Prima di mettere nero su bianco
questi miei pensieri ho voluto attendere il passaggio delle
ricorrenze del 70.mo della Liberazione dell'Italia e
dell'Europa, che ci hanno visto tutti impegnati in numerose
iniziative, poiché ritengo che certe questioni vanno
affrontate il più possibile a mente fredda, usando tutta
l'attenzione, la lucidità e la pacatezza di cui siamo capaci.
Mi riallaccio solo in parte alla
discussione pubblicamente inaugurata da Saverio Ferrari (1)
poiché era da tempo che ragionavo sulle tematiche più larghe
che vado ad esporre. Premetto che il mio intervento è motivato
dalla passione personale, che mi porta ad avere a cuore sia le
sorti dell'antifascismo in generale sia le più specifiche
sorti dell'ANPI, Associazione della quale non ho la tessera
pur frequentandone con assiduità crescente sedi, soci e
soprattutto compagni partigiani per attività connesse alla
ricostruzione storiografica oltre che per affinità
ideale.
Ferrari a mio avviso pone il tema
dell'antifascismo in un'accezione troppo larga, che travalica
ciò che può essere davvero pertinente per l'ANPI (errore "per
eccesso"); al contempo egli non tematizza, e dunque non aiuta
ad affrontare, la questione specifica del carattere e dei
compiti dell'ANPI (errore "per difetto"). Cosicché, gli
interrogativi posti da Ferrari colgono solo alcuni aspetti
nella ridda di discussioni sviluppate dentro, attorno e fuori
dell'ANPI da qualche tempo; discussioni che peraltro hanno già
portato ad alcune conseguenze e decisioni, quale è stata
quella della concreta trasformazione dell'ANPI da associazione
"chiusa" (riservata agli ex combattenti) ad associazione
"aperta" (da qualche anno possono iscriversi tutti). Per
quanto ne so io, il confronto sulla natura e sul destino
dell'ANPI prosegue molto animato soprattutto all'interno della
stessa Associazione.
Vorrei allora sgombrare il campo
da una prima questione: certamente oggigiorno c'è un buon 75%
di antifascismo che non è rappresentato dall'ANPI, ed anzi va
detto che la percentuale non ha mai raggiunto il 100%.
Non è una distinzione di lana
caprina: soprattutto, non lo è di fronte ad una estensione
direi vertiginosa del concetto di "antifascismo", e alla
concomitante perdita del senso esatto del termine "fascismo".
Succede infatti che iniziative e festival "antifascisti"
organizzati sul territorio portino in risalto battaglie e
identità che molto poco hanno a che fare con il fascismo
"storico": dai diritti LGBT ai vegani, dalla TAV al commercio
equo e solidale... Un tale allargamento della prospettiva è
accettabile solo nella misura in cui non travolge/oscura la
esigenza di precisare e difendere la specificità ed i valori
della guerra vinta contro il nazifascismo (1941-1945),
specificità e valori che hanno diritto a sedi dedicate per
essere affermati e tramandati.
Tuttavia, affermando che l'ANPI è
il consesso "dei partigiani" più che degli "antifascisti"
(tantomeno degli "antifascisti in senso lato"), ancora non
abbiamo definito esattamente l'oggetto della nostra
riflessione.
E' ben noto il dibattito sul
carattere "uno e trino" della Resistenza italiana, intesa di
volta in volta come (a) movimento di liberazione nazionale (b)
moto di emancipazione sociale (c) guerra civile tra
diverse opzioni politiche. Per di più, nelle nostrane
interpretazioni della Resistenza è normalmente eluso il
suo carattere
internazionale e internazionalista – al quale è
soprattutto dedicato il lavoro storiografico che stiamo
portando avanti in prima persona da qualche anno. (2) Di
quest'ultimo aspetto l'ANPI si è fatta interprete in ritardo e
con difficoltà: basti pensare alla recente sofferta
battaglia interna all'Associazione sulla possibilità di
tesseramento per i cittadini non italiani, o al fatto che solo
da pochissimo l'ANPI ha aderito alla Federazione
Internazionale delle organizzazioni sue omologhe (FIR). Tali
ritardi si spiegano solo e precisamente con il fatto che
l'ANPI ha a lungo operato essenzialmente come vestale di
un culto della Resistenza intesa esclusivamente come "lotta di
liberazione nazionale", cioè usando quella accezione della
Resistenza che è l'unica funzionale alle esigenze
istituzionali. Solo in tale accezione, infatti, la Resistenza
può essere presentata come atto costituente di questa Nazione
e di questo Stato ("Secondo Risorgimento").
