Recensioni e discussioni / 2011 / dalla
rivista Essere Comunisti
Resistenza e dopoguerra: storie,
memorie e impunità
di Bianca Bracci Torsi
in Essere
comunisti, n. 24, giugno 2011, p. 61
Si può ridare al termine “revisionismo storico” il significato
originario, storico appunto, che gli spetta, oggi soffocato da una
valanga di distorsioni, volontari oblii, spudorate menzogne, con il
lavoro di ricercatori degni di questo nome impegnati a recuperare
documenti e memorie nascoste attraverso i quali capire vicende confuse
e passaggi inspiegabili e rivelare i veri e propri vuoti della
storiografia italiana del secolo scorso? Una impresa tutta
controcorrente, nella quale si sono già cimentati, con una
passione pari al rigore scientifico, uomini e donne come Del Boca,
Kersevan, Scotti, Cernigoi e Giustolisi ai quali oggi si aggiungono con
uguale passione per la verità da scoprire e diffondere, anche
quando contraddice rassicuranti certezze come la definizione degli
italiani tutti e sempre “brava gente”, alcune voci nuove. Ultimi in
ordine di tempo Andrea Martocchia e Davide Conti, autori
rispettivamente di “I partigiani
jugoslavi nella Resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda
ignorata” e “Criminali di
guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo
dopoguerra”. Due libri da leggere insieme non per un semplice
arricchimento culturale ma per scavare in un tempo più lontano
dal senso comune diffuso di quanto non comporti la distanza temporale,
fino a mettere a nudo le radici del nostro presente. La domanda che
Martocchia si pone (e ci pone) all’inizio del suo libro – Che ci facevano in Italia questi jugoslavi?
– non è retorica. Infatti quanti sanno che c’erano in Italia, fino dal
1941 diverse migliaia di giovani (ma anche vecchi, donne e bambini)
jugoslavi reclusi in 150 campi di concentramento e carceri come
prigionieri di guerra, prigionieri politici, deportati con tutta la
famiglia per lasciare il posto a coloni “italiani” o perché
definiti di “diversa categoria etnica”, come gli ebrei e i rom? In quei
campi e in quelle prigioni si moriva di fame, di freddo, di malattie
non curate, a volte si era uccisi per veri o presunti tentativi di
evasione, ma il governo Badoglio non li aprì dopo il 25 luglio
né dopo l’8 settembre 1943, nonostante che l’armistizio
imponesse all’Italia la liberazione di tutti i prigionieri e gli
internati in pericolo di cattura da parte dei tedeschi. Dalla
deportazione nei lager nazisti, si salvarono, con la fuga, i più
giovani e agguerriti che trovarono asilo nelle case contadine dove ogni
donna aveva un marito, un figlio o un fratello militare del quale
mancavano notizie da mesi, e ognuna dimenticava la tradizionale
diffidenza delle piccole comunità nei confronti degli estranei,
perché in ogni soldato lontano dal suo paese riconosceva il
volto del suo caro travolto dalla stessa tragedia, chiamata guerra e
forse, nelle stesse ore, soccorso da un’altra donna. Ma quasi tutti
questi serbi, croati, montenegrini e bosniaci venivano da un’esperienza
di resistenza armata nelle brigate comuniste di Tito e trovarono la
loro collocazione naturale nelle formazioni Garibaldi e Gramsci dove la
loro esperienza militare e politica li rese subito preziosi. Molti
furono eletti a ruoli di comando come Vlado Vujovic (Gavrosche)
commissario politico di battaglione, Svetozar Lakovic (Toso) comandante
di brigata, Zoran Kompanjet (Zoran) comandante di distaccamento, tutti
combatterono per liberare la Jugoslavia e l’Italia dal fascismo di cui
avevano provato, sulla propria pelle e sulla propria famiglia, la
violenza e la crudeltà, e affrontandolo insieme con i partigiani
italiani con i quali divisero fame, pericoli, disagi, e il dolore della
perdita di 2310 compagni caduti in combattimento o catturati e uccisi
dai nazifascisti. Il loro contributo alla nostra guerra di Liberazione
non è stato un episodio limitato o marginale e forse proprio per
questo qualcuno ha pensato che dargli il giusto rilievo avrebbe potuto
suscitare perplessità e dubbi sulla credibilità
dell’immagine degli slavi infoibatori di italiani “in quanto tali”
necessaria alla campagna culminata in anni più recenti in quella
celebrazione dell’orgoglio fascista che è la “Giornata del
ricordo”.
