di Fulvio Grimaldi, giornalista
Sappiamo tutti che l'informazione, stampata o telecomunicata, è serrata oggi nelle mani di pochi padroni, in Italia e nel mondo: Turner, Murdoch, Kirch, Berlusconi e aggregati. Si tratta di conglomerati integrati, dalle più svariate attività produttive e finanziarie, allacciate per la vita e la morte in un abbraccio indissolubile con tutta l'economia liberista ed imperialista. Ne discende una necessaria conseguenza che di solito non abbiamo abbastanza presente: che tutte le voci sono omologate all'interesse ed alle strategie di quello che in inglese si chiama corporate capital e che dunque c'è poco da meravigliarsi se, per esempio sulla Jugoslavia, Botteri del T3 o Capuozzo di Canale Cinque dicono le stesse identiche cose, alla faccia di pluralità e dell'idolatrata concorrenza, o se da qualche tempo i grandi organi di stampa e le grandi emittenti tacciono sul nodo centrale della vita del pianeta: l'ambiente. Anzi, se concordemente tacciono sul più grave e forse decisivo assalto alla vita effettuato con l'uso dell'uranio civile e militare, mentre glorificano le stronzate narcotizzanti del cicaleccio politico o delle sfilate della moda virtuale (virtuale salvo per gli zibellini e le scimmie applicati su tette e ombellichi). Dice, ma noi abbiamo il servizio pubblico e ce l'hanno in Inghilterra, Germania, anche qualcosa negli Stati Uniti. Solo che il servizio pubblico è in effetti tutto privato, al di là delle privatizzazioni formali, poiché campa in massima misura di pagamenti pubblicitari e di conseguente omologazione agli interessi del corporate capital. Aggiungendo, in particolare per l'Italia, un'ecclesiastica identificazione e subalternità nei confronti del potere politico costituito, anch'esso ormai burattino del burattinaio economico travestito via via da Fondo Monetario Internazionale, da Organizzazione Mondiale del Commercio, da complesso militar-industriale, da Fiat o da Boing. Un onesto giornalista della BBC aveva fatto circolare clandestinamente, tempo fa, un documentario che descriveva l'inanità degli sforzi di inviati di guerra di media minori che volessero rappresentare, in quel caso, il conflitto in Bosnia, come lo vedevano, l'avevano analizzato e lo capivano, cioè fuori dagli schemi preordinati ad Atlanta o a Saxa Rubra. Con gli enormi mezzi a loro disposizione sul teatro d'azione arrivavano, inevitabilmente primi, le grandi agenzie, i grandi quotidiani, le grandi televisioni. Troupe di cinque, sei personaggi, tra operatore, giornalista, producer, tecnici vari, installati in punti strategici, spesso inaccessibili agli altri, con fonti mirate, abbondantemente retribuite, capacità di movimento ineguagliabili e quindi efficacia e credibilità. A costoro spessa la diffusione di una verità precostituita nelle cancellerie delle grandi potenze e, prima ancora, nei consigli d'amministrazione delle multinazionali. L'inviato figlio di un dio minore non ha, in queste condizioni, quasi nessuna possibilità di realizzare, se logisticamente ci riesce contro tale concorrenza, e poi di far passare verità alternative. Il concerto roboante e uniforme dei grandi media lo rende quasi inevitabilmente "strano", bizzarro, scoopista. In due parole: poco credibile. Emarginato, escluso come il suo potenziale pubblico, come l'enorme massa dei cittadini del mondo relegati fuori dallo scintillante serraglio liberista. Come stupirsi, quindi, se un direttore del TG3, per non fare nomi Lucia Annunziata, mi impartisce l'ordine, a una mia lontana partenza per l'Iraq, di non osare di tornare con anche solo una immagine di qualche bimbetto iracheno morente di fame da embargo, o di cancro da uranio 238: "Mica voglio, colpevolizzando l'Occidente, fare un favore a quel farabutto di Saddam". Riecheggiava l'Annunziata, le parole di Madeleine Albright quando, a una folla studentesca in indignata rivolta, che le chiedeva ragione di 700.000 bambini iracheni ammazzati dall'embargo, rispose "E' il giusto prezzo da pagare". Vedete come è perfetta l'intesa tra la top model del corporate capital e la nostra azienda di "servizio pubblico"? Un concetto questo, di servizio pubblico che, pur negando espressione e rappresentanza a quella stramaggioranza di italiani che erano contro la carneficina Nato in Jugoslavia, è talmente impallidito negli organismi preposti alla difesa della libertà della categoria giornalistica e del diritto a una corretta pluralistica informazione del pubblico, da far dubitare della sopravvivenza stessa di questi organismi. L'Usigrai, sindacato dei giornalisti dell'azienda di "servizio pubblico", si limita a far da ufficio di collocamento e da ammortizzatore delle più crasse disparità carrieristiche o politiche (quest'ultime, tuttavia, interamente interne agli equilibri del pappone maggioranza-opposizione) inflitte al personale. La Federazione Nazionale della Stampa è emersa dal sonno una volta sola nel corso della vicenda epocale che ha annegato nel sangue la fine-secolo e, sbalorditivamente, solo per rampognare duramente un Michele Santoro che, a fronte di tremila ore di sfilata di profughi albanesi, si era azzardato di mostrare da Belgrado quello che assolutamente non andava mostrato: un popolo innocente massacrato, i giornalisti della televisione jugoslava resi muti per disintegrazione. Santoro aveva incrinato l'omologazione imperiale. Quanto all'ordine dei giornalisti, preposto alla deontologia, nulla ha turbato il suo coma profondo di fronte al più grande maremoto di menzogne mai scatenato dai propri diplomati ed iscritti, di fronte al più vasto oceano di silenzi bugiardi che mai abbia sommerso le terre emerse della realtà. Ho visto inviati far passare per vittime dei serbi, in perfetta malafede, profughi albanesi massacrati dai topgun Nato; inviati indicare come perfide bombe a grappolo serbe, sul confine Kosovaro-albanese, ordigni in dotazione esclusivamente ad americani, inglesi, israeliani e turchi, gli specialisti della pulizia etnica; inviati lamentare la sparizione di botto di 60.000 profughi della Macedonia, quando anche l'ultimo impiegato Acnur gli avrebbe potuto spiegare che alcune migliaia (poche) di profughi erano stati spostati da un'altra parte. Non ho visto un solo inviato mostrarci una sola vittima, magari con l'unghia del pollice spezzata, di 78 giorni di bombardamenti a tappeto Nato sul Kosovo; rimangiarsi la favola delle fosse comuni, rivelare, avendoci abitato per settimane, le porcherie di Arcobaleno, raccontare i precedenti criminali di Michael Jackson (Domenica di Sangue a Derry)), William Walker (addestratore di squadroni della morte in Centro America), Richard Holbrooke (sovraintendente agli stermini indonesiani di timoresi negli anni '70) e via rabbrividendo. Come uscirne? Il discorso è lungo. Intanto una buona regola è questa: di tutto, ma proprio di tutto quello che ci raccontano i media ufficiali, va diffidato. Ad essere estremisti, ma senza sbagliare troppo, si potrebbe arrivare a una regola ulteriore: rovesciare nel suo contrario tutto quello che ci raccontano.
Fulvio Grimaldi