Benché restrittiva, tale
accezione era e rimane prevalente nel discorso pubblico tanto
da essere stata addirittura rilanciata in occasione delle
recentissime celebrazioni per il 70.mo: infatti, in occasione
della sessione a Camere riunite del Parlamento, il 16 aprile
u.s., cui su invito del Presidente Mattarella hanno
presenziato un gran numero di partigiani, nei discorsi delle
autorità (cito soprattutto la Boldrini) si è voluto fermamente
ribadire che la Resistenza fu un moto "nazionale" e
"interclassista". Per converso, le celebrazioni del 70.mo
della Liberazione a livello europeo sono state sostanzialmente
minimizzate e disertate, in un frangente dei rapporti
internazionali che vede anche i nostri politici fomentatori di
una rinnovata ostilità contro la Russia.
Di fronte ai passaggi
istituzionali in corso, che con la gestione Renzi sembrano
soggetti ad una drammatica accelerazione, l'ANPI rischia di
rimanere stritolata. Va rilevato che è proprio il presidente
dell'ANPI, Carlo Smuraglia, uno dei più autorevoli critici dei
progetti di riforma istituzionale/costituzionale sul tappeto.
Allora che cosa vogliamo dall'ANPI? Vogliamo trasformarla in
qualcosa che non è mai stata? Lasciamo che sia cancellata dagli
eventi politici e biologici? Mentre gli ultimi partigiani
scompaiono, il 70.mo della Liberazione rischia di essere
veramente l'anno del "botto" dell'ANPI.
Io credo che dobbiamo
rispetto all'ANPI e perciò non le dobbiamo chiedere
l'impossibile. Dobbiamo invece porre le questioni su di un
piano più generale, che non riguarda solo il destino
dell'ANPI bensì anche la
sorte dello Stato italiano da un lato e la sorte della
storiografia della Resistenza dall'altro.
Liberare l'ANPI, liberare la
storiografia della Resistenza
Rinnovate forme di
"sovversivismo delle classi dirigenti" hanno minato la
fondazione antifascista e costituzionale della Repubblica da
molti anni oramai: su questo, o si affianca e difende l'ANPI
in tutte le sedi associative e politiche possibili, oppure
non si può pretendere proprio nulla dall'ANPI. Negli
anni si è alzata la voce allarmata di chi ha parlato di
tradimento della Resistenza, di chi ha ricordato la
persecuzione antipartigiana del dopoguerra... Se l'ANPI non
poteva reagire a suo tempo, tantomeno la si può caricare di
ogni responsabilità per le sconfitte politiche che abbiamo
subito tutti: si tratta casomai di proseguire in ogni sede
con le battaglie per la democrazia e la giustizia sociale
che i partigiani iniziarono. Anche la battaglia contro le
nuove destre, non riguarda solamente l'ANPI e l'ANPI in
nessun caso potrebbe farsene carico da sola.
Dunque l'ANPI non deve essere
sovraccaricata di funzione politica, bensì eventualmente
deve esserne emancipata, poiché è stata la politica che,
per troppo tempo, ha "tenuto schiava" l'ANPI.
La questione a mio avviso si
pone in maniera esattamente opposta per quanto riguarda la
funzione "storiografica" dell'ANPI, che le è stata
sottratta e dovrebbe esserle in qualche modo restituita.
La politica ha
oggettivamente condizionato la scrittura della Storia
della Resistenza in Italia, per alcuni versi impedendola.
