I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana

Recensioni e discussioni / 2012 / dalla rivista Il Mestiere di Storico


Emiliano Loria
dalla rivista
"Il Mestiere di Storico"
Semestrale della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCo) - ISSN 1594-3836
n.1, a.IV, gennaio-giugno 2012, p.221. Roma: Viella [ISBN: 9788883349133]


Il libro è un primo prodotto del progetto «Partigiani Jugoslavi in Appennino», che ha l’ambizione di dar conto del contributo fornito dagli jugoslavi alla Resistenza italiana. Quegli jugoslavi che fino all’8 settembre 1943 erano internati nei campi di detenzione sul territorio italiano e che animarono le primissime fasi della lotta di liberazione lungo tutta la dorsale appenninica. Il contributo di sangue di questi combattenti fu elevato: Martocchia ha contato «almeno 500 salme custodite tra sacrari e sepolture sparse nel cuore della Penisola» e «sono inoltre registrati più di 1100 nomi di dispersi» (p. 251), escludendo geograficamente le aree al confine orientale e la Puglia, dove furono istituiti dagli Alleati centri di raccolta, di cura e addestramento per il rientro in patria via mare di varie formazioni partigiane (Primorske brigade), che andarono ad ingrossare l’esercito jugoslavo di Tito. Tutto cominciò con l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia monarchica. Molti partigiani, catturati durante le operazioni di contro-guerriglia, vennero tradotti in Italia in carceri come quello di Renicci e in campi appositi disseminati lungo tutto il territorio italiano, dal Piemonte alla Calabria. L’8 settembre rappresentò per tutti loro la possibilità di scappare e tornare in patria, ma la rapida occupazione tedesca lo rese impossibile. Fu inevitabile darsi alla macchia e proseguire la lotta contro lo stesso nemico dei partigiani italiani, il nazifascismo. I combattenti jugoslavi, in gran parte montenegrini, erano già addestrati alle tecniche di guerriglia e la loro presenza – basti vedere il caso umbro della Brigata Gramsci, ampiamente documentato dall’a. quasi esclusivamente sulla base di testimonianze e diari – fece da stimolo per i patrioti italiani, spesso impreparati da un punto di vista tecnico. Al libro è collegata una sezione consultabile all’url http://www.partigianijugoslavi.it, contenente una ricca documentazione fotografica con lapidi, luoghi della memoria, elenchi di jugoslavi combattenti, caduti e dispersi. Si tratta di una vicenda poco indagata nelle più note ricostruzioni storiche della Resistenza italiana e, opportunamente, Martocchia imputa questa reticenza alla grave frattura tra Pci e Pcj, avvenuta dopo l’abiura di Tito nel 1948. Si sarebbe auspicata maggiore asetticità sia nello stile della narrazione, apologetico (se non epico), sia nell’inquadramento generale dei fatti, che sembrano essere riletti alla luce nostalgica del mito di Tito. Oltremodo, nell’ampia bibliografia in appendice si notano lacune storiografiche e limitate comparazioni interdisciplinari su temi importanti presi in esame dall’a., come quello del movimento jugoslavista. Un movimento le cui idee originarie risalgono alla metà dell’800 e che da Tito furono coniugate con le istanze classiche dell’internazionalismo comunista di matrice sovietica. Così, dagli sconvolgimenti della guerra, si riuscì ad imporre un comunismo nuovo, agguerrito, nazionalista e rivoluzionario (molto distante da quello italiano), che modificò profondamente il panorama politico balcanico e gli equilibri mondiali.

[dalla banca dati recensioni sul sito della SISSCo]


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 26 ottobre 2012
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