da l'Unita', un articolo di Wladimiro
Settimelli E' MORTO GIOVANNI PESCE, IL GAPPISTA VISONE Come per tutti i ragazzini, le grandi imprese, il coraggio, la determinazione, l'impugnare una pistola in pieno giorno e andare all'attacco, richiedevano sempre un uomo grande e grosso, un eroe alto e massaccio, senza paura e pronto a scattare al minimo pericolo. Invece, Giovanni Pesce, medaglia d'oro della Resistenza, comandante dei Gap - i gruppi patriottici che attaccavano i nazisti e i repubblichini tra la gente, per strada, sul tram o in treno - era piccolino, tranquillo, silenzioso. Insomma, non parlava mai piu' del necessario e quando lo faceva erano parole senza ostentazione, protervia o sciocche vanterie. Quando lo aveva visto la prima volta, da ragazzo appunto, ero quasi rimasto deluso. Poi, con il trascorrere degli anni, avevo capito e , in piu' di una occasione mi ero fermato a chiacchierare con lui a lungo, nella speranza di capirne fino in fondo la mente, il cuore, le scelte, la paura e la tragedia: quella di dovere sparare a qualcuno, per strada, senza battere ciglio. L'altra notte Giovanni Pesce, nome di battaglia <<Visone>>, e' morto a casa sua, a Milano, assistito dalla moglie Onorina, nome di battaglia <<Sandra>>, la cara staffetta che, nel 1943, era l'unica a poterlo avvicinare per consegnare gli ultimi ordini del Comitato di Liberazione nazionale e della direzione del Pci. Gia', perche' il piu' famoso gappista d'Italia era comunista e veniva da una famiglia antifascista abituata al lavoro e alla sofferenza. La biografia di Giovanni ha dell'incredibile. Quando lui raccontava di quella sua vita complicata e diversa dal solito, potevi stare ore ad ascoltarlo. Era nato nel 1918 a Visone D'Acqui, in provincia di Alessandria. Il padre, presto, molto presto, era stato costretto ad andarsene da casa e ad emigrare in Francia con tutta la famiglia. I fascisti non davano tregua. Erano finiti in un paesetto con le miniere e Giovanni, nella piccola vineria aperta dal padre, trascorreva ore e ore con <<musi neri>>. A volte, qualcuno finiva lo stipendio cercando di soffocare nel bere la miseria e la nostalgia. Ecco Pesce, ascoltava sempre quei minatori e da loro imparava e capiva. Poi, anche lui, a quattordici anni, era finito giu' nelle gallerie per quattro soldi. Il giorno che l'Italia fascista aveva attaccato la Francia ormai messa alle corde dai nazisti, lo avevano trasferito in un campo di prigionia. Poi il rientro, da solo, a Visone. Una spiata lo aveva fatto finire in carcere e poi al confino di Ventotene , dove aveva conosciuto Pertini, Terracini e tanti, tanti altri compagni. Nel 1943, con il crollo del fascismo, <<Visone>> era tornato di nuovo a casa. Poi, il partito lo aveva mobilitato per fondare i Gap a Torino. Ma il lavoro piu' duro e difficile lo avrebbe, piu' tardi, affrontato a Milano. Era stato inviato in Lombardia per occuparsi delle grandi fabbriche perche' fascisti e nazisti terrorizzavano gli operai. Centinaia di loro venivano, tra l'altro, trasferiti nei campi di sterminio. E guai a protestare o scioperare. C'erano, tra gli addetti alle macchine di alcune grandi industrie, capi e capetti che facevano la spia. O personaggi che, per una manciata di soldi e qualche chilo di sale (che Italia terribile e piena di odio e di terrore in quel '43, '44 e '45) erano disposti a vendere chiunque. C'era bisogna, dunque, di una azione forte che facesse sentire agli operai che la Resistenza pensava a loro e alla loro protezione. Giovanni Pesce, dal nulla, aveva imparato a sparare, Non solo: portava sempre addosso due pistole, non una sola. Ed era diventato uno che non sbagliava mai un colpo. Viveva isolato in un microscopico appartamento e usciva soltanto per l'attacco improvviso e per incontrare altri due o tre compagni dei Gap. Ma quando entrava in azione era sempre solo: non si fidava di nessuno. In uno dei tanti incontri, gli avevo chiesto: <<Ma non avevi paura?>>, e lui: <<Eccome>>. Poi aveva ancora spiegato: <<Una volta ho detto ai compagni che quel comandante dei repubblichini addetto agli arresti nelle fabbriche, non era arrivato in ufficio. Invece c'era. Ma io ero stato colto dal tremito e dal panico e non avevo fatto nulla. La volta successiva, dopo alcune esitazioni, era partito deciso ad assolvere all'incarico. Ero entrato nel bar dove il comandante stava facendo colazione. Mi ero avvicinato e avevo spianato la pistola. Per un attimo ci eravamo guardati negli occhi. Un attimo che non finiva piu'. Avevo letto in quello sguardo la sua paura, il suo terrore. Poi avevo visto che stava mettendo la mano alla pistola. Allora avevo fatto fuoco tre o quattro volte. Subito dopo ero uscito e saltato sulla mia bicicletta. Dovevo giustiziare quel comandante. Sapevo dei nostri compagni e di tanti innocenti, torturati, impiccati, fucilati>>. Quante volte hai sparato avevo chiesto a Giovanni. E lui aveva risposto: <<Molte, molte volte. Non le ho mai contate>>. Poi ancora aveva aggiunto: <<Sai che nel dopoguerra, su un tram a Milano, ho incrociato gli occhi con la moglie e figli di un famoso spione che avevo liquidato. Ci siamo sfioranti e ognuno e andato per conto proprio. Credimi e' stata dura. Ammazzare, anche se in guerra e nella battaglia piu' grande per la liberta', non e' facile. Ogni volta mi si stringeva il cuore>>. Nella motivazione della medaglia d'oro, si ricorda che <<Visone>> era stato, insieme a un compagno dei Gap gravemente ferito, inseguito dai nazisti. Lui aveva preso sulle spalle quel ferito e, sparando come un pazzo, si era dileguato. Pochi giorni dopo, con altri, aveva assalto <<Radio Torino>> ed era riuscito a distruggere parte degli impianti, nonostante la presenza di una decina di nazisti e un gruppetto di repubblichini. Imprese incredibili e straordinarie. Nel 1945, a Milano, nei giorni della Liberazione, era stato affrontato da un gruppo di ragazzini con il fazzoletto rosso al collo che avevano gridato: <<Comodo aspettare che i partigiani ti liberino. Comunque, puoi uscire dalla cantina dove ti eri rintanato come un topo>>. Lui non aveva risposto, ma aveva sorriso appena, appena per poi girare oltre l'angolo. Caro <<Visone>>, la tua parte per tutti e per la nostra Italia, l'hai fatta. Un abbraccio. |