Essa ha costretto l'ANPI a ruoli cerimoniali e ha demandato
ad altre sedi la storiografia; ma quali sono queste altre
sedi? Nel migliore dei casi sono sedi accademiche e
para-accademiche, in particolare la rete ISMLI che, fondata
66 anni fa da Ferruccio Parri, è stata ristrutturata ad hoc
a partire dagli anni Settanta, assumendo infine una funzione
quasi "totalitaria" di scrittura della Storia della
Resistenza attorno agli anni Novanta. Ebbene sulla attività
di questi Istituti dell'ISMLI sarebbe necessario sviluppare
una riflessione critica non meno importante di quella che
riguarda l'ANPI. Da anni è in atto un processo di mutazione,
spesso evidenziato dal cambiamento di nome – dalla "Storia
della Resistenza" o "del Movimento di Liberazione" alla
"Storia Contemporanea" –, per cui si tende ad occuparsi di
ogni sorta di questioni che riguardano la contemporaneità e
la realtà locale, dalle analisi paesaggistiche alle
tradizioni culinarie, creando pesanti discontinuità quando
non proprio dismettendo la funzione iniziale. Questo in un
contesto in cui, nel corso di settant'anni e ancora oggi, si
è sviluppata una rigogliosa sub-letteratura memorialistica
locale e individuale sugli eventi della II Guerra Mondiale e
sulla Resistenza, che per uno storico è ardua da manipolare
ma che rappresenta in troppi casi l'unica fonte, benché
secondaria, per la ricostruzione di eventi anche cruciali.
Se aggiungiamo che le politiche archivistiche in questo
campo sono state assenti o incoerenti, e che da un certo
punto in poi si è colpevolmente sostituita una estetizzante
ricognizione della "memoria" alla scientifica ricostruzione
della Storia, il risultato netto è che la storiografia della
Resistenza a 70 anni dagli eventi è lacunosa, dannatamente
frammentata e prevalentemente ad uso e consumo delle
necessità di portare acqua al mulino di interpretazioni di
comodo.
Cosicché, chiunque si occupi
di questi temi incappa in una serie di paurosi
"buchi" storiografici. D'altronde, il revisionismo, poi
diventato rovescismo, si è innestato sulla narrazione già
incompleta di una "guerra di liberazione nazionale" cui si
sarebbe dovuto premettere il racconto di crimini di guerra
italiani ed affiancare il contesto di una Resistenza che è
stata internazionale e internazionalista più ancora che
"italiana". Di tutto questo in molti partigiani combattenti
c'è (o c'era) perfetta contezza: bisogna restituire a loro
la parola, se non materialmente, almeno attraverso le
testimonianze che hanno lasciato.
Bisogna soprattutto restituire
la parola ai tanti partigiani che nel dopoguerra sono stati
emarginati, costretti alla emigrazione o alla irrilevanza
politica, e che in molti casi hanno persino rinunciato a
impegnarsi attivamente nell'ANPI o in altre realtà
consimili. E' il caso ad esempio di decine di migliaia
di partigiani italiani all'estero, le cui vicende sono
colpevolmente trascurate, come quelle dei partigiani
stranieri in Italia.
Sintesi conclusiva
Dal 1945 in poi si è imposta
una chiave di lettura totalizzante per la vicenda della
Resistenza in Italia, quella di una lotta di liberazione
*nazionale* contro l'occupante *straniero* (tedesco). Questa
operazione è stata possibile, e per certi versi anche
legittima, nel contesto della Guerra Fredda, in virtù
di una convergenza "multi-partisan" che oggi però mostra il
segno. Di fronte ad attacchi perduranti rivolti contro
*tutta* la memoria partigiana, è perdente e
controproducente, oltreché anacronistica, la tendenza a
forzare, ancora, la memoria storica nell'angusta
strettoia "nazionale". In particolare, l'ANPI può farsi
portatrice e promotrice di una visione più complessiva e
meno "istituzionale" della vicenda partigiana, allentando i
condizionamenti politici e tornando ad avocare a se anche
una funzione di tipo storiografico, culturale, didattica e
divulgativa.
Definitivamente abbandonato
lo status di associazione combattentistica – dal
quale derivano solo vincoli e nessun vantaggio
– l'ANPI dovrebbe a mio
avviso in primis mantenere la funzione di depositaria
della memoria storica dei partigiani combattenti, non solo
e non tanto in senso morale-celebrativo quanto proprio nel
senso concreto delle storie vissute e della loro
documentabilità, recuperando le troppe memorie relegate
nell'oblio a causa di contingenze politiche non favorevoli.
