M. Cristaldi, A. Di Fazio, C. Pona, A. Tarozzi, M.
Zucchetti
del Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra
9 gennaio 2001
ROMA - SALA DELLA SACRESTIA VICOLO VALDINA, 3/A
Per informazioni: prof. Massimo ZUCCHETTI -
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Vengono discusse quattro tesi principali riguardanti l'uso di armi all'Uranio impoverito (DU) in Jugoslavia da parte della NATO negli anni 90. La prima tesi sostiene che il DU è dannoso e pericoloso, non solo come agente tossico chimicamente, ma anche dal punto di vista radiologico. La seconda sostiene che le autorità politiche e militari italiane non potevano non essere informate sulla pericolosità del DU e sul suo utilizzo negli scenari di guerra dell'ultimo decennio e che non è vero, poi, che le armi al DU non siano proibite a livello internazionale. La terza tesi sostiene come sia lecito attendersi l'insorgenza di tumori da DU nei militari italiani, effettuando una stima dei casi attesi nella popolazione oltre che nei militari. La quarta tesi mette in evidenza come la presenza di DU sia difficile da determinare sperimentalmente con rilevazioni sul campo.
In aggiunta, vengono poi trattati due punti che inquadrano il problema "DU nei Balcani" in un quadro più ampio. Viene fatto rilevare che il caso del DU è solo la punta dell'iceberg delle conseguenze di una guerra chimica, radiologica ed ecologica condotta dalla NATO contro la Jugoslavia e contro l'intero sistema ambientale dei Balcani.
Infine, dati epidemiologici sulla popolazione jugoslava vengono discussi per dimostrare come già oggi, a causa dell'inquinamento chimico e radioattivo, nonché delle condizioni di vita delle popolazioni jugoslave, migliaia di morti tardive per tumore e malformazioni congenite si stiano già verificando in Jugoslavia.
A volte ci vedremo costretti a dilungarci in tecnicismi (dei quali chiediamo scusa) indispensabili però per le dimostrazioni in oggetto.
Tesi: Sosteniamo che il DU è dannoso e pericoloso, non solo come agente tossico chimicamente, ma anche dal punto di vista radiologico, qualora ingerito o inalato.
Si sostiene da più parti che il DU, essendo debolmente radioattivo, addirittura in misura minore dell'Uranio naturale, abbia una pericolosità trascurabile. Non è così. La radiazione da DU (depleted uranium) è sì "lieve" rispetto a tante altre sorgenti (ha una bassa radioattività specifica, emette radiazioni poco penetranti), ma i suoi effetti biologici non sono affatto trascurabili.
I danni biologici prodotti dalle radiazioni non sono affatto sintetizzabili soltanto nella radioattività, e neppure aggiungendo l'informazione su energia e tipo delle particelle emesse. Infatti, la stessa sorgente causa danni molto diversi (per ordini di grandezza, non per un fattore) a seconda del tipo di tessuto, a seconda della durata dell'esposizione, e se questa è dovuta a sorgente interna o esterna, etc.
Per il DU, la questione è relativamente semplice: è un radionuclide che diviene pericoloso qualora sia inalato o ingerito, irraggiando, dall'interno, il corpo umano. Fattori secondari ma non trascurabili di contaminazione sono le mucose (bocca, cavità nasali, ecc.) e le eventuali ferite, spesso comuni in chi effettua lavori pesanti.
Dai dati riportati in nota si può verificare che il DU ha una modesta radioattività specifica (pari ad esempio a circa 1 milionesimo di quella di un grammo di Radio-226), ma che risulta - nelle condizioni che ci interessano - niente affatto trascurabile, ed ecco perché:
a) il DU di cui parliamo avrebbe un effetto biologico lieve o nullo se il contatto fosse esterno e poco durevole: infatti la radioattività alfa emessa dal DU non riesce a penetrare nella materia dall'esterno e basta un foglio di carta o lo strato morto della pelle ad attenuarla notevolmente; nel nostro caso, il problema è relativo all'inalazione o ingestione di DU, che, contaminando le varie matrici ambientali o biologiche (aria, acqua, terreno, piante, animali, alimenti, etc.), può essere incorporato dall'uomo. In seguito ai bombardamenti con armi al DU, infatti, questo prende fuoco, brucia ad alta temperatura (5000°) si nebulizza e passa nell'ambiente e di qui all'uomo.
Una volta inalato o ingerito, il DU provoca morte cellulare e danni cromosomici; inalato, è soggetto a complesse reazioni chimico-biologiche nel corpo umano. La radiazione alfa che esso emette viene arrestata da uno o due millimetri di pelle morta, il che ne motiva la trascurabilità come sorgente esterna. E' invece sorgente di elevata morte cellulare e danno cromosomico se emessa all'interno del corpo.
b) La forma in cui il DU si presenta dopo la combustione (UO2 e UO3, ossido di uranio tetra- ed esa-valente in particelle da 0.5 a 5 micron di dimensione lineare) lo rende adatto ad andare in sospensione (più del 99% in massa) nei fluidi delle mucose polmonari.
Ciò è causato sia dal diametro dei bronchioli (le parti terminali dei bronchi nelle quali l'ossigeno inizia ad essere immesso nel sangue) pari a circa 2-2.5 micron, sia dalla relativamente estesa superficie bronchiale, pari a circa 70-80 m2. La parte di ossidi di uranio che viene deglutita - tale è il destino di una parte dei muchi bronchiali durante la reazione allergica insorgente subito dopo l'inalazione delle polveri metalliche - si combina con l'acido cloridrico prodotto nello stomaco, formando così un prodotto anche parzialmente solubile, il cloruro di uranio, che va in circolo nel tratto intestinale.
