cattolici.
L’idea di una Albania "allargata" come
protettorato italiano,
realizzata dal Fascismo nel 1941, permise la
penetrazione dell’Italia
in Albania, nel Kosovo e Metohija (abbreviato: Kosmet), in
Montenegro e nella
Macedonia occidentale. Una simile strategia
imperialistica era in atto
già prima della I Guerra Mondiale, quando
ancora non
esisteva uno Stato albanese ma solo un vilayet
ottomano.
Il controllo del Kosmet era uno degli obiettivi
del
movimento di liberazione serbo e del programma
di unificazione
nazionale serbo; questo fu evidente sia nella prima insurrezione
(1804 – 1813) sia
nella serie di ribellioni che ebbero luogo nella
"Vecchia Serbia" (Raska o Zeta). Lo
strumento più
efficace delle rappresaglie turche furono gli
albanesi musulmani -
all’epoca denominati arnauti
o con altre denominazioni - sicché ogni moto di
liberazione dei
serbi del Kosmet diventava uno scontro
inevitabile con gli
albanesi. Durante l’insurrezione nel cosiddetto
pascialuk
(territorio
amministrativo) di Belgrado, enormi soprusi
furono perpetrati contro il
popolo serbo del Kosmet. Se ne trova
testimonianza nella documentazione
dei crimini commessi dagli albanesi, negli
appelli all’amministrazione
turca, nei rapporti compilati dai consoli degli
stessi paesi europei
stazionati nella regione (a Bitola, Skoplje,
Prizren, Priština... Si veda: Prepiska /
Documents diplomatiques ...).
Di
fatto, la
prima (1876-1877) e la seconda (1877-1878)
Guerra di Liberazione della
Serbia e del Montenegro (all'epoca Zeta) contro la
Turchia segnarono anche
il primo scontro frontale tra i serbi e gli
albanesi. Gli albanesi
musulmani combattevano contro le truppe serbe in
difesa dell’Impero
Ottomano e per mantenere il controllo delle
terre via via occupate in
Serbia, in cui cioè si andavano stanziando. La
popolazione
cristiana nella Vecchia Serbia subì rappresaglie
sanguinose.
La reazione albanese si diede per la prima volta
una forma organizzata
ed autonoma nella Lega di Prizren
(1878) che
formulò il concetto di “Grande Albania”. Il
programma della Lega era diretto contro i popoli
balcanici che andavano
emancipandosi dall'Impero Ottomano, e
indirettamente era diretto contro
le potenze europee che avevano offerto un pur
blando sostegno alle
aspirazioni di Serbia, Montenegro e Grecia.
Fondata su principi
espansionistici, revanscisti e antislavi, la
Lega ha pesato per decenni
sui rapporti tra il popolo serbo e quello
albanese.
Dopo il 1910 nei Balcani si inasprì sempre più
la
ribellione contro l’Impero Ottomano.
Contro di esso si rivoltavano adesso anche i
feudi albanesi,
particolarmente vicino alla frontiera col
Montenegro. Dopo le due
vittoriose Guerre
Balcaniche
di Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria contro
la Turchia, e dopo la Conferenza di Pace di Londra, lo
Stato albanese (già vilayet
di feudatari albanesi) venne creato nel 1912
-1913 nelle frontiere
dell’odierna Repubblica di Albania. Ma anche
dopo la decisione della
Conferenza degli Ambasciatori di riconoscere l’Albania
indipendente (9 novembre 1921)
le rivendicazioni territoriali nei confronti
della Serbia, e non solo
della Serbia, continuarono.
Nell’impostare le nuove frontiere degli ex feudi
albanesi, l’Austria-Ungheria
- non esente da
appetiti verso i Balcani, e forte della
concessione di un protettorato
religioso sui romanocattolici presenti
nel territorio serbo -
cercava di
spostarle quanto più possibile a nord, dove si
trovava in
prevalenza la popolazione romanocattolica.
L'Austria si adoperava per
formare lo Stato indipendente albanese,
ritenendo che esso sarebbe
stato parte della sua sfera di interesse ed
avrebbe contribuito ad
allontanare la Serbia dal mare Adriatico.
Dai giornali austriaci
venivano sferrati attacchi contro la Serbia:
così ad esempio il
viennese “Die Information” la accusava di non
essere tollerante verso
la missione cattolica.
Anche il
Montenegro
cercava di opporsi al protettorato religioso
austriaco. Per il
Montenegro era importante, in caso di azioni
militari verso Skadar
(Scutari), assicurarsi l’aiuto degli albanesi
romanocattolici.
Perciò il Montenegro tra i primi si interessò
agli
albanesi arbanassi
(cattolici
nei territori turchi). Il Montenegro li
aiutava con armi,
permetteva ai propri cittadini di aiutarli, di
accogliere i fuggiaschi.
Il Montenegro innanzitutto cercava di recuperare
la città di
Scutari – capitale del Regno Serbo di Zeta, le
cui tradizioni amava
citare il re Nikola (primo ed ultimo Re
montenegrino) nel proclamare il
Regno di Montenegro.
La Bosnia
fu un
protettorato austriaco fino alla Prima Guerra
Mondiale. Il clero
romanocattolico austriaco
già nel 1912 aveva avviato i suoi sforzi di
convertire le
popolazioni
locali, con l’aiuto dei governi stranieri
austriaco e
italiano
(allora alleati).
Un effimero
Concordato
Di fronte alla ferma posizione austriaca di
mantenere il suo
protettorato religioso sui cattolici nei
territori ex turchi, il Regno serbo si accinse ad un
accordo bilaterale col Vaticano. Il
governo serbo
riteneva male minore un accordo bilaterale col
Vaticano piuttosto che
l’Austria-Ungheria continuasse ad esercitare
il suo diritto di
protettorato sui
romanocattolici nel territorio serbo.
Nella primavera del 1913,
il rappresentante del governo serbo, dottor Lujo
Bakotić, iniziò
un dialogo informale con i prelati per un
possibile concordato
bilaterale. Ufficialmente fu ricevuto in udienza
dal Segretario di
Stato cardinale Merry Del Val il 12 gennaio
1914. Il Segretario seguiva
"con simpatia" l’impegno del governo serbo per
la stipula di un tale
concordato, ma nello stesso tempo avvertiva che
bisognava operare nel
segreto assoluto, perchè nella questione
jugoslavo – vaticana si
poteva immischiare l’Austria-Ungheria.
D’altronde Del Val non poteva
lasciare disparte i suoi benefattori
austroungarici perchè -
diceva il Segretario - "ci hanno
costruito chiese, pagano i preti e se non
fossero loro, la nostra
chiesa in alcuni luoghi se la passerebbe male".
Percio’ Merry
Del Val si impegnava a sottoporre soltanto un
“Concordato locale”,
relativo cioè ad alcune chiese, conventi e
lasciti. Inoltre
insisteva sulla libera conversione dei
non-cattolici alla religione
cattolica.
Bakotić “tirava per le lunghe” su questa
decisione, giustificandosi che
di questo non aveva parlato col governo serbo, e
sostenendo che
ciò non era avvenuto nemmeno con il Montenegro.