Solo a queste condizioni l'ANPI può continuare nel proprio
percorso, anche dopo la scomparsa della generazione dei
partigiani, via via accogliendo anche le memorie degli altri
antifascisti del passato e del presente e valorizzandole.
E' solo da tale tesoro di
esperienze reali che all'ANPI deriva quella autorità morale
per cui può indicare alla pubblica opinione che cosa sono
stati il nazifascismo e le sue politiche di guerra, e come e
perché il loro riaffacciarsi deve essere scongiurato.
(1) Lo scambio tra il
saggista Saverio Ferrari e il presidente nazionale dell'ANPI
Carlo Smuraglia è riprodotto integralmente di seguito.
---
IL TESTO DELL’ARTICOLO DI SAVERIO
FERRARI (OSSERVATORIO
DEMOCRATICO NUOVE DESTRE) SUL “MANIFESTO” DELLO SCORSO 4 MARZO 2015, LA
RISPOSTA DEL PRESIDENTE NAZIONALE DELL'ANPI CARLO
SMURAGLIA SU ANPI NEWS E IL COMMENTO FINALE DI FERRARI:
Saverio Ferrari: L’ANPI BATTA UN COLPO VERSO
I NUOVI MOVIMENTI
L’antifascismo è oggi sempre più stretto fra
due derive opposte. Tra la parte istituzionale, incarnata
dall’Anpi, da un lato, e l’antifascismo antagonista e
giovanile, dall’altro.
L’Anpi in questi ultimi anni ha cercato di
rinnovarsi. Un’operazione riuscita a metà. Sono arrivate
nuove iscrizioni, spesso di militanti in fuga dai partiti
di sinistra, e si è assistito a una ripresa di vitalità.
Ma in diverse situazioni si sono anche manifestate
chiusure e indisponibilità al dialogo con le nuove
generazioni. Un panorama vario e articolato, città per
città. Prevalente è stato però, nel complesso,
l’affermarsi di un profilo marcatamente istituzionale, con
un’attività di tipo celebrativo quasi esclusivamente
rivolta al passato. Lontano dal cogliere nella sua portata
l’attualità e il pericolo delle nuove spinte xenofobe e
razziste, quanto dell’irrompere sulla scena di nuove
destre, nostalgiche e populiste. Emblematico il caso
milanese, dove l’Anpi ha considerato “pericoloso”
mobilitarsi il 18 ottobre scorso contro la manifestazione
nazionale della Lega e di Casa Pound, con migliaia di
camicie nere e verdi in piazza Duomo. Sistematica la
rinuncia, anche in seguito, a contrastare ulteriori
iniziative dell’estrema destra, tra l’altro in piazza
Della Scala, sotto il comune, come di recente accaduto.
L’opposto di Roma dove, invece, l’Anpi è scesa in piazza,
senza tentennamenti, sempre contro Lega e Casa Pound, a
fianco dei centri sociali, in un vasto schieramento
antifascista, mobilitando decine di migliaia di persone.
Due linee.
UNA REPUBBLICA ANCORA ANTIFASCISTA?
Vi sono certamente, sullo sfondo, le
difficoltà del gruppo dirigente nazionale dell’Anpi a
comprendere appieno alcuni mutamenti in corso nelle stesse
istituzioni, sempre meno rispondenti al dettame
costituzionale. In tutta Italia si tengono da anni
iniziative pubbliche apologetiche del “ventennio”, con il
costituirsi di formazioni apertamente neofasciste e
neonaziste, con tanto di corollario di atti violenti,
senza alcun vero contrasto istituzionale (si perseguono
solo “i casi limite”). Ciò a prescindere dal succedersi di
governi, ministri dell’interno, questori e prefetti, in
una sorta di assoluta continuità. Un dato di fatto. Come
la sospensione dell’applicazione di leggi ordinarie, in
primis la legge Mancino, istituita proprio per contrastare
l’istigazione all’odio razziale, etnico e religioso. Alla
stessa Anpi, quando protesta, si replica asserendo la
legittimità di tutti a esprimersi, fascisti compresi. Allo
stesso modo si risponde alle interrogazioni parlamentari,
a volte di deputati e senatori del Pd, paradossalmente da
parte di altri esponenti del Pd al governo. Una
rilegittimazione dei fascisti ormai avvenuta. Una nuova
fase nella storia della Repubblica, al passaggio epocale
del cambiamento della sua carta costituzionale. Affidarsi
alle istituzioni democratiche per combattere i fenomeni
neofascisti sta divenendo un evidente controsenso.