da Liberazione, un articolo di Maria R. Calderoni Il lavoro in miniera, le ferite franchiste, il confino, i Gap, la Liberazione e quell'orgoglio mai domo d'essere un comunista GIOVANNI PESCE, IL COMPAGNO ANTIFASCISTA CHE NON HA MAI CHIESTO NULLA PER SE' A 13 anni e' solo un "muso nero", un piccolo minatore italiano che scende 150 metri sotto terra per portare a casa miseri 100 franchi al mese, il sudato, prezioso denaro indispensabile ai suoi genitori per sopravvivere. La sua e' infatti una famiglia di poveri emigrati: il padre Riccardo, scalpellino, di idee socialiste, "pizzicato" piu' volte dalla polizia fascista, nel '24 aveva deciso di lasciare il paese natio, Visone, 2mila anime in provincia di Acqui, per cercare lavoro in Francia, alla Grand' Combe, la zona delle miniere di carbone nelle Cevennes. Arrivato in terra francese piccolissimo, lui parla solo quella lingua, lo chiamano Jeanu; e da "muso nero" lavora per quasi cinque anni, ragazzo con la lanterna da minatore e la tessera della " Jeunesse comuniste " in tasca. A 18 e' gia' a combattere in Spagna nelle Brigate Internazionali. E da li' comincia la sua leggenda. La leggenda di Giovanni Pesce, classe 1918, garibaldino di Spagna, alla testa dei Gap in Italia, medaglia d'oro al valor militare nella lotta di Resistenza, eroe nazionale. Un comunista che ha fatto l'Italia, che e' anche il titolo dell'ultimo libro-intervista uscito nel gennaio 2005 (Franco Giannantoni-Ibio Paolucci, "Giovanni Pesce, "Visone". Un comunista che ha fatto l'Italia", edizioni Arterigere di Varese). In Spagna il ragazzino diventa soldato; dall'Ufficio Ricezione Volontari, dove gia' sono al loro posto Longo, Di Vittorio, Leo Valiani, Andre' Marty, passa direttamente al centro di addestramento militare di Albacete, Catalogna rossa, la citta' dove, il 3 novembre di quell'anno, ricordava sempre lui, <<sorse il battaglione "Garibaldi">>. Il suo incontro con la Spagna e' una passione che durera' tutta la vita. Sara' per lui una grande lezione di coraggio, dedizione, umilta'. Imparo' a combattere e a riflettere, ad essere audace ma anche prudente, duro e pietoso. Di tutto questo doveva far tesoro qualche anno dopo, durante la guerra di liberazione in Italia. A Boadilla del Monte, una cittadina nei pressi di Madrid, ha il suo battesimo del fuoco, <<con il fucile seguii i compagni in avanti, mentre i fascisti erano fuggiti. La battaglia si concluse con sette-otto caduti dalla nostra parte. Erano i primi morti che vedevo. Quello spettacolo mi fece un'impressione tremenda>>. La guerra non e' bella, nemmeno se la fai dietro le bandiere delle Brigate internazionali. Il combattente- ragazzino si trova nel ferro e nel fuoco della battaglia di Guadalajara, marzo 1937, dieci giorni e dieci notti di sanguinosi attacchi, <<nell'acqua e nel freddo, il terreno era ridotto a un pantano>>; i fascisti sono battuti. Giovanni ha i piedi congelati, deve essere ricoverato in ospedale. Ma e' ancora nei ranghi subito dopo, in luglio, a Brunete, e poi in agosto a Saragozza, dove viene ferito gravemente; e poi sull'Ebro, quel terribile combattimento durato un mese, che doveva concludersi con la sconfitta dei repubblicani. In Spagna ha vinto Franco, le Brigate internazionali devono andarsene, <<lungo la "Diagonal" di Barcellona l'ultima sfilata prima della partenza>>. E' ferito anche questa volta, ma cio' che piu' fa male e' quella sconfitta, addio Madrid, il ragazzino torna a casa; ma lascia subito anche la Grand'Combe, rientra in Italia, presso parenti che l'aiutano a trovare lavoro. Qui pero' quasi subito la polizia lo trova: ex combattente in Spagna, lo processano e lo spediscono in carcere ad Alessandria e poi a Ventotene. Cinque anni di confino. Una popolazione confinaria di settecento persone, <<la meta' era comunista - racconta - Per un gruppo di loro era stato previsto un pedinamento continuo. Erano giudicati i piu' pericolosi e, quando camminavano, erano seguiti come un'ombra dalla milizia. Si trattava dei comunisti Umberto Terracini, Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro; dei "giellisti" Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Francesco Fancello, Vincenzo Calace, Nello Traquandi, Dino Roberto>>. Il racconto del suo soggiorno al confino - la sua "universita'" - e' fitto di aneddoti e popolato di umili sconosciuti compagni e anche di figure primo piano, li' Jeanu conosce anche Camilla Ravera, Arturo Colombi, Di Vittorio, Alberganti, Pertini, <<e c'era persino una piccola orchestrina comunista, formata da tre mandolini e due chitarre, accompagnati dal violino di un eccellente Umberto Terracini>>. Uscira' libero con il 25 luglio 1943, il regime e' caduto, il re firma il tragico armistizio. Per il ragazzo della Spagna inizia un altro cammino. <<Con le cinquanta lire che ebbi dal partito, una volta giunto a Gaeta, feci il biglietto per Torino>>. Li', preso in consegna dal compagno "Giuseppe" <<che teneva i collegamenti con Pietro Secchia>>, Giovanni Pesce ha il rischioso incarico di organizzare i Gap (Gruppi di azione patriottica), nel capoluogo piemontese. Pietro Secchia lo nomina comandante. <<Ci vollero le stragi, le torture di via Asti, di Villa Triste ed i partigiani impiccati al gancio da macellaio, perche' anche noi imparassimo ad odiare e a non avere scrupoli nel colpire un nemico crudele>>, scrive Arturo Colombi nel ricordare la nascita di queste formazioni partigiane clandestine. E del giovanissimo Pesce, appena giunto nei ranghi invisibili, dice: <<Quando lo incontrai per la prima volta dopo ll suo nuovo incarico, mi chiese se si potevano avere delle mitragliette>>. Nome di battaglia "Ivaldi". Oscuro e crudele il "lavoro" del gappista. Nel suo libro - un libro drammatico, intenso, veloce come un film (e infatti un film ne e' stato tratto) - Giovanni Pesce racconta il momento terribile della prima azione, quando l'ordine del Comando arriva. E l'ordine e': uccidere un fascista. <<"Marco non sta bene", mi dice la donna porgendomi un pezzo di sapone. E' la parola d'ordine. Ora so chi e>>. Il fascista da uccidere ha un nome e un volto. <<Devo giustiziare un maresciallo della milizia, Aldo Mores>>, responsabile della