1.        UN PO’ DI STORIA   1

2.           L’ISPETTORATO SPECIALE DI PUBBLICA SICUREZZA   6

3.        LA “POLIZIA ECONOMICA”  9

4.        LA GUARDIA CIVICA   9

5.        MILIZIA DIFESA TERRITORIALE ED ALTRE FORMAZIONI MILITARI11

6.        LA DECIMA MAS  11

7.        LA GUARDIA DI FINANZA   13

8.        IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE ED IL CORPO VOLONTARI DELLA LIBERTA   14

9.        IL COLLABORAZIONISMO A TRIESTE  17

 

 

CAPITOLO I

 

A TRIESTE LA STORIA NON COMINCIA IL 1° MAGGIO 1945

 

 

1.                UN PO’ DI STORIA

 

Prima di addentrarci nella “ricerca” di Pirina dobbiamo parlare un po’ di storia, perché la storia di Trieste e della Venezia Giulia non è purtroppo molto conosciuta, neanche in zona, e spesso la gente tende a dimenticare che prima del 1° maggio del 1945 (giorno della liberazione di Trieste per mano partigiana) erano accadute un bel po’ di cose, la maggior parte delle quali di gran lunga peggiori delle peggiori azioni compiute nei 40 giorni di amministrazione jugoslava. Ma la maggior parte della gente, purtroppo, tende a dimenticare le cose avvenute prima, anche perché, come diceva il poeta Carolus Cergoly nella sua poesia sulla Risiera di S. Sabba: «Su, femo i bravi. / In fondo xe un brusar / Ebrei e Slavi» [1]. Così era la concezione mentale del triestino medio, che non visse male sotto il fascismo prima ed il nazismo poi, perché “non si occupava di politica”, innanzitutto, e poi era “italianissimo” ed “arianissimo”, ed in fin dei conti sotto il duce non ci mancava niente e poi i Tedeschi mettevano un po’ d’ordine ed in fin dei conti gli Slavi sono un popolo di bifolchi e gli Ebrei lasciamo perdere... così era, ma così, disgraziatamente, è ancora, almeno in parte.

A Trieste il nazionalismo italiano assunse delle connotazioni esasperate, con caratteristiche che saranno poi tipiche dello squadrismo fascista, già prima dell’inizio della prima guerra mondiale. I propugnatori di questo “ideale” furono gruppi irredentistici, legati soprattutto ad alcuni ambienti massoni ci cittadini. Tra gli “ideologi” di questo irredentismo troviamo Ruggero Timeus il quale, dopo essersi autodefinito “irredentista-imperialista”, “militarista e conquistatore” asseriva: «A noi che la lotta abbia un carattere civile o anticivile non importa nulla... contro questi “ignari bifolchi” ...noi non possiamo rispondere con la severa coscienza nazionale... ma con l’odio che sussulta, che aggredisce, che affama... nell’Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono... Se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati...» [2]. Va precisato che nell’”Istria” Timeus comprendeva anche tutta la zona di Trieste, retroterra carsico compreso. Diceva ancora Timeus: «è dovere d’ogni popolo uccidere ogni imperialismo che non sia il suo», «noi accettiamo l’assioma germanico che la bontà di un’idea si dimostra con la forza» ed ancora: «l’italianità si afferma imponendola ai popoli stranieri. È questo un ideale che non si esaurisce che con la conquista del mondo».

Riteniamo a questo punto opportuno ricordare che al signor Timeus, propugnatore di simili “ideali”, è tuttora dedicata una via di Trieste...

Le idee di Timeus non erano solo sue, erano condivise da buona parte di quel movimento irredentista di cui si diceva prima, magari non in maniera tanto “estremista”, ma che comunque vedeva necessario stroncare i popoli slavi per fare spazio all’imperialismo italiano e che identificava nel plurinazionalismo asburgico il proprio nemico da eliminare.

Dopo la fine del primo conflitto mondiale le tappe della repressione “antislava” procedettero rapidamente: i soldati austroungarici prigionieri che rientravano a casa, soprattutto se slavi, vennero internati in campi di prigionia speciali e particolarmente duri, dove molti trovarono la morte per le privazioni e le malattie [3].

Come già nelle Valli del Natisone, dove la snazionalizzazione forzata della comunità slovena locale iniziò immediatamente dopo l’annessione al Regno d’Italia, così pure nella neonominata “Venezia Giulia” (composta dalle province di Trieste e di Gorizia, compresi i retroterra che oggi si trovano in Slovenia e l’Istria), sia nelle città che nelle campagne iniziarono subito le opere di snazionalizzazione e repressione. Già il 13 dicembre 1918 lo scrittore Sem Benelli, all’epoca capo dell’Ufficio Politico del Comando in Capo della Piazza Marittima di Pola, scrisse in un rapporto ufficiale: «le società politiche Jugo-Slave mantengono continuamente desto lo spirito di rivolta. Sono focolai che non hanno grande importanza ma che tengono gli animi sospesi ed a volte formano qual.che fanatico. Essi sono i piccoli Narodni Dom delle campagne. Si chiamano “Citaonce” ossia società di lettura... sarebbe opportuno sciogliere questi circoli politici... Anche il giornale Hrvatski List che nelle campagne è molto letto dai Croati, mantiene vivo il fermento Jugoslavo e la convinzione che l’occupazione italiana sia semplicemente provvisoria». L’originale del documento reca una nota manoscritta, relativamente al giornale: «farlo partire sempre con alcuni giorni di ritardo?» [4].

È dell' aprile del ‘19 invece la nota del commissariato civile di Pola in cui si comunica che delle 49 scuole croate (37 pubbliche e 12 private) esistenti prima dell’arrivo dell’Italia in quelle terre, 45 erano state chiuse, ma «era però necessario di provvedere acchè migliaia e migliaia di fanciulli non rimanessero, in seguito alla chiusura di tante e tante scuole, senz’alcuna istruzione. In esecuzione degli ordini del predetto Comando venivano perciò aperte scuole e giardini infantili con lingua d’insegnamento italiana anche in quelle frazioni dove non era ancora sistemata una scuola italiana provinciale e fu assunto il personale necessario» [5]. Queste direttive anticipano la famosa legge di riforma delle istituzioni scolastiche dell’ottobre 1923 (la legge Gentile) che sancirà la definitiva chiusura delle scuole di lingua non italiana (tedesche, slovene, croate) nelle nuove province del Regno d’Italia. «Nel corso dei cinque anni scolastici successivi, con l’uscita delle generazioni scolastiche precedenti, la lingua slovena sparì dalla scuola statale. Ciò significò la trasformazione di quasi 500 scuole elementari slovene e croate in scuole italiane» [6].

Trieste ha anche un altro primato: «il 3 aprile 1919, a pochi giorni di distanza dalla fondazione dei fasci in piazza S. Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), il fascio veniva costituito a Trieste» [7]. Cresce l’attività di violenza squadrista del neo-costituito partito fascista: nel 1920 a Trieste viene incendiato il centro economico, politico e culturale dei gruppi etnici sloveni e croati della città, il Narodni Dom, costruito all’inizio del secolo su progetto dell’architetto Max Fabiani, che ospitava al proprio interno una sede bancaria, un centro culturale, un albergo e la tipografia dei principali giornali sloveni, tra cui il quotidiano “Edinost”. L’edificio non verrà restituito, neppure dopo la Liberazione, alla comunità slovena della città ed oggi è trasformato in sede universitaria.

Tra il 1919 ed il 1922 i fascisti, finanziati dalla destra economica, «incoraggiati dall’alta burocrazia civile e militare, aizzati dalle campagne provocatrici e sciovinistiche del quotidiano “Il Piccolo” diretto da Alessi» [8], compiono decine di azioni squadristiche contro centri culturali e politici di tutta la “Venezia Giulia”, incendiando e distruggendo sedi, redazioni di giornali, tipografie; aggredendo, picchiando ed anche uccidendo militanti politici (però vi furono violenze anche contro scolaresche e va citata la strage di Strugnano [9], del 19.3.21, dove i fascisti spararono dal treno contro un gruppo di bambini che giocavano, ne uccisero due e ne ferirono cinque, due dei quali rimasero invalidi per tutta la vita).

Alla fine di queste “operazioni” si ebbe la chiusura di quasi mille circoli, tra culturali, sportivi, assistenziali, e moltissimi dei beni, confiscati, venivano assegnati ad associazioni fasciste. Nella maggior parte dei casi neanche queste sedi sono mai state restituite dallo Stato italiano, “nato dalla Resistenza”, agli aventi diritto.

Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, le violenze divennero anche “legali”: dal 1926, con l’entrata in vigore delle “Leggi Speciali per la difesa dello Stato” e poi dal 1931 con il codice Rocco e le sue leggi di polizia, la soppressione della stampa d’opposizione e lo scioglimento di tutti i partiti, ogni speranza di democrazia era sparita dall’Italia.

Oltre le azioni squadristiche v'erano anche altri sistemi per attuare la “pulizia etnica”: ad esempio i dipendenti non italiani (Sloveni, Croati, Tedeschi...) delle amministrazioni pubbliche (ferrovieri, insegnanti, poliziotti...) vennero o allontanati mediante trasferimento in località all’interno del Regno, oppure addirittura costretti a licenziarsi [10].

Contemporaneamente inizia la “riduzione” in forma italiana dei toponimi e dei nomi e cognomi “stranieri” [11], in modo tale da cancellare, ove possibile, anche la memoria dell’esistenza slava in queste terre.

Contro queste azioni di pulizia etnica e di programmato etnocidio vi furono dei tentativi di resistenza, anche armata, compiuti con organizzazioni “segrete”, quali il T.I.G.R. [12] e l'organizzazione “Borba”, che agivano contro singoli squadristi o collaborazionisti, contro postazioni militari e contro le scuole, che erano diventate centri di snazionalizzazione. Queste attività portarono ad una repressione feroce, basti pensare che «su 978 processi condotti dal Tribunale Speciale fascista negli anni 1927-1943, 131 furono condotti contro 544 imputati appartenenti alle minoranze slovena e croata. Su un totale di 4.596 condanne pronunciate, 476 furono comminate a Sloveni e Croati. Su 27.727 anni di carcere sentenziati, 4.893 furono inflitti a queste due comunità. E infine, su 42 condanne a morte, 33 furono emesse contro Sloveni e Croati. Negli anni 1930-1942 caddero davanti ai plotoni di esecuzione fascisti 19 Sloveni, dieci di essi prima dell'inizio della vera lotta armata» [13].

Il 6 aprile 1941 l’Italia sferra l’attacco alla Jugoslavia, arrivando alla creazione della “Provincia di Lubiana”, ed arrestando numerosi esponenti antifascisti sloveni, originari delle province di Trieste e Gorizia, che erano stati costretti all’esilio dalla repressione fascista. L’occupazione della Provincia di Lubiana, durata 29 mesi, fu contrassegnata da particolare durezza, tanto che esistono documenti del comando superiore delle Forze Armate italiane che recitano: «il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”» [14] e «si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed ignavia...» [15]. Già i127 aprile del 1941, a Lubiana, si era costituito l’Osvobodilna Fronta–Fronte di Liberazione che, basandosi su un accordo interpartitico di lotta contro gli invasori italiani, tedeschi ed ungheresi, ed appoggiandosi ad alcuni militari jugoslavi non disposti ad arrendersi, sviluppò azioni di lotta partigiana fin dall’inizio contro gli occupanti, collegandosi anche con elementi attivi nel Litorale sloveno, cioè nelle province di Trieste e Gorizia.

Delle repressioni compiute dai fascisti in Istria, in Slovenia e nell’entroterra triestino e goriziano durante il secondo conflitto mondiale, stragi, incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio (che non erano solo tedeschi ma anche “italianissimi” come quelli di Arbe-Rab, in Dalmazia e di Gonars in Friuli), esiste ampia documentazione [16]; tanto per citare delle cifre: «Dopo il 1941 l’occupazione italiana e poi tedesca di ampi territori jugoslavi (vengono annesse all’Italia la “provincia di Lubiana”, capitale slovena e la Dalmazia occupate) è particolarmente feroce e provoca sino al 1945 nei territori adriatici (Litorale) tra gli Sloveni e i Croati ed anche tra antifascisti italiani complessivamente 45.000 morti, 7000 invalidi, 95.460 arrestati, internati e deportati in campi di concentramento italiani e tedeschi, 19.357 case distrutte totalmente e 16.837 parzialmente (per lo più interi villaggi), il tutto con atrocità in cui si distinguono sia italiani che tedeschi» [17].

Scrive Galliano Fogar [18]: «II 7 ottobre (1943, n.d.a.) Berlino annuncia la conclusione dei rastrellamenti “nella regione di Trieste da parte delle truppe tedesche e di reparti fascisti: sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati fra cui gruppi di ufficiali e soldati badogliani". Un comunicato del 13 afferma che la “pace” è stata raggiunta grazie a più di 13mila banditi uccisi o fatti prigionieri... A parte la gonfiatura propagandistica delle cifre, il numero delle vittime è stato altissimo e fra esse buona parte è di inermi civili.(...) “L’impeto dei tedeschi è meraviglioso” commenta il quotidiano triestino “Il Piccolo”. Raccontando l’odissea di un gruppo di prigionieri liberati dall’intervento germanico, il cronista rileva che gli scampati, mentre si dirigono verso Trieste, possono constatare che “ogni casa ha uno straccetto bianco di resa e tutti i rimasti salutano romanamente chiedendo pietà” (questo si riferisce alla zona di Pinguente, in Istria, n.d.a.). Dopo il passaggio delle truppe tedesche, il giornale riferisce che è tornata la tranquillità e giustifica lo strazio della cittadina di Pisino, osservando che “dure misure sono state provocate” dalla resistenza dei partigiani...».

Nella provincia di Trieste furono bruciati per rappresaglia i paesi di Mavhinje-Malchina, Čerovlje-Ceroglie, Vižovlje-Visogliano, Medjevaš-Medeazza, Mačkovlje-Caresana, Gročana-Grozzana.

Anche nella città di Trieste furono compiuti diversi eccidi di rappresaglia, di cui i più noti sono i seguenti: 3 aprile 1944: 71 fucilati al poligono di Opčine Opicina; 23 aprile 1944: 51 impiccati nell’edificio del Conservatorio di musica di via Ghega; 29 maggio 1944: 11 impiccati a Prosek-Prosecco; 18 settembre 1944: 18 ostaggi fucilati od impiccati; 21 settembre 1944: 5 fucilati della “missione Molina” [19]; 28 marzo 1945: 5 impiccati in via D’Azeglio; 28 aprile 1945: 20 fucilati al poligono di Opčine-Opicina. Ed abbiamo qui citato solo gli eccidi di maggior rilievo, senza contare i morti (dai 3 ai 5.000) della Risiera di S. Sabba, le migliaia di deportati nei lager tedeschi, sia Israeliti (tra cui gli 80 Ebrei prelevati dall’ospizio della Pia Casa Gentiluomo [20] ed i 25 prelevati dall’Ospedale Psichiatrico di Trieste), sia militari che non avevano voluto collaborare con la Repubblica di Salò ne con il Reich tedesco, sia partigiani e resistenti che semplici civili.

Oltre a tutto questo bisogna ancora ricordare che se il 25 aprile, giorno dell’insurrezione di Milano, è considerato a tutti gli effetti l’anniversario della Liberazione in Italia, questa data non rappresenta la fine generale delle ostilità. Infatti in varie parti d’Italia s’è continuato a combattere fino ai primi giorni di maggio. I partigiani hanno liberato Trieste il 1° maggio, però i nazisti in città si arresero definitivamente soltanto al 2 maggio, dopo l’arrivo delle truppe neozelandesi e ad Opicina si combatté fino al 3 maggio.

Dice Diego De Castro nel suo libro sulla “questione di Trieste”: «Mentre per gli Alleati, la guerra era finita, gli Slavi avevano ancora dietro le spalle i1 97° Corpo d’Armata tedesco, forte di oltre 15.000 uomini che, se fossero stati portati in tempo a Trieste, avrebbero difeso benissimo la città, attendendo gli Occidentali. Ordini errati li tennero fermi e, dopo pochi giorni, si arresero» [21].

Evidentemente De Castro avrebbe preferito un po’ di nazismo in più, in attesa dell'arrivo degli “Occidentali”. Comunque da questa affermazione appare chiaro come nell’immediato retroterra di Trieste le forze tedesche fossero ingenti, motivo per cui l’Armata jugoslava aveva di che stare sul chi vive. Infatti a Lubiana (che dista una sessantina di chilometri da Trieste), gli scontri terminarono appena l’11 maggio 1945.


2.                L’ISPETTORATO SPECIALE DI PUBBLICA SICUREZZA

 

Nell’aprile del 1942 il Ministero degli Interni costituì a Trieste un Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, il cui scopo era la repressione dell’attività antifascista con particolare riguardo a quella slava. Bisogna precisare che nessun’altra provincia italiana conobbe un’istituzione del genere.

Non fu certo l’arrivo dei nazisti a rendere particolarmente efferati i membri dell’Ispettorato Speciale, difatti la maggior parte delle testimonianze raccolte nel corso dei processi contro i suoi appartenenti risale a periodi antecedenti il 25 luglio 1943 (destituzione di Mussolini).

All’8 settembre 1943 l’Ispettorato aveva sede a Trieste in via Bellosguardo 8 in quella che era già nota come la famigerata “Villa Triste” [22]; era comandato dall’ispettore generale Giuseppe Gueli e comprendeva 180 uomini.

Dopo l’8 settembre l’Ispettorato fu temporaneamente sciolto dal governo repubblichino, ma venne presto ricostituito come Ispettorato Speciale al cui comando rimase sempre Gueli, che però si teneva in disparte lasciando che si facesse notare pubblicamente il giovane ed ambizioso vicecommissario Gaetano Collotti. Va qui ricordato che Gueli s’era trovato a fare parte del corpo di sorveglianza di Mussolini quand’era prigioniero al Gran Sasso: lo sorvegliò così bene che, com’è noto, il “Duce” fu liberato da un commando tedesco e portato al Nord. In compenso diversi agenti che avevano fatto parte del corpo di sorveglianza seguirono Gueli a Trieste quando fu rimesso a capo del ricostituito Ispettorato di P.S. Il corpo era formalmente alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno della Repubblica di Salò, ma era sottoposto al diretto controllo del comando S.S. di Trieste.

Nel febbraio del 1944 il prefetto di Trieste Tamburini nominò maresciallo lo squadrista Sigfrido Mazzuccato, incaricandolo di costituire un reparto di polizia ausiliaria (la squadra politica che avrà sede nella via San Michele, nota anche come “squadra Olivares” [23]) all'interno dell'Ispettorato stesso. Di questo corpo fecero parte circa 200 ausiliari, per lo più squadristi locali; di essi 170 erano pregiudicati per reati comuni. Il reparto fu sciolto nel settembre del ‘44 per ordine delle autorità germaniche e lo stesso Mazzuccato fu spedito in Germania: aveva commesso tali e tante nefandezze da far inorridire persino le S.S. [24].

Dagli atti del processo Gueli, avvenuto nel dopoguerra [25], stralciamo le seguenti testimonianze.

Testimonianza del dottor Paul Messiner, austriaco, che nel 1944 ricopriva la carica di capo-sezione Giustizia del Supremo Commissariato della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico:

«Mi è stato riferito che nell’anno 1944 l’Ispettorato di P.S. di via Bellosguardo, trasferitosi dopo in via Cologna, procedette all’arresto dei fratelli Antonio e Augusto Cosulich (armatori che avevano finanziato il C.L.N., n.d.a.). Il barone Economo si rivolse al Supremo Commissario dott. Rainer per ottenere l’immediato trasferimento dei detenuti dall’Ispettorato alla sede delle S.S. di piazza Oberdan, a causa dei noti sistemi di tortura dei detti agenti italiani, usati contro patrioti. Il Supremo Commissario accolse subito la richiesta e disse che la polizia tedesca non usava i metodi crudeli e le sevizie escogitati dall’Ispettorato [26]… Ho saputo da diverse persone e tra queste dall’avv. Tončič, che la polizia italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti. Ho parlato e fatto rapporto scritto al dott. Rainer... Mi sono state date assicurazioni in merito. (...) Il giudice Anasipoli sa che ho fatto arrestare due agenti dell’Ispettorato pur non rientrando nelle mie attribuzioni. (...) Ho dato ordine che i tribunali provinciali italiani non potessero giudicare antifascisti e che se avessero violato tale ordine sarebbero stati arrestati. (...)».

Poi c’è la testimonianza del giudice Anasipoli, allora giudice di collegamento tra la Corte di Appello, Procura Generale, e la sezione giudiziaria retta dal dott. Messiner:

«Ricordo che un giorno il dott. Messiner ebbe casualmente a comunicarmi di essere stato costretto a far arrestare due funzionari di P.S. dei quali ricordo il nome del Mazzuccato Sigfrido (l’altro era Miano Domenico, n.d.a.)... E ciò in seguito a numerose lagnanze presentategli relativamente a maltrattamenti violenze, percosse usate da detti agenti contro persone arrestate».