L'ossido di uranio, dal canto suo, si combina facilmente con i tessuti e migra verso le ossa, una parte migra e si insedia nei reni (oltre ad altri organi, in percentuali minori). La parte che si fissa nelle ossa rimane lì permanentemente.
c) le cellule dei polmoni e le cellule ematopoietiche sono estremamente vulnerabili ai danni indotti da radiazioni, in quanto sono cellule ad elevato tasso di proliferazione
Per questi ed altri motivi, un emettitore di particelle alfa che venga introdotto nel corpo umano ed abbia le caratteristiche biochimiche del DU può essere, pur avendo una bassa radioattività specifica, anche più pericoloso di un nuclide radioattivo gamma: tutto dipende dalle quantità introdotte, e quindi dalla concentrazione di DU nelle matrici ambientali, dal tempo di esposizione, dalle caratteristiche fisiche (p.es., la granulometria delle particelle inalate) del radioelemento.
Vediamo quale è la situazione di teatro, sui luoghi di inalazione, con un calcolo inteso solo ad accertare se, in almeno un caso realistico, l'ordine di grandezza delle dosi in gioco non permetta di trascurare il problema. Consideriamo l'impatto di un missile Cruise Tomahawk che porti 20 kg di DU: si tratta della più bassa stima sul contenuto di DU fra le varie disponibili (si veda più avanti). L'impatto produce una nuvola di detriti di varie dimensioni, dopo combustione violenta a circa 5000°C. Il pulviscolo è, come detto, composto da particelle di dimensioni nel range [0.5 - 5] micron. Tra 500 e 1000 metri dall'impatto si possono respirare nubi con densità sufficiente a causare dosi rilevanti, composte da particelle che hanno una massa da circa 0.6 a circa 5 nanogrammi (6-50x10-10 g). E' stata effettuata una stima mediante il codice di calcolo di dose GENII, trascurando gli effetti dovuti all'incendio e considerando soltanto l'esposizione per una inalazione di un'ora dovuta al semplice rilascio del materiale, non considerando alcuni fattori che potrebbero far ulteriormente crescere l'esposizione. In un'ora si può inalare pulviscolo radioattivo proveniente dalla nube in quantità già notevoli. Tenuto conto dell'eliminazione corporea (reni, etc.) alla fine si viene ad assumere (in un'ora di inalazione) una radioattività che, tenendo conto della conversione in dose "biologica" umana (EDE, che ha fattore RBE pari a 20 per le alfa, più altri fattori a seconda se è per il midollo osseo o per i polmoni etc.), produce una dose che varia da 6,5 a 19 milliSievert (mSv), a seconda della distanza a cui ci si trova.
Si tenga conto che il limite di dose per la popolazione è di 1 mSv/anno. Al di là delle considerazioni numeriche, sulle quali torneremo in seguito con delle valutazioni più precise effettuate mediante modelli più sofisticati, è indubbio che il DU non può essere considerato un nuclide innocuo.
Certamente, se gli esposti respirassero Cesio o Iodio o altri radionuclidi a minor tempo di dimezzamento, e in pari quantità, la dose sarebbe maggiore, ma qui non si tratta di stabilire una graduatoria di pericolosità delle sostanze radioattive - nella quale il DU è senz'altro agli ultimi posti - ma chiarire se un rischio potenziale da esposizione da DU esista. Questo è accertato. Non è corretto in sostanza ragionare in termini di tempo di dimezzamento e di tipo ed energia delle particelle, per gli effetti biologici occorre considerare parametri e processi (chimici e biologici) aggiuntivi. Inoltre devono essere considerati gli aspetti ambientali che riguardano le ricadute al suolo delle polveri e dei residui incombusti o inesplosi del DU, che a lungo andare tendono a spostarsi per gli effetti del dilavamento, del vento e dell'assorbimento nei viventi, soprattutto nei passaggi interni alle reti alimentari .
Un'altra questione importante e tuttora aperta riguarda la "caratterizzazione" del DU, cioè la determinazione della sua effettiva radioattività, alla quale la presenza di piccole quantità di altri nuclidi radioattivi, come gli attinidi, dà un contributo rilevante. Questo aspetto è importante anche per individuare la concentrazione nel DU di Plutonio (un nuclide molto pericoloso) come impurezza. Un rapporto dell'ANPA del febbraio 2000 individuava il contributo aggiuntivo alla dose derivante dalle impurezze di plutonio: citando fonti del DOE (Dept. Of Energy, USA) questo contributo veniva fissato al 14%. Tuttavia, effettuando una valutazione con le concentrazioni di Pu stimate nel documento, si trova un contributo inferiore di almeno un ordine di grandezza: vi è quindi una contraddittorietà nei dati. Essa può venire spiegata pensando che le concentrazioni di plutonio siano maggiori di quanto dichiarato dal DOE. Il DOE si era impegnato a rendere noto entro giugno 2000 un rapporto sulla caratterizzazione del DU. A tuttora non risulta però sia stato pubblicato.
Resta da chiarire se la concentrazione di DU negli scenari jugoslavi sia sufficiente da costituire un pericolo. Su questo punto torneremo quando effettueremo una stima approssimativa del numero di fatalità attese in seguito all'uso di DU in Jugoslavia.
A supporto della nostra affermazione sulla pericolosità del DU, infine, vi sono rapporti di istituti, istituzioni ed organizzazioni prestigiose, alcune delle quali non possono essere certo tacciate di "opposizione al regime", come
Tesi: sosteniamo che le autorità politiche e militari italiane non potevano non essere informate sulla pericolosità del DU e sul suo utilizzo negli scenari di guerra dell'ultimo decennio. Non è vero, poi, che le armi al DU non siano proibite a livello internazionale.