deportazione di oltre settanta patrioti. Il garibaldino coraggioso vacilla. <<Questa e' un battaglia solitaria, penso. Tu, solo con la tua coscienza e le tue pene>>. Ma deve accettare questo compito spietato, cui non era abituato, <<in Spagna e in montagna il nemico si affrontava in combattimento: faccia a faccia>>. Racconta: <<L'assassino di tanti miei compagni e' li'. Faccio un passo, mi appoggio allo stipite della porta, fingo di raccattare qualcosa. Non ce la faccio - penso - non ce la faccio. E' proprio paura. Mi trovo all'aperto, sollevato e furibondo. Adesso dovro' mentire. "Il maresciallo non c'era", dico ad Antonio, "torneremo domani">>. E "domani" lo uccidera', il fascista che deve morire. <<Lo vedo. Sparo con tutte e due le pistole. Mentre l'uomo si piega, esco rapidamente, intasco le armi e inforco la bicicletta>>. Saranno tante le azioni firmate dal comandante "Ivaldi" e dai suoi gappisti, i fascisti rispondono con arresti e fucilazioni, sulla testa di Pesce pende l'ottava taglia per chi lo avesse "catturato vivo o morto"; e li' intorno, per esempio a Barge, si e' scatenato l'inferno, <<truppe scelte di Salo' e forze d'assalto tedesche avevano rastrellato tutta la zona per fare piazza pulita dei "ribelli">>. Ilio Barontini gli insegna come si fabbricano le bombe; e le bombe fatte in casa dei ragazzi di Pesce lasceranno parecchi segni nei sabotaggi, negli assalti alle caserme, nei colpi inferti alla macchina da guerra del nemico. Gia', <<non si puo' far saltare una stazione radio restando seduti davanti a una finestra aperta, a fantasticare>>. Viene il momento di cambiare aria, la polizia fascista e' sulle tracce di "Ivaldi"; allora il Comando lo manda d'autorita' a Milano e gli cambia nome, ora si chiamera' "Visone", come il suo paese d'origine. Nemmeno a Milano si puo' far saltare una stazione radio restando seduti davanti a una finestra. Per esempio di fu la "battaglia dei binari", in zona Greco-Pirelli, 24 giugno 1944. <<Lungo i binari che transitano da Greco, sotto il ponte grigio del cavalcavia, sono sfilate a migliaia lunghe colonne di carri merci, una parte notevole del dramma dell'8 settembre e' stata recitata davanti alla palazzina grigia della stazione di Greco. Dai vagoni bestiame, sprangati e sigillati, si sono levate, di giorno e di notte, invocazioni d'aiuto e sono stati lanciati biglietti disperati>>. Sono i convogli maledetti che portano ai campi di sterminio. "Visone" e i suoi, in una notte senza luna, strisciando tra le sentinelle tedesche in armi, fanno scivolare le loro bombe fatte in casa dentro i "forni" delle locomotive, una due tre cinque cariche. I binari saltano, i convogli nazisti si fermano, la rabbiosa rappresaglia tedesca colpisce anche gli innocenti; ma la 3a Gap di "Visone" non da' tregua, con le armi in pugno fino all'ultimo, fino al 25 aprile. <<E' il grande giorno. Confuso in questa folla amica, e' come se uscissi da un incubo. Mi accorgo che le case sono belle case, che le strade sono ampie e che sopra di me c'e' il cielo>>. La guerra e' finita e lui ha 27 anni. Verranno i suoi giorni normali, tanti giorni e tanti anni di un impegno diverso, ma sempre generoso, disinteressato, semplice, leale. Giovanni Pesce, eroe nazionale, stratega della guerriglia, per tutta la vita e' stato "uno di noi", uno che non ha mai ostentato, mai preteso, mai chiesto nulla per se'. Nel '45, finito tutto, tornato a casa, il comandante della 3a Gap pensa di aver esaurito il suo compito. Pensa addirittura che forse e' giunto il momento di tornare alla Grand' Combe, in miniera. Ma e' Nori che lo trattiene. Nori - <<la piu' bella delle mie staffette>>, come scrive lui - che ha appena sposato appunto nel '45. L'amore della sua vita, Jeanu lo racconta con parole schive e tenere. Nori la incontra appena giunto a Milano sotto il suo nuovo nome di battaglia, "Visone", lei si chiama Onorina Brambilla ma tra i Gap e' "Sandra"; e <<a prima vista rimasi come folgorato>>. Pochi mesi dopo quel primo incontro, "Sandra", vittima del delatore "Arconati", uno che fa il doppiogioco, viene arrestata, imprigionata presso il Comando SS di Monza, dove sara' a lungo interrogata e anche torturata. Incontrata e perduta, lui e gli altri compagni la cercheranno per giorni e giorni; ma "Sandra" la rivedra', fortunatamente sana e salva, solo dopo il 25 Aprile, ai primi di maggio. Lei e' un'esile ragazza di 21 anni, si sposano subito, il 14 luglio 1945, <<il giorno della presa della Bastiglia, con uno dei primi riti civili, in un edificio accanto a Palazzo Marino che era stato devastato dai bombardamenti. Eravamo in ginocchio, senza una lira, senza casa>>. Ma il pranzo fu un successo, <<cucinato dalla mamma di Sandra, alla Casa del Popolo nella sezione Venezia del Pci>>. Un tetto pero' lo ebbero, <<in via Macedonio Melloni, 76, la "base" delle nostre azioni militari!>>. Nel 1946 Pesce diventa presidente dell'Anpi di Milano; nel 1947 - in una piazza Duomo inondata di sole e traboccante di partigiani - riceve la medaglia d'Oro al Valor Militare dalle mani di Umberto Terracini; nel '48 e' responsabile della Commissione Vigilanza a Botteghe Oscure; per oltre dieci anni e' consigliere comunale a Milano. E venne la Bolognina, la morte del Pci. <<La mia reazione - racconta - fu di indignazione, di preoccupazione, di amarezza, anche se era chiaro da tempo che si stava andando in quella direzione. Non riuscivo a comprendere per quale ragione si dovesse cambiare quel nome carico di storia, di battaglie, di sacrifici. Votai contro>>. Sceglie subito di stare con noi, "Visone", con Rifondazione. E con noi e' sempre stato, fino all'ultimo. Indomito, sicuro, fedele agli ideali della sua vita, semplice come la sua fede: perche' - amava dire, citando i versi di Eluard - <<ci sono parole che fanno vivere. Una di queste e' la parola comunista>>. |
Per Giovanni Pesce senatore a
vita
INIZIATIVA POPOLARE DI RACCOLTA
FIRME
PER LA CANDIDATURA DI GIOVANNI PESCE
A SENATORE A VITA DELLA
REPUBBLICA
Cari
compagni,
chi vi scrive è il Comitato Politico Direttivo del Circolo di
Milano Zona 4, tra Corvetto e Rogoredo, circolo che ha l'onore di
avere tra i suoi iscritti Giovanni Pesce, Medaglia d'Oro ed Eroe
Nazionale della Resistenza.