Nazisti tutori dei diritti civili a Trieste, dunque? Forse no, vediamo la testimonianza dell’avvocato Tončič:

«Slavik mi disse di aver fatto un esposto al capo della sezione giustizia dell’ex-Commissariato dott. Paul Messiner e me lo mostrò. In tale esposto oltre a narrare quanto contro di lui era stato commesso dagli agenti (dell’Ispettorato, n.d.a.), espose anche i maltrattamenti e le violenze carnali commesse ai danni di una ragazza diciassettenne e di una signora di Trieste... Il dott. Slavik fu arrestato poco tempo dopo dalle S.S. germaniche e deportato a Mauthausen dove purtroppo trovò la morte».

Racconta invece Pietro Prodan, che fu arrestato sedicenne, nel 1944, assieme alle sorelle Nives e Nerina: «Tra i poliziotti che procedettero al nostro arresto c’era anche Sigfrido Mazzuccato». Dopo un mese e mezzo di sequestro in via Bellosguardo, dove furono picchiati tutti e tre, anche da Collotti in persona, «mi hanno portato in Germania al campo di Buchenwald dove sono stato liberato dagli alleati. Nello stesso campo di concentramento è venuto nel novembre del 1944 anche il maresciallo Mazzuccato che la vigilia di Natale è stato, verso mezzanotte, trasportato nel forno crematorio e gettato in esso. Ho visto coi miei occhi la cartella scritta dai tedeschi in cui si diceva: “Mazzuccato, deceduto per catarro intestinale il 24 dicembre 1944”».

Così dunque morì Mazzuccato, in un finale quasi biblico. Quanto a Miano, era stato arrestato dalla Gestapo di Verona il 10.5.44 e dopo cinque mesi nelle celle sotterranee (pare sia anche stato torturato), fu deportato a Flossenburg, da dove fu liberato il 23.4.45.

Sui crimini e misfatti commessi dall’Ispettorato fin dall’inizio della sua “attività” (violenze e torture, ma anche rastrellamenti ed esecuzioni di partigiani, come pure rapine e furti ai danni degli arrestati), esistono moltissime testimonianze, trascritte in più libri [27] e facenti parte, come quelle da noi riportate nelle righe precedenti, degli atti dei processi Gueli e Ribaudo ed anche di quello della Risiera di S. Sabba. Le violenze e le torture erano pratica comune e notoria, al punto che lo stesso vescovo Santin, già nel 1942, aveva cercato di intervenire per far cessare le vessazioni, pur sostenendo che all’inizio non aveva preso sul serio le testimonianze che parlavano delle sevizie inflitte agli arrestati.

Dopo lo scioglimento della “banda Olivares” rimasero in forza all’Ispettorato (che nel frattempo si era trasferito da via Bellosguardo in via Cologna, sede fino a pochi anni fa di un comando dei Carabinieri) 415 uomini: 100 effettivi, 280 ausiliari, 35 alle dirette dipendenze di Gaetano Collotti (la “banda Collotti” vera e propria).

Presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste è conservata una “foto-ricordo” della “banda Collotti” (foto esposta anche al Museo della Risiera di S. Sabba e pubblicata in alcuni libri). Questa foto è stata scattata a Boršt-S. Antonio in Bosco, (comune di Dolina-S. Dorligo della Valle, in provincia di Trieste), dopo un’azione di rastrellamento che costò la vita a tre partigiani nel gennaio del ‘45. Allegata alla foto v’è la testimonianza di un agente di P.S. di Bolzano che identifica i tredici componenti del gruppo [28].

Oltre alla “lotta antipartigiana” i membri dell’Ispettorato si occupavano anche di andare a prelevare gli Ebrei da deportare in Germania: gli agenti si presentavano in casa delle persone da prelevare, in genere in seguito a denunce di solerti vicini di casa o bottegai della zona (va ricordato che i nazisti ricompensavano con 10.000 lire – dell’epoca! – i delatori per ogni denuncia che portava ad un arresto) [29], i prigionieri venivano poi portati in via Bellosguardo e di lì “smistati” in Risiera [30].

Nei ranghi dell’Ispettorato entrarono molti volontari, persone che lasciarono il proprio lavoro per potersi permettere impunemente violenze e saccheggi, come nel caso di Mario Fabian, che lasciò il suo posto di tramviere, perche come membro dell’Ispettorato aveva maggiori possibilità di guadagno. Fabian fu ucciso e gettato nel pozzo della miniera di Basovizza (Šoht) [31].

Molti furono poi anche i “collaboratori esterni” dell’Ispettorato, delatori e collaborazionisti che conservavano il proprio posto di lavoro e poi riferivano alla “banda Collotti” o direttamente alle S.S. Dei delatori triestini uno dei più noti è un certo Giorgio Bacolis, impiegato al Lloyd Triestino di navigazione. Bacolis si spacciava anche per pastore evangelico o valdese per poter raccogliere più facilmente le informazioni da vendere poi ai nazifascisti. Fu pagato 100.000 lire - dell'epoca! -per aver denunciato il capitano Podestà, del C.L.N.

Nel dopoguerra furono celebrati dei processi contro membri dell’Ispettorato. Quello più importante vide come imputali Giuseppe Gueli, Umberto Perrone, Nicola Cotecchia, Domenico Miano, Antonio Signorelli, Gherardo Brugnerato e Udino Pavan. Gueli fu condannato in seconda istanza ad otto anni ed undici mesi, gli altri a pene minori, salvo Cotecchia e Perrone assolti.

Il processo contro Lucio Ribaudo, imputato di sevizie particolarmente feroci, lo vide condannare a ventiquattro anni.

Quanto a Gaetano Collotti, fucilato dai partigiani vicino a Treviso (del quale sarebbe stato succube, secondo i suoi difensori, il “povero” Gueli), ebbe addirittura l'onore di venire decorato con medaglia di bronzo al valor militare dalla Repubblica Italiana “nata dalla Resistenza” (?) per le azioni antipartigiane da lui compiute prima dell’8 settembre 1943 [32]. Alle proteste elevate da più parti contro questa onorificenza, il Ministero rispose a suo tempo che, una volta data, la medaglia non si poteva revocare.

Con buona pace dei torturati e dei morti...

 

Esiste una “Canzone a Collotti”, composta dai prigionieri rinchiusi nel carcere dei “Gesuiti”. La trascriviamo di seguito:

Dopo congiure, convegni e comploti

Fra trenta mule [33] e trenta giovanoti

Ne ga becado el grande Colotti

E a Bellosguardo ne ga tocado andar.

Là semo acolti coi massimi onori,

Tutta la squadra la se buta fora.

Tra pugni e piade e grandi dolori,

Dela corente la cura el ne fa far.

Dopo aver scrito l’eterno verbale

Con grande afeto ale nostre spale

In una freda giornata invernale

Ai Gesuiti [34] ne ga tocado andar.

In questa grande e augusta dimora

La fame nera xe nostra signora,

Pedoci e zimesi ne manda in malora,

Anche la chibla [35] la cela fa impestar.

Quando la cura ga fato i efeti

E semo grassi e robusti nei peti,

Dentr’a un convoglio i ne meti

Ed in Gennania ne toca lavorar.

Dopo tre giorni de strada ferata

Ed altri due de lungo camino,

Semo arrivadi più morti a Berlino,

Ed in miniera ne toca lavorar.

E qua finissi la storia,

Al gran Coloti sia resa la gloria,

e che la squadra la fazi pur baldoria,

che de foiba se senti zà parlar [36].

 

 

3.                LA “POLIZIA ECONOMICA”

 

La Polizia economica o Polizia annonaria fu istituita personalmente da Globocnik, l’S.S. capo di polizia del Litorale Adriatico, l’11 febbraio 1944, prelevando forze dai Carabinieri (il cui corpo era stato sciolto dai nazisti) e dalla Guardia di Finanza. All’inizio i suoi componenti furono pagati dal Prefetto, poi passarono sotto il diretto controllo di Globocnik, il quale si occupava anche di corrispondere loro lo stipendio. In effetti, nonostante il nome, la Polizia economica lavorò in stretto contatto con l’Ispettorato Speciale di P.S. e diversi dei suoi membri risultarono in forza all’Ispettorato stesso.

Incaricato di costituire il corpo e suo dirigente provvisorio fu Umberto Rossani; la sede si trovava in via Udine in uno stabile tuttora esistente adibito oggi a condominio.

 

 

4.                LA GUARDIA CIVICA

 

In data 23.11.43 il Gauleiter dell' Adriatisches Küstenland Friedrich Rainer emana il primo bando di richiamo degli “uomini del Litorale”: con l’ordinanza n. 8 di questo bando viene istituito l’obbligo del servizio di guerra da prestare col lavoro coatto nella Todt oppure in forze di difesa territoriale.

Nel gennaio del ‘44 il podestà di Trieste Cesare Pagnini (insediato a Trieste non da autorità italiane ma dall’autorità tedesca alla quale la città era sottoposta, cioè lo stesso Rainer), emana il “bando di costituzione della Guardia Civica” quale corpo in cui potevano, volontariamente, prestare servizio gli uomini abitanti a Trieste. Ma quali erano i compiti del Corpo? Ecco cosa recita il bando di costituzione: «garantire l’ordine e l’intangibilità della nostra Trieste da qualsiasi minaccia».

La Guardia Civica fu dunque un corpo armato creato dalle autorità tedesche e composto da non-tedeschi: fu quindi in sostanza un corpo collaborazionista, nonostante ciò che sostengono alcuni aderenti all’associazione ex-Guardia Civica di Trieste, gli stessi però che contemporaneamente sostengono di avere agito «per il bene di Trieste italiana» e contro i «marxisti comunisti jugoslavi che volevano debellare Trieste [37]».

Che la Guardia Civica sia stata un corpo collaborazionista lo sostiene anche il non sospettabile di bolscevismo filojugoslavo colonnello Antonio Fonda Savio, già dirigente del C.V.L., il quale, in una dichiarazione conservata in copia presso l'archivio dell'I.R.S.M.L.T., ribadisce che «la competente Commissione Riconoscimento Qualifiche Partigiani per la Venezia Giulia (...) nell’esaminare la posizione di elementi della Guardia Civica di Trieste, ha riconosciuto come partigiani o patrioti del C.V.L. di Trieste, soltanto coloro che, pur avendo militato in detto Corpo, vi furono immessi o nello stesso furono segretamente reclutati, dal C.L.N. della Venezia Giulia e dalle sue organizzazioni clandestine armate. Tale riconoscimento cioè fu fatto solo in base alla attività armata e clandestina per la causa partigiana compiuta da singoli elementi e non per la loro qualifica ufficiale di vigili del Corpo della Guardia Civica in quanto tale formazione fu considerata dalla Commissione Governativa alla stregua delle altre forze collaborazioniste esistenti nella regione».