Bisognerebbe prenderne coscienza. La crisi
dell’antifascismo passa anche da qui.
Lo stesso futuro dell’Anpi appare incerto
all’avvicinarsi del suo prossimo congresso nazionale.
L’opposizione manifestata alle riforme in campo, sia
elettorali sia costituzionali, sta producendo continui
tentativi di contenimento, soprattutto attraverso l’azione
del Pd ai livelli locali, volta a depotenziare, sfumare,
se non apertamente intralciare, la linea ufficiale. Il
rinnovo, in programma, del presidente nazionale
dell’associazione sarà probabilmente l’occasione per
cercare di “riallineare” l’Anpi, confinandola
definitivamente a funzioni meramente celebrative.
Un’eventualità più che concreta.
L’ALTRO MOVIMENTO
Lontano dall’antifascismo istituzionale si
muove ormai da diversi anni un’area composita di giovani
organizzati in centri sociali, collettivi e associazioni,
presente su una parte importante del territorio nazionale.
Quasi un mondo a parte con cui l’Anpi il più delle volte
rifiuta il dialogo. A questa realtà si deve spesso
l’iniziativa di contrasto, in tantissime città, delle
iniziative razziste e neofasciste. La loro generosità
ricorda da vicino i «reietti e gli stranieri» di cui
parlava negli anni Sessanta Herbert Marcuse ne L’uomo a
una dimensione, quando negli Stati Uniti scendevano nelle
strade per chiedere «i più elementari diritti civili»,
affrontando «cani, pietre e galera», a volte «persino la
morte» negli scontri con la polizia. Rappresenta nel suo
complesso una realtà antifascista di tipo diverso, per
nulla istituzionale e poco propensa al perbenismo,
cresciuta con propri simboli (le due bandiere
dell’“antifa” sovrapposte, mutuate dalle battaglie di
strada dei comunisti tedeschi a cavallo degli anni Trenta
contro le squadre d’assalto naziste) e propri modelli
storici, gli Arditi del Popolo, in primo luogo,
espressione di un’unità dal basso dei militanti di
sinistra oltre le appartenenze politiche.
Come nel caso recente di Cremona (gli scontri
a gennaio dopo il ferimento quasi mortale di un militante
di un centro sociale da parte degli squadristi di casa
Pound), quest’area, a volte, fa prevalere l’azione diretta
rispetto a ogni altro calcolo politico, restando priva di
sbocchi e isolata anche dalla sinistra politica.
L’esigenza di un nuovo movimento antifascista
è più che matura. Un movimento necessariamente plurale,
aperto alle nuove generazioni, privo di steccati e
istituzionalismi fuori tempo, in grado di relazionarsi con
il presente e i pericoli rappresentati dagli attuali
movimenti razzisti e neofascisti. La stessa capacità di
trasmettere la memoria della Resistenza non può che
partire da qui, per non ridursi a vuota retorica. Un
rischio già presente. Questo nuovo movimento non può che
nascere dal confronto e dalla capacità di dialogo fra i
diversi antifascismi. Sarebbe il caso che per prima l’Anpi
battesse un colpo.
SAVERIO FERRARI
Milano, 3 marzo 2015
*********************************+
ANPI NEWS n. 157 – 31 marzo/7 aprile 2015:
NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI CARLO
SMURAGLIA:
Quasi un mese fa, ho letto un articolo di
Saverio Ferrari su “il manifesto”, intitolato: “Appello
all’ANPI: guardi ai nuovi antifascisti”. Un articolo molto
ampio, in cui si fornisce un quadro non proprio esatto
dell’ANPI di oggi e del suo antifascismo,
contrapponendogli un quadro di “nuovi” movimenti
antifascisti, a cui si dovrebbe, praticamente - secondo
l’A. - l’unica vera ed efficace iniziativa di contrasto
del riemergente neofascismo e neonazismo. Non occorrono
molte
parole per confutare un simile assunto.