Partiamo da quest'ultimo punto: il problema delle armi all'uranio impoverito è stato dibattuto anche in sede ONU. La Sottocommissione per la Prevenzione delle Discriminazioni e per la Protezione delle Minoranze nella sua 48° sessione del 30/8/1996 ha adottato una risoluzione in cui “…le armi di distruzione di massa e in particolare le armi nucleari non devono avere alcun ruolo nelle relazioni internazionali e quindi devono essere eliminate. …Tutti gli stati … devono essere guidati, nelle loro politiche nazionali, dalla necessità di eliminare la produzione e la diffusione di armi di distruzione di massa o con effetti indiscriminati e in particolare le armi nucleari, le armi chimiche, il napalm, le bombe a frammentazione, le armi biologiche e le armi contenenti uranio impoverito”.
Le evidenze della pericolosità del DU sono note da oltre venti anni in ambiente pubblico e militare: citeremo qui alcune fra le moltissime fonti di provenienza statunitense e di ambiente militare.
In un rapporto del 1979, il US Army Mobility Equipment Research & Development Command sosteneva che l'uso dei proiettili contenenti uranio impoverito mette in pericolo "non solo le persone nelle immediate vicinanze, ma anche quelle che si trovano a distanza sottovento: […] le particelle […] si depositano rapidamente nei tessuti polmonari esponendo l'ospite ad una dose tossica crescente di radiazioni alfa, capace di provocare il cancro e altre malattie mortali". Certamente questa non è una fonte dalla parte di chi vorrebbe il bando di queste munizioni.
Ma le notizie di fonte governativa statunitense riguardo le precauzioni da adottare in caso di impatto con questo materiale non sono certo scarse. Un altro rapporto proveniente dai Los Alamos National Laboratories afferma che "i poligoni di prova delle bombe all'uranio impoverito di Aberdeen e Yuma (nei deserti USA, teatro delle prove di queste armi alla fine degli anni 70 e inizio anni 80, nda) non potranno essere oggetto di insediamento umano senza preventiva decontaminazione" (Ci si chiede tra l'altro a questo punto come si giustifichi la presenza di militari per periodi prolungati in territori contaminati da DU, senza poi parlare dei civili che in quei luoghi vivono o cercano di farlo).
La "Armed Forces Radiobiology Research Institute" di Bethesda (Maryland, USA) ha pubblicato uno studio intitolato "Health effects od Depleted Uranium" le cui conclusioni evidenziano la carcinogenicità e la mutagenicità del DU e ritengono essenziale la prosecuzione degli studi al riguardo.
Nel 1987 l'esercito USA ha pubblicato le istruzioni per il maneggiamento delle armi a DU e dei veicoli contaminati. Nel luglio 1990 un rapporto della "Science Application International Corporation" degli USA preparato per l'esercito americano affermava che gli effetti a lungo termine di bassi dosaggi di uranio impoverito sarebbero stati l'insorgenza di tumori, patologie renali e difetti genetici. Dal settembre 1990 l'esercito USA pubblica un bollettino (Department of the US Army Technical Bullettin - Guidelines for safe response to handling, storage and transportation accidents involving army tank munitions or armour which contain depleted uranium) in cui si istruisce il personale militare a contatto con il DU sulla sua pericolosità.
Durante la guerra del Golfo del 1991, l'uso di armi al DU fu notorio e massiccio, non torneremo su questi dati. A seguito dell'insorgenza della Sindrome del Golfo, l'associazione dei Veterani della Guerra nel Golfo ha sollecitato ed ottenuto indagini ed approfondimenti sulla questione del DU, quali ad esempio una Commissione d'inchiesta della Presidenza degli Stati Uniti che ha prodotto (con lavori nel 1995/96) un rapporto pubblico "Presidential Advisory Committee on Gulf War Veterans' Illnesses Final Report". Sulla questione della Sindrome del Golfo e della Sindrome dei Balcani torneremo in seguito.
L'utilizzo di armi al DU durante i bombardamenti NATO/ONU sulla Bosnia nel 1995 è altrettanto notorio ed ammesso pubblicamente dal Dipartimento della Difesa USA (DoD), non solo in una intervista recentissima, ma anche nei comunicati ufficiali dell'epoca, come ad esempio quelli del novembre 1995 di fonte militare (Fact sheet dell'operazione Deliberate Force, tenutasi sulla Bosnia tra il 29/8/95 e il 14/9/95).
D'altra parte, le forze militari degli USA in Bosnia erano ben consapevoli dei rischi del DU, tanto è vero che portarono con loro le apparecchiature atte a rilevare la presenza di DU.
I nostri militari colpiti da leucemia hanno agito in Bosnia, dove i bombardamenti avvennero tra fine agosto e inizio settembre del '95. Furono scaricati per certo più di 10mila proiettili al DU dagli aerei A-10.
Riguardo ai bombardamenti in Bosnia, è ancora da mettere in luce il fatto che nessuna ammissione da parte militare si ha sull'uso e sul contenuto di DU nei missili Cruise Tomahawk, se non episodicamente. Non pare esagerato però supporre una rilevante presenza di DU in questi ordigni, sia per aumentarne la forza d'urto che per stabilizzarli in volo. Le stime vanno da un minimo di 20 kg al centinaio di kg di DU. Questo farebbe salire il "conto" sul DU utilizzato in Bosnia di parecchio.
L'utilizzo di armi al DU in Bosnia è stato poi denunciato al Tribunale Internazionale dell'Aja per i Crimini di Guerra in Jugoslavia (ICTY) già nel maggio 1998.
E' infine tipico rilevare come i portavoce ufficiali del DoD o di istituzioni simili neghino a parole, nelle conferenze stampa, quanto è nascosto nelle pieghe dei rapporti ufficiali da parte dei loro stessi enti sulla pericolosità del DU. Si veda ad esempio il rapporto preparato dal AEPI (Army Environmental Policy Institute) su richiesta del Congresso USA, che chiaramente afferma che i rischi da DU sono sia chimici che radiologici.