In effetti la Guardia Civica comprendeva diverse anime: oltre ad una minoranza di fanatici nazifascisti (parte dei quali, tra l’altro, finì poi con l'arruolarsi direttamente nelle S.S. [38]), per la maggior parte si arruolarono in essa giovani di diciotto/vent’anni che, per non andare al lavoro coatto o nei reparti militari direttamente sotto i tedeschi, approfittarono della possibilità di arruolarsi in un reparto italiano. Ciò non toglie che il giuramento da loro prestato era di fedeltà al Reich ed al Führer [39], non certo all’Italia; così come è noto da diverse testimonianze che era compito della Guardia Civica scortare i prigionieri che venivano condotti ai treni con destinazione Buchenwald e gli altri campi di sterminio; e furono sempre membri della Guardia Civica a montare la guardia agli impiccati per rappresaglia dai nazisti in via D’Azeglio, ad occuparsi di rastrellamenti di partigiani e renitenti alla leva.

Che membri della Guardia Civica avessero poi fatto attività partigiana sia all’interno del Corpo (come Messerotti, Rea e Duse che pagarono con la deportazione in Germania e con la vita questa loro attività), che disertando ed unendosi a formazioni partigiane (come Manli, ucciso poi in Risiera, ed altri [40]), è un dato di fatto che va a merito delle singole persone che fecero questa scelta e non assolve certamente l'intero Corpo.

Marco Pirina ha preso l’intero elenco dei caduti della Guardia Civica e l’ha inserito tra gli “scomparsi per mano titina”. In realtà dei 112 caduti della Guardia Civica sono solo 21 quelli realmente arrestati dalle autorità jugoslave nei “quaranta giorni” e poi scomparsi (e si trattava comunque di persone che avevano combattuto ed operato contro le forze alleate dell'esercito jugoslavo); per gli altri, si veda il capitolo dedicato ai morti per altre cause.

 

 

5.                MILIZIA DIFESA TERRITORIALE ED ALTRE FORMAZIONI MILITARI

 

Nel “Litorale Adriatico”, provincia direttamente soggetta al Reich tedesco, le formazioni militari erano anch'esse dipendenti dal comando tedesco. Così dicevano i comandi tedeschi: «A tutti gli ufficiali, sottufficiali e soldati italiani verrà chiesto se vogliono combattere con l’esercito tedesco contro i partigiani. Coloro che non vogliono obbligarsi saranno internati e condotti fuori Trieste» [41]. Spiega Galliano Fogar: «... la Milizia Difesa Territoriale - di cui fanno parte 5 reggimenti della Guardia Nazionale Repubblicana oltre alle formazioni collaborazioniste slovene [42] - opera alle dipendenze delle S.S. (...), conservando un simulacro di autonomia interna in fatto di gerarchie, disciplina, promozioni, (...) altri reparti nascono e vivono completamente nell’ambito delle S.S. (...). Ciò vale ad esempio per i 6 battaglioni italiani di polizia... e per il Centro di Repressione Antipartigiana di Palmanova, dove la “banda” del cap. Ernesto Ruggiero e del ten. Odorico Borsatti [43] figura inquadrata nelle S.S. di una “Divisione Cacciatori del Carso” e dipende da un capitano delle S.S. (Pakibusch» [44].

Ed ancora da Fogar: «Altri organismi collaboranti con l’apparato repressivo nazista sono gli Uffici Politici Investigativi dei cinque reggimenti della Milizia Difesa Territoriale di Trieste - dove si distinguono per crudeltà gli uomini di Chiarenza e Maraspin -, di Pola, Fiume, Gorizia, Udine, nelle cui sedi e caserme la tortura è sistema abituale».

 

 

6.                LA DECIMA MAS

 

Per una breve storia della X flottiglia MAS riportiamo alcune notizie contenute nel libro “La strage di stato- Vent'anni dopo” [45];

«Il 13 marzo ‘41 veniva istituita la X flottiglia MAS, un corpo speciale per la guerra sottomarina basato sull’uso di un’arma denominata “siluro pilotato” o “siluro a lenta corsa” (comunemente noto come “maiale”). Nel maggio del ‘43 diveniva comandante del reparto Junio Valerio Borghese per i suoi meriti sul campo di battaglia. (...) ...il 14 [settembre, n.d.a.], il comandante della X, Borghese, sottoscrisse un patto alla pari con le forze armate germaniche nel quale si sanciva che il reparto era alleato delle forze armate tedesche con piena parità di diritti, continuava a ritenersi una formazione della marina italiana, battente bandiera italiana e dotato di sua piena autonomia operativa sotto il comando del capitano di fregata J. V. Borghese. (...).

«La X MAS si distinse subito: basata su un reclutamento esclusivamente volontario, sempre ben rifornita ed equipaggiata, accuratamente addestrata, dotata di un fortissimo spirito di corpo, aveva tutte le caratteristiche di un corpo scelto. In essa si arruolarono anche molti giovani non fascisti che, sottoposti alla coscrizione obbligatoria della R.S.I., preferirono quel corpo sia per il suo prestigio, sia perché era l’unico a non portare sulla propria divisa i simboli del fascismo repubblichino.

«Dopo un brevissimo periodo iniziale, durante il quale la X venne utilizzata solo al fronte contro gli angloamericani, i suoi reparti di terra vennero impiegati nella lotta contro i partigiani distinguendosi, anche in questo caso, per la particolare ferocia non disgiunta, talvolta, da comportamenti cavallereschi (ma su quest’ultimo aspetto occorre dire che la leggenda ha considerevolmente ingigantito alcuni limitatissimi episodi). (...) ...l’innegabile efficienza della X MAS era il frutto delle grandissime disponibilità di denaro di cui essa godeva, denaro in gran parte proveniente dal contrabbando, in particolare da quello del sale, merce introvabile nelle città settentrionali in quei mesi (la X MAS riscuoteva una tangente di circa 10.000 lire dell’epoca per ogni camion di sale che partiva dalle saline di Trieste [46])».

Il testo prosegue spiegando anche gli accordi intercorsi tra la FIAT e la Decima per i quali, in cambio del servizio di vigilanza fornito dalla Decima agli stabilimenti del gruppo (sia in funzione di copertura verso i tedeschi, che per controllare i gruppi clandestini che agivano nelle fabbriche), la FIAT si impegnava a fornire automezzi, munizioni, carburante, pezzi di ricambio.

«Nell’aprile del ‘45 la X MAS decise autonomamente di sciogliersi (e non di arrendersi), trattando direttamente il passaggio delle consegne con il C.L.N. milanese. (...) Borghese... infatti aveva clandestinamente preso contatto con gli americani ai quali aveva garantito che i suoi uomini avrebbero occupato i porti del Tirreno ingannando i tedeschi e impedendo che essi fossero fatti saltare. In cambio gli americani avrebbero garantito per la vita di Borghese sottraendolo alla giustizia partigiana».

Nella nostra regione, annessa al Reich, la X MAS dipendeva direttamente dal capo delle S.S.: «La divisione X MAS è un reparto messomi a disposizione dal comandante supremo delle S.S. e della Polizia italiana per la lotta e i compiti di sicurezza nella zona d’operazione Litorale Adriatico. La divisione è a me sottoposta per ogni questione e riceve ordini solo da me o, su mio incarico, dal mio stato maggiore...» Firmato Globocnik S.S. Gruppenführer e Luogotenente Generale di polizia [47].

Quanto al comandante della Decima, il principe Borghese, sfuggito alla giustizia partigiana fu poi giudicato dallo Stato italiano con i seguenti risultati.

Ancora da “La strage di stato – Vent’anni dopo”:

«Il processo Borghese costituisce un mirabile esempio dello stato della giustizia italiana e dei suoi atteggiamenti verso gli ex-gerarchi fascisti: la corte (presieduta dal dott. Caccavale, un vecchio amico di famiglia dei Borghese, e composta da noti fascisti come Silvio Mollo e Diego De Mattia) riuscì nella difficile impresa di condannare Borghese a una pena per cui lo si poté mettere in libertà alla fine del processo. A tanto risultato si arrivò per gradi: a) in considerazione degli atti di valore compiuti in guerra venivano concessi i benefici previsti dall’art. 26 del Cpm e veniva evitato l’ergastolo; b) un’altra attenuante venne riconosciuta all’imputato per aver egli contribuito a “salvare le industrie del Nord, attenuare i rigori dell’occupazione militare tedesca in Friuli-Venezia Giulia ed aver prestato opera di assistenza nei campi di concentramento nazisti” (sic!); c) una terza riduzione di pena si otteneva applicando l’indulto del 1946 (5 anni) e quello del 1948 (4 anni); d) restavano 9 anni di reclusione ma, in considerazione dei 3 anni di carcere già scontati, delle attenuanti generiche, della prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, ecc. anche questi potevano dirsi scontati. Tornato in aula il presidente per la lettura della sentenza un avvocato fece notare che il conto non tornava: per scarcerare immediatamente Borghese occorreva che la pena finale irrogata fosse di 8 anni e non di 9, perché diversamente il condono del ‘46 non avrebbe coperto tutto il periodo di carcerazione; il presidente rientrò in camera di consiglio, corresse la sentenza riducendo di un anno la pena e ricomparve in aula per dar lettura del nuovo dispositivo».

Così dunque il principe Borghese poté tornare in libertà e continuare con la sua attività politica più o meno eversiva, culminata nel tentato golpe del 1970 (nel quale, ricordiamo, fu coinvolto anche il nostro Marco Pirina: com’è piccolo il mondo, vien da pensare!), dopo il fallimento del quale dovette riparare all’estero, in Spagna, dove morì ne11974.

