Recensioni e discussioni / 2011 /
intervento a Terni, 10 giugno 2011
Qualcosa non torna
di Claudio Del Bello
intervento tenuto in occasione della
presentazione del libro La storia
rovesciata [2], Terni, Sala Laura della Siviera, venerdì
10 giugno 2011
A mio zio Paolo Braccini, comandante partigiano, il comune di
Terni, più di 50 anni fa, ha intitolato una strada.
Ad Alfredo Filipponi [1], pare si siano decisi solo in questi giorni.
C'è qualcosa che non torna.
Conosco bene e apprezzo molto gli autori di questo libro [2]. Ma sul
titolo del libro - La storia rovesciata -, in quel titolo c'è
qualcosa che non torna.
Bitti, Covino e Venanzi hanno trovato e riunito tutto il materiale per
restituire alla comunità scientifica una delle vicende
più corpose e significative non solo e non tanto della
Resistenza italiana, quanto della terribile guerra civile europea, e
però scrivono un libro prendendo come pretesto le esercitazioni
di uno qualsiasi. Scrivono un libro denso, avvincente, esauriente, non
specialistico, ma solo nel senso che piegano il materiale alle domande
possibili, alla curiosità del pubblico.
In altre parole, pur consapevoli della complessità e
dell'importanza dell'oggetto, finiscono col presentarlo come fosse
occasione di un'esercizio di storia locale. Beninteso, non ho nulla
contro la storia locale e i suoi cultori, ma l'oggetto della ricerca
dei nostri tre storici ha fiato e portata che deve prescindere dalla
storia locale.
Lo dico da editore, ma anche da metodologo della ricerca scientifica.
In quanto tale, sono il primo a riconoscere che la storia non si fa con
i concetti - ma con i documenti (tracciabili, come usano dire i giovani
storici), con la carta geografica anzi topografica, e pure con la
calcolatrice, per contare i morti.
Ma se la storia non si fa con i concetti, è anche vero che i
concetti sono nulla senza la storia.
E continuo, con stima e affetto, dicendo loro che le risultanze di
questa notevole e pregevole ricerca hanno rigore importanza tali da
poter essere presentate a un convegno internazionale e non alla
bocciofila, e tanto meno alle ristrettezze di circoli cittadini, alle
beghe della politica locale, agli andamenti ondivaghi della
storiografia nazionale, anch'essa, come abbiamo visto allibiti, pronta
a piegare la storia a fini politici.
Che i fascisti rovescino la storia, non è una novità, ma
la circostanza non rappresenta un tema teoricamente rilevante.
Recentemente, anche tra gli storici, sono stati rivalutati i
controfattuali, cioè la famosa "storia con i se" - cosa sarebbe
successo se Napoleone avesse vinto a Waterloo o se Cesare fosse
scampato alle Idi di marzo. Sono stati rivalutati come esperimento
mentale, come gioco intellettuale. Anche il rovescismo è un
gioco, ma un gioco da bambini: stupido tu, cattivo tu. Un gioco a cui
può mettere fine solo la signora maestra.
Gli storici a questo gioco non devono giocare. Punto e basta.
Rovescismo. Vittimismo. La par condicio, esportata nella scienza, non
ha senso, Tolomeo dopo Copernico non può essere recuperato in
alcun modo dall'astronomia, ma solo dalla storia della scienza.
Mischiare brunello e tavernello: non giova al brunello, com'è
ovvio, ma nemmeno al tavernello.
È ridicolo che qualcuno cerchi di rovesciare e parificare, per
esempio, la nozione di crimine di guerra - fattispecie di reato messa a
punto nei confronti degli eserciti invasori contro le popolazioni
civili inermi - e utilizzarla contro i partigiani. Talmente ridicolo
che, appunto, non si deve replicare. Per logica e decenza.
Il problema vero è un altro. Il problema vero è la
rimozione e l'accomodamento. La peggiore sconfitta è la
rimozione, l'oblio.
In un libro da me edito ho rivendicato la liceità del
revisionismo, sostenendo che la revisione è l'abito e il
mestiere dello storico. Ci mancherebbe. Sostenevo, inoltre, che
è stata proprio la mancata revisione degli statuti della
Resistenza - si pensi a come fu accolto il libro di Claudio Pavone
perché si azzardava a dire che la Resistenza fu ANCHE guerra
civile - a determinare l'appannamento, lo sfilacciamento,
l'indebolimento di valori, principi e pratiche.
È la storiografia di sinistra quella maggiormente colpevole. Ha
negato per 50 anni la Resistenza come ANCHE guerra civile, ed eccoci ad
attardarci perché uno qualunque porta l'attenzione su episodi
trascurabili e marginali - come mostra Angelo Bitti, al di là di
ogni possibile dubbio - di guerra civile.
E se i fascisti si defilano, e se qualcuno tende ad addossare le
responsabilità solo ai nazisti - come nota Covino -, questo lo
si deve anche alla riduzione della Resistenza SOLO all'aspetto della
Liberazione nazionale... dai tedeschi.
Come si vede, la considerazione per i vinti non paga,
storiograficamente, intendo. Ma nemmeno politicamente. Infatti,
sembrano dire, se abbiamo perso vuol dire che voi siete stati
più cattivi di noi. Non si placheranno mai, recrimineranno
sempre, inclini a riprodurre i tempi e i modi delle faide o quello
della satira politica, tramutando i conflitti in macchiette, come
Peppone e don Camillo.