La quantità di documenti sull'uso e pericolosità del DU è amplissima; non citiamo volutamente quelli di provenienza non statunitense e militare: non già per metterne in questione la fondatezza, ma soltanto per evitare dubbi. Per gli aspetti divulgativi e di denuncia sul DU rimandiamo comunque al libro "The Metal of Dishonor" (Il metallo del disonore, aut. Helen Aldicott, International Action Centre), che è stato pubblicato a New York (USA) ed è diffusissimo, anche in edizione italiana.
Sembra a questo punto abbastanza singolare sostenere che il nostro esercito e il nostro governo nulla sapessero sull'uso di armi al DU, e che inoltre ne ignorassero la pericolosità.
Purtroppo, l'uso strategico di questa arma non è motivato soltanto dal fatto che il suo accumulo come scoria dei processi di arricchimento e di riprocessamento è in eccedenza e pertanto il suo costo sul mercato diviene praticamente nullo come materia prima. Proprio per le sue caratteristiche di quasi completa maneggiabilità (differentemente da molti transuranici), esso rende l'attaccante pressoché immune da rischi primari, mentre la sua capacità di contaminare cronicamente territori e popolazioni bersaglio, ne fa una potente arma di ricatto sanitario su truppe e/o residenti in una determinata area geopolitica destinata a subire nel tempo continue pressioni economiche, accompagnate dall'imposizione dell'embargo: l'esempio dell'Iraq a questo riguardo è emblematico. Le omissioni sulla pericolosità del DU non costituiscono altro che una programmata dilazione di informazioni corrette, che rischierebbero di compromettere un giro di affari di portata più vasta degli stessi immediati interessi di mercato.
Tra l'altro, anche la legislazione statunitense in materia di radioprotezione non è indulgente con chi utilizza uranio e addirittura fabbrica queste bombe. Le National Lead Industries, nello stato di New York, è stata chiusa nel 1980 a causa di rilasci eccedenti i limiti imposti dalla legge e che causavano una eccessiva contaminazione dell'aria. La quantità rilasciata sarebbe stata di "appena" 5,5 MBq in un mese, pari a 375 g di DU, che tradotta in termini da "campo di battaglia" equivale ad uno solo, circa, dei 31.000 proiettili sparati, secondo le ammissioni della NATO, sul Kossovo.
Anche la legislazione italiana, poi, cita espressamente il DU classificandolo fra i nuclidi radioattivi, sebbene nel gruppo "a debole radiotossicità". Sappiamo ora che tutto dipende dalla quantità, dalla concentrazione, dalle modalità e dai tempi di esposizione. In particolare, la stessa legislazione, per il nuclide U238, prescrive che la presenza di esso rientri nel campo di applicazione della legge (non sia cioè trascurabile) qualora la quantità totale di radioattività del materiale superi i 104 Bq e che l'attività specifica sia superiore a 1 Bq/g. Data l'attività specifica del DU, è sufficiente la presenza di meno di un grammo di DU per rientrare nel campo di applicazione della legislazione italiana di radioprotezione; basterebbe per questo una piccolissima scheggia di un solo proiettile al DU.
Tesi: sosteniamo come sia lecito attendersi l'insorgenza di tumori da DU nei militari italiani.
Vi sono stati negli anni 90 circa 90000 casi denunciati di "Sindrome del Golfo" da parte di militari USA. Di questi, 60000 sono stati presi in considerazione dal governo USA e a 28000 veterani attualmente il governo eroga una sorta di "indennità di invalidità". Analoghi casi si sono manifestati in soldati Britannici.
Attribuire la sindrome del Golfo al solo DU non è realistico. Essa è il risultato di diverse concause:
Inoltre: Vaccini e antidoti sperimentali contro armi chimiche e biologiche, inoculati ai soldati; Probabile uso di armi chimiche; Farmaci anti-malarici distribuiti alle truppe; Fumo derivato dall'incendio di pozzi di petrolio; Uso massiccio di pesticidi nei campi desertici; Batteri e fauna microbiologica tipica del deserto e di alimenti della zona.
Abbiamo volutamente separato le prime tre concause dalle altre, in quanto le prime sono le stesse responsabili di una affine "Sindrome dei Balcani", che si sta manifestando fra le nostre truppe, e che, a nostro parere, non mancherà di mietere vittime anche in futuro.
Sul problema dell'inquinamento chimico causato dai bombardamenti NATO torneremo in seguito, anche se va sottolineato fin da subito che gli effetti sinergici e combinati dei diversi contaminanti porteranno ad individuare in alcune aree la predominanza di alcuni fattori rispetto ad altri, permettendo di ricostruire, forse soltanto ad effetti conclamati, il quadro epidemiologico differenziale delle diverse forme di contaminazione.
Le conclusioni della Commissione d'inchiesta del Dipartimento della Difesa USA, che attribuisce allo stress la Sindrome del Golfo, sono secondo noi irrealistici, ed assumono tutto il loro carattere man mano che i dati epidemiologici dall'Iraq si rendono disponibili. Restringendo il discorso ai soli veterani USA, l'evidenza dei dati dimostrava già effetti precoci di cancerogenesi con picchi generalmente concentrati nel 1996. Estendendo l'osservazione anche ai dati per i soldati iracheni, si hanno poi evidenze ben più significative fra le impressionanti maggior incidenze di linfomi e leucemie e l'esposizione a DU.
Ritornando al rischio da DU nei Balcani, riportiamo la stima effettuata a partire dai calcoli da uno degli scriventi (Carlo Pona), nel suo articolo "Rischi legati all'impiego bellico dell'Uranio impoverito", nel libro "Contro le nuove guerre" (Odradek, Roma, ott. 2000), atti del Convegno "Cultura Scienza e Informazione contro le nuove guerre", organizzato al Politecnico di Torino nel giugno 2000 dal Comitato Scienziate e Scienziati Contro la guerra. Si faccia riferimento anche all'altro articolo, contenuto nello stesso libro, di C.Giannardi e D. Dominici "Esposizione della popolazione da uso dell'Uranio impoverito".