Un altro personaggio degno di nota legato alla Decima è Remigio Rebez, detto il “boia” della caserma di Palmanova. Dall’estratto della sentenza n. 120 del 5.10.46 della Sezione Speciale della corte di Assise di Udine nella causa penale contro Ruggiero Ernesto, Rebez Remigio, Rotigni Giacomo...[48]

«Il primo novembre 1944 fu mandato a Palmanova un reparto della milizia fascista, composto da una cinquantina di uomini, comandato dal capitano Ruggiero Ernesto per coadiuvare il capitano Pakibusch nella lotta antipartigiana. Il reparto stette a Palmanova, nella caserma Piave, fino al 19 aprile 1945 e ad esso si aggregò il sergente Rebez Remigio della X MAS... Durante tale periodo, innumerevoli e feroci delitti furono commessi nei territori dei mandamenti di Palmanova, Udine, Codroipo, Latisana, Cervignano, Monfalcone e Gradisca dal reparto che meglio potrebbe denominarsi... “banda Ruggiero”. Furono arrestate ed imprigionate circa 500 persone e molte centinaia di esse furono percosse e seviziate perché dessero le informazioni che gli aguzzini volevano sull’entità e dislocazione delle forze partigiane e sulle loro armi». Rebez venne condannato a morte per aver collaborato con il tedesco invasore e per aver privato della libertà «centinaia di persone sottoponendo moltissime di esse a violenze inaudite e cagionando loro lesioni anche gravi e persino la morte mediante torture raccapriccianti...», così recita la sentenza.

Viene da chiedersi se è questo ciò che intendevano i giudici del processo Borghese per «attenuare i rigori dell’occupazione militare tedesca». In ogni caso Rebez non solo non pagò con la vita i suoi misfatti, ma neanche con il carcere, godette infatti dell’amnistia di Togliatti ed a tutt’oggi vive libero e indisturbato a Napoli.

Bartoli, Papo e Pirina però lo inseriscono negli elenchi degli “scomparsi”. Il “Piccolo” di Trieste ha pubblicato, in data 26 marzo 1996 un articolo su di lui dal commovente titolo “Rebez voleva tornare a vivere nella sua Muggia”. Ma, come spiega poi l’articolo, una decina d’anni prima Rebez fu “salvato” dalla polizia, perché «era apparso a una commemorazione funebre nel cimitero di Muggia e, riconosciuto, per poco non venne linciato dalla folla».

 

 

7.                LA GUARDIA DI FINANZA

 

La Guardia di Finanza non aveva solo compiti di controllo e repressione dei reati tributari, ma, fino al 25 luglio 1943 metteva a disposizione dell’Ispettorato Speciale di P.S. dei nuclei mobili di polizia; poi, dopo l' arrivo dei tedeschi, ebbe funzioni di antiguerriglia alle dirette dipendenze di Christian Wirth, il “sovrintendente” del lager della Risiera di S. Sabba ed alcuni componenti di essa gli facevano da scorta armata nei suoi spostamenti.

Reparti della Guardia di Finanza avevano anche il compito di mantenere “libera dai partigiani” la strada che collega Trieste a Fiume e per ottemperare a questo incarico compirono diverse azioni di rastrellamento sia contro gruppi partigiani che contro la popolazione civile.

Così dichiarò Dietrich Allers (successore di Wirth nella direzione del lager della Risiera di S. Sabba), nel corso della sua testimonianza resa per il processo [49]: «Mio compito era di assumere le funzioni, o perlomeno una parte di esse, di Wirth, da poco ammazzato dai partigiani. Il Wirth era a suo tempo comandante della cosiddetta Strada Carsica, cioè la via di comunicazione tra Trieste e Fiume. (...) All’assunzione del comando di sicurezza avevo a mia disposizione le seguenti unità: una compagnia della Milizia Territoriale, UNA COMPAGNIA DELLA FINANZA ITALIANA (*), una compagnia del battaglione S.S. Trieste». In altra parte del libro troviamo anche questa annotazione: «... va ricordato che la “sicurezza” della strada Trieste-Fiume, rimasta sempre assai precaria, comportò la distruzione selvaggia di decine di paesi sloveni e croati con stragi efferate come quella di Lipa del 30 aprile 1944 dove furono trucidati 287 civili inermi, vecchi, donne, bambini (molti bruciati vivi o fatti a pezzi a colpi di baionetta)».

Un gruppo consistente di Guardie di Finanza arrestate e poi deportate in Jugoslavia faceva parte di un battaglione di stanza a Roiano (rione di Trieste situato nei pressi della Stazione Centrale), i cui comandanti si erano accordati nei giorni precedenti l’insurrezione con la Brigata partigiana Kosovel, scesa dal Carso ed arrivata in città nella zona di Roiano appunto, perché tenessero sotto tiro i tedeschi che si trovavano a presidiare la stazione centrale ed il porto vecchio. Ma nel corso dei combattimenti ad un certo punto i tedeschi penetrarono alle spalle della Kosovelova Brigada proprio dal punto in cui avrebbero dovuto essere tenuti sotto controllo dalla Guardia di Finanza. I partigiani lo interpretarono come un tradimento da parte dell’Arma e per questo motivo disarmarono le Guardie di Finanza e ne arrestarono diverse. In tale occasione avvenne anche che un membro del C.L.N. si trovò a sparare contro i partigiani, ma non fu né ucciso né arrestato per questo motivo [50].

Anche Maserati, nel suo libro sull’occupazione iugoslava di Trieste, riporta questo fatto (cfr. il paragrafo successivo), senza però fare cenno ai motivi che possano avere portato a tanto.

 

 

8.                IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE ED IL CORPO VOLONTARI DELLA LIBERTA

 

Lo Stato italiano e la storiografia ufficiale riconoscono l’inizio della Resistenza in Italia solo dopo l’8 settembre 1943, cioè dopo la firma dell' armistizio e della conseguente occupazione del Paese da parte dell’ex alleato tedesco, e dopo che il “Duce”, liberato il 12 settembre da Otto Skorzeny su ordine di Hitler, aveva fatto il suo colpo di stato contro il governo di Badoglio.

Invece a Trieste e nella Venezia Giulia la lotta armata antifascista era iniziata già da tempo, collegata alla lotta di liberazione popolare jugoslava, ed era caratterizzata da una forte connotazione comunista e socialista.

Come s’è visto nel capitolo dedicato all’Ispettorato Speciale di P.S. le repressioni violente nella Venezia Giulia erano iniziate da molto prima che qui arrivassero i nazisti; va ricordato che nel processo contro Gueli, lo stesso Gueli venne assolto da diverse accuse che gli erano state rivolte da persone che erano state torturate ancora prima del 1943, perché responsabili delle violenze erano stati i Carabinieri e non la P.S..

Quando le truppe tedesche occuparono la regione esistevano già dei nuclei di resistenza antifascista collegati ai gruppi sloveni dell’interno: ricordiamo qui la figura di Alma Vivoda, partigiana di Muggia, che aveva tenuto contatti con organizzazioni partigiane slovene e venne uccisa da un carabiniere a Trieste il 28 giugno del 1943 (ben prima dell’arrivo dei tedeschi, quindi) [51].

Ma ricordiamo anche, in questa sede, due partigiani meno noti, Adriano Segaia di Trieste ed Alberto Pelezaro di Padova appartenenti alla Kraška Četa. Essi furono catturati il 10 luglio 1943 dai carabinieri di Gorizia dopo essere stati feriti in uno scontro a fuoco con i carabinieri, due nuclei dell’Ispettorato Speciale ed agenti della questura di Gorizia, avvenuto tra Komen-Comeno e Štanjel-S. Daniele. Morirono un paio di giorni dopo, come risulta da una relazione dei carabinieri di Gorizia del 14 luglio 1943 [52].

Poco dopo l’arrivo dei tedeschi si costituì a Trieste il primo C.L.N., del quale facevano parte esponenti del Partito d’Azione, del Partito Comunista, del Partito Socialista, della Democrazia Cristiana e del Partito Liberale: i dirigenti vennero arrestati nel dicembre del 1943 e deportati a Dachau, dove morirono Foschiatti, del Partito d’Azione ed il comunista Pisoni.

Successivamente si costituì il secondo C.L.N., che comprendeva ancora gli stessi gruppi politici; secondo le direttive del C.L.N.A.I. questo secondo C.L.N. avrebbe dovuto cercare contatti e collaborazioni con l’Osvobodilna Fronta-Fronte di Liberazione che raggruppava sia sloveni che italiani collegati al IX Korpus. Ma nel luglio del 1944 il C.L.N. triestino si spacca: i comunisti ne escono perché gli altri rifiutano la collaborazione con le componenti slovene. Nel settembre successivo vengono arrestati diversi esponenti del C.L.N. (tra cui il democristiano Paolo Reti), ma anche il comunista Frausin.

In ottobre, a Milano, i rappresentanti dell’O.F. disdicono i loro accordi con il C.L.N.A.I.: questo fatto porterà poi allo scioglimento del secondo C.L.N..

Nell’ottobre del 1944 si forma quindi il terzo C.L.N., composto dal Partito d’Azione, dal Partito Socialista, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Liberale: questo C.L.N. non aveva rapporti con il C.L.N.A.I. che, anzi, invitava i triestini che volevano lottare contro il nazifascismo a collaborare ed anche ad aderire al IX Korpus [53].

Nel febbraio ‘45 vennero arrestati, dalla banda Collotti, Ercole Miani e don Marzari, dirigenti di questo terzo C.L.N. Furono poi rilasciati alla fine d’aprile, alla vigilia della liberazione. Nel frattempo v’era chi, nel C.L.N., cercava contatti ed accordi con la X Mas e con altri corpi armati: la Guardia Civica, la Pubblica Sicurezza, la Guardia di Finanza, contattando anche personalità come il podestà Pagnini ed il prefetto Coceani, che avevano fino allora collaborato con i nazisti, cercando di fare un fronte comune antislavo ed anticomunista. Un po’ come avevano fatto i servizi segreti della X Mas con le brigate Osoppo in Friuli...

Va da se che, mentre i partigiani dell’O.F. combattevano in prima fila, compiendo azioni armate, attentati, sabotaggi nelle fabbriche ed altro, pagando con la vita, la deportazione e le torture, le conseguenze della loro scelta di lotta, i membri del C.L.N., salvo alcune eccezioni, non facevano granché di concreto contro i fascisti ed i tedeschi, un po’ perché, essendo scollegati da tutte le altre organizzazioni armate e da quella che si potrebbe definire “base”, ovvero le classi popolari, non avevano mezzi né occasioni, un po’ perché preferivano lavorare a mero livello politico, cercando di far venire in zona membri dell’esercito del Regno d’Italia per far organizzare da questi la lotta armata.