Già dai primi colloqui i rappresentanti
vaticanensi insistevano,
oltre che sulla conversione (perchè cioè
diventassero uniati),
anche sulla libera e
diretta corrispondenza epistolare tra la Santa
Sede e il clero
romanocattolico in Serbia. Inoltre insistevano
su di un impegno serbo
per sovvenzioni statali alla Chiesa
romano-cattolica, richiedendo somme
concrete per la costruzione della chiesa
cattolica e dell’edificio
episcopale a Belgrado. Lo stesso Bakotić
raccomandò “caldamente”
al ministro Jovanović di accettare questa
proposta. Il presidente del
governo serbo Nikola Pašić protestò decisamente
di fronte alle
pretese del cardinale di inserire questa
richiesta tardivamente.
Dopo 15 giorni di ricatti e trattative, il
concordato si concluse
così come il Papa voleva. La proposta suscitò le
proteste
dell’opposizione nel Parlamento di Belgrado,
della chiesa ortodossa e
della stampa nazionale. Così il giornale
“Pijemont” n.14 (aprile
1914) criticava aspramente il Governo sulle
conclusioni del Concordato,
sostenendo che la Serbia aveva ceduto al
Vaticano su tutto. “Il Governo doveva interrompere il
dialogo
per la dignità del Paese e della nostra
Chiesa!”.
Il Concordato
veniva
firmato l’11 giugno 1914 (il 24 giugno
secondo il calendario
Gregoriano) dal cardinale Merry Del Val, per la
parte vaticana, e
dall’ex presidente del governo serbo,
l’ambasciatore a Parigi Milenko
Vesnić, per quella serba, malgrado le proteste e
le pressioni
austroungariche. In verità, con la stipula del
Concordato il
Regno serbo carcava di
sbarazzarsi dell’insopportabile protettorato
austroungarico sui
romanocattolici sul proprio territorio. Alcuni
giorni dopo, il 28
giugno, avvenne l’attentato a Sarajevo. Si
ritiene che le manovre
militari austriache a Sarajevo nel giorno di
San Vito, data significativa per i serbi, e
l'attentato al pretendente
al trono Ferdinando siano, state usate come
pretesto per attaccare la
Serbia.
In base al Concordato, i sacerdoti
romanocattolici - che prendevano ora
uno stipendio dal
governo di Belgrado - prima giurare la fedeltà
ad un
rappresentante del governo serbo pronunziavano
le seguenti parole: “Giuro e prometto davanti a Dio e ai
Santi
Apostoli la fedeltà alla maestà del Re di
Serbia”.
Dovevano inoltre promettere che non avrebbero
permesso al loro clero di
partecipare a riunioni sedizione contro il
sistema giuridico statale.
La tolleranza religiosa del governo serbo si
manifestava anche nella
validità dei matrimoni misti contratti davanti
al prete
cattolico, secondo i codici della chiesa
romanocattolica - mentre il
viceversa non era riconosciuto dalla
controparte.
Il Concordato tra il Regno serbo e il Vaticano
prevedeva la fondazione
di diocesi, quale quella belgradese e quella di
Skoplje (odierna
Macedonia), dove vivevano gli schipetari
romanocattolici (arbanassi).
L’arcivescovo di Belgrado ed il vescovo di
Skoplje, che spiritualmente
governavano su tutti i romanocattolici del Regno
serbo, erano sudditi
direttamente ed esclusivamente del Vaticano,
anche se erano stipendiati
dal governo di Belgrado.
Malgrado la
sconfitta
dell’Austria-Ungheria nella I Guerra Mondiale,
che mise fine anche al
ruolo di questa sulla scena internazionale,
Vienna in accordo col
Vaticano continuò a lavorare alla
destabilizzazione del sud dei
Balcani, mentre gli italiani lavoravano ad
instaurare forti relazioni
politiche tra i musulmani e i romanocattolici di
quello che si
chiamava Regno
dei Serbi, Croati e
Sloveni (SCS, di lì a poco: Jugoslavia).
La propaganda
viennese era particolarmente indirizzata verso
la Bosnia, l'Erzegovina,
e verso gli albanesi del Kosmet. L’albanese
Hasan Beg di Priština era
in costante contatto con Funker,
caporedattore del viennese “Reichposte”, il
quale indicava al Beg Hasan
di lavorare costantemente all’avvicinamento dei
musulmani e dei
romanocattolici nel Kosmet e nella "Serbia del
Sud" (odierna
Macedonia),
perchè questa era considerata l’unica salvezza
per ambedue le
parti.
Mehmed Spaho, capo dell’organizzazione
jugo-musulmana (JHO), dava importanza
al lavoro congiunto tra i
musulmani e
romanocattolici "contro il predominio serbo",
mentre il legato
jugoslavo a Vienna indicava nella parte
romanocattolica - e
precisamente nelle persone di Korosec e Stjepan
Radić
(quest’ultimo noto deputato croato nel
Parlamento del Regno SCS) - la
principale
iniziatrice di questo lavoro.
Le ambizioni
italiane verso l’Albania
Con il Regno SCS iniziano nuovi contatti sul
versante
adriatico per l'Albania.
Le ambizioni italiane erano direttamente in
contrasto con quelle serbe, e jugoslave, il cui
motto era “I
Balcani
ai balcanici”. Il Regno SCS di fatto si
adoperava per una indipendenza effettiva
dell’Albania; ma dopo la
conferenza di Versailles l’Italia concentrò i
suoi
interessi contro qualunque influenza jugoslava
in Albania.
Col Patto di
Londra l’Italia si assicurò i diritti su Sazeno,
Valona e il
retroterra. Bisogna ricordare che già
il 27 giugno 1917,
in un suo discorso, il Ministro degli Esteri
Sidney Sonnino affermava
che l’Italia non aveva interessi particolari
verso quei
territori, ma voleva soltanto difendere
gli interessi
dell’Albania
da terze potenze...
Il generale Ferrero per ordine di Vittorio
Emanuele III rilasciò
poi la
nota dichiarazione
con la
quale si proclamava l’unità e l’indipendenza
dell’Albania sotto
l’egida e la tutela del Regno
italiano.
Nel 1922 le relazioni diplomatiche jugoslave con
l’Albania si
stabilirono su basi normali. Con l’installazione
della rappresentanza
diplomatica albanese
a Belgrado, le relazioni tra i due Stati erano
amichevoli.
Però, con l’arrivo dei fascisti al potere in
Italia nel 1922
iniziava un periodo di penetrazione più
aggressiva dell'Italia
in Albania.
Il cambio di
regime non scontentò il Vaticano,
giacchè alla fine del suo discorso in
Parlamento Mussolini
riconosceva l’intervento di Dio nel lavoro
del governo ed annunciava il ritorno del
crocifisso nelle scuole. Nei
verbali si legge che il Partito Popolare
cattolico italiano
nonchè l’ideologia ecclesiastica erano “impregnate di
imperialismo
italiano”: per essi il papato era una gloria
italiana, la Chiesa
cattolica era unica
e
soltanto “per
un mesto italiano, la
Chiesa
cattolica non è soltanto italiana ma
universale”.
Il Vaticano sostenne Mussolini nel suo stabilire
più stretti
rapporti con gli Stati reazionari. La politica
mussoliniana
dell’isolamento della Jugoslavia portò
l’Europa sud-orientale in una situazione
critica: Mussolini
rafforzava l’alleanza con gli ungheresi e col
movimento terroristico
bulgaro-macedone, mentre l’Albania diventava un
protettorato
italiano.