Verrà riassunta una valutazione dosimetrica utilizzando un codice di calcolo sviluppato per lo scopo dai Laboratori Nazionali di Argonne negli Stati Uniti.
Per il calcolo degli scenari di esposizione e contaminazione al DU si sono fatte le seguenti ipotesi: in ogni attacco sono stati impiegati 10 kg di proiettili al DU, e che tutti i 10 kg siano stati trasformati in aerosol e polveri, distribuiti su una superficie di 1000 m2. Una tal massa di proiettili corrispondono ad un numero di proiettili vaporizzati pari a 33 colpi anticarro cal. 30 mm, numero perfettamente accettabile, ad esempio, all'interno di una raffica per garantire la distruzione di un carro, considerato l'abbondanza con cui i colpi vengono sparati dall'attaccante, che già tiene conto di come non tutti i colpi sparati andranno a segno.
Con queste premesse sono state calcolate le dosi ad individui adulti, sia in prossimità di un bersaglio al momento dell'attacco, sia in seguito per la deposizione al suolo, per la risospensione della polvere contenente DU e attraverso la catena alimentare. Sono assunzioni assai prudenziali: anche secondo i dati ufficiali forniti dalla NATO sui soli proiettili degli aerei A-10, uno scenario di questo tipo si sarebbe potuto verificare circa 1.000/1.500 volte nel corso dell'aggressione. Secondo le fonti jugoslave, circa il doppio.
I vari casi studiati sono (si legga l'articolo per maggiori
informazioni):
1. inalazione istantanea di aerosol di uranio durante l'attacco;
2. inalazione per risospensione, a causa di una presenza prolungata sul
sito;
3. ingestione di vegetali subito dopo l'attacco;
4. esposizione esterna da terreno contaminato;
5. contaminazione da dieta per ingestione di cibi contenenti DU.
Il problema più importante da valutare non riteniamo sia quello della dose ai singoli, ma quella alla popolazione nel suo complesso. I dati calcolati per ogni individuo vanno moltiplicati per il numero di persone esposte per avere una stima della dose collettiva. Tenendo conto delle stime della International Commission for Radiological Protection (ICRP), possiamo stimare l'incidenza di nuovi tumori maligni al tasso di 1 ogni 50 man-Sv (Si tratta di un'assunzione probabilmente ottimistica e che sottostima il rischio).
Gli scenari più gravi risultano essere quelli da inalazione, sia istantanea che da risospensione, che quelli da ingestione.
Riassumendo potremmo fare uno schema riassuntivo dei vari contributi (in tabella)
Tabella: impatto radiologico complessivo
Ipotesi: 10 kg di DU rilasciati nell'attacco; area interessata: 1.000 m2; densità del suolo: 1,5 kg/dm3
mSv/a | mSv (una tantum) | ||
Esposizione esterna | superficie | 1450 | |
Inalazione | Istantanea 1 minuto | 22600 | |
Permanenza limitata | 0,14 / 14 | ||
Permanenza protratta | 42 / 4200 | ||
Ingestione | 1 g di suolo | 3,35 | |
Acque potabili (3 l/g) | 900 | ||
Cibo: Breve termine | 43 | ||
Cibo: Lungo termine | 70 | ||
Totale parziale | 2500 / 6700 | 22600 + 45 / 60 | |
Totale (1° anno) | 2600 / 6800 + 22600 una tantum |
Aumentando prudenzialmente la cifra annua includendovi i contributi "una tantum", il cui effetto non è affatto trascurabile sull'insieme della popolazione, si può considerare un valore annuo di dose a persona intorno ai valori massimi della stima effettuata, ovvero sui 5-6 mSv/anno.
Ciò significa un caso di tumore in più rispetto ad un gruppo di controllo (non irraggiato) ogni circa 8000 - 10000 persone all'anno. Su una popolazione di due milioni di persone, si tratta di 200-250 casi in più all'anno.
Per quanto riguarda l'esposizione dei militari, il discorso si complica a causa delle loro diverse abitudini "sociali e di vita" rispetto ad un semplice civile. Le occasioni e le modalità della loro esposizione sono maggiori. Pensiamo agli elicotteristi ed alla inalazione di polveri, per fare un esempio. Oppure ai costruttori di installazioni da campo o di alloggiamenti militari, oppure agli addetti allo sgombero e alla "pulizia" dei campi di battaglia. A rischio maggiore dovrebbero essere comunque gli specialisti del nucleo "Bonifica ordigni esplosivi". Inoltre, la permanenza di un militare, anche non impegnato in attività di guerra diretta, ma solo di "peace keeping", è più peculiarmente legata a campi di battaglia dove l'uso di queste armi è più probabilmente avvenuto.
Non risulta esagerato, ma anzi prudenziale, in attesa di stime più precise, affermare che l'esposizione dei militari possa risultare, nel complesso ed in maniera indicativa, pari a due-tre volte quella stimata precedentemente.
Si ritiene allora che si possano verificare casi di tumore con tassi di insorgenza pari a circa uno in più ogni 2000 - 5000 persone all'anno.
Stimando che il numero di soldati italiani impiegati negli scenari iugoslavi ammonti a circa 40.000 unità, possiamo attenderci nell'ordine da 10 a 20 casi all'anno di tumore in più rispetto al normale.
Teniamo inoltre a precisare come, su una popolazione di 40000 individui sani e giovani (età media sui 25 anni), l'incidenza annua di leucemie è piccola (un numero inferiore all'unità), quindi tutti i casi che si verificano in questi giorni sono "anormali", anche se non portano, e fino a prova contraria, nessuna "firma" che attribuisca la patologia a questo o quell'agente cancerogeno.