Anzitutto, ragioniamo sull’immagine dell’ANPI,
che avrebbe cercato – senza riuscirci – di innovarsi,
mantenendo tuttavia uno spiccato carattere “istituzionale”
e “collaborativo”.
Strano che Ferrari, che pure è stato – fino a
poco tempo fa – componente anche di un organismo dirigente
periferico (dell’ANPI), ci conosca così poco.
Teniamo viva la memoria, è vero, ma è nostro
dovere (altrimenti, chi lo farebbe?), e comunque ci
sforziamo di renderla attiva, per aiutare soprattutto a
conoscere i fatti della storia, anche perché servano di
esempio e di monito per il futuro e favoriscano la
riflessione storica.
Ma facciamo anche tante altre attività; ci
occupiamo della scuola e della “cittadinanza attiva” (vedi
il protocollo di intesa sottoscritto col MIUR il 24 luglio
2014 e in corso di attuazione), ci occupiamo delle stragi
nazifasciste degli anni ‘43-‘45, non solo partecipando
alle iniziative di ricordo, ma anche promuovendo seminari
e convegni per irrobustire, con gli storici, la conoscenza
di tutto quanto è accaduto; mettendo in cantiere un
“Atlante delle Stragi”, che sarà d’importanza storica e
per il quale siamo riusciti ad ottenere un finanziamento
da parte della Germania; ci occupiamo delle riforme
costituzionali, contrastando con forza ed energia quelle
che ci appaiono non come modifiche, ma come stravolgimenti
della Carta costituzionale; ci occupiamo di diritti, di
pace, di lavoro, esercitando quella “coscienza critica”
che ci è stata indicata come un dovere primario da parte
del Congresso nazionale del 2011;
ci occupiamo di donne, di emancipazione, di
libertà e uguaglianza; e tantissimo, di formazione non
solo dei giovani ma anche dei nostri dirigenti.
E tutto questo non è né statico né tanto meno
“istituzionale” (ma cosa vuol dire, alla fine, questa
espressione?).
Ci occupiamo, e molto, piaccia o no a chi
chiede che l’ANPI “batta un colpo”, di antifascismo, non
solo perché siamo sempre attivi nel richiamare gli organi
istituzionali ed elettivi al ruolo che loro è assegnato da
una Costituzione profondamente e nettamente antifascista,
in tutte le sue norme, i suoi princìpi ed i valori che
esprime, ma anche perché cerchiamo, in tutte le forme
possibili, di contrastare i movimenti neofascisti e
neonazisti, che si stanno sempre più
espandendo, nonostante le nostre iniziative e
nonostante gli sforzi di quello che Ferrari definisce come
“l’altro movimento”.
Non a caso, abbiamo tenuto un Seminario, su
questi temi, con l’Istituto Cervi e nella sua sede; non a
caso abbiamo tenuto un Convegno, a Roma, nell’aprile 2014
proprio sul modo di contrastare questi fenomeni. A quel
Convegno avevamo invitato tutte le istituzioni (dico
tutte) e sono venuti solo due parlamentari! Poi abbiamo
pubblicato e diffuso un opuscolo che riassume i contenuti
di quel Convegno e in cui sono collocate, in appendice,
due sentenze
della Corte di Cassazione che considerano
reato il saluto romano in luogo pubblico, fornendo così
indicazioni precise ai nostri organismi periferici perché
si attivino sempre, contattino Sindaci, Prefetti,
Questori, facciano denunce all’Autorità giudiziaria,
insomma scuotano il silenzio e l’indifferenza con cui il
nostro Paese affronta (o meglio, non affronta) un problema
che è grave, storicamente e politicamente, e denso di
incognite per il futuro.