Sottomettere l’Albania era la tappa iniziale per
una ulteriore e
più
profonda penetrazione nei Balcani. Per
realizzare questo
obiettivo, l’Italia non badava a spese. Nella
prima fase della
penetrazione, che terminò con un fiasco,
l’Italia investì
circa 7 miliardi di lire, mentre la malaria
provocava
25.000 morti tra i soldati e circa 180.000
malati. Tuttavia il governo
fascista cercava di occupare Valona quanto prima
e così
assicurarsi,
insieme all’isola di Sazeno, la base marittima e
le direttrici
Valona-Korcia e Drac-Elbasan-frontiere
jugoslave. Gli
italiani si assicurarono la navigazione libera
sul fiume Bojana,
offrendosi di prosciugare il lago di Scutari. Fu
espresso il desiderio
di impossessarsi delle miniere di carbone, dei
boschi... Il governo
italiano si appoggiava ad un grande numero di
agenti e ad un grande
numero
di persone del clero, tanto da aprire i
cosiddetti “Caffè
dell’agente” (Agentske).
Nel luglio 1924 Ahmed Beg Zogu fu cacciato
dall’Albania e
trovò asilo a Belgrado. Del suo soggiorno
scrisse il giornale
“Balkanac”:
Tutti ricordano
quando arrivò,
nella primavera del
1924. Accolto con grande ospitalità come
tutti gli emigrati,
gli fu assicurata totale libertà. Si vantava
di lottare per i
diritti
dei popoli balcanici. Affermava che soltanto
per questo aveva scelto
l’esilio. Dava “besse” (besa =
parola d’onore albanese) dappertutto e
ad
ogni passo, battendosi il petto, assicurando
che avrebbe lottato fino
alla
morte per l’ideale dei “Balcani ai
balcanici”. Gli si credeva pensando
che non avrebbe violato la “besa”. Ma questo
“besnik” (gioco di parole: in
serbocroato “pazzerello”) era altrettanto
generoso di “bese” a
Roma...
Dopo alcuni mesi, nel dicembre del
1924, Ahmed Beg ritorna a Tirana. Un
mese dopo proclama la Repubblica e se stesso
come presidente.
Dopo quattro
anni proclamerà
se stesso re
di una nuova "monarchia elettorale". L’Italia
gli da credito. Dal canto suo egli consegna
all’Italia la Banca
Nazionale, l’Isola di Sazeno, la concessione sui
boschi, sulla
sistemazione
della costa e dei porti di Durazzo, Valona, San
Giovanni di Medna,
la libera navigazione sul fiume Bojana. Con
l’arrivo delle navi
militari italiane a Durazzo inizia il trasporto
degli armamenti per
l’Albania.
I romanocattolici popolavano allora soprattutto
il nord dell’Albania,
ed
in piccole oasi arrivavano fino a Durazzo. A
Scutari e dintorni il
clero cattolico formato da francescani aveva
grande influenza sulla popolazione analfabeta. I
gesuiti e i
francescani aprivano le loro scuole, i collegi,
finanziati dal Vaticano
e dall’Italia. La chiesa romanocattolica del sud
dell’Albania,
rappresentata dall’arcivescovo di
Scutari, insieme a quella bulgara e a quella
dell’Irak e di una parte
della
Palestina, fino al 1938 fu sotto la
giurisdizione della Congregazione
Propaganda Fide. Papa Pio XI con il suo “Moto
proprio” mise il
sud dell’Albania direttamente sotto la sua
stessa giurisdizione. Con
questa
decisione il Papa dimostrava “il suo
speciale interessamento e
particolare amore verso l’ordine orientale,
che è bellissimo e
che
il Papa vuole quanto più sviluppare”.
Questo amore aveva,
naturalmente, i suoi retroscena - la
propaganda e diffusione
delle chiese “uniati”.
L’avvento del regime fascista in Italia non
cambiò questo
“amore”. Il governo italiano fascista era in
stretti contatti con la
gerarchia romanocattolica in Albania, la aiutava
materialmente,
versando contributi finanziari agli esperti di
costruzione e
ricostruzione delle chiese. Gli italiani
richiedevano che sulle chiese
ricostruite si mettessero targhe con la scritta
“Fondazione italiana”,
e agli ingressi il busto di Mussolini. In questa
richiesta gli italiani copiavano gli austriaci,
che prima della I
Guerra mondiale avevano fatto allo stesso modo.
I romanocattolici di Scutari erano costernati,
amareggiati del
sostegno che gli italiani davano al regime di
Ahmed Beg Zogu col
pretesto che era l'unico che potesse governare e
salvare l’Albania
dalla
cosiddetta minaccia bolscevica.
All’inizio degli anni Trenta le relazioni tra il
governo albanese e la Chiesa romanocattolica si
inasprirono. Il clero
romanocattolico si pose in atteggiamento
“battagliero” contro il
governo albanese, avvalendosi del sostegno dei
filo-italiani in
Albania. In ballo era anche l’istruzione. Il
governo albanese voleva
una pubblica istruzione integrale, che seguisse
il programma nazionale
nello
stretto spirito nazionale e non voleva cedere
all’Italia sulla
chiusura delle scuole confessionali.
Con questa politica gli albanesi "offesero"
Mussolini in persona,
urtandolo nel punto più sensibile: il suo
imperialismo
culturale, con cui, da discendente della Vecchia
Roma, cercava di
sottomettere i “popoli arretrati”.
Nel febbraio
1938 il
principale avvenimento in Albania fu il
fidanzamento di re
Zogu con la principessa Apony,
approvato in un primo
tempo dal Parlamento. Geraldina Apony
era figlia di Julius Apony e dell’americana
Gladis Stuart; il suo
bisnonno era un
maresciallo del regno ungherese. Nella regione
di Scutari questo
fidanzamento non fu accolto bene, ma dai
romano-cattolici
naturalmente si, perchè ritenevano che la loro
posizione sarebbe
migliorata con
una regina cattolica.
I musulmani, che costituivano la maggioranza nel
Parlamento, mostrarono
un forte dissenso. Questo fidanzamento sorprese
gli stessi italiani
perchè era stato preparato in gran segreto. Gli
italiani erano
scontenti perchè volevano sposare Zogu con una
nobile italiana,
per rafforzare la loro influenza in Albania.
L’Italia comunque continuò la sua azione
improntata alla vecchia
politica
propagandistica per tramite del clero
romanocattolico. Tra i sacerdoti
si
distinse Brunetti
di Corcia,
il quale conduceva la sua propaganda per le
chiese uniati. Egli
invitò a Corcia le suore romanocattoliche, e con
loro aprì una specie di circolo ricreativo
gratuito che
impartiva un corso
di economia domestica, attirando così anche gli
appartenenti di
altre
religioni.
Si arrivò quindi all’occupazione
militare italiana, nell’aprile
del 1939. Zogu
con la famiglia lasciò il paese. Subito dopo
l’occupazione fu
proclamata l’Unione tra l’Italia e
l’Albania, e con
l'unificazione della diplomazia fu chiusa anche
l’Ambasciata
Albanese a Belgrado. Poi furono chiusi i
consolati albanesi a
Skoplje e Bitola (Macedonia); in agosto fu
chiusa l’Ambasciata
jugoslava a Tirana, ridotta a Consolato
Generale.