In seguito all'articolo e alle molte lettere pubblicate su
Liberazione, ci è sembrato doveroso promuovere tale iniziativa
attraverso la creazione del sito: www.visonesenatore.net.
L'obiettivo è la raccolta di migliaia di fime da inviare al
Presidente della Repubblica per testimoniare la nostra
riconoscenza a Giovanni Pesce - e a chi come lui - ha combattuto e
speso tutta la vita per dare giustizia e libertà all'Italia e
all'Europa.
Contro ogni revisionismo e contro gli attacchi alla Costituzione,
la nomina di Giovanni Pesce a Senatore a Vita è il modo migliore
per celebrare il 60° Anniversario della Liberazione.
Su sito internet ufficiale www.visonesenatore.net
i compagni possono cominciare a inserire la propria adesione.
ORA E SEMPRE RESISTENZA!
Saluti comunisti,
il Direttivo Circolo Prc "Geymonat", Milano Zona 4
Fonte: http://www.lernesto.it/
Facciamo
Giovanni
Pesce "Visone" senatore a vita
di Claudio Grassi
su Liberazione del 25/08/2005
E' un libro di storia questa biografia del comandante
partigiano Giovanni Pesce. A lui la Repubblica italiana deve
qualcosa di più prezioso della medaglia d'oro al valor militare
Bisogna leggerlo questo libro: "Giovanni Pesce "Visone",
un comunista che ha fatto l'Italia", intervistato da
Giannantoni e Paolucci (Edizioni Arterigere-EsseZeta, euro
14). La biografia di Pesce è un libro di storia: Pesce non
può raccontare sé stesso se non come elemento di una vicenda
collettiva, di speranza, di delusione, di partecipazione alla
trasformazione dell'Italia.
Nella prima parte del libro, la guerra di Spagna e la seconda
guerra mondiale, hanno un peso rilevante. Non sono d'altra parte,
eventi decisivi nella formazione del protagonista?
Protagonista suo malgrado, perché anche queste pagine sono
piene di uomini: combattenti antifascisti, aguzzini, delatori,
staffette partigiane, leader dai nomi che si ritrovano nei manuali
di storia e tanti, tanti caduti, assassinati, torturati, suicidi
per non parlare. Persone con le quali Pesce stabilisce rapporti
profondi o fugaci, della durata magari di un'azione di sabotaggio
sfortunata.
Pesce non celebra eroi, piuttosto dispensa critiche per una
leggerezza o giudica severamente un errore organizzativo, ma
dipinge con naturalezza uomini in lotta e sé stesso come un
superstite fortunato; dietro il velo della sobrietà però si
avvertono l'ammirazione e la pietà sconfinate verso le compagne e
i compagni decimati (tra i Gap decimare non significa uno su
dieci, ma nove su dieci).
Più che fortunato, poi, il Pesce gappista è dotato di un
sangue freddo eccezionale ed è un organizzatore meticoloso, un
perfezionista dell'azione. Mai accecato dall'odio, Pesce sa che la
sua vita e quella dei suoi compagni, o di un passante sconosciuto,
sono più preziose della morte dell'ufficiale nazista o della spia
repubblichina.
E' un uomo, Pesce, che ama la vita in tutte le sue forme
malgrado gli sia stata così dura, ama persino la vita in miniera,
che ha conosciuto poco più che bambino in Francia, perché in
miniera si sente a casa tra i suoi compagni («uomo fra gli uomini,
i migliori che avessi mai conosciuto») che provengono da tutta
Europa. E' la prima brigata internazionale, quella dei minatori de
la Grand' Combe, alla quale partecipa, giovanissimo volontario
(«lo decisi non appena mi iscrissi al Partito Comunista
Francese»); molti di quei minatori sono esuli antifascisti, base
naturale del Pcf che in quel distretto minerario è presente ed
organizzato.
Pesce è un figlio del secolo breve: i suoi non si sarebbero
mai conosciuti, lui piemontese lei veneta, se la prima guerra
mondiale non li avesse avvicinati. Papà socialista, mamma
cattolica, un pezzetto di Italia post-giolittiana che la miseria,
la persecuzione politica, l'assenza di prospettive spingono verso
l'emigrazione.
E' troppo piccolo, per sapere cos'è il dolore della
separazione, dovrà attendere il 1929, quando lascia Medoc, il cane
pastore compagno di un estate nel suo primo "vero" lavoro di
pastore di mucche.
Tre anni dopo è iscritto all'Associazione dei Pionieri e poi
alla Jeunesse Communiste, l'adolescente guarda alla miniera come
ad un atto di solidarietà e di iniziazione, non a caso l'ingresso
in Officina è simultaneo all'iscrizione al Partito. E nel Pcf, da
attivista superimpegnato, vive le elezioni del '35 e del '36, in
quel clima di internazionalismo antifascista che caratterizza
particolarmente le regioni di immigrazione.
