ORATORE UFFICIALE ALLA COMMEMORAZIONE DEL 59° ANNIVERSARIO
DELL'ECCIDIO DI FONDOTOCE
sono passati quasi sessant'anni
da quel terribile 20 giugno 1944 ed
ancora oggi si stenta a credere che un popolo civile come
quello
tedesco che ha dato i natali a kant, a Goethe, a Schiller, a
Thomas
Mann, possa essersi macchiato di questo e di altre migliaia di
crimini,
in Italia e in Europa. Sembra impossibile che un paese che ha
ascoltato
la predicazione di un geniale riformatore religioso come
Martin Lutero,
che si scagliava contro il mercato delle indulgenze per
proclamare il
primato della fede, abbia perso completamente la fede in Dio e
negli
uomini, per ritornare ai riti pagani di Odino e del Walhalla,
e per
sprofondare nella peggiore barbarie, nella quale sarebbe stato
possibile concepire persino l'Olocausto. Eppure ciò è
accaduto. Qui. in
questa vasta sana affossata. ai confini tra il Verbano e
l’Ossola, la
generazione educata da Hitler ha voluto darci un esempio di
come si può
creare l'inferno in terra, con tutti i suoi gironi, ì suoi
tormenti, i
suoi spasimi.
Se noi ripercorriamo la via crucis dei 43 partigiani, che ha
inizio
dalle cantine dell'Asilo infantile di Malesco, ci accorgiamo
che i
nazisti intendono inscenare uno spettacolo, il più odioso e
macabro
possibile, per ricordare alle popolazioni della regione, che
hanno
osato sfidare il soldato tedesco, che esso è intoccabile ed
impunibile,
in quanto appartiene ad una razza superiore, destinata a
governare
l'Europa e forse, col tempo, anche l'intero pianeta. Che egli
appartenga
al popolo eletto, all'Herrenvolk, lo scandisce la precisa
disposizione del
feldmaresciallo Albert Kesserling: per ogni tedesco ucciso
debbono
pagare con la vita dieci italiani.
Sono le ore 15 del 20 giugno quando un reparto di SS preleva
dalla
cantina di Villa Caramona, ad Intra, i quarantatrè partigiani
delle
formazioni "Mario Flaim", "Cesare Battisti" e "Giovine Italia"
rastrellati in VaI Grande. E subito ha inizio lo spettacolo,
secondo
una regia malvagia. In testa alla colonna vengono posti il
tenente Ezio
Rizzato, dal volto "orribilmente tumefatto per le percosse
ricevute"
riferirà un testimone;
Cleonice Tomassetti, che si è attirata l'odio degli aguzzini
per aver
invitato compagni a morire con dignità; e due altri partigiani
che
reggono un cartello, che recita: "Sono questi i liberatori
d'Italia
oppure sono banditi?". Seguono gli altri condannati; a morte,
sotto 'la
stretta sorveglianza dei nazisti. È una giornata
particolarmente afosa
e il cammino da Intra a Fondotoce è lungo, sembra infinito.
Quasi tutti
i partigiani recano i segni delle violenze e delle torture
subite a
Malesco e a Intra. Alcuni hanno il viso coperto di sangue,
irriconoscibile. Altri camminano a stento per le percosse
ricevute agli
arti inferiori. La colonna lascia Intra, attraversa Pallanza,
poi Suna
ed infine l'abitato della frazione di Fondotoce. Se i nazisti
contavano
su di uno spettacolo ammonitore, tale da ricordare per secoli
il furore
tedesco, debbono ricredersi. Le strade sono deserte. I
cascinali sbarrati.
Le finestre chiuse. La nostra gente osserva si il corteo dei
morituri,
ma di nascosto, Soffre e prega. La marcia della morte dura tre
lunghissime
ore. Alle 18 la colonna giunge sul greto del canale che
allaccia il lago di
Mergozzo al lago Maggiore.
E il luogo scelto dai nazisti per la strage. Qui i quarantatrè
partigiani vengono avviati al plotone di esecuzione tre per
volta.
Tutti si comportano in modo ammirevole, a cominciare
dall'umile
Cleonice Tomassetti, che cade gridando "Viva l'Italia libera".