Così fu riconosciuta l'unificazione tra l’Italia
e l’Albania e
fu sancita la penetrazione dell’Italia nei
Balcani.
Il proselitismo
della chiesa
romanocattolica nel Kosovo-Metohija
Nella nuova situazione gli albanesi di religione
romanocattolica
potevano professare più liberamente nella vita
religiosa e
pubblica
dell’Albania.
Negli anni Venti il Vaticano aveva dato piena
facoltà al Nunzio
apostolico
in Jugoslavia nella scelta e nomina
del nuovo vescovo di Skoplje.
Questa nomina doveva avvenire in accordo col
governo jugoslavo. Il
rappresentante in Vaticano, dottor Josip
Smodlaka, durante una
conversazione
con il sottosegretario vaticano, duca
Borgandini, si mostrò
scettico
verso i sacerdoti albanesi. Smodlaka sapeva che
il Vaticano era
favorevole ad un candidato albanese, perciò
disse che “in
Jugoslavia
non ci sono sacerdoti tra gli arbanassi,
adatti e devoti al nostro
Stato”, e per questa ragione propose un
vescovo serbo o croato.
Pensava
così di evitare la nomina di un albanese
("arbanasso").
Smodlaka però
non si aspettava che sarebbe stato scelto lo
sloveno Ivan
Franjo Guidovec che, con i suoi
atti pubblici, suscitò
diffidenza e sospetto.
Il comandante della Divisione regionale Vardar
riferì nel
giugno del 1925 che il vescovo Guidovec, durante
la visita ai soldati
di religione romanocattolica a Prilep, aveva
officiato la messa in
lingua tedesca ed ungherese. Il vescovo, non
officiando la messa nella
lingua
ufficiale nazionale, aveva violato la
Costituzione: perciò il
comandante
gli proibì di continuare la missione.
Il vescovo di Skoplje J.F. Guidovec aveva anche
la giurisdizione del
Kosmet, dove organizzava ogni anno in autunno le
cosidette missioni
“popolari”. Il vescovo si rivolgeva anche allo
Stato jugoslavo per
avere aiuto materiale. Egli svolgeva abilmente
la sua
missione: chiedeva un duplice aiuto, sia
quello previsto per i
sacerdoti stranieri che quello ordinario per i
sacerdoti
e catechisti.
Manteneva contatti diretti con il parroco di
Skoplje, l’albanese Gaspar
Zadrim, il quale anche se molto anziano
eseguiva la sua missione
con visite ai fedeli delle parrocchie del
Sangiaccato e di Mojstir, in
Serbia.
Da Lubiana aveva chiamato Andrija Tumpej, che
visitava i
romanocattolici nella regione di Bitola in
Macedonia. Queste missioni a
volte
venivano effettuate anche senza l’approvazione
del Ministero degli
Affari Interni, il che suscitò sospetti presso
la gendarmerie
del luogo, finchè Zadrim
fu
allontanato.
Tutto questo non intaccò il proselitismo
cattolico del vescovo e
la
diretta cooperazione con le consorterie
straniere per l’affermazione
della serbofobia e dell’antijugoslavismo. Nella
diocesi di Skoplje
l’educazione poteva essere impartita
soltanto ai bambini romanocattolici. Gli
insegnanti venivano nominati a
Skoplje, Prizren, Janjevo, e dunque proprio in
questi luoghi si
diffusero in gran numero i nuovi cattolici.
Inoltre, i sacerdoti e
vescovi cattolici (di varie nazionalità)
effettuavano una
intensa attività di conversione dei serbi e
degli arnauti
(schipetari) del Kosmet.
Dai Registri della Chiesa di Stubli risulta che
già dal 1842 (a
Letnica
dall’aprile 1906) molti musulmani (arnauti) si
erano iscritti come
romanocattolici. Nei registri erano scritte in
latino le
generalità sia del battezzato che del padrino o
madrina, col
nuovo
nome romanocattolico (come succede ancora oggi
-2008- in certe missioni
cattoliche dell'Africa).
Ecco alcuni esempi di nomi di musulmani
(arnauti) convertiti in
cattolici:
Mehmed, figlio
di Demo
Mehić di Donja Stubla e di madre Duna
Serafović, nato il 24.5.1912, battezzato nella
chiesa di Stubla col
nome
di Nicola, testimone al battesimo Joze
Ismović;
Eset, figlio di Demo Mehić di Donja Stubla e
di madre Neda, battezzato
col
nome Djon il 4.4.1914, nella chiesa di
Stubalj. Il padrino è
stato Jozo Ɖorđević;
Alid, figlio di Ajvaz Jašarović di Kuredža e
di madre Hana, battezzato
il
21.6.1916 nella chiesa di Letnica con il nome
di Giorgio dal padrino
Gega Latifić;
Riza, figlio di Baslimović Ramo di Donja
Stubla, e di madre Ajerija,
è stato
battezzato il 24.5.1916 con il nome di
Giorgio. Padrini erano Miko
Ivin ecc...
I padrini oltrechè arnauti potevano dunque
essere anche
serbi convertiti alla religione romanocattolica.
I vertici della
comunità
religiosa islamica segnalarono alle autorità
statali questa
“azione di proselitismo aprioristico” del clero
cattolico che, in modo
illegale, lavorava alla conversione dei
musulmani, citando il caso
concreto di come questi
sacerdoti invitassero i musulmani alla
conversione al cattolicesimo
perchè, in caso contrario, l’Italia “avrebbe fatto
ammazzare tutti quando
verrano
occupati da essa”!
Contemporaneamente si costruivano chiese
cattoliche - malgrado il
decreto del Ministero della Giustizia secondo
cui non si poteva
costruire una
chiesa cattolica vicino ad un cimitero
ortodosso. Alle accuse degli
organi statali il vescovo Guidovec, nello stile
dei “furbi latini”,
rispose che non si aveva l’intenzione di
costruire alcuna chiesa.
Malgrado ciò la chiesa fu effettivamente
costruita, e molto
presto, per
sole 30 famiglie albanesi, ed inaugurata il 1.
dicembre 1931 in
presenza del
vescovo stesso. Per la costruzione si spese “una
grossa somma di
denaro”,
mentre il tetto fu trasportato da Ɖakovica.
Con tale proselitismo così bene organizzato,
alla
vigilia della II Guerra mondiale, il numero dei
romanocattolici
raddoppiò rispetto al periodo della I Guerra
mondiale...
(seconda
parte: dopo il 1941)
Dopo
l’occupazione
dell’Albania da parte dell’Italia fascista
nell’aprile del 1939, la
propaganda congiunta albanese e italiana
sull’imminente creazione di
una “nuova” e “grande” Albania stimolò la
nascita di un
movimento panalbanese ben organizzato. La
maggior parte degli albanesi
cominciò a credere che il fascismo,
finalmente, avrebbe
provveduto a cambiare i confini
dell’Albania. Con un tale spirito e con
aperto entusiasmo, la maggioranza degli
albanesi accolsero la caduta
politica e militare del Regno di Jugoslavia
(aprile 1941) e della
Grecia in quanto realizzazione degli
obiettivi nazionali, visto che
subito seguì l'annessione del
Kosmet, della Macedonia occidentale e di
parte
del Montenegro e della Grecia da
parte dell’Albania fascista.
Contestualmente,
soprusi
e violenze contro la popolazione non
albanese assunsero le dimensioni
del genocidio. Questo era in effetti uno
degli obiettivi dell'ideologia
fascista panalbanese. Nel periodo 1941–1945,
100.000 albanesi
provenienti dall’Albania si insediarono nei
villaggi e nelle case serbe
abbandonate.
“Durante l’
occupazione
tedesca (1943) i soprusi continuarono con il
famigerato Regiment
Kosova che seminò distruzione in quasi
tutte le parti del Kosovo-Metohija. Per
realizzare l’obiettivo
fondamentale della Seconda Lega di Prizren –
la difesa di tutti i
territori popolati dagli albanesi - fu creata
una divisione SS di
volontari, chiamata Skenderbeg, che contava
più di 11.000
effettivi” (Kosovo e
Metohija, i fatti).
Sui crimini commessi dalla divisione
Skenderbeg e
dagli altri corpi
militari e paramilitari collaborazionisti
- ad esempio Balli Kombetër, da cui
l'appellativo di balisti per
intendere i nazionalisti pan-albanesi
filofascisti - rimandiamo agli
articoli seguenti:
Le
Radici
Del Fascismo in Kosovo (George Thompson,
5-3-2000)
PASSATO
PRESENTE. Sulla continuita` della
politica
grande-albanese della Germania (di Matthias
Kuentzel, 2001)
Eyewitness
to Genocide in Kosovo: Kosovo-Metohija and
the Skenderbeg
Division (by Carl
K. Savich)
Genocide
in Kosovo: the Albanian Skenderbeg
Division (by Carl
K. Savich)
Tetovo
and Greater Albania During World War II,
1941-1944 (by Carl
K. Savich)
MILLENOVECENTO...
(Coordinamento Romano per la Jugoslavia, marzo
'99)
Il proselitismo
della chiesa
romanocattolica in Croazia
È bene
contestualizzare la moderna
problematica cattolica-albanese nell'ambito
della più generale
guerra di religione combattuta nel
Novecento dalla Chiesa di Roma nei Balcani. Pur
non essendo questa la sede per un
approfondimento delle vicende croate
e degli altri territori jugoslavi, vanno
ricordati alcuni eventi
salienti.
Negli anni Trenta il Regno di Jugoslavia
era strutturato in banovine (contee) che prendevano in
prevalenza il
nome dai principali fiumi. Nel 1939,
rompendo con il criterio puramente
geografico, fu concesso di creare una banovina Croazia,
che prendeva il territorio di diverse banovine
estendendosi fino al fiume Drina. Nel
1941, con la aggressione nazifascista, la
Jugoslavia fu smembrata e nei
confini della banovina Croazia fu proclamato
il cosiddetto Stato Indipendente Croato (Nezavisna Država
Hrvatska, NDH) retto da
Ante Pavelic e sostenuto da Mussolini e
Hitler. Inizia così il
"pogrom legalizzato" dei serbi ortodossi che
popolavano da centinaia di
anni regioni della Croazia. L’ordine
esplicito fu quello di “cacciare un
terzo dei serbi, un terzo
convertire, un terzo ammazzare”. Lo
Stato degli ustascia di
Pavelic era intimamente legato alla Chiesa
cattolica croata, a capo
della quale era l’arcivescovo Alojzije
Stepinac, descritto come
“L’arcivescovo del genocidio” nel libro
di Marco Aurelio Rivelli (per i riferimenti
del libro, per altra
bibliografia in materia e per numerosa
documentazione si veda anche la nostra pagina
dedicata).
I
simboli degli
ustascia: armi e crocefisso
Ante Pavelic
proveniva
dall’Erzegovina, inserita nella banovina Hrvatska, come
d'altronde i più grandi
nazionalisti ustascia e come tanti frati
francescani che
appoggiavano e salutavano con il “saluto
romano” i gerarchi ustascia e ne condividevano i metodi
feroci. Un
esempio soltanto è quello di Max Luburic che
quando convertiva
un serbo ortodosso metteva il saio, quando
poi lo ammazzava indossava
l’uniforme ustascia, dicendo: “L’anima ti ho
salvato ma il corpo no!”
Noti episodi della ferocia ustascia furono
descritti anche
dall'italiano Curzio Malaparte.
La Chiesa
ortodossa fu
oggetto di spietata persecuzione, in linea
con la peggiore tradizione
"militante" della Chiesa romanocattolica che
sin dallo scisma del 1054
aveva cercato di annientare strategicamente
lo scisma degli ortodossi,
agendo in particolare verso i Balcani.
La
politica genocida
ustascia amava definire come Serbi ortodossi
"tutti quelli che si fanno
la croce con tre dita".
Dapprima (1942) nella
Costituzione
dello NDH venne imposta la creazione di una
Chiesa
ortodossa croata,
con nomine di preti ortodossi obbedienti.
Il
decreto del "Poglavnik" (Duce) Ante
Pavelic
che costituiva la “Chiesa
ortodossa croata” (Ustase i pravoslavlje.
Cliccare
sulla immagine
per ingrandire)
Poi, nel 1943,
su istruzioni
del Segretariato di Stato di Papa Pio XII,
al clero nello NDH fu
proibito di usare il vero nome “ortodosso”,
dovendosi piuttosto usare
l'appellativo di Chiesa “apostata” o
“scismatica”.
Un
Decreto
ustascia
proibì l’uso della grafìa cirillica. Il
prete cattolico
Bozidar Bralo, portavoce degli ustascia di
stanza a Sarajevo,
notificò telefonicamente il Decreto al
metropolita Petar
Zimonjic. In quanto disobbediente, Petar
Zimonjic venne poi arrestato,
torturato, rinchiuso nella prigione di
Petrinja, fotografato e
registrato con il numero 29781. Poi fu
trasferito nel Campo
concentramento di Kerestinac vicino
Zagabria. Tanti altri preti
ortodossi venivano arrestati, torturati e
barbaramente ammazzati, come
ad esempio Platon Jovanovic, vescovo di
Banja Luka, Sava Trlajic, di
Gornji Karlovci, Bogoljub Gakovic, Stanislav
Nasadil, e tanti altri (The
Uprooting).
Dopo la
Liberazione
(maggio 1945) la Jugoslavia processò gli
altri prelati
ecclesiastici che erano stati più o meno
direttamente implicati
nelle politiche e nei crimini commessi dai
regimi
nazionalisti nei quali era stata squartata
la Jugoslavia sotto il
nazifascismo. Tra questi prelati c'era anche
Alojzije Stepinac, che
però nel frattempo
era stato "promosso" cardinale dal Vaticano.
Stepinac fu condannato
alla detenzione, commutata poi con gli
arresti domiciliari nella sua
cittadina natale; durante la pena Stepinac
riceveva in casa anche personaggi di spicco.
La Jugoslavia
socialista e la sua brutale
distruzione
Nella
Repubblica
Federativa Popolare di Jugoslavia, le
religioni, le Chiese, furono
nettamente
separate dallo Stato. Esse potevano
professare i rispettivi culti,
stampare i
loro giornali, autofinanziandosi. Non
potevano intromettersi nelle
faccende statali e, soprattutto, non era
loro concesso di seminare odio
tra i popoli.
Mai più uno
jugoslavo avrebbe
alzato il
coltello contro un altro jugoslavo! Questo
era il giuramento. Ma i
gravi crimini della II Guerra Mondiale non
furono dimenticati.