Davide Conti, già autore di “L’occupazione italiana nei
Balcani”, si pone, nel suo secondo libro, l’obiettivo di colmare un
vuoto che non è riconosciuto come tale in quanto sono stati
dichiarati inesistenti gli uomini in grigioverde o in camicia nera che
avrebbero dovuto riempirlo, in quanto accusati di delitti che vanno
dalla strage di civili all’uccisione proditoria di arrestati, dal
saccheggio e dall’incendio di interi villaggi, alla tortura di
prigionieri di guerra nei territori invasi della Unione Sovietica e
della Grecia e in quelli diventati italiani dell’Albania e della
Jugoslavia. Si tratta di alti gradi dell’esercito e della burocrazia
civile dei quali venne chiesta l’estradizione in base alla decisione di
Inghilterra, Urss e Usa di riconoscere la facoltà di giudicare i
criminali di guerra alla giustizia dei paesi dove erano stati commessi
i crimini; ma la risposta dell’Italia fu una secca richiesta di
restituzione di tutti i prigionieri, compresi i “presunti criminali”
già catturati e processati nel teatro delle loro imprese. Fu
anche elaborata, probabilmente per tranquillizzare gli alleati che
peraltro risulta non muovessero obiezioni, una serie di giustificazioni
che andavano dalla “obbedienza agli ordini superiori” per i militari,
alla “non giudicabilità da parte di tribunali jugoslavi e
albanesi di reati commessi in territori italiani all’epoca dei fatti”
per i funzionari civili, oltre al mancato riconoscimento di “legittimi
belligeranti” dei partigiani, pertanto passibili di essere passati per
le armi alla cattura. Il tutto concluso da una affermazione ritenuta di
verità indiscutibile per civili e militari che si sarebbero
comunque “contenuti, nella misura possibile in guerra, con quel senso
dell’umanità che è nelle tradizioni del popolo italiano”
al quale venivano contrapposti, con mal dissimulato razzismo, “la
mancanza di comprensione e umanità nei confronti dei soldati
italiani dopo l’8 settembre” da parte della “popolazione greca” (che
aveva visto uccidere, per rappresaglia, 150 uomini dai 14 agli 80 anni
nella sola strage di Domenikon) e gli “innumerevoli crimini e atti di
atrocità commessi dagli albanesi contro i nostri soldati”. Agli
albanesi veniva poi ricordata, come aggravante, la mancata riconoscenza
per “la benefica azione svolta dall’Italia, con fatti che portarono ad
una completa evoluzione dell’Albania verso uno stato di benessere e
civiltà”.
In una fitta corrispondenza dello stesso periodo, lo Stato maggiore
dell’esercito esprimeva al governo l’indignazione e la commozione dei
militari per gli attacchi a “ottimi elementi, con buoni precedenti di
carriera e di servizio che hanno adempito al proprio dovere”, dei quali
era doveroso tutelare, oltre alla vita e alla libertà, “la
serenità spirituale”, senza che nessuno si sentisse in dovere di
ricordare che carriere, servizi e doveri erano stati svolti sotto il
fascismo e durante una guerra di aggressione in fraterna alleanza con
la Germania nazista.
Qualche timore relativo all’indifferenza per la sorte dei nostri
criminali da parte degli angloamericani ancora presenti in Italia viene
espresso dall’ambasciatore d’Italia a Mosca Pietro Quaroni, uomo
d’ordine privo di ogni simpatia comunista ma che la conoscenza di un
più ampio orizzonte internazionale porta a preferire una
soluzione all’italiana del problema. “Si poteva benissimo salvare loro
la pelle affibbiando loro trenta anni di reclusione per poi metterli
fuori quando la bufera era passata”, scriverà ad un funzionario
del ministero degli Esteri, mentre al ministro De Gasperi rivolge un
appello a tener conto della realtà: “L’Italia è un paese
piccolo e non più indipendente”, situazione che richiama a
maggiore prudenza “nei confronti della Russia che è un paese
grande e potente la cui amicizia ci può essere utile e la cui
ostilità ci può essere dannosa. Facciamo pure le nostre
polemiche ma cerchiamo di non tirarci continuamente in ballo la Russia
o, per lo meno, cerchiamo di essere moderati e non dire delle
sciocchezze madornali.” In ambienti molto più ristretti e
riservati si avanzano sommesse lamentele nei confronti degli alleati
che hanno scaricato in Italia, con sottinteso obbligo di garantirne la
sicurezza oltre all’alloggio e al vitto, consistenti gruppi dei
famigerati Ustascia croati, massacratori di serbi, ebrei e rom, e di
seguaci del deposto Zog re d’Albania, fuggiaschi dai loro paesi contro
i quali stanno organizzando, anche militarmente, un Fronte unico
anticomunista con la collaborazione di fascisti italiani.