Il tragico
cerimoniale dura un'ora.
Poi i colpi di grazia. Dai quali si salva Carlo Suzzi, seppure
ferito
in più parti.
Di questo episodio, uno dei più gravi dell'occupazione
tedesca,
dobbiamo conservare per sempre la memoria. Senza dimenticare
un solo
particolare, una sola brutalità, un solo gesto dì riscatto.
Ci aiutano a ricordare i versi, bellissimi, di Dante Strona:
Fondotoce / una parola
lunga, come respiro / per un sonno di pace / su
cuscini d'alghe / sul muro
dei fucilati / il capelvenere dei vent’anni /
al tramonto, l'onda si
colora / come quel giorno.
Degli aguzzini del 20 giugno 1944, ed erano tanti, si sono
perse
ovviamente le tracce. Molto probabilmente la storia del loro
crimine è
contenuta in uno dei 695 fascicoli gelosamente custoditi per
decenni
nell"'armadio della vergogna". Come è noto, pochissimi
processi furono
celebrati nel dopoguerra contro i criminali nazisti. I
generali von Mackensen
e Maltzer, incriminati per la strage delle Fosse Ardeatine,
furono condannati
alla pena capitale, presto commutata nell'ergastolo. Ma nel
1952, tanto von
Mackensen che Kesserling, venivano rimessi in libertà. E noi,
oggi, sappiamo
anche il perché. Come hanno riferito gli storici Filippo
Focardi e Lutz
Klinkhammer, la diplomazia e il Governo italiani decisero di
limitare
le rivendicazioni nei confronti dei criminali di guerra
tedeschi per
paura che un'azione energica contro i tedeschi si ritorcesse a
danno
dell'Italia, impegnata a proteggere i propri cittadini
reclamati per
crimini di guerra da Stati esteri (in prima fila, dalla
Jugoslavia)".
Mai baratto fu più odioso ed immondo. Ma non era che il
principio. Chi
è avanti negli anni, come chi vi parla, ricorderà benissimo
che nei
primi anni del dopoguerra furono istruiti moltissimi processi
contro i
partigiani, mentre una sciagurata amnistia mandava assolti
migliaia di
criminali. fascisti e nazisti. Non mancarono neppure i
tentativi per abbattere
la Repubblica nata dalla Resistenza.
Il più clamoroso fu quello del governo Tambroni, d'intesa con
i
neofascisti del Movimento Sociale Italiano, per fare
dell'Italia una
copia della Grecia dei colonnelli.
Falliti i golpe contro la Repubblica (non va dimenticato
quello di
Junio Valerio Borghese, già comandante della X° Flottiglia MAS
e
alleato di Hitler nei seicento giorni di Salò), sì tentava di
nuocere
all’epopea della Resistenza con mezzi più subdoli e malvagi.
Ad
esempio, riducendone il valore sotto il profilo militare,
sminuendo il
suo apporto alla vittoria finale, anche se il primo a
riconoscerlo e ad
apprezzarlo era lo stesso generale americano Mark Clark,
comandante in
capo delle forze alleate in Italia.
Per chi le ha dimenticate, le sue parole di elogio,
pronunciate il 30
aprile subito dopo la sua entrata nella Milano liberata dalle
forze
partigiane, vogliamo oggi ricordarle:
"Patrioti ora che la guerra è finita, sento il dovere di
rivolgere a
voi che con la vostra azione avete tanto contribuito al
conseguimento
della vittoria, il mio profondo compiacimento. Siete stati
degni delle
nobili tradizioni lasciate in retaggio dai martiri e dagli
eroi del
Risorgimento. Avete dato alla causa della civiltà democratica
tutto
quanto era in vostro potere. Ciò non sarà dimenticato".
Non sono parole di circostanza. E neppure dettate
dall'emozione. Uomo
di guerra, abituato a muovere sui vari fronti centinaia di
migliaia di
uomini ed a valutare le perdite nella fornace di una guerra
moderna, il
generale Clark sa perfettamente che cosa significano 44.720
partigiani
uccisi e 21.168 invalidi. Sa che è stata una guerra di popolo,
una guerra di
liberazione dallo straniero, che ha mobilitato 364.773 fra
partigiani
combattenti e patrioti. Ossia il più vasto e spontaneo
movimento
popolare che la storia d'Italia ricordi.