Ne'
dimenticò la
Chiesa cattolica di proseguire con il suo
proselitismo. Il proselitismo cattolico,
basato sulla serbofobia
e sull’odio per lo stato unitario, cioè
sull'antijugoslavismo, si
riaccese con la morte di Tito, avvenuta nel
maggio del 1980.
Particolarmente forte fu il risveglio del
fanatismo nazionalista e
religioso nelle aree dove i croati
convivevano con i serbi. Proprio in
una di queste aree inizia
ad “apparire” la Madonna - a Medjugorje, un
anno dopo la morte di Tito.
Medjugorje è tra i monti nell’Erzegovina; fu
scenario di grandi
orrori nella guerra di Liberazione
1941–1945. Solo nel 1990 i serbi
esumarono le fosse comuni esistenti
nell'area, e con lo scoppio del
nuovo conflitto fratricida portarono via i
resti dei loro cari.
Di
nuovo per i serbi che abitano tanti
territori jugoslavi è all'ordine del giorno
la tragica fine che
avevano fatto i loro padri. Perciò in tanti
abbandonano le case,
le terre dove
le famiglie hanno vissuto per centinaia di
anni. Molti perdono
il posto di
lavoro e sono costretti ad emigrare anche se
non vorrebbero; altri
si organizzano e provano a costituire
strutture, istituzioni, milizie
separate. Dopo gli anni della guerra, oggi i
pochi serbi che rimangono
in Croazia sono essenzialmente anziani.
Assieme ad esponenti di altre
nazionalità, essi sono “tutelati”
come specie
rare, per dare l'illusione che la Croazia
sia uno Stato democratico e
di diritto. Piano piano, però, intere
cittadine serbe vengono
assimilate.
Un esempio è quello di
Tenje presso Osijek; o quello della vicina
Dalj, dove i bambini serbi
sono stati allontanati dalla scuola, e
costretti a frequentarla in
un’altra
cittadina più vicina alla frontiera con la
Serbia...
Viaggiando
oggi per le
Krajine (le regioni che fino al 1994 erano a
maggioranza serba, nelle
ex frontiere amministrative
della Croazia) si possono notare tante case
serbe vuote, diroccate.
Spuntano nuovissime, invece, le chiese
cattoliche - una, mastodontica,
dovrebbe
sorgere nelle vicinanze del Parco nazionale
dei laghi di Plitvice,
patrimonio culturale mondiale - e i luoghi
di pellegrinaggio.
Coniugando il turismo profano con quello
religioso si estirpano le
radici dei serbi ortodossi.
Il Vaticano per
lo squartamento della
Jugoslavia
Alla fine del 1991, il Vaticano non aveva
perso tempo a riconoscere
l’indipendenza delle "cattoliche" Slovenia e
Croazia.
Il papa aveva parlato all'Angelus delle
"legittime aspirazioni del
popolo
croato"; il riconoscimento ufficiale da
parte del Vaticano avviene il 13 gennaio del
1992, contro il parere di
grandissima parte della comunità
internazionale, almeno
apparentemente: gli altri
paesi europei si adegueranno dopo due
giorni.
La guerra è
scoppiata, e
con i riconoscimenti internazionali si
cronicizza e si aggrava.
Nel 1994 è la prima visita del papa a
Zagabria. Il viaggio di
Karol Wojtyla in Croazia avviene nel pieno
del conflitto bosniaco,
mentre è ancora aperta la ferita delle
Krajne, ed è una
evidente boccata d'aria per il regime di
Tudjman, con il quale il papa
si incontra e presenzia a cerimonie
pubbliche. Il papa prega sulla
tomba del nazista Stepinac, nell'entusiasmo
dei seminaristi di San
Girolamo (la chiesa croata di Roma,
all'inizio di Via Tomacelli, nota
tra l'altro per avere ospitato Pavelic in
fuga dopo la guerra; cfr. il
libro "Ratlines" di M. Aaron e J. Loftus)
presenti a Zagabria per
l'occasione.
Il 26 novembre successivo Vinko Puljić,
arcivescovo cattolico di
Sarajevo, è nominato cardinale dal papa
insieme ad altri 30 che
rispecchiano le tendenze della geopolitica
vaticana. Citiamo ad es.
Mikel Loliqi, 92enne cardinale di Scutari
(Albania). In onore di Puljić
due giorni dopo si tiene un concerto
sinfonico nella stessa chiesa di
San Girolamo.
Nel 1995, dopo le notizie di stampa su
Srebrenica e mentre si parla
insistentemente di una visita del papa a
Sarajevo, in luglio Giovanni
Paolo II in una dichiarazione ai giornalisti
si schiera per
l'intervento militare (contro i
"tentennamenti" della comunità
internazionale, perchè si faccia finalmente
"il necessario" per
punire gli aggressori, e così via). Pochi
giorni dopo Tudjman
ordina il definitivo "repulisti" della
Krajna, mentre in settembre,
dopo l'ennesimo grande attentato sarajevese
stile "strategia della
tensione" (v. Cronologia), la tanto invocata
"comunità
internazionale" interviene a forza di bombe
contro i serbobosniaci.
In dicembre, con gli accordi di Dayton, la
guerra si interrompe.
Durante la primavera 1997 (12 e 13 aprile)
si realizza la "tanto
attesa" visita del papa a Sarajevo. Ma il gesto più
offensivo nei confronti dei serbi è
senz'altro la beatificazione di Alojzije
Stepinac, da parte di Papa
Wojtyla, di nuovo in
visita "pastorale" nella Croazia di
Tudjman, il 3 ottobre 1997.
In quei giorni, oltre a beatificare Stepinac
Wojtyla pronunzia alcune
frasi rispetto alla situazione in Kosovo,
oggetto di una violentissima
campagna-stampa, che alludono al diritto di
"ingerenza umanitaria" da
parte della "Comunita' Internazionale",
cioe' alla liceita' di un
intervento armato per "aiutare chi soffre".
Desiderio puntualmente
realizzato con i criminali bombardamenti
della NATO della primavera
1999. Quando il 24 marzo 1999 la NATO
effettivamente attacca la
Repubblica Federale di Jugoslavia con il
pretesto del Kosovo, il papa
cita una frase di Pio XII - vale a dire di
quel suo predecessore che
non solo non aveva fatto nulla per
denunziare e fermare il
nazifascismo, ma che viceversa benedisse
Pavelic e lo sostenne tramite
il clero croato: "Con la guerra tutto e'
perduto, con la pace niente e'
perduto". All'Angelus pasquale, una
settimana dopo, il papa afferma
retoricamente: "Ma come si puo' parlare di
pace quando si costringono
le popolazioni [albanesi] a fuggire... e se
ne incendiano le
abitazioni?... E come rimanere insensibili
di fronte alla fiumana
dolente dei profughi dal Kosovo?". Percio',
a parte la discutibile
richiesta di una "pausa" nei bombardamenti
in occasione della Pasqua
(cattolica, non ortodossa), il Papa non fa
appello per la loro
cessazione incondizionata.
Nei giorni successivi la stampa riporta
anche le dichiarazioni del
Cardinale croato di Sarajevo Vinko Puljić
che rivendica la giustezza
dell'intervento militare argomentandola con
la necessita' "di estirpare
la malattia" e di sconfiggere una volta per
tutte "il creatore della
guerra" Slobodan Milosevic.