Certo, noi preferiamo i presìdi agli scontri
frontali, evitiamo le occasioni di contrasto violento,
cerchiamo di coinvolgere i cittadini e non di
allontanarli, ma non manchiamo di adottare, in ogni
occasione, le iniziative che riteniamo utili, o anche solo
opportune. Bisogna riconoscere che gli esiti di questo
impegno sono, a tutt’oggi, ancora limitati. Ma ottiene
qualcosa di più “l’altro movimento”? Un corteo, uno
scontro, sono più efficaci di un presidio? La realtà ci
dice di no e ci insegna che ciò che conta è non
rassegnarsi mai e contestare sempre le iniziative
neofasciste, assumendo per primi le iniziative necessarie
per controbatterle, per ottenere che vengano impedite, per
suscitare le reazioni che dovrebbero provenire proprio
dagli organi dello Stato e dagli Enti locali.
Tutto questo è un “calcolo politico”, come
sembra sostenere l’articolo? Non è così, anche se è ovvio
che bisogna dotarsi, contro un fenomeno grave e
pericoloso, di una qualche strategia.
Non la intravvedo, questa strategia,
nell’articolo, anche se presentata con una certa enfasi,
ma in realtà limitata ai cortei, che talora sono utili, se
richiamano l’attenzione e coinvolgono i distratti, ma sono
semplicemente rischiosi se conducono ad uno scontro,
quanto meno privo di effetti positivi. Che sia meglio
unire le forze, non è dubitabile, ma bisogna farlo con un
minimo di umiltà e di vera disponibilità, senza essere
convinti di essere gli unici detentori della verità. Ci si
chiede di “battere un colpo”; ma su che cosa, se siamo già
in campo da
sempre e continuiamo, doverosamente e
quotidianamente, ad interrogarci se quanto facciamo è
sufficiente o possiamo e dobbiamo fare qualcosa di più
efficace e come?
Io sono convinto che il problema principale
stia in questo Stato, che non riesce a diventare
antifascista, che non sente la memoria come un valore da
coltivare, che non si pronuncia neppure di fronte ai
fenomeni più gravi e appariscenti. Sono convinto che se il
Ministero degli Interni desse direttive precise e conformi
alle linee ed ai valori della Costituzione, se i
rappresentanti periferici dello Stato si adeguassero, se
tutti i Sindaci facessero capire con chiarezza che nel
territorio che amministrano, i fascisti e i nazisti,
comunque si chiamino, non sono graditi, qualcosa
comincerebbe a cambiare. E sono convinto che bisogna
superare quel muro di indifferenza e disimpegno che
caratterizza tanta parte degli italiani. Se su questo si è
disposti a svolgere un’azione comune, noi siamo già in
campo e non abbiamo alcun bisogno di inventare nuovi
organismi, mentre sentiamo forte l’esigenza di un
antifascismo diffuso.
Non a caso in molte città esistono da tempo
“Comitati antifascisti”, nei quali c’è sempre l’ANPI, che
cercano di realizzare il coordinamento di azioni e unità
di intenti; soprattutto c’è l’ANPI, che ha aperto dal 2006
agli “antifascisti” e ne ha tratto enorme vantaggio, non
per i numeri ma per la crescita delle idee, dei confronti,
delle proposte, delle iniziative.
Se abbiamo ancora bisogno di “crescere”, come
sostiene l’articolo, ci si dia un contributo di idee e di
proposte, ma non si pretenda di risolvere il problema
contrastando proprio la forza più determinata e forte che
è impegnata, su questo terreno, praticamente dalla
Liberazione.