Giorni di festa, gli ultimi di aprile del '36. Successo
elettorale del Pcf, vittoria del Fronte popolare, che qualche
settimana dopo lo ospita a Parigi, tra i delegati dei giovani
comunisti, per l'immensa manifestazione antifascista che vede sul
palco Dolores Ibarruri e Maurice Thorez. La decisione è presa, in
Spagna si combatte contro il fascismo, il nemico dei minatori, ed
è lì che bisogna andare a combattere.
E' in Spagna, paradossalmente, che il giovane comunista
"francese" (non parla italiano, vorrebbe combattere assieme ai
francesi) conosce l'Italia: nelle pause di guerra studia la
grammatica italiana, il Risorgimento, il fascismo. Suoi maestri
sono antifascisti italiani, parte di un elenco straordinario di
figure leggendarie che la memoria incredibile di questo
ottantasettenne fa rivivere agli occhi di un lettore frastornato
da una serie sterminata di note biografiche a piè pagina. Quanti
di questi nomi sono stati dimenticati! La storia della più breve
di quelle esistenze, è un pezzo di storia dell'Italia e della
democrazia europea!
Dura poco la pausa francese, la primavera del '40 vede il
crollo della Republique, i tedeschi dilagano, gli antifascisti
vengono arrestati in massa. Ed è quasi subito galera, poi, dopo un
anno, il confino. A Ventotene compie gli studi superiori, il corpo
insegnante è superbo: Ravera, Scoccimarro, Terracini, Curiel, tra
i tanti confinati comunisti. Tra mille espedienti per sopravvivere
e stabilire il più semplice contatto umano, si studia sul serio!
Nell'isola conosce Secchia, Longo, Di Vittorio ed una parte enorme
dei futuri gruppi dirigenti della Resistenza.
Emerge anche qui un tratto peculiare della personalità di
Pesce: il militante disciplinatissimo («il Partito ha sempre
ragione») parla con deferenza degli "altri", i non comunisti, ma
mantiene i rapporti più affettuosi con gli "eretici" della chiesa
comunista.
Dagli scioperi del marzo '43, all'arresto di Mussolini,
all'agosto del ritorno a Visone, il paese natale, il tempo vola
nel suo ricordo. Inizia qui la parte più nota della sua storia che
ha per sfondo Torino e poi Milano.
Pesce chiarisce lucidamente le differenze enormi che corrono
tra la guerra per bande che si conduce nelle campagne o in
montagna e l'azione militare dei Gap, che ha per teatro la città,
fatta di atti di sabotaggio pericolosissimi, di attacchi
improvvisi, condotti quasi individualmente, contro bersagli umani
che si possono guardare in faccia.
Il pudore del narratore non fa velo all'inaudita violenza che
il garibaldino di Spagna esercita su sé stesso. Notti insonni, poi
determinazione assoluta, anche perché, prima a Torino poi a
Milano, "Visone" è chiamato a riparare organizzazioni
semidistrutte dai colpi del nemico.
Può stupire che ad una domanda precise e finale, Pesce
risponda che il momento più alto della sua vita è stato la guerra
di Spagna anteponendola alla Resistenza, anteponendo cioè una
sconfitta tragica (ma le brigate internazionali sono state
sconfitte?) ad una vittoria esaltante. Anteponendo anche
l'apprendista tra tanti al protagonista della guerra in città,
dove talvolta però si sente solo. La milizia di soldato semplice
in un esercito di fratelli che parlano tante lingue diverse gli
sta più a cuore della medaglia d'oro al valor militare così
meritatamente conquistata nelle file della Resistenza.
Di straordinario interesse e illuminante è la memoria
dettagliatissima, dei primi, decisivi, duri anni del dopoguerra,
del complesso travaglio del mondo partigiano e del suo rapporto
col Pci che si va organizzando e radicando. Anche in questo caso
emergono l'equilibrio e l'autonomia critica di Pesce, d'altra
parte in quelle circostanze così difficili egli utilizzò tutto il
suo prestigio per svolgere un'opera di mediazione e di moderazione
nei confronti delle frange più insofferenti verso le provocazioni
della reazione.
Anche quando non condivide, è il caso dell'amnistia di
Togliatti, prevale la disciplina, corroborata dalla comprensione
degli scopi e da una fiducia profonda nel gruppo dirigente del
Pci.
Pesce ha con la violenza, che ha tanto subito e praticato, un
rapporto esemplare, tutto politico. La guerra è finita, si apre un
nuovo terreno di confronto, democratico, presto costituzionale.
Sul culto virile e l'ostentazione delle armi, sulle tentazioni
giustiziere o sul sogno insurrezionale è drastico, che si tratti
di Seniga o della Volante rossa o dell'amico Feltrinelli. Prima
che i fatti gli diano totalmente ragione su Seniga, sbatte la
porta e lascia il suo incarico di massimo responsabile della
vigilanza del Partito.
Pesce risponde ai suoi intervistatori senza reticenze; dal suo
osservatorio milanese viene fuori una testimonianza fresca e
vivace: la rottura del '47, le elezioni del '48 e l'attentato a
Togliatti, gli anni '50 e il governo Tambroni, il movimento
studentesco, la strategia della tensione e la vicenda Feltrinelli.
Le vicissitudini politiche e personali si alternano a schizzi
incisivi di personaggi come Togliatti o a ricordi commossi come
quello dell'ultimo Amendola.
Colpisce, tra uomini così diversi per estrazione, formazione
ed anche, in qualche misura, orientamento politico, il rispetto,
direi l'ammirazione, reciproci che li fa pari. Virtù di
circostanze straordinarie vissute insieme e di quello
straordinario partito che, fino ad un certo periodo, è stato il
Pci. Allo scioglimento del quale tanti anziani compagni aderiranno
al Pds per un malinteso "senso di fedeltà", quasi che il nuovo
Partito fosse la naturale prosecuzione del vecchio.
Pesce dà un giudizio, ancora una volta, puntuale, lucido di
quella operazione e delle sue conseguenze. Sceglie di ricominciare
da capo, con noi, con Rifondazione Comunista, perché più giovane
di tanti giovani e perché è un combattente che non sa obbedire
all'ordine di resa.