E con il
Kosovo e
Metohija, che ci ha dato l'occasione per
questo scritto, vogliamo
terminarlo.
Alla fine della
II Guerra Mondiale e per tutto il periodo
della Jugoslavia socialista,
la missione romano-cattolica nel Kosmet e
dintorni ha avuto minore
incisività, anche a causa del governo
ateista di
Enver Hodža.
La ripresa è alla fine degli anni
Ottanta. Il
1990 era stato l'anno dedicato all’albanofona
Madre Teresa di Calcutta,
che ebbe i natali a Skoplje in Macedonia. Lo
stesso anno
avevano raggiunto il culmine le tensioni tra
albanesi e serbi nella
regione
del Kosmet, annunciando lo scoppio della
guerra. Dinanzi a
personalità albanesi Giovanni
Paolo II, in uno dei paesini albanesi del
meridione d'Italia, aveva
celebrato
la Madonna di Scutari, patrona e protettrice
dell'Albania. Durante la
celebrazione il papa aveva affermato: "Madre
della speranza regalaci il giorno
nel quale questo popolo generoso possa
essere unito",
dichiarando così
esplicitamente il sostegno del Vaticano alla
causa degli albanesi del
Kosovo.
E'
degli
anni successivi la visita di Wojtyla in
Albania
(paese - per inciso - tuttora a stragrande
maggioranza atea o, al
limite,
musulmana) dove, tra l'altro,
egli prega
per gli albanesi che sono “dall’altra
parte”, cioè in Jugoslavia
- specialmente in Kosmet. Da
registrare la contemporanea frequentazione
di Madre Teresa con pezzi
grossi dello
Stato, non esclusa la vedova di Hoxha, con
la quale presenzia ad una
cerimonia
dinanzi ad un monumento alla "Grande
Albania".
Nel marzo
1993 Wojtyla
riceve Ibrahim Rugova a Roma, gli
conferisce una medaglia e gli
promette appoggio per la causa albanese
(fonte: Rugova Discusses...).
Il leader politico della "Lega Democratica
del Kosovo" (LDK),
formazione irredentista legata al patto
NATO, è già
presentato dai giornalisti come "Presidente"
di una fantomatica
"Repubblica del Kosovo". Di fatto, la LDK ha
iniziato a praticare il
boicottaggio assoluto della vita politica e
sociale jugoslava
costruendo nella provincia serba del Kosmet
un sistema "parallelo" in
tutte le attività - dalla sanità
all'istruzione - fondata
su di un vero e proprio "separatismo
etnico". Questo sistema parallelo
è salutato in Occidente, soprattutto dai
settori "pacifisti"
cattolici entusiasti del suo carattere
"non-violento", ed è
sostenuto con finanziamenti di vario tipo
provenienti dall'estero,
soprattutto da Germania, Svizzera ed USA.
Ricordiamo in particolare il
"governo in esilio" di Bukoshi, filiazione
della LDK, con sede in
Germania.
Rugova è musulmano, appartiene ad una antica
famiglia di
notabili legati all'impero ottomano, i suoi
genitori erano stati
giustiziati dai partigiani in quanto
collaborazionisti del
nazifascismo. Curiosamente, la sua LDK
partecipa ai congressi della
Internazionale Democristiana. E' curioso che
da noi di Rugova si sia
detto solamente che è un "pacifista", mentre
nessuno ha mai
citato le sue dichiarazioni, più volte
ribadite agli organi di
stampa stranieri, come lo zagrebino "Danas"
(1992), secondo le quali
l'ideale per il Kosovo è uno status
transitorio di protettorato
internazionale, per poi unirsi all'Albania.
Nel corso di tutti gli anni Novanta e fino
ad oggi, ampi settori del
volontariato cattolico appoggiano il
movimento di Rugova in
particolare, e la causa kosovaro-albanese in
generale. Personaggio di
spicco di queste iniziative di solidarietà è
senza dubbio
Alberto L'Abate,
docente universitario teorico della
nonviolenza, animatore dei "Caschi
Bianchi", della "Operazione Colomba", e di
altre iniziative di segno
"pacifista" e religioso
insieme. L'Abate si vanta in numerose sedi
di essere amico personale di
Rugova. Militanti cattolici italiani legati
a L'Abate, o alla Caritas,
o
ad altre filiazioni vaticane, sono presenti
stabilmente in Kosovo
prima, durante e dopo i bombardamenti della
NATO.
Peraltro, tra le varie presenze ed
iniziative cattoliche, almeno una va
ricordata in
senso positivo: la mediazione
della romana
Comunità di S.Egidio, che nel
settembre 1996 ottiene da Rugova e Milosevic
la sottoscrizione di un
accordo per le scuole, per consentire ai
bambini di lingua albanese di
ritornare a frequentare le classi miste. Ma
l'atteggiamento razzista
("boicottaggio") dei leader
kosovaro-albanesi impedisce l'applicazione
dell'accordo: i bambini sono costretti a
crescere nella ghettizzazione,
nell'apartheid, nell'odio contro lo Stato e
contro i valori
multinazionali della Jugoslavia.
L'8 maggio 1999, ad appena 3 giorni dal suo
arrivo in Italia durante i
bombardamenti della Nato, Rugova ebbe un
incontro con monsignor
Jean-Louis Tauran, segretario per i rapporti
con gli Stati preso la
Santa sede, chiedendo esplicitamente di
potere vedere il Papa. Incontro
che venne concesso in appena 72 ore. Anche
in seguito i contatti con il
Vaticano furono frequenti (un altro incontro
tra Rugova e Giovanni
Paolo II avvenne il 20 dicembre del 2003).
La posizione di Rugova sui
bombardamenti fu chiara ed esplicita: "Noi
kosovari dobbiamo ringraziare Dio per
l'intervento della NATO che
è servito a salvare un popolo e una
civiltà''
(Rugova, testuale, dall‘ANSA del
13/02/2003). Raramente dei
leader politici
erano caduti così in basso come quelli
albanese del Kosmet,
che salutarono con gioia chi li aveva
bombardati. Rugova
parlò a più riprese della NATO come del
"nostro
esercito". Eppure le
“bombe
intelligenti” non avevano distinto i serbi
dagli albanesi.
Nel 2003, colpo di scena: Rugova si converte
alla chiesa
romano-cattolica. Riportiamo testualmente
dal Corriere della Sera
(fonte: Rugova, il Kosovo
e la conversione):
Presidente
Rugova, è
vero che si è convertito al cristianesimo? Un
sorriso, un lungo
silenzio. ... «Diciamo
così: oggi nutro una certa simpatia nei
confronti dell'
educazione cristiana e occidentale ... La
nostra educazione di
provenienza è occidentale. E anche
storicamente, la prima fede
praticata dal popolo albanese è stata il
cristianesimo. Le
moschee e il resto sono arrivati dopo. Già
con gli Illiri, coi
Romani ci furono in questa terra fermenti di
cristianesimo. E invece,
con gli Ottomani, una parte di questa
popolazione è stata
portata all' Islam con la violenza. Questo è
accaduto anche dopo
Skanderbeg e la sua resistenza all'
invasione dei Turchi ... Il mio
è un interesse culturale e spirituale del
tutto personale. Vede
quel quadro? (indica l' olio d' un
ritratto su sfondo verde,
opera d' un pittore kosovaro) E' un
ritratto di Pjeter Bogdani. Fu un grande
vescovo del Kosovo, nel ' 600
combatté la penetrazione islamica in questa
terra. Una figura
straordinaria, molto attuale per chi vuole
capire queste epoche di
confronto tra civiltà».