Non c’è da inventare nulla di nuovo; abbiamo
suggerito di prendere sempre le iniziative più
“tempestive”, di organizzare presìdi quando occorre e di
fare manifestazioni quando sono idonee non solo a
richiamare l’attenzione, ma anche ad allargare il fronte
antifascista, anziché rinchiuderlo in un recinto. Abbiamo
anche fornito gli strumenti per investire l’Autorità
giudiziaria dell’esigenza di far applicare le leggi che ci
sono, checché se ne pensi; stiamo organizzando un incontro
di riflessione per capire meglio che cosa attrae i giovani
e che cosa può suscitare in loro positivi ed efficaci
entusiasmi, nel solco della Costituzione. Possiamo
sbagliare, possiamo avere incertezze e dubbi sulle
iniziative da intraprendere, ma cerchiamo di fare sempre
meglio e di più, senza avventure. Se esiste un problema
dei giovani (che dobbiamo cercare di capire noi, prima di
ogni altra cosa), bisogna affrontarlo con serietà e
approfondimento, nello sforzo di individuare una strada,
suscitare interessi, proporre precise scelte di campo,
rendendoci conto che anche fra loro ci sono differenze,
modi di vedere ed agire diversi; e soprattutto che nessuno
ne può rivendicare il monopolio. Nelle loro mani sta il
futuro del Paese: sono loro che dovranno combattere le
battaglie necessarie per preservare la democrazia da ogni
pericolo; anche loro, però, dovranno fare le loro
riflessioni e mettere in campo ricerche di identità e di
prospettive. Noi possiamo confrontarci, anche
richiamandoci alle nostre esperienze, per quel che valgono
e fornire qualche spunto di riflessione, però con l’umiltà
di chi ha sperimentato in concreto il valore e il
significato delle “scelte” e non pretende che vengano
adottate come modello, ma al più siano oggetto di
conoscenza e di riflessione. Siamo di fronte a fenomeni
che sembravano inimmaginabili, in una Europa che ha
vissuto gli orrori della dittatura, della persecuzione dei
“diversi”, della barbarie più disumana.
Tutto questo non è bastato a vaccinarci,
tutti, contro il pericolo di ritorni al passato, anche se
in forme diverse. Dobbiamo, dunque, fare di più e meglio,
dobbiamo capire come e perché nascono certi movimenti e
perché suscitano attenzione anche da parte dei giovani; e
dobbiamo cercare di combatterli in forme unitarie, ma
capaci di ampliare il consenso. Lo facciamo, tutto questo,
senza iattanza, ma con convinzione e fermezza e con la
ricerca continua di andare oltre gli schemi che già
conosciamo, soprattutto per creare, nel Paese, un vero
“clima “ antifascista . Siamo pronti, come indica il
documento politico del Convegno di Torino, ad essere la
“casa degli antifascisti” se sono disponibili anche al
confronto e se considerano con attenzione tutto ciò che,
talora faticosamente e magari qualche volta sbagliando,
cerchiamo di fare. Non c’è bisogno, dunque, di case
“nuove”, perché una l’abbiamo già e da molto tempo ed è
una casa aperta per tutti coloro che vogliono,
sinceramente e lealmente, perseguire l’obiettivo di un
Paese più intimamente e profondamente antifascista e
caratterizzato da una più solida democrazia.
*********************************+
COMMENTO FINALE DI SAVERIO FERRARI:
La risposta del presidente nazionale dell’Anpi
Carlo Smuraglia in realtà è una non-risposta. Dopo più di
un mese si è solo degnato di un commento sul bollettino
interno dell’Anpi. Come dire: quell’articolo un dibattito
pubblico non lo merita. Un atto di supponenza.
Per altro, con ogni evidenza, l’articolo
uscito sul Manifesto, non è stato nemmeno davvero letto,
preferendo procedere attraverso il metodo della
caricatura. Lo schema è il seguente: da un lato c’è l’Anpi
che agisce a tutto campo e che si impegna anche nei
confronti delle istituzioni, ammettendo comunque non solo
di non aver più sponde politiche in Parlamento, ma anche
di non aver in questo campo conseguito alcun risultato,
non traendo però l’ovvia conclusione che forse le stesse
istituzioni stanno mutando natura (una delle
considerazioni su cui si invitava a una riflessione),
dall’altro si muove un informe movimento attraversato da
pulsioni violente con cui nulla si vuole aver a che
fare.
Conclusione: c’è solo l’Anpi, non esiste
nessuna altra realtà antifascista, tantomeno nata fra le
nuove generazioni, qualora esistesse, è solo il frutto di
un’invenzione o parte di una combriccola di teppisti,
rimaniamo nella nostra torre d’avorio, autosufficienti e
autoreferenziali. Non discutiamo, infine, con nessuno che
ci pone problemi o mette in discussione le nostre
certezze.
Peccato. Si tratta dell’ennesima occasione
mancata per mettere l’Anpi in sintonia con la realtà. Fino
a quando si penserà di poterlo fare?
SAVERIO FERRARI
Milano, 7 aprile 2015