Lo scoppio della Guerra Fredda appena due anni dopo la vittoria delle
democrazie sul nazifascismo, portò all’Italia la cacciata dal
governo di comunisti e socialisti, definiti “antinazionali” e come tali
discriminati e calunniati con una campagna che non risparmierà
nemmeno il loro ruolo nella Resistenza, resa sempre più rabbiosa
dalla crescita di consensi di quello che si avviava a diventare il
più forte partito comunista dell’Occidente. La neonata
Repubblica italiana evitò una doverosa Norimberga antifascista,
negoziando con gli alleati i risibili processi ai suoi criminali di
guerra in cambio della salvezza offerta a indifendibili criminali
nazisti assoldati dai servizi Usa che raggiunsero paesi lontani e
sicuri transitando da porti italiani, con il caritatevole aiuto della
Chiesa di Roma. Dell’accordo fece parte anche la sparizione di 695
fascicoli di procedimenti penali a carico di tedeschi delle SS e della
Wehrmacht e fascisti repubblichini di Salò riconosciuti
colpevoli dell’uccisione per rappresaglia di 15-20mila civili in
diverse parti d’Italia, fascicoli finiti per 50 anni nell’armadio della
vergogna. Un’operazione con due obiettivi raggiunti: salvare fascisti
italiani e rendere un favore alla Germania e alla Nato, che richiedeva
un esercito tedesco, ripulito e rispettabile come paladino della lotta
al comunismo. I conti col fascismo, i suoi crimini ed i suoi criminali,
non furono mai chiusi davvero per l’impossibilità di coniugare
l’antifascismo e l’anticomunismo e dal varco lasciato aperto negli anni
fra il ’45 ed il ‘47 del ‘900 sono passate false accuse e colpevoli
assoluzioni oggi alla base di quello che si intende per revisionismo
storico.
Conti e Martocchia ci consegnano pezzi di verità scavati fuori
da quel mix di paura, odio e sudditanza che portò un governo,
che doveva la sua esistenza alla guerra di Liberazione, a scegliere una
sostanziale continuità di persone e di metodi col fascismo
mascherandola di un patriottismo senza patria e di una pietà
elargita a chi non aveva mai conosciuto compassione. Pezzi che a
distanza di oltre sei decenni, dopo la caduta del muro di Berlino e la
morte, non per cause naturali, del PCI, ci danno chiavi per capire come
e perché è stato possibile riproporre e fare accettare
leggi e divieti, uomini ed idee di un passato che credevamo sconfitto
per sempre, pezzi che ci ricordano, anche e soprattutto, che sapere insegna a fare dandoci la possibilità
di trovare le forme di una lotta possibile da riprendere, con la sana
testardaggine che ha spinto il procuratore generale militare di Roma
Antonino Intelisano, nella bella intervista che conclude il libro di
Conti, ad affrontare difficoltà e resistenze per saldare uno dei
tanti conti che dobbiamo alla Resistenza antifascista: ripagare il
sangue versato dai partigiani jugoslavi per la nostra libertà
facendo uscire dall’oblio il loro coraggio insieme alle colpe dei loro
carnefici.
Bianca Bracci Torsi
Davide Conti “Criminali di guerra
italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra”
pp. 341 euro 20 Odradek Edizioni
Andrea Martocchia “I partigiani
jugoslavi nella Resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda
ignorata”con la collaborazione di Susanna Angeleri, Gaetano
Colantuono e Ivan Pacevicevac. Introduzione di Giacomo Scotti pp. 341
euro 23 Odradek Edizioni
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agosto 2011
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