La nostra è una stima effettuata con il meglio delle informazioni in nostro possesso. I dati sono in accordo con le evidenze patologiche che si sono recentemente manifestate. Potranno essere migliorati e precisati una volta a disposizione dati sperimentali affidabili sui livelli di contaminazione in situ.
A questo proposito, già durante la guerra in Kossovo uno studio di una Ong italiana, il Landau Network di Como, aveva segnalato, utilizzando un metodo rigorosamente scientifico, quello che sarebbe potuto accadere di lì a qualche anno. Lo studio metteva in forte evidenza il rischio radiologico dell'uso militare del DU. Questo studio fu commissionato dal ministero degli Esteri in piena guerra. Quando fu pronto, a luglio del '99, fu inviato alla Commissione esteri del Senato. Nel novembre 1999, venne in Italia il professor Predrag Polic da Belgrado, che portò campioni di terriccio, che furono analizzati nei laboratori dell'Enea di Bologna, sotto la supervisione del dott. Paolo Bartolomei. Uno di questi fu trovato altamente radioattivo, circa cento volte più del dovuto. Successivamente vi furono alcune interrogazioni parlamentari dei senatori Tana de Zulueta e Giangiacomo Migone. A marzo c'è stata un'altra interrogazione che mirava a stabilire che queste armi sono disumane. Nel marzo 2000, poi, vi è stata una conferenza al Senato della Repubblica di presentazione di questa ricerca. E' allora impossibile sostenere che il governo italiano non fosse a conoscenza di questi fatti.
La Repubblica Federale di Jugoslavia, tramite il suo Ministero per lo Sviluppo, la Scienza e l'Ambiente, ha pubblicato infine lo scorso anno un rapporto circostanziato sulle conseguenze ambientali dei bombardamenti della NATO. Nel rapporto un capitolo è dedicato all'uranio impoverito. La stima del carico di DU depositato è di 50.000 proiettili, pari a circa 15 tonnellate, più alto di quella NATO. Prudenzialmente, in questo documento, abbiamo comunque fatto riferimento alle cifre fornite dalla NATO (31.000 proiettili).
La contaminazione del suolo è stata confermata da misure di spettrometria gamma eseguite presso l'Istituto di Scienze Nucleari di Vinca, vicino Belgrado, e i dati forniti riferiscono di campioni di suolo con concentrazione di DU fino a 235 kBq/kg. Le aree colpite sarebbero già state localizzate tutte e recintate per impedirne l'accesso in attesa della decontaminazione, che consisterebbe nella rimozione dello strato superficiale del terreno e lo smaltimento in discarica controllata. Non vengono menzionati i missili Tomahawk, che invece secondo altre fonti e informazioni dirette sarebbero stati utilizzati anche nelle vicinanze delle città di Belgrado (aeroporto militare di Rakovica) e Novi Sad.
Infine, citiamo i dati epidemiologici che indicano come in Bosnia gli effetti a livello di induzione di tumori delle guerra siano già evidenti. Il ministero della Sanità della Federazione Bosniaco-Croata ha dichiarato che l'incidenza di carcinomi fra la popolazione è aumentata da 152 casi su 100.000 nel 1999 a 230 casi su 100.000 nel 2000. Nello stesso periodo, i casi di leucemia sono saliti da 6.2 a 10.4 su 100.000.
Tesi: mettiamo in evidenza come la presenza di DU sia difficile da determinare sperimentalmente.
E' ancora aperto il problema della determinazione sperimentale dell'inquinamento da DU in Jugoslavia, ma purtroppo riteniamo che alcuni fatti avrebbero reso preferibili determinazioni fatte immediatamente dopo la guerra.
E' noto infatti che l'U238 del DU è radionuclide di difficile rilevabilità, perché tende a confondersi con quello naturale - se non si riescono a calcolare per ogni tipo di terreno gli opportuni rapporti isotopici con radionuclidi di decadimento della serie del Torio. Nel caso in cui il DU non derivi dai processi primari di arricchimento ma da riprocessamento del combustibile delle centrali, allora si accompagnerebbe con Pu239, il quale tuttavia, alle concentrazioni in esame, si può rilevare anch'esso assai difficilmente. In questo caso, però, su campioni ambientali è possibile ricercare la presenza di U236, il quale, essendo presente solo nella fase di riprocessamento del combustibile nucleare esaurito, è un indicatore della presenza di plutonio.
Per di più la sottile pellicola di micronizzazione metallica sui corpi e sul terreno, riscontrabile nei casi di avvenuta combustione del metallo, è quantitativamente così piccola da rendere difficile, anche se non impossibile, la determinazione del DU tramite spettrometria gamma. L'U-238 si dispone inoltre tra la congerie di emetttitori sulle basse energie con i suoi scarsi 0,048 MeV, e per determinarlo, dopo un primo screening gamma, pare necessario procedere con ulteriori rilevazioni di tipo radiochimico.
Sarebbe di aiuto l'individuazione di meccanismi di riconcentrazione in matrici ambientali o biologiche, ovvero individuare "luoghi di accumulo" del DU nell'ecosistema. Un meccanismo di tipo fisico è la riconcentrazione per cause meteoriche, come drain-out - drenaggio delle acque) mentre per bioconcentrazione si dovrebbero trovare bioaccumulatori, che per l'Uranio sembrano ben scarsi .
Il problema è reso più difficile dagli effetti diluizione e dilavamento che tendono a portare il metallo in profondità e a disperderlo, per cui misurazioni fatte oggi potrebbero avrebbe più difficoltà ad individuare il contaminante. Inoltre, dal giugno 1999 (entrata italiana a Pec), nei 5 mesi di disinformazione postbellica in cui i soldati sono stati lasciati senza le necessarie istruzioni sul DU e privi quindi delle basilari protezioni igieniche per lavorare su materiale radioattivo (la nota informativa ufficiale sul DU da parte della "Multinational Brigade West" della NATO a guida italiana e dal Nucleo Nucleare Biologico chimico dell'Esercito italiano risale al 22 nov. 1999), essi sono stati impiegati, tra l'altro, a rimuovere inconsapevolmente le pur labili e contaminate prove residue (cadaveri, carcasse metalliche, proiettili inesplosi, ecc.); per cui forse qualche prova si può trovare nei loro polmoni, nei reni, nelle ossa o studiando nel sangue alterazioni di tipo mutagenetico, ma senz'altro di meno dagli esami di terreno e acque; non resta a questo punto che avvalersi delle informazioni fornite dal Pentagono, oppure su rilevazioni effettuate da scienziati Jugoslavi.