Pesce non è mai stato parlamentare, errore non irreparabile,
visti i nomi che circolano per la nomina di senatore a vita. Penso
che la Repubblica italiana gli debba ancora qualcosa di più del
prezioso riconoscimento del valor militare. E ancor di più
Rifondazione Comunista, il suo e il nostro Partito, potrebbe
lavorare per questo obiettivo raccogliendo centinaia di migliaia
di firme.
Per la Resistenza, contro ogni revisionismo, il Comandante
Pesce Senatore a vita.
"Visone"
in
Parlamento:
la risposta della memoria agli avversari della democrazia
di Wilfredo Caimmi
su Liberazione del 27/08/2005
Ho letto su Liberazione l'articolo in cui Claudio Grassi
propone di avanzare la candidatura del comandante Giovanni Pesce
"Visone" a Senatore a vita.
Desidero tu sappia che questa proposta mi riempie di orgoglio
e mi commuove! Pesce è un simbolo per quanti, durante la
Resistenza, hanno combattuto contro i tedeschi e i fascisti, e per
tutti gli italiani che hanno costruito e amano la Repubblica!
Spero ardentemente che il Presidente Ciampi ascolti questa
voce che si leva da molti cuori. Ricorre quest'anno il
sessantesimo della Liberazione. Il Paese vive tempi difficili. Vi
è chi vorrebbe riscrivere la storia sommergendo meriti e colpe in
una notte senza colori. Vi è chi tenta di stravolgere la nostra
Carta costituzionale perché vagheggia disegni autoritari. Vi è chi
mostra di avere dimenticato gli orrori della guerra. Portare
"Visone" in Parlamento sarebbe la risposta più forte a questi
avversari della democrazia e della pace; sarebbe il più alto
riconoscimento per quanti hanno lottato, anche a prezzo della
vita, per la dignità e la libertà dell'Italia; sarebbe una limpida
parola di speranza rivolta ai giovani che erediteranno questa
nostra amata Patria e il compito di perseverare lungo un cammino
di giustizia e di pace.
Ancona, 27 agosto 2005
Wilfredo Caimmi
Medaglia d'Argento al Valor Partigiano
Un
seggio per Giovanni Pesce
di Massimo Novelli
su la Repubblica del 26/08/2005
Rifondazione chiede di nominare l´ex gappista senatore a vita
A tredici lavorava nelle miniere delle Cevennes, in Francia,
dov´era emigrato con i genitori. Diciottenne, già iscritto al
Partito comunista, nel 1936 si arruola nelle Brigate
Internazionali e combatte in Spagna contro i franchisti, a difesa
della legittima repubblica democratica. Quattro anni dopo,
rientrato in Italia, viene inviato al confino fascista di
Ventotene. All´indomani dell´8 settembre del 1943 è tra i primi a
organizzare la Resistenza ad Acqui Terme e quindi a Torino, dove
entra nei Gap insieme a ragazzi come Dante Di Nanni, che morirà
eroicamente in seguito a un´azione condotta con lui. Dal maggio
del 1944 si sposta a Milano e assume il comando del terzo Gap. È
per quest´uomo duro e puro, coerente, per Giovanni Pesce, insomma,
classe 1918, nato a Visone d´Acqui, medaglia d´oro della
Resistenza, ferito tre volte sul fronte spagnolo, che Rifondazione
Comunista chiede un seggio di senatore a vita. Lo fa con una
campagna lanciata dall´area dell´Ernesto, minoranza del Prc, la
cui motivazione suona come una sfida a chi, a destra così come a
sinistra, oggi cerca di cancellare il valore e la memoria stessa
della lotta partigiana: «Per la Resistenza, contro ogni
revisionismo, il comandante Pesce senatore a vita». Coraggioso, a
volte spietato come lo era la guerra intrapresa in solitudine
contro i fascisti repubblichini e i nazisti, Pesce, il cui nome di
battaglia era «Visone», non ha mai rinnegato la sua fede politica,
i suoi ideali e la sua storia personale. Si potrà anche non essere
d´accordo con le sue idee, ma è difficile non togliersi il
cappello di fronte alla sua militanza nella lotta per gli umiliati
e gli offesi.
Fonte: http://www.resistenze.org/sito/se/li/seli6d09.htm
Giovanni Pesce: Un garibaldino in Spagna
Prefazione di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci
L’appuntamento con la Storia
Quando nel 1931 in Spagna nacque democraticamente la Repubblica, Giovanni Pesce era un ragazzino di tredici anni. Si trovava in Francia, a la Grand' Combe, un paese minerario delle Cevennes, dove era emigrato da Visone d’Acqui nel 1924 con la famiglia perché il padre Riccardo, operaio e antifascista, non trovava lavoro. Frequentava la “Jeunesse comuniste” e aveva già conosciuto le fatiche del lavoro. Nelle vacanze estive era andato infatti a pascolare le vacche nella Lozère, una regione confinante, con la sola compagnia di Medoc, un cane che dormiva con lui e che gli è rimasto nel cuore, al punto di ricordarlo, ad oltre settant'anni di distanza, con struggente tenerezza.
Della Spagna, in quel periodo, ignorava quasi tutto. A meno di quattordici anni scese nella miniera, affrontando un lavoro duro e tuttavia fiero di sentirsi un "muso nero" e di poter contribuire con il suo magro salario al bilancio familiare. Nel febbraio del 1936, quando in Spagna le sinistre vincono le elezioni, grazie al voto degli anarchici che si recano alle urne per la prima volta nella storia, “Jeanu” (questo il soprannome di Giovanni Pesce) ha compiuto i diciotto anni e si sente ormai adulto. Ogni giorno scende nella profondità della terra e gli è anche già capitato di oltrepassare i confini de la Grand' Combe per recarsi a Nimes, la bella cittadina con i resti romani con lo splendido anfiteatro e la Maison Carrè. Nell'estate, sempre del 1936, compie con alcuni compagni un viaggio di gran lunga più interessante, che lo porta nella capitale, nella Parigi sempre sognata, dove, fra le altre cose, visita la sede del giornale che diffonde ogni domenica, il “suo giornale”, l'Humanitè, e dove ascolta l'accorato appello di Dolores Ibarruri, “la Pasionaria”, e raccoglie i manifestini illustrati e firmati da Juan Miro: un operaio che saluta col pugno chiuso e che dice "Aidez l'Espagne". Sì, anche lui vuole aiutarla, convinto che ci sia un solo modo per farlo: partire volontario per arruolarsi nelle Brigate Internazionali, per combattere per la libertà di quel paese che imparerà a conoscere e ad amare, che poi significa lottare anche per il paese natio, l'Italia. "Oggi in Spagna, domani in Italia", è la parola d'ordine dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, che saranno qualche mese dopo assassinati in Francia su mandato di Mussolini.