Quando si farà battezzare? Altro sorriso: «Si vedrà... Ora
il mio obbiettivo
è soprattutto politico: voglio mirare a una
vera tolleranza fra
cristiani e musulmani». Rugova
folgorato sulla via di
Pristina. E' da almeno un anno che circolano
voci sulla conversione del
«Gandhi dei Balcani», capo storico contestato
dalla
leadership kosovara, ma ancora forte d' una
maggioranza politica. Un
sacerdote italiano segue questo cammino di
fede fin dal ' 99, dai tempi
dell' esilio romano di Rugova, quando questa
terra veniva
«serbizzata» dalle truppe di Milosevic e
bombardata dalla
Nato: «Se si è convertito? - si schermì il
prete,
mesi fa, alla nostra domanda -. Non so se sia
opportuno rivelarlo. In
ogni caso, chiedetelo a lui». Fatto: una
mattina di novembre il
presidente del Kosovo, anziché sottrarsi, s'
alza dalla sua
poltrona rosso impero, primo piano del palazzo
sui colli di Pristina, e
ci accompagna in una sala vicina, davanti al
plastico color alabastro
d' una cattedrale. «E' il mio
sogno: un mausoleo per Madre Teresa di
Calcutta, grande cristiana e
grande albanese. L' hanno disegnato due
architetti italiani, Bruno
Valente e Giuseppe Durastanti. Sono stato in
Vaticano. Ho mostrato il
progetto anche al vostro ministro
Buttiglione». Ma quei
soldi non si potrebbero usare per cose più
urgenti? «Il
progetto sarà finanziato con le
donazioni individuali. In ogni caso, a noi
servono questi simboli. ...
Il futuro del Kosovo indipendente è legato
al suo ingresso nella
Nato ... La bandiera è già pronta (Rugova ne
mostra una
nella sala, vicina a quella albanese). L'
aquila schipetara in un
cerchio rosso su sfondo blu, che è il colore
del nostro cielo,
della tolleranza e dell' Europa. Ci sono
anche la scritta "Dardania",
antico nome del Kosovo, e una stella a sei
punte, quella di
Skanderbeg... ». La bandiera
sventolerà sulla
cattedrale di Madre Teresa? «E'
presto per dirlo. Il terreno c'è, la prima
pietra della chiesa
è già stata posata. Nel 2004 cominceranno i
lavori.
Abbiamo fretta di finirla». Perché? «Ho chiesto al
Papa di venire a inaugurarla».
Secondo
il
quotidiano di Pristina ''Lajme'', Rugova era già
stato
battezzato addirittura il 24 aprile 1994: « Ad
officiare il rito sarebbe stato
Giovanni Paolo II: Rugova avrebbe deciso come
nome cattolico quello di
Pietro (Pjeter in albanese), una scelta
volutamente ispirata al
fondatore della Chiesa, dal quale Rugova sentiva
di aver ereditato la
stessa determinazione, rivolta nel suo caso alla
costruzione di un
Kosovo sovrano e indipendente. Una persona molto
vicina a Rugova
tuttavia smentisce: ''Io ho parlato con lui più
volte della
questione - confida all'Ansa - non c'è dubbio
che desiderasse
essere battezzato, e che avesse abbracciato la
fede cattolica se non
altro dal punto di vista spirituale, ma con
altrettanta certezza
escludeva l'ipotesi di una conversione formale.
La mia gente, ripeteva,
non lo capirebbe" » (fonte: ANSA 22/1/2006).
Al di
là delle indiscrezioni, in occasione della
morte, avvenuta nel
gennaio 2006, in molti ricordano i profondissimi
legami mantenuti da
Rugova con gli ambienti romano-cattolici: « "Rugova
con grande sforzo ha
voluto baciarmi l'anello - ricorda il cardinale
Scola nel corso di
un'intervista concessa oggi all'emittente
radiofonica diocesana Gvradio
in Blu - mi ha colpito molto come segno di
rispetto, non verso la mia
persona, ma verso il Papato e la Chiesa. E' un
gesto sempre piu' raro
anche tra i cattolici''. ''Ho sempre avuto
grande stima per lui, fin da
quando ho cominciato a leggere i suoi scritti
nella meta' degli anni
'80 - aggiunge il patriarca di Venezia - e'
stato uno dei politici e
pensatori piu' illuminati che l'Europa ha
avuto''. La morte di Rugova,
osserva ancora il cardinale Scola, ''e' grave
non solo per il Kosovo,
che ha appena perso anche il vescovo monsignore
Mark Sopi, altra grande
figura carismatica, ma per tutta l'Europa'' »
(fonte: ANSA
23/1/2006).
Nonostante
l'obiettivo di fare del Kosmet
un protettorato NATO sia stato già
conseguito, nonostante i
rapporti etnici siano stati ora realmente (e
non solo verbalmente o
fittiziamente) stravolti a favore della
componente albanese -
attraverso l'immigrazione di centinaia di
migliaia di albanesi
dall'Albania, attraverso la cacciata di
mezzo milione tra serbi ed
altri estranei all'irredentismo "balista",
attraverso violenze di ogni
tipo -, nonostante tutto questo il movimento
irredentista, ora guidato
dalla linea tutt'altro che pacifista dei
terroristi UCK, non si
accontenta, fino all'ottenimento
dell'obiettivo principale: la
proclamazione dell'indipendenza.
Questa avviene, sotto l'egida della NATO,
nel febbraio 2008.
Adesso sì
che gli
albanesi "etnici" hanno raggiunto anche più
del 90% della
popolazione sul territorio!... I pochi
serbi, e gli appartenenti alle
tante altre etnie autoctone, vivono ora in
scandalose “prigioni
a cielo aperto”, spesso attorno ai monasteri
ortodossi ancora non
distrutti dalla furia vandalica degli
estremisti.
Quanti
monasteri e
chiese bizantine, risalenti anche al XIII
secolo, patrimonio culturale
mondiale,
sono state distrutte, bruciate, gli
affreschi deturpati, i cimiteri
ortodossi profanati... (vedi la nostra
pagina
dedicata)
Sarà ancora lì la lapide che, al Campo dei
Merli (Kosovo
Polje), ricordava la storica
battaglia del piccolo esercito serbo del re
Lazar contro quello del
potente ottomano Murat, avvenuta nel giorno
di S.Vito (28 giugno) del
1389? Episodio centrale non solo dell'epica
serba, ma fondativo della
cultura e dei valori di tutti i popoli
jugoslavi, poichè
richiamava i primordi della lotta per la
liberazione nazionale, di tutte le nazionalità dei Balcani,
dall'occupazione e dal giogo straniero.
La scritta
sulla lapide
invitava a meditare. Queste le parole:
Uomo,
chiunque tu sia, straniero o di queste
parti,
quando
arrivi in questo
Campo dei Merli,
vedrai
dappertutto
un'immensita di
ossa di morti,
e tra di
esse mi
avvisterai,
un essere
di pietra,
eccelso
(krstolikog)
e
vendicato,
eretto in
mezzo al Campo
(kako
uspravno
stojim)
(fine)
|