Ma il fattore più importante di "rimozione" del DU, da un lato, e di esposizione della popolazione locale, dall'altro, è il fatto che i civili locali hanno raccolto il materiale contaminato sui campi di battaglia per venderlo come ferro. Queste persone sono quelle maggiormente esposte. Se ora si trova poco uranio nei siti la ragione principale è proprio dovuta a questo tipo di bonifica impropria. Inoltre queste persone costituiscono il “gruppo critico” sul quale si devono fare le considerazioni sanitarie, insieme ai bambini che hanno raccolto i rottami di carri armati contaminati da DU e che tuttora giocano in campi dove sono presenti anche pezzi interi di proiettili al DU.
Citiamo infine la proposta di una ricerca che punti agli effetti biologici su bioindicatori (cfr. M.Cristaldi, "Reti di biomonitoraggio per valutazioni preventive di rischio territoriale", su "Contro le nuove guerre", op.cit.) diffusamente presenti nel territorio (Roditori), per definire gli effetti e quindi il rischio biologico su alcune aree critiche (magari più popolate). Riteniamo questa una strada percorribile, accanto a quelle già in sviluppo, per l'individuazione dei dati necessari per le stime più adeguate finalizzate alla perimetrazione delle aree a rischio ed alle opere di prevenzione per tutti i gruppi effettivamente e/o potenzialmente esposti.
In aggiunta alla parte del documento che tratta in maniera esplicita le questioni del DU, riteniamo indispensabile trattare in conclusione due punti che inquadrano il problema "DU nei Balcani" in un quadro più ampio:
A. IL DU E' LA PUNTA DELL'ICEBERG DI UNA IMMANE "GUERRA CHIMICA" NEI BALCANI
B. SONO GIA' MIGLIAIA I CASI DI TUMORE IN PIU' PROVOCATI DALLE GUERRE IN JUGOSLAVIA
Non si può infatti sottacere lo scenario a dir poco preoccupante che la questione del DU deve contribuire a riportare all'attenzione.
E' giusto rilevare come il caso del DU sia solo la punta dell'iceberg delle conseguenze di una guerra chimica , radiologica ed ecologica (chiamiamola pure con un unico termine: GUERRA CANCEROGENA) condotta dalla NATO contro la Jugoslavia e contro l'intero sistema ambientale dei Balcani. Prendiamo come riferimento gli articoli di Ivan Grzetic, scienziato jugoslavo, su "Contro le nuove guerre" e le valutazioni di Knut Krusewitz: a queste e a molte altre fonti rimandiamo per dati più precisi e dettagliati. Nella sola guerra 'del Kosovo' la NATO ha consumato l'equivalente del 7% annuo della produzione di petrolio di tutto il mondo in un anno. Ha bombardato e distrutto 16 fra raffinerie e impianti chimici di grossa taglia, 39 centrali energetiche/elettriche, 77 impianti industriali, riversando nell'ambiente migliaia di tonnellate di: mercurio e suoi composti, diossina, ammoniaca, cloruro di vinile monomero, dicloroetano, toluene-disocianato, metalli pesanti, PCB, idrocarburi policiclici aromatici, cloruro di etilene ETC, fosgene, etc. Tutti questi composti chimici citati, nessuno escluso, sono agenti cancerogeni. Si pensi al bombardamento delle raffinerie di Pancevo e di Novi Sad e alla conseguente devastazione dell'intero bacino idrico danubiano in terra non soltanto jugoslava.
Non ci stupisce pertanto, ne' ci stupirà in futuro, il verificarsi di casi di tumore fra i militari, i volontari, la popolazione che ha risieduto o risiede in Jugoslavia. E' stato violato il protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra del 1977, stipulato in seguito agli effetti sui civili dei bombardamenti chimici statunitensi sul Vietnam, che definiva crimini di guerra i danni gravi, estesi e duraturi inflitti, anche inintenzionalmente alla popolazione civile. Una recente sentenza del Tribunale de L'Aja parrebbe negarlo rifiutandosi di bollare come sproporzionati i danni indotti sui civili dai bombardamenti su obiettivi militari, anche quando, come a Pancevo, si erano registrati picchi di tossicità 10mila volte superiori al consentito.
Ma oggi le conseguenze della guerra toccano i militari delle truppe alleate, con eccezione di quelli che, come gli statunitensi e gli anglosassoni, si sono limitati a bombardare dall'alto la gente inerme. E allora è la stessa Commissione ecologica del Consiglio d'Europa che un mese fa ha dichiarato che la NATO ha effettuato i bombardamenti 'trascurando' leggi internazionali, causando un enorme danno ecologico, in particolare a causa dell'uso degli armamenti all'uranio impoverito, e del rilascio di sostanze velenose nel Danubio, a seguito degli incendi nelle industrie chimiche. Un danno ecologico prevedibile e ovvio fin dall'inizio stesso dell'intervento e che quindi si può considerare premeditato. In questo contesto, uno dei giornali più diffusi del Portogallo chiede l'incriminazione di Solana per crimini di guerra.
Tutto questo mentre sappiamo che gran parte dei danni sulla salute indotti dai bombardamenti emergeranno solo tra molti anni, come a Porto Marghera, dove i magistrati italiani possono oggi parlare di stragi per fughe di sostanze tossiche infinitamente inferiori a quelle registrate due anni fa lungo il Danubio.
Se una stima delle conseguenze sui militari è difficile, non è difficile citare i primi dati sui civili jugoslavi. Ad esempio, i dati per la zona di Pancevo: il numero annuo di casi di tumore, già alto prima dell'attacco a causa delle industrie chimiche, è passato da 2000 a circa 10000 (stima estrapolata dai primi dodici mesi dopo l'attacco dalla Sindaca e dall'assessore all'ambiente locali).
I dati epidemiologici jugoslavi indicano che l'inquinamento chimico deve essere una concausa rilevante della maggior insorgenza di tumori in chi sia stato o viva in Jugoslavia durante o dopo le guerre, in quanto tutti i casi che si verificano sulla popolazione non sono spiegabili con il solo DU. Ma questo non è importante, se non per riconoscere che il DU non deve servire per distogliere l'attenzione sugli altri crimini di guerra della NATO (come bombardare un'industria chimica sottovento a una città), ma anzi il DU deve servire da TRACCIANTE MORALE per individuare le ragioni di questi crimini, volti a destabilizzare intere aree geopolitiche.
L'attenzione su queste cose si è destata per la malattia e la morte di alcuni militari italiani; tuttavia, non possiamo tacere la nostra indignazione per il fatto che, in questi mesi, si sia taciuto che in Jugoslavia si muore di cancro e malformazioni congenite a migliaia in più rispetto a prima della guerra, senza contare le migliaia di morti durante il conflitto.
Se danni così gravi si stanno verificando in militari di provenienza estera, con alcuni "benefit" in termini di salute e di qualità della vita, cosa sta succedendo e cosa succederà alle popolazioni che lì vivevano negli ultimi dieci anni dopo la guerra in Bosnia e che continuano a viverci in condizioni che l'embargo e la povertà del dopo guerra stanno rendendo quasi impossibili? Non può che destare ulteriore timore il fatto che, sia i dati di Pancevo sia le informazioni raccolte presso città jugoslave che non sono state strettamente l'oggetto di una guerra chimica (come Cacak), forniscano un quadro di crescita dei tumori talmente ripida e rapida da non potersi spiegare solo con cause di tipo chimico o più generalmente ambientale. Questo potrebbe significare, per esempio, la presenza di un calo delle difese immunologiche dovuto allo stress correlato all'intensità e alla tipologia dei bombardamenti in quanto tali, come è dimostrato dall'impressionante aumento di casi di depressione registrati a Belgrado e in molte città bombardate più violentemente (cfr. M.Saric Tanaskovic in Contro le nuove guerre, cit.).
Sottolineiamo infine che molte volte i dati più impressionanti non vengono forniti dalle autorità iugoslave, ma vanno ricondotti a ricerche di Istituti indipendenti e spesso sottofinanziati (come quello tedesco di Ekocontrol di Dessau o quello greco dell'Università della Tracia), oppure debbono essere scovati nelle appendici dei rapporti ufficiali delle Nazioni Unite (Unep-Balkan Task Force). In tale rapporto si possono infatti trovare dati di estremo interesse, nonostante la prima missione dell'Unep fosse stata stabilita a guerra ancora in corso con lo scopo di "evitare speculazioni sugli effetti dell'intervento Nato". L'Unep in effetti non arrivò a dimostrare che la guerra avesse causato la catastrofe ecologica, ma riconobbe le condizioni ambientali catastrofiche registrate in città come Pancevo e a Novi Sad.
Ciò sta a testimoniare una perversa e inconsapevole complicità tra vittime e carnefici che ha come risultato l'occultamento di importanti elementi di prova dei crimini ecologici di guerra contro le generazioni presenti e quelle future, le quali paiono destinate a subire un aumento del carico genetico, attualmente di difficile quantificazione.
Non solo la Nato occulta le prove del suo operato ai suoi stessi alleati, come stiamo vedendo in questi giorni, ma sono le stesse istituzioni jugoslave - e alcune degli altri paesi circonvicini subordinati alla NATO - che mostrano spesso segni di timidezza nel denunciare le sindromi da cui sono afflitte in seguito alla guerra: motivi di ordine pubblico, come quelli che hanno evitato ieri una possibile evacuazione di Belgrado, minacciata dalla nube tossica proveniente da Pancevo, e che hanno indotto i ginecologi delle città oggetto di bombardamenti chimici a suggerire solo informalmente l'aborto per i successivi due anni a donne che avrebbero potuto essere le gestanti di feti malformati; motivi per cui oggi lo stesso Ministero dell'Ambiente potrebbe sparire in Jugoslavia, eventualmente inglobato in quello della Sanità. Ma anche motivi di ordine economico: che convenienza ha infatti la vittima a denunciare il crimine da cui è stata colpita, quando ciò impedirebbe all'agricoltore di vendere la propria merce sospetta inquinata, unica sua fonte di reddito, o l'operaio correrebbe il rischio che la sua fabbrica non venisse ricostruita nel luogo dove avrebbe un impatto ambientale insostenibile, per esempio lungo il Danubio, o il proprietario di una casa che vedrebbe frantumare il valore del proprio bene?
Ma la verità, prima vittima di ogni guerra, prima o poi viene a galla. Pertanto anche su ogni commissione che effettua i controlli andrebbe esercitata una vigilanza rigorosa, perché non debbono esserci controllori incontrollati.
Per questo sta agli scienziati di parlare, di denunciare ognuno dei crimini conosciuti anche a dispetto di andare contro l'interesse privato di ciascuno. Ma per il bene di tutti i viventi e in solidarietà diacronica con le generazioni future.
Ringraziamenti
Gli autori desiderano ringraziare tutte le colleghe ed i colleghi del Comitato "Scienziate e Scienziati contro la guerra" che hanno contributo fattivamente alla elaborazione di questo documento.