Le parole della Ibarruri continuano a risuonargli dentro, incancellabili: "Lavoratori, antifascisti, popolo! Tutti in piedi! Preparatevi tutti a difendere la Repubblica, la libertà popolare e le conquiste democratiche del popolo!". Di fronte a questo appello - riflette il giovane Pesce - non si può continuare come se niente fosse. L'appuntamento con la storia è in Spagna, non si deve mancare. Per “Jeanu” non ci sono terze vie: o sì o no, e lui è fermamente per il sì. Sono circa quattromila gli italiani che raccolgono l'appello e che accorrono in Spagna, di cui 1819 comunisti, 979 senza partito, 310 tra socialisti, giellisti e repubblicani. Di loro Rafael Alberti, canterà in una lirica dedicata alle Brigate Internazionali: "Venite da lontano. Ma questa lontananza/ cos' è per il vostro sangue che canta senza frontiere?".
Giovanni Pesce allora sa appena leggere e scrivere, non ha la cultura di un Hemingway o di un Malraux, non ha il talento di un Picasso o di un Casals, non conosce i versi infiammanti di Neruda o di Machado, ma avverte come impellente il richiamo della solidarietà internazionale. Poi di Antonio Machado leggerà l'ode di omaggio a Garcia Lorca, assassinato dai franchisti: "Cadde morto Federico / sangue alla fronte e piombo alle viscere/ Sappiate che fu a Granada il delitto/ Povera Granada! / Nella sua Granada". Per il giovanissimo Pesce il richiamo si fa sempre più martellante. I compagni spagnoli chiamano, la risposta può essere una sola. “Jeanu” lesse e rilesse l'appello della Ibarruri pubblicato dall'Humanitè e, in seguito, altri suoi scritti. Lo colpì soprattutto un discorso in cui quella donna straordinaria affermava che "la lotta incominciata sul nostro territorio, sta già acquistando un carattere internazionale, perché i lavoratori di tutto il mondo sanno che se in Spagna trionferà il fascismo, tutti i paesi democratici del mondo saranno soggetti alla minaccia fascista".
Insomma non si poteva restare inermi. Così, ingannando la madre Maria con la prima storiella che gli viene in mente, un incontro con un'amica alla frontiera belga, sale su un treno e dà inizio al suo percorso di militante della libertà. Un cammino che durerà tutta la vita e che, per nostra fortuna, prosegue ancora.
La Spagna gli è rimasta nel cuore, è al primo posto delle tante storie vissute. Viene persino prima della Resistenza, il periodo eroico a Torino e a Milano, a capo dei Gap, i gruppi d’azione patriottica, durante il quale si è guadagnata la medaglia d'oro al valor militare e il riconoscimento di "eroe nazionale". Se gli si chiede il perché di questo amore così travolgente per la Spagna, risponde che fu quel fiume di gente che arrivava da ogni parte del mondo, abbandonando casa, lavoro, famiglia, affrontando ogni giorno a viso aperto la morte, a rompere in lui ogni indugio. Doveva essere con quei volontari, al loro fianco, nella lotta che avrebbe dato concretezza quotidiana ai suoi ideali di giustizia e di libertà.
E oggi? Giovanni Pesce è ancora sulla breccia. I tre anni dal 1936 al 1939 li ha descritti oltre mezzo secolo fa (era il 1955) nel libro "Un garibaldino in Spagna", pubblicato dagli Editori Riuniti, i cui titolari ci hanno concesso gratuitamente i diritti per ristamparlo, nel 70° anniversario della guerra civile, l’Alzamiento che iniziò in Marocco il 17 luglio 1936 e si estese il giorno successivo nella penisola iberica. Non abbiamo tolto o cambiato neppure una riga per non appannare la freschezza della narrazione, che, a volte, può apparire di una toccante ingenuità. Ma quelli erano i tempi e quelli i modi espressivi, "les neiges d'antan", le stagioni epiche all'insegna di alti ideali e della voglia di cambiare il mondo, raccogliendo le eredità migliori degli Illuministi, dei Sanculotti, dei Comunardi e dei più vicini nel tempo, gli artefici dell' Ottobre rosso.
Combattente sull’Jarama e sul ponte di Arganda nella difesa di Madrid, nella piana di Guadalajara, ferito in ben tre occasioni e una volta, nell'estate del 1937, gravemente, sul fronte di Saragozza, tanto che le schegge di un ordigno fascista che lo colpirono sono ancora conficcate nella sua schiena, inestirpabili perché, a giudizio dei medici, un'operazione chirurgica sarebbe troppo rischiosa. E poi, dopo la disfatta e l'avveramento della profezia della “Pasionaria”, nell'Europa insanguinata dall'aggressione nazista, Giovanni Pesce, ventiduenne, dalla Francia nel 1940 rientra in Italia per combattere il fascismo. Subito arrestato e condannato ad un anno di reclusione, poi spedito al confino, nell'isola di Ventotene dove conosce i grandi leaders del Partito comunista italiano, da Luigi Longo a Pietro Secchia a Eugenio Curiel a Umberto Terracini a Giuseppe Di Vittorio a Camilla Ravera che gli insegna la grammatica e la sintassi della lingua italiana, assieme alla storia e all'amore per il suo Paese, non quello retoricamente magniloquente del fascismo, ma quello autentico degli operai, dei contadini e degli uomini di cultura che non hanno piegato mai la schiena.