Al momento dell’insurrezione di Trieste, coincidente con l’arrivo delle truppe partigiane reduci dai combattimenti vittoriosi condotti contro le truppe nazifasciste sull’altipiano carsico, oltre ai membri di “Delavska Enotnost-Unità Operaia”, si solleva anche il Corpo Volontari della Libertà, facente riferimento al C.L.N. triestino e comandato dal colonnello Antonio Fonda Savio.

Ma da subito, in contemporanea con gli scontri contro i tedeschi, iniziano anche gli incidenti tra partigiani e C.V.L. Possiamo ricordare l'incidente di Roiano (già citato nel capitolo dedicato alla Guardia di Finanza), quando, come dice lo stesso Maserati «gli insorti del C.V.L. per difendere un gruppo di Guardie di Finanza aprono il fuoco sui soldati di Tito»; oppure alla caserma di Rozzol (via Rossetti) dove alcuni membri della Guardia Civica, insorta in extremis contro i tedeschi in nome dell’italianità di Trieste, avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Va precisato che questo incidente, per quanto enfatizzato dagli storici come dimostrazione dell’”intolleranza titina”, fu frutto del gesto isolato di pochi membri della Guardia Civica, che avevano agito di propria iniziativa guidati da Matteo De Nittis che fu l’unica vittima dello scontro. Infatti i reparti partigiani, dopo aver risposto al fuoco, uccidendo De Nittis, occuparono la caserma di via Rossetti senza altri incidenti e senza operare rappresaglie od arresti.

In conseguenza di questi fatti il C.L.N. decide di ritirare (siamo al 1° maggio) i propri reparti dalla lotta e «poste al sicuro le armi, gli uomini rientrano alle loro case» [54]. C’è da stupirsi che a questo punto i “titini” non solo non si fidassero del C.L.N., ma si rifiutassero di riconoscere ai suoi aderenti la patente di “liberatori” di Trieste, visto che a liberare Trieste non s’erano granché impegnati?

Del resto già in periodi antecedenti l’insurrezione v’erano state delle ambiguità, tanto per fare un eufemismo, nell’operato del C.L.N. triestino. Racconta il dirigente dell’Ispettorato Speciale di P.S., Gueli [55]: «...il capitano Podestà, continuando le sue rivelazioni, aveva fatto arrestare un tale avvocato Morandi del movimento di liberazione. Dopo diversi interrogatori, tutti e tre (Collotti, Morandi e Podestà, n.d.a.) si erano commossi ed avevano riconosciuto che, pur battendo strade diverse, tutti miravano al bene della Patria. Il Collotti allora aveva rilasciato sia il Morandi che il Podestà prendendo i seguenti accordi (...): fossero giunti prima gli slavi di Tito si impegnavano a contrastarne l’entrata in città...» [56].

C’è però anche la testimonianza di Arturo Bergera, altro membro del C.L.N. che, parlando di Meneghello, Cumo, Stancampiano, Buscemi, Tricarico ed altri del C.V.L. triestino, poi arrestati e processati a Lubiana, dice che «si erano proposti di difendere l’italianità di Trieste dall’invadenza slava...» [57].

Senza contare poi le dichiarazioni di Antonio Fonda Savio, comandante del C.V.L. che asseriva: «nostro compito era quello di aprire la via agli Alleati, ci siamo astenuti di sparare sugli Slavi per non peggiorare la nostra posizione politica rispetto agli Alleati» [58].

Cerchiamo di vedere questi fatti alla luce della situazione storica dell’epoca e forse capiremo che non è stato poi tanto incredibile che certe persone del C.L.N. triestino siano poi state arrestate dagli iugoslavi, condotte a Lubiana e processate [59]. Del resto l’immagine del torturatore Collotti che si commuove assieme a due membri del C.V.L. perchè si rende conto che tutti e tre amano la patria, mentre non batteva ciglio a seviziare ed uccidere ci lascia un po’ straniti. Cosa avrebbero dovuto pensare di questa storia all’epoca quelli che erano passati sotto le torture di Collotti?

Come appare un po’ strano che quasi tutti i membri di questo ultimo C.L.N. arrestati dalla “banda Collotti” all’inizio del ‘45 siano poi stati rilasciati senza problemi in aprile o siano “evasi” come Carlo Dell’Antonio, già capitano pilota dell’aeronautica militare, che fu poi arrestato dalle autorità jugoslave.

Con l’inizio dell’amministrazione partigiana, il C.V.L. decise di non collaborare alla gestione della città, che era affidata al C.E.A.I.S. (Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno) che

comprendeva 11 membri, 8 italiani e 3 sloveni. Di esso facevano parte, tra gli altri: Umberto Zoratti, presidente, “democratico indipendente”; Giuseppe Gustincich, comunista e Franc Štoka, dell’Osvobodilna Fronta-Fronte di Liberazione, vicepresidenti; Fulvio Forti, “democratico indipendente” e Rudi Ursic, dell’O.F., segretari.

Ma il C.L.N. «durante il periodo dell’occupazione jugoslava riprende l’attività clandestina», riferisce Macerati [60].

Già il 3 maggio ‘45 venne diffuso clandestinamente un manifesto che invitava a lottare contro il costituendo C.E.A.I.S. e diceva, tra le altre cose: «Per far ammutolire il nazionalismo slavo, basta ricordare i nomi di soltanto alcuni nostri martiri, veri pionieri del progressismo e della libertà, già membri del C.L.N., quali Gabriele Foschiatti, Pisoni, Reti, Maovaz, Sartori, Spagnul, Pesenti, Luigi Frausin ecc., che non si sono certo sacrificati per la riduzione in schiavitù straniera del popolo triestino, ma per un’Italia democratica e libera fino agli estremi limiti etnici». Il manifesto proseguiva dichiarando che era colpa dell’esercito jugoslavo se si erano verificati dei combattimenti in città (evidentemente il C.L.N. contava su un accordo incruento coi nazifascisti, magari in funzione anticomunista ed antislava e riciclando i vecchi papaveri del regime come il podestà Pagnini). Il manifesto proseguiva con queste parole: «Le gravi offese ricevute dal popolo triestino dal nazionalismo jugoslavo vi siano di incitamento a togliervi ogni illusione sul decantato progressismo degli occupatori ed a guardare il pericolo che ci incombe...», e, dulcis in fundo, concludeva: «Viva Trieste veramente democratica! Viva la civiltà italiana!».

Ma questo è solo l’inizio: il C.L.N. triestino si riorganizza in nuclei che produrranno manifestini ed organizzeranno l’uscita del periodico clandestino “L’osservatorio del C.L.N.”. Ma verranno anche costituiti i Nuclei di Azione Patriottica (N.A.P.), «con funzioni di sabotaggio morale degli Italiani collaboranti con le attività jugoslave» [61] ed un «servizio di informazioni rivelatosi molto utile per i preziosi risultati ottenuti e che (...) provvede all’installazione, nella prima decade di giugno, di una radiotrasmittente in una casa...; infine un organismo (...) incaricato dell’apprestamento e della distribuzione di tricolori (...) e della preparazione ed organizzazione di manifestazioni popolari italiane»; il 7 maggio membri del C.L.N. escono clandestinamente da Trieste per prendere contatti a Venezia con organizzazioni politiche italiane; da Venezia vanno poi a Roma, «ospiti del Governo e sono ricevuti dal presidente del consiglio, Bonomi»; il 16 maggio parlano con l’ammiraglio Stone (capo della Missione Militare alleata in Italia) e sollecitano «le ambasciate estere in Roma affinché la Venezia Giulia venga occupata dalle truppe anglo-americane...» e nello stesso giorno uno della delegazione parla da Radio Roma sul “problema giuliano”. Vengono poi ricevuti anche dal Pontefice nella Biblioteca Vaticana e si recano in seguito anche a Milano dove «espongono la grave situazione politica e militare determinatasi a Trieste e nella Venezia Giulia in seguito all’occupazione della regione da parte delle truppe di Tito».

Tra le attività del C.L.N. «criticate – dice Maserati – sulle pagine del “Nostro Avvenire” (il giornale del C.E.A.I.S., n.d.a.), c’è questa azione: “tre individui, sedicenti membri del C.L.N., ed in particolare un Comitato di Liberazione Triestino, che si sono presentati al C.L.N. di Venezia asserendo di aver dovuto fuggire da Trieste, perché gli slavi di Tito erano calati a Trieste dopo che la città era stata liberata dai loro reparti armati, e narrando di uccisioni in massa di migliaia di persone, colpevoli solo di essere italiani”».

Si noti qui l’accenno ai massacri (inesistenti) che presenta quei toni che ritroveremo in documenti diffusi a cura dei nazifascisti per creare ad arte il “mito” delle foibe, documenti che analizzeremo nel capitolo III.

Ma l’attività dei N.A.P., dice Maserati, «non si limitò soltanto alla denuncia pubblica dei casi di collaborazionismo» (parola pesante da usare in questo caso, secondo noi), «ma si accinse anche ad effettuare delle iniziative concrete»; tale attività culminò col “ratto” di Zoratti (25 maggio) e dell’ing. Forti (30 maggio), «che furono prelevati e trasportati a Udine [62] in automobile, forzando lo sbarramento dell’Isonzo» .Già gravissima di per sé, questa azione, assume particolare gravità se si tiene conto di una testimonianza dell’ing. Forti che asserì di «essere stato sollecitato ad andare a Udine dal C.L.N. che mal vedeva la collaborazione di italiani con il C.E.A.I.S.» [63].

Al di là di ogni giudizio politico sull’attività degli uni e degli altri, vorremmo far risaltare che, alla luce di questi fatti, se rappresentanti del C.L.N. sono stati arrestati ed anche fucilati dagli Jugoslavi non è stato “per il solo fatto di essere italiani”, ma per una loro precisa attività eversiva.

 

 

9.                IL COLLABORAZIONISMO A TRIESTE

 

Il fenomeno del collaborazionismo a Trieste assunse dei livelli talmente vasti da disgustare persino Christian Wirth, “der wilde Christian” [64], il primo “organizzatore” del lager della Risiera: «i collaboratori superstiti... hanno ben riferito del compiacimento e del disgusto espressi dal Wirth per avere trovato in questa città ed in Fiume tanta gente disposta a concretamente favorire, per motivi il più delle volte non politici, la realizzazione dei suoi piani in questo specifico tema» (l’eliminazione degli Ebrei, n.d.a. ) [65].

Racconta Giuseppe Piemontese [66], che s’era trovato a lavorare, durante l’occupazione tedesca, presso l’ufficio traduzioni della cassa di malattia dell’amministrazione germanica assieme ad un amico di famiglia, il dott. Degner, «il quale, pur non avendo precise convinzioni politiche, era fondamentalmente antinazista. Ebbene, egli mi faceva vedere ogni tanto lettere anonime indirizzate a Rainer (e non erano poche, a disonore della città), nelle quali si denunziavano cittadini, solitamente per bassi rancori personali». Piemontese passava i nominativi dei denunciati ad altri impiegati della cassa di malattia che provvedevano a mettere sull’avviso gli interessati, salvandone così diversi dalla deportazione e dall’arresto. Ma purtroppo non tutti i triestini erano come questi...

Uno studio serio sul collaborazionismo triestino non è mai stato fatto, ma basta spulciare un po’ tra i testi che parlano della Risiera di S. Sabba o dare un’occhiata agli atti dei processi conservati presso l’Archivio dell’I.R.S.M.L. di Trieste, per comprendere a quale livello fossero giunti i nostri concittadini di cinquant’anni fa. Dai delatori di Ebrei, che per ogni Ebreo consegnato ricevevano un “premio” di 10.000 lire, a quelli che “vendevano” partigiani, ai vari bottegai che, sentendo di sfuggita nei loro negozi parole “critiche” nei confronti del regime, si adoperavano per far arrestare gli incauti che avevano parlato troppo... Ma oltre a questa “collaborazione diffusa”, c’erano anche quelli che si applicavano seriamente a lavorare coi nazisti.

Da: “S. Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera” [67]:

«Così a Trieste, capitale del Litorale e sede dei principali comandi e uffici nazisti, una schiera di centinaia di civili entrò a far parte dell'organico del Supremo Commissariato di Rainer e di quello dello SD-SIPO [68] e dello stesso EKR [69] di Wirth e di Allers, con una molteplicità di mansioni: dall’interprete di fiducia che procedeva anche agli interrogatori degli arrestati ed alla compilazione di veri e propri rapporti informativi, all’amministratore di beni mobili e immobili sequestrati alle vittime, dal segretario di vari comandanti S.S. e Polizia al centralinista, dal semplice impiegato all’addetto a lavori di manutenzione».

Nel corso delle indagini per il processo del lager della Risiera il giudice Serbo di Trieste scoprì presso gli archivi dell’INPS alcuni elenchi di impiegati civili dipendenti dall’SD-SIPO per i quali i tedeschi pagavano regolari contributi previdenziali e per l’assistenza malattie. Erano 156 i dipendenti con varie mansioni dal comando SD-SIPO del Litorale Adriatico e 212 dipendenti dal capo di polizia ed S.S. Globocnik, Gestapo, questi ultimi classificati tutti genericamente come “personale impiegatizio”, mentre dei primi 156, 74 erano classificati come interpreti, v’erano poi impiegati, autisti ed altro ed 8 erano “freiwillig”, ovvero “volontari”, denominazione data ai «partigiani disertori passati al servizio della polizia tedesca e stipendiati» [70].

Nello stesso capitolo del testo sopra citato troviamo due nomi di “deportati” a Lubiana. Il primo è Antonio Micolini, che dai dati dello stato civile avevamo come “insegnante”: in realtà «era il principale collaboratore del maggiore Mätzger dell'Ufficio IV (Gestapo), partecipando agli interrogatori condotti dai nazisti con ogni sorta di sevizie». Il secondo è il giornalista Ettore Testore, già agente dell’OVRA e squadrista, che già nel 1932 aveva fatto arrestare diversi antifascisti. All’arrivo dei tedeschi Testore si offrì come “collaboratore” scrivendo una lettera [71] direttamente al Supremo Commissario della Zona di operazioni Litorale Adriatico. In questa lettera Testore «in considerazione delle sue capacità di giornalista politico antinglese o antibolscevico (cita ad esempio tutti i suoi scritti pubblicati in questi ultimi anni dal giornale Il Piccolo), coerente alle proprie opinioni..., simpatizzando integralmente per il nazionalsocialismo, si offre per una collaborazione ai Servizi Stampa e Propaganda di Codesto Supremo Commissariato». Testore specifica d’altra parte che si trova senza «incarico serio» e deve «provvedere d'urgenza alla propria sistemazione», visto che al momento aveva soltanto una collaborazione a Radio Litorale (la radio di propaganda dei nazisti). Evidentemente il Supremo Commissario accolse l’offerta di Testore e gli diede degli incarichi, infatti troviamo Testore (che si firmava anche Tito o Lucio Speri), alla direzione di “radio Franz”, la radio che trasmetteva dalla stessa sede di radio Litorale (nel palazzo della Telve, ora Telecom in piazza Oberdan). Questa emittente, alla quale collaborò anche l’attore Giacomo Pellegrina [72], oltre a fare «trasmissioni politiche a sfondo reazionario», trasmetteva ordini ai partigiani e «tali ordini trasmessi da radio Franz ai partigiani erano del tutto falsi e tendevano a far cadere gli stessi in imboscate nazifasciste» [73].

Nel corso delle nostre ricerche abbiamo trovato più volte il nome di Crisa Ottocaro: vorremmo ora usarlo come esempio dello sviluppo di quella che spesso ci è apparsa più come un’indagine investigativa che non come una ricerca storica.

Nel libro di Pirina avevamo trovato un Crisa Ottocaro, civile, ed un Ottocaro non meglio identificato; dagli atti dello stato civile risultava solo un Crisa Ottocaro, odontotecnico, deportato in Jugoslavia. Da Papo avevamo un Crisa Ottocaro, interprete, ma c’era anche un Ottocaro agente della Polizia Militare, deceduto a Lubiana come il precedente Crisa. Da una testimonianza raccolta da Samo Pahor risulta che Crisa faceva l'interprete presso le S.S. di piazza Oberdan; lo trovammo poi anche in un elenco di collaboratori dell’Ispettorato Speciale di P.S. ed in un altro elenco di appartenenti alle S.S. conservati ambedue presso l'archivio dell’I.R.S.M.L.T..

Come si vede, quando si legge “civile” nella qualifica dei “deportati e scomparsi” bisogna andare un po’ coi piedi di piombo, difatti dal primo controllo da noi effettuato sui dati forniti dallo stato civile alla stesura finale del nostro elenco, il numero dei “civili” s’è drasticamente diminuito (ed i supposti “civili” sono andati ad ingrossare soprattutto le file dell’Ispettorato Speciale ed in parte minore quelle dei militari e degli squadristi). Va anche precisato che abbiamo lasciato tra i “civili” anche un ex-prefetto ed un ex-podestà, per i quali la denominazione di “civile” sarebbe impropria, così come persone che pur non vestendo divisa avevano comunque dei comportamenti “squadristici”. A questo proposito citiamo il caso della maestra Rosa Vendola, insegnante a Trebiciano. Su questa persona abbiamo raccolto le seguenti testimonianze. Racconta Lucijan Malalan, di Trebče-Trebiciano che la maestra Vendola insegnava all’asilo da lui frequentato nei primi anni Trenta. Un giorno Malalan si trovò a dire un paio di parole in sloveno ad un suo amichetto, la Vendola li sentì, afferrò il bambino per un orecchio e lo trascinò a forza attraverso tutta l’aula per punirlo di avere parlato in quella “sporca lingua”. Esiste anche documentazione [74] di un esposto fatto da un sacerdote di Trebče-Trebiciano contro la maestra Vendola che, avendo sentito il sacerdote rivolgersi in sloveno ai fedeli, aveva obbligato i bambini ad uscire dalla chiesa perché non dovevano sentir parlare la lingua “proibita”. Una persona del genere non può essere classificata come militare, però neanche come “civile”, essendo in sostanza un’incivile...

Tra i “civili” scomparsi c’è anche l’ispettore doganale Renato Notari. All’inizio credevamo si trattasse di un regolamento di conti per il tipo di operato che poteva avere condotto un ispettore doganale, ma la realtà trascende sempre l’immaginazione e, cercando tra i vari documenti conservati all’I.R.S.M.L.T., abbiamo trovato anche il processo contro chi denunciò alle autorità jugoslave il Notari. Il denunciante spiegò che Notari s’era presentato in casa di una signora, asserendo di appartenere alle S.S. ed esibendo un documento che attestava questa sua qualifica; disse alla signora che l’appartamento serviva a dei suoi commilitoni e che doveva sgomberarlo immediatamente per lasciarlo a loro disposizione. Naturalmente la malcapitata obbedì, però ne parlò in giro, e dopo la liberazione di Trieste un suo conoscente denunciò il Notari alle autorità jugoslave come membro delle S.S.. Notari fu arrestato e poi scomparve; per questo il denunciante fu a sua volta denunciato e processato. Nel corso del dibattimento risultò che Notari non aveva mai fatto parte delle S.S. ma era sostanzialmente un millantatore che si spacciava per S.S. in modo da portare avanti ruberie e vessazioni per proprio tornaconto. Senza ulteriori commenti.



[1] Carolus Cergoly, “Fuma el camin” in “Ponterosso” edito da Guanda.

[2] R. Timeus, “Scritti politici (1911-1915)”.

[3] Si veda a questo proposito anche il I capitolo di “Attraverso Trieste” di Rodolfo Urini-Ursič.

[4] P. Parovel “L’identità cancellata”. ed. Eugenio Parovel.

[5] ibid.

[6] Pavel Stranj “La comunità sommersa”, E.S.T.

[7] Bruno Steffè in “Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera”, ANED Trieste.

[8] ibid.

[9] Strunjan-Strugnano è un paesetto che si trova tra Izola-Isola e Pirano.

[10] Si legga a questo proposito l’autobiografia di Wanda Skof-Newby, “Tra pace e guerra. Una ragazza slovena nell’Italia fascista”, Il Mulino.

[11] P. Parovel op. cit.

[12] Sigla dell'organizzazione “Trst Istra Gorica Rijeka”.

[13] P. Stranj, op. cit.

[14] G. Piemontese “Ventinove mesi di occupazione italiana nella Provincia di Lubiana”, Lubiana 1946.

[15] ibid.

[16] si vedano i titoli in bibliografia.

[17] P. Parovel, Analisi sulla questione delle foibe inviata al Ministero degli Interni, 5.9.89.

[18] O. Fogar: “Sotto l'occupazione nazista nelle province orientali”, Del Bianco.

[19] Si trattava di un nucleo di militari del Regno del Sud che cercava di creare un focolaio di resistenza a Trieste in collegamento con il C.L.N..

[20] Una volta “svuotato”, l’edificio venne trasformato in ospedale per il corpo detto impropriamente dei “domobranci”, ovvero lo “Slovenski narodni varnostni zbor”.

[21] Diego De Castro, La questione di Trieste, LINT.