Il generale Clark è anche in grado di valutare lo
straordinario apporto
della Resistenza nelle operazioni di antisabotaggio e nella
difesa
dell'apparato produttivo. Le centrali idroelettriche
dell'Ossola
vengono poste in salvo grazie ai partigiani. E sono ancora i
partigiani
a salvare il porto di Genova, che genieri del generale Gunther
Meinhold
avevano minato. Questi fatti, queste cifre, vengono troppo
spesso
dimenticati. O addirittura contestati, contro ogni evidenza.
Un altro modo di denigrare il movimento partigiano è quello di
enfatizzarne le supposte fratture e rivalità. L'eccidio di
Porzus, ad
esempio, viene spesso usato a questo scopo, dimenticando che
l'increscioso episodio di Porzus è un caso isolato e scontato
in una
guerra per bande che ha coinvolto alcune centinaia di migliaia
di
combattenti di tutte le estrazioni sociali. Per fare un
paragone si
pensi alla guerra di liberazione dell'Algeria, che ha
mobilitato meno
dì un terzo delle forze partigiane italiane e che ha causato,
per
dissidi interni al Fronte di Liberazione Nazionale e relative
purghe,
ben 13 mila morti.
Ma il compito del revisionismo storico, che da mezzo secolo
infuria nel
nostro paese, con la pretesa dì ristabilire la verità su quel
periodo
storico, è proprio quello di offuscare e dì distruggere
l'immagine
radiosa della Resistenza con limitazioni e calunnie. "Ma
quando una
causa è stata difesa con così possente lotta di popolo -
scriveva Cino
Moscatellì nel 1958 - questa causa non muore. Lo spirito
garibaldino non muore.
Esso animerà sempre i figli migliori della terra nostra finché
ci siano
tenebre da fugare, servitù da abbattere, ingiustizie da
vincere".
Da qualche tempo si assiste anche ad una nuova manovra,
altrettanto
subdola e da respingere con fermezza. Si tratta della pretesa
di
equiparare i partigiani ai militi di Salò, e ciò in base alla
considerazione che entrambi gli schieramenti hanno combattuto
per la
stessa patria e molti, nei due campi, si sono sacrificati per
essa. Il
risultato di questa equiparazione - si sostiene a destra, ma
non soltanto a
destra - è la riconciliazione fra i partigiani e i "ragazzi di
Salò" una
riconciliazione che dovrebbe porre fine a sessant'anni di
polemiche, di
scontri, di incomprensioni. Anche se sono passati sessant'anni
dai
giorni della Resistenza e i nostri animi sono sicuramente più
inclini
al perdono e alla comprensione, una tale proposta non può che
essere
respinta. Perché si tratta di una proposta insostenibile,
antistorica e
soprattutto ingiusta.
Non si può porre sullo stesso piano i partigiani, che si sono
battuti
per cacciare dall'Italia il tedesco invasore e per riportare
nel paese
le istituzioni democratiche abbattute dalla dittatura
fascista, e i
"ragazzi di Salò" e i loro padri, che hanno combattuto per
ridare fiato
al fascismo e per mantenere l'Europa sotto il tallone nazista.
Non si
può mettere sullo stesso piano vittime e carnefici,
combattenti per la
libertà ed alleati dei creatori dei lager di sterminio
Con quale coraggio si propone oggi una riconciliazione quando
ogni
giorno si verificano in Italia episodi di intolleranza, di
teppismo, di
antisemitismo. Soltanto negli ultimi mesi sono state profanate
le tombe
e le lapidi commemorative di partigiani a Torino, Modena,
Genova,
Coreglia Ligure, Mira Taglio, Cernobbio e al sacrario della
Benedicta.