Dopo il 25 luglio e l'8 settembre del ‘43, comincia la stagione della Resistenza di cui Giovanni Pesce, “Ivaldi” e “Visone”, i due nomi di battaglia, sarà uno dei maggiori protagonisti. Ma è la Spagna la sua passione, dove torna nel 1976 dopo la morte di Franco e tante volte ancora, una indimenticabile con un centinaio di studenti, per ripercorrere gli itinerari degli anni ‘30 e dove, da giovane combattente, con una scarsa istruzione ma con un'alta statura morale, è entrato a pieno titolo, assieme ai grandi nomi della politica, della cultura, dell'arte, nell’incancellabile libro della storia.
|
|
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=10791
Memoria storica
L’insegnamento di Giovanni Pesce: la sconfitta come elemento formativo per la lotta ideale
di Armando Petrini
su Liberazione del 27/07/2006
Leggendo, o rileggendo, le pagine di memorie di Giovanni Pesce, il mitico comandante “Visone” della guerra partigiana dei GAP, non si può fare a meno di rimanere profondamente colpiti dalla sua eccezionale tempra umana e politica. Quest’uomo così lucido, dal piglio fermo ma allo stesso tempo dalla incredibile serenità di carattere, ha ancora oggi molto da insegnare a chiunque voglia interrogarsi sulle vicende del passato così come su quelle scivolose del presente. E ciò può avvenire proprio perché -e non “nonostante il fatto che”- Pesce sia un uomo integralmente novecentesco. Tutto in lui grida la sua appartenenza al Novecento: la fiducia tenace nel ruolo del Partito, la concezione ‘forte’ della politica impensabile al di fuori di una salda prospettiva etica, la consapevolezza di aver agito per un’istanza collettiva in grado di esaltare, e non di mortificare, il singolo. Pesce impara presto il senso profondo del sentimento della fraternità. Bambino, emigrato in Francia con la famiglia, osserva e poi prova direttamente la dura vita del minatore. Scrive Pesce: «I minatori emigrati vivevano alloggiati in baracche di legno -sette ed otto per locale- esposti a mille pericoli, costretti ai lavori più insani e più duri: sfruttati, umiliati, trattati come bestie». E prosegue: «Mia madre gestiva una ‘cantina’, una specie di trattoria, frequentata dai minatori. La sera molti vi si davano convegno, discutevano, parlavano fino a notte inoltrata. Ancora non riuscivo a comprendere perché così stanchi, con una giornata di lavoro duro sulle spalle, anziché andarsene a riposare, rimanessero lì fino a notte fonda». Ma poi capisce le motivazioni di quel comportamento: «Più tardi, quando conobbi anch’io la vita del minatore, compresi questi uomini e seppi che erano comunisti, che si organizzavano e che bisognava essere organizzati per abbattere la società capitalistica. Avevo per loro una grande ammirazione: erano per me degli esseri straordinari. La loro fede, il loro spirito di sacrificio, la loro tenacia mi commuovevano fino al fondo dell’animo quanto più riuscivo a comprendere come tutto fosse messo da loro a servizio della causa operaia». Il brano che abbiamo citato è tratto da uno dei più importanti libri di Pesce, Un garibaldino in Spagna, uscito nel 1955 e oggi riedito da un piccolo editore, Essezeta, in occasione del Settantesimo anniversario della Guerra di Spagna (Un garibaldino in Spagna, con una prefazione di F. Giannantoni e I. Paolucci, Edizioni Essezeta - Arterigere, 2006, 12 euro). Sebbene la fama di Pesce sia giustamente legata all’attività di comandante partigiano, gappista con il nome di “Ivaldi” e poi di “Visone”, la sua storia umana e politica comincia qualche anno prima della lotta partigiana in Italia. Diciottenne, nel 1936, si arruola volontario nelle Brigate Internazionali e combatte nella Guerra di Spagna. Quell’esperienza drammatica e terribile costituisce la vera formazione di Giovanni Pesce e, con lui, di una intera generazione di antifascisti. Lo ribadisce egli stesso nel suo libro forse più celebre, Senza tregua: «Se è vero che in terra spagnola il fascismo fece la prova generale della successiva aggressione all’Europa è altrettanto vero che in Spagna si formarono, si temprarono i valorosi combattenti della Resistenza italiana ed europea». Ancora pochi mesi fa, in occasione dei festeggiamenti per il 25 aprile, Pesce è tornato a insistere, proprio dalle colonne di Liberazione, sullo stretto nesso fra guerra di Spagna e guerra partigiana: «Non fummo in Spagna dei vinti, ma giovani e anziani che marciavano come dei combattenti anche nella dolorosa ritirata. Avevamo il rimpianto nel cuore; lasciavamo il popolo spagnolo, ma ci attendevano altre dure prove da combattere con gli stessi sentimenti e gli stessi ardori. Questa volta vittoriose, sino al ‘radioso 25 aprile’». Si capisce perciò il motivo per cui Pesce abbia spesso ripetuto come il momento più alto della sua vita fosse stato la guerra di Spagna, mettendo dunque in primo piano una sconfitta tragica, quella delle Brigate Internazionali contro le truppe di Franco, rispetto a una straordinaria vittoria come quella partigiana contro il nazifascismo. Qui si trova un ulteriore elemento di interesse, e di forte attualità, della sua biografia. La sconfitta può diventare un elemento formativo e, di più, propulsivo per la lotta ideale. Si può venire battuti oggi, e domani ottenere una grande vittoria: essere in un certo momento in minoranza è ben altra cosa dall’essere minoritari. In tempi come i nostri in cui le scelte politiche, di grande come di piccolo momento, sembrano venire rinchiuse entro l’angusto ragionamento di una realpolitik di corto respiro, l’insegnamento di Pesce appare assai prezioso. Ciò che muove le idealità e la concreta azione politica del comunista Giovanni Pesce non si misura con il successo immediato, con il risultato più vicino e più a portata, ma pretende di essere valutato all’interno di una prospettiva più lunga e più profonda, che sappia connettere il risultato contingente, certo importante, o in alcuni casi addirittura fondamentale, con un orizzonte di ampio respiro. E’ qui uno degli insegnamenti più pregnanti della sua storia umana e politica, che è in questo senso storia di un autentico comunista. Lo stesso Pesce non perde occasione per sottolinearlo: in un bellissimo documentario-intervista realizzato qualche anno fa da Marco Pozzi, Pesce conclude il suo dire -con quella sua voce sicura ma piena di calore, addolcita com’è dalla “r” francese conservata dall’infanzia- citando un verso di Paul Eluard: «Ci sono parole che fanno vivere. Una di queste parole è la parola compagni».
P A R T I G I A N I !
Una iniziativa internazionale ed internazionalista
nel 60.esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/index.htm
Per contatti: PARTIGIANI! c/o CNJ,
C.P. 252 Bologna Centro,
I-40124 BOLOGNA (BO) - ITALIA
partigiani7maggio @ tiscali.it
=== * ===