[22] La villa venne demolita nel dopoguerra ed al suo posto venne edificata una palazzina residenziale. È stata quindi in tal modo eliminata la possibilità di utilizzarla quale “memento” di un passato che non dovrebbe più ritornare.

[23] “Olivares” era il nome della sede del gruppo fascista rionale (dal nome di Alfredo Olivares, fascista morto nel corso di scontri nel 1921); in questa sede si sistemò la squadra politica.

[24] «Mazzuccato finisce deportato dagli stessi tedeschi venuti a conoscenza di alcune malversazioni da lui compiute». G. Fogar: “Sotto l’occupazione nazista…” op. cit.

[25] Archivio I.R.S.M.L.T. XIII 915.

[26] D’altra parte va ricordata la testimonianza di Giuseppe Giacomini, agente di P.S. proveniente da Treviso: «L’apparecchio di tortura elettrico è stato portato nella sede dell’Ispettorato da Collotti al quale venne regalato dalle S.S. secondo quanto sentivo dire dagli agenti». Forse che le S.S. avevano deciso di regalare l’apparecchio a Collotti perché “loro” non torturavano più i prigionieri ? Ci sembrerebbe strano...

[27] Si vedano tra gli altri: “Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera”, ANED ricerche; “Sotto l’occupazione nazista...”cit.; “S. Sabba. Atti del processo...”

[28] I componenti del gruppo erano, oltre ad un S.S. non identificato: Gaetano Collotti, Rado Seliskar, Mauro Padovan, Bruno Pacossi, Mirko Simonic, Salvatore Giuftrida e Nicola Alessandro, tutti fucilati dai partigiani a Carbonera vicino a Treviso il 28.4.45 mentre cercavano di fuggire; Matteo Greco, fucilato e gettato nella foiba “Plutone”; Dario Andrian, arrestato e disperso in Jugoslavia; Antonio Iadecola, che pare si limitasse a fare da autista; Gustavo Giovannini e Gaetano Romano.

[29] La maggior parte degli Ebrei triestini fu però “venduta” dal collaborazionista ebreo Orini che, nonostante - o forse proprio per - questo, finì anch’egli bruciato in Risiera proprio al momento in cui i nazisti smobilitarono il lager.

[30] Forse che gli Ebrei arrestati venivano portati nella sede della “banda” per poterli derubare prima di consegnarli alle S.S. ? Sarebbe interessante sapere di quali “malversazioni” si macchiò Mazzuccato a parere dei nazisti...

[31] È questo l’unico caso sicuro di “infoibamento” nello Šoht; si legga a questo proposito il capitolo III.

[32] L’azione che valse a Collotti la medaglia di bronzo ebbe luogo il 10 aprile 1943 nella zona di Tolmino, G.U. n. 12 dd. 16.1.1954.

[33] ragazze.

[34] Il carcere triestino detto dei “Gesuiti”.

[35] bugliolo.

[36] Il testo da noi riportato è tratto dalla testimonianza della signora Ursis conservata nell’Archivio I.R.S.M.L.T. XXIV-908. Nel libro “Canti della Resistenza italiana”, curato da A.V. Savona e M.L. Straniero, edito dalla BUR, questo canto è riportato con l’annotazione «sull’aria di “Non ti ricordi quel mese d’aprile”».

[37] Affermazioni di Silvano Subani nel corso di una conferenza tenuta dal colonnello di P.S. in pensione Giulio Cesari organizzata dall’I.R.S.M.L.T. (14.2.96).

[38] Si veda il caso di Guido Furlan, fucilato a Lippa di Comeno l’8.2.45 nel capitolo II “Scomparsi per altre cause”.

[39] Ecco il giuramento (si noti che il testo tedesco precedeva quello italiano): «Meiner freiwillig übernommen Pflicht bewüsst, schwöre ich bei Gott, dem Allmächtigen, dem Befehl meiner Vorgeseitzen bedingungslos, zu gehorchen und den Kampf gegen die Feinde meiner Heimat, mit den unter deutscher Führung stehenden Einheiten treu und tapfer zu kampfen. Ich bin bereit, für diesen Kampf mein Leben einzusetzen. So Wahr mir Gott helfe!»; «Conscio del dovere postomi di mia volontà, giuro innanzi a Dio, l’Onnipotente di ubbidire incondizionatamente agli ordini dei miei superiori e di impugnare le armi contro i nemici della mia Patria e di combattere con fedeltà e coraggio nella formazione sotto le direttive tedesche. Io sono pronto di lasciare la mia vita per questa lotta. Così sia e Iddio m’aiuti!». Si noti che questo giuramento bilingue evidentemente non creò eccessivi problemi a quegli aderenti alla Guardia Civica che invece nel dopoguerra militarono in organizzazioni nazionaliste che si opponevano pervicacemente ad ogni forma di tutela della minoranza slovena sbrigativamente definita “bilinguismo”; probabilmente certa gente distingue tra lingue di serie A e di serie B.

[40] Per l’elenco completo si veda il capitolo II “Scomparsi per altre cause”.

[41] G. Fogar: “Sotto l’occupazione nazista...” op. cit.

[42] Si tratta di appartenenti allo Slovenski narodni varnostni zbor (corpo nazionale sloveno di sicurezza) detti comunemente “domobranci” per affinità con l’omologo corpo collaborazionista della “provincia di Lubiana” (Slovensko domobranstvo - Difesa Territoriale Slovena).

[43] Sulla Casenna “Piave” di Palmanova si veda più avanti nel paragrafo dedicato alla X MAS.

[44] G. Fogar: “Sotto l’occupazione nazista...” op. cit.

[45] “La strage di stato – Vent’anni dopo” a cura di Giancarlo De Palo e Aldo Giannulli, ed. Associate, 1989.

[46] Probabilmente le saline sono quelle istriane, perché a Trieste all’epoca non c’erano più saline.

[47] Documento contenuto in “Giovane amico lo sapevi che... - Documenti di un drammatico periodo storico dedicati a quanti non li conoscono ed a quanti fingono di non conoscerli”. Quaderni della Resistenza n. 6, a cura del Comitato Regionale dell’A.N.P.I. del Friuli-Venezia Giulia nel 50° Anniversario della Liberazione.

[48] Documento tratto da “Giovane amico lo sapevi che…” cit.

[49] Documento tratto da: “S. Sabba Istruttoria e processo per il lager della Risiera”, ANED-Mondadori.

* il maiuscolo è nostro.

[50] Testimonianza di un ufficiale del IX Korpus, aggregato alla Kosovelova Brigada, raccolta da Samo Pahor.

[51] Su Alma Vivoda si veda la nota 3.

[52] Anche i genitori di Segaia morirono da partigiani: il padre Antonio fu ucciso nella Risiera di S. Sabba nel 1944, la madre Antonia Zoch fu torturata dall’Ispettorato e poi abbandonata in fin di vita nei pressi di Sistiana.

[53] Tale invito era contenuto nel manifesto del C.L.N.A.I. “Alle popolazioni italiane della Venezia Giulia”, diramato dopo la riunione di Milano dell’8-9 giugno 1944

[54] Ennio Maserati “L’occupazione jugoslava di Trieste”, Del Bianco.

[55] Dagli atti del processo Gueli. Archivio I.R.S.M.L.T., XIII-900.

[56] Per l’arresto di Podestà la spia Bacolis aveva incassato 100.000 lire, (cfr. il paragrafo dedicato all’Ispettorato di P.S.). Forse che per le alte sfere dell’Ispettorato era importante avere in mano Podestà non tanto per neutralizzare un nemico quanto per contattare un possibile alleato “a futura memoria”... ?

[57] Archivio I.R.S.M.L.T. XII-866.

[58] Da una relazione raccolta da Ercole Miani e conservata presso l’archivio I.R.S.M.L.T.

[59] Meneghello, Cumo, Stancampiano e Tricarico furono fucilati a Lubiana, Buscemi morì di malattia in carcere. Podestà invece fu processato, passò un paio d'anni in prigionia e poi rientrò a Trieste.

[60] Questa e le citazioni seguenti sono tratte da “L’occupazione jugoslava di Trieste”, cit.

[61] Scrive sempre Maserati: «Quanto ai cosiddetti “italiani democratici” che collaboravano con le autorità jugoslave e specialmente quelli che ricoprivano cariche negli organi politici ed amministrativi, la stampa clandestina del C.L.N., per mezzo di giornaletti e manifestini redatti in ciclostile, soleva denunciarne i nomi additandoli al giudizio dei Triestini».

[62] Sarebbe interessante sapere dove esattamente furono condotti nella città di Udine i “rapiti”, visto che ad Udine si trovavano, tra gli altri, il comando della Osoppo, la sede del Governo Militare Alleato per la Venezia Giulia, l’arcivescovo collaborazionista Nogara e via di seguito...

[63] Ancora Maserati: «Le azioni del nucleo (i N.A.P., n.d.a.) ebbero l’effetto di screditare il C.E.A.I.S. e soprattutto di seminare il panico tra gli Italiani collaboranti, i quali tentarono poi di svincolarsi dalle cariche affrettandosi ad inviare, sotto pressione del nucleo, lettere di dimissioni al C.E.A.I.S.…».

[64] “Christian il feroce” o “il selvaggio”, come lo avevano soprannominato i suoi stessi “colleghi”.

[65] In “S. Sabba…” op. cit.

[66] Nell’introduzione de: “Il movimento operaio a Trieste”, Ed. Riuniti.

[67] Nell’introduzione de: “Il movimento operaio a Trieste”, cit.

[68] SD: Sicherheit Dienst, servizio di sicurezza

SIPO: Sicherheits-Polizei, polizia di sicurezza.

[69] EKR: Einsatz-Kommando-Reinhardt, il gruppo cardine che doveva occuparsi della “soluzione finale del problema ebraico”, giunto a Trieste agli ordini di Globocnik tra settembre e novembre del 1943, dopo aver “organizzato” i lager di sterminio in Polonia.

[70] In “S. Sabba...” op. cit., deposizione in istruttoria del teste Italo Montanari (19.8.70).

[71] Archivio I.R.S.M.L.T. X 762.

[72] Su Giacomo Pellegrina si veda il cap. III, Foiba Plutone.

[73] Citazioni tratte dal documento n. 769-busta XXI archivio I.R.S.M.L.T.

[74] Testimonianza di Samo Pahor: si tratta di un esposto presentato dal sacerdote alla Commissione per l’accertamento dei crimini di guerra istituita in Jugoslavia all’inizio del 1944. L’esposto si trova negli archivi di Lubiana.