Per non parlare delle scritte di matrice neofascista e delle
svastiche apparse
a Roma, Milano, Treviso, Pistoia, Cesena, Lucca, Ameglia,
Montebelluno di
Treviso e in altre decine di
località. E lungo sarebbe l'elenco delle
aggressioni neofasciste, culminate a Milano, il 17 marzo, con
l'uccisione del giovane antifascista Davide "Dax" Cesare e il
ferimento
di Antonino Alesi. Ma non basta. Don Gianni Baget Bozzo noto
consigliere del premier Berlusconi, e alcuni parlamentari di
Forza
Italia e di Alleanza Nazionale hanno in animo di presentare
una
proposta di legge per abolire la festa del 25 aprile, con
l'assurda
giustificazione che la lotta di liberazione non sarebbe stata
un
movimento popolare ed avrebbe anzi diviso la coscienza
nazionale. La
proposta non è ancora arrivata in parlamento, ma ciò che è
accaduto il
25 aprile scorso e nella vigilia sembra una prova generale per
la sua
abolizione. Per cominciare, a Treviso, il vecchio partigiano
Agostino
Pavan è stato bersagliato dai leghisti con monetine mentre
teneva il
discorso ufficiale. A Roma, il portavoce di Forza Italia,
Sandro Bondi,
ha sostenuto che la responsabilità delle stragi naziste,
quella di
Marzabotto in testa, ricade sui partigiani "che hanno
radicalizzato lo
scontro con i nazisti in ritirata". Per finire, all'invito del
presidente Ciampi
di recarsi in Quirinale a festeggiare il 25 aprile, il Premier
Berlusconi ha
disertato la cerimonia con la scusa banale che aveva problemi
ad una
mano. Non c'è alcun dubbio. E ormai chiaro che si tende a
tagliare il
legame tra antifascismo, Resistenza e Costituzione. Anche se
la proposta
di abolire la ricorrenza del 25 aprile non dovesse passare,
per la decisa
opposizione delle forze democratiche del paese, è comunque
evidente
l'intento di seppellire, anno dopo anno, questa gloriosa data
sotto un velo
di neutralità, sino a renderla insignificante.
Ma noi siamo convinti che esistono ancora nel nostro paese
forze sufficienti
per impedire quest'ultimo oltraggio.
E vorremmo che oggi, qui, in questo luogo che ha visto il
sacrificio di
42 eroici partigiani, prendessimo tutti insieme l'impegno di
difendere la
memoria della lotta di liberazione, quella lotta che, come ha
precisato
l'ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, non può, nè deve
essere
riscritta, perché in essa affondano le radici della nostra
democrazia.
Vorremmo concludere questo intervento citando un brano del
manifesto
che il capitano Filippo Maria Beltrami fece affiggere in
Omegna
nell'ultima notte dell'anno 1943. Dice il testo:
"E allora il popolo ha il diritto di gridare, deve gridare:
BASTA!
Basta con queste infamie, basta con questi massacri. E questo
grido che
già gonfia i petti sia raffica di vento che tutto spazzi,
tutto
distrugga davanti a sé. Terribile diventi la nostra ira, l'ira
di tutta
la nostra gente martoriata ed oppressa. Viva l'Italia!"
Quando il "capitano" stila questo manifesto, mancano soltanto
34 giorni
alla sua morte gloriosa a Megolo. E si può capire la sua ira,
le sue
parole di fuoco, l'invito a gridare: BASTA! Oggi la situazione
nel
nostro paese è sicuramente meno drammatica. Non c'è alcuna
guerra in
corso. Non c'è alcun nemico straniero che occupa le nostre
contrade.
Non ci sono avvisaglie di una guerra civile. E tuttavia ci
sono troppe
anomalie nel nostro paese, troppi attentati alla Costituzione,
troppo
disprezzo per le regole fondamentali della democrazia, perché
si possa
vivere nella serenità e nella fiducia nell'avvenire. C'è in
molti di
noi che hanno partecipato alla guerra di Liberazione, una
profonda
inquietudine, una sconfinata amarezza, un senso
di impotenza che ci opprime. Ed anche - lo confessiamo - un
poco di
quell'ira che il capitano Beltrami avvertiva. Una sana,
giustificata,
troppo a lungo repressa ira. Ed anche la voglia prepotente di
gridare:
BASTA!
Angelo Del Boca