Personalizzano la politica, e poi continuano personalizzando la
ricerca. I vieni avanti cretino della storia agitano falsiscopi,
attirano l'attenzione sugli eroi, veri o presunti, da innalzare o da
abbattere, ma così facendo ottengono il loro vero scopo: sviare
l'attenzione dal vero oggetto, che sono le formazioni, i rapporti, i
processi. A seguirli su questa strada ci si pone fuori di qualsiasi
discorso storiografico, cioè scientifico.
Perché tutto questo? Perché guerra civile è stata
considerata una brutta parola, da non doversi più pronunciare.
Franco Venturi, uno storico, un azionista, mica un bieco comunista,
sosteneva che la guerra civile è l'unica guerra a cui è
lecito prendere parte. Infatti, c'è stato un tempo in cui la
guerra civile era l'unica guerra a cui era lecito, se non doveroso,
partecipare. Per esempio, la Guerra Civile Europea che
insanguinò, con decine e decine di milioni di morti, il vecchio
continente. La si metta come si vuole, da una parte quelli che volevano
la sopraffazione del più forte, dall'altra quelli che
pretendevano l'uguaglianza formale - certo, con il suo corollario dello
sfruttamento capitalistico. Con, all'interno, le guerre civili in
ciascuno degli Stati nazionali. In Italia, la Resistenza.
Vengo al punto. La rimozione della Brigata Gramsci. Perché?
La Brigata Gramsci è un unicum, uno scandalo. Era arrivata a
contare quasi 500 effettivi, ma al suo interno aveva un battaglione, il
battaglione Tito, formato da combattenti jugoslavi. E i battaglioni
Tito divennero due. Alfredo Filipponi, nome di battaglia "Pasquale",
comunista ternano ne era il commissario politico, ma il comandante
militare era Svetozar "Toso" Lakovic. E quegli Jugoslavi erano in gran
parte comunisti. Una brigata comunista al quadrato. Un valore aggiunto
che altre formazioni più a nord e più a ovest non hanno
avuto. E infatti queste risultarono più cielleniste, più
ecumeniche, e più attendiste, direi. La Gramsci dichiarò
la prima zona libera. Il 9 febbraio in duecento prendono Norcia senza
sparare un colpo. Il 15, scrive Filipponi,
«a mezzo manifesto murale, viene proclamata la Repubblica di
Cascia, Norcia, Monteleone, comuni dell'alta Valnerina... Pertanto la
Brigata Garibaldina Gramsci, unica autorità esistente nella zona
della nuova Italia democratica, assume la responsabilità
militare e politica di fronte a tutti gli abitanti della zona
stessa».
Nelle sue memorie "Toso" Lakovic conferma, estendendo il territorio a
Leonessa, e valutando la sua estensione in 1200 kmq.
Il 16 febbraio, i due consoli vanno a Visso per incontrare Pertini e
ottengono il riconoscimento del loro primato su altre formazioni
viciniori e concorrenti. L'epopea ha inizio. Finisce 4 mesi dopo con
l'entrata a Terni, in armi, e non disarmati come pretendevano gli
alleati.
"Alle ore 16 del 13 giugno 1944 contemporaneamente alle forze alleate i
partigiani della Gramsci investono la città a nordovest e
cioè dalla parte del Colle dell'Oro, da Pentima, Marmore e voc.
Fiore, mentre l'esercito alleato entra a Porta Romana investendo
Città Giardino e la zona del Cimitero. Terni è liberata.
E i partigiani armati entrano in una città deserta e distrutta."
Bene. È finita. Non proprio.
Filipponi entra giulivo a Terni, armato, e presiede la prima riunione
della giunta del CLN.
Gli accordi Tito-Churchill garantiscono l'intangibilità dei
partigiani jugoslavi, che continuano a combattere fino al 28, per poi
essere avviati verso Roma e la Jugoslavia.
Alfredo Filipponi, invece, il 28 giugno viene arrestato dagli inglesi e
portato nel campo di concentramento di Cesi. Come un ladro di polli.
Il 29 insieme a 60 gerarchi fascisti umbri e toscani viene trasferito
al campo di Civitacastellana, poi ad Afragola poi a Padula vicino
Salerno dove rimane per tre mesi, insieme a 2000 gerarchi fascisti.
Dovevano fargliela pagare a uno che aveva proclamato la prima
Repubblica partigiana. Dal luglio al novembre 1944 ne sorsero una
quindicina, elencate nel sito dell'Anpi. Ma la prima non c'è.
È ignorata.
Alfredo Filipponi, la Brigata Gramsci e la prima Zona libera sono uno
scandalo, sono impresentabili.
I partigiani jugoslavi rappresentano un valore aggiunto, un complemento
di organizzazione militare che si affianca e si integra con quella
politica e di classe, e permette l'autonomizzarsi politico militare
dell'intera formazione partigiana.
Se questo è vero, allora la Brigata Gramsci... non è
stata un bell'esempio.
Claudio Del Bello
Edizioni Odradek
[1] Commissario politico, poi Comandante della Brigata Gramsci
dell'Umbria.
[2] La storia rovesciata: la guerra
partigiana della brigata garibaldina “Antonio Gramsci” nella primavera
del 1944, di Angelo Bitti, Renato Covino, Marco Venanzi. ed.
CRACE, 2010.
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aggiornamento di questa pagina: 16
agosto 2011
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