Jasna
Tkalec
ci scrive:
Ho trovato un libro di
Rodoljub
Colakovic, uno dei fondatori del KPJ (Partito Comunista
di Jugoslavia), un rivoluzionario che ebbe un'enorme stima sia
in Bosnia, di cui era natio, sia in tutta la Jugoslavia, visto
che da minorenne (allora si era maggiorenni a 21 anni) prese
parte ad un attentato politico contro un ministro di polizia
jugoslavo. Fu condannato a molti anni di prigione e il suo
compagno e complice Alija Alijagic, fu impiccato.
Colakovic ha proprio il dono del racconto e in un certo
senso è un Andric in edizione minimalista. Il suo libro
"Ratni
zapisi" (Scritti di guerra), una specie di
diario, è un pozzo di informazioni preziosissime per chiunque si
occupi della Bosnia e per capire sia cosa successe nella Bosnia
Orientale, Srebrenica, Vlasenica, Kladusa, Usora, Zvornik
nel periodo estate-autunno 1941, sia nello stesso periodo
1991-1993. Un ritratto ineguagliabile dei cetnizi, degli
ustascia e della marmaglia musulmana che (per fortuna in esigua
minoranza) si era messa a fiancheggiarli. Ma anche
dell'insurrezione di massa del popolo intero - non soltanto
serbo - che prese le armi per difendere all'inizio la propria
vita, ma anche un concetto di giustizia e di vita in comune
concreto, senza il quale la Bosnia - come del resto tutti i
paesi che una volta facevano parte della Jugoslavia, ma
soprattutto dico la Bosnia sia orientale che centrale o
occidentale - non ha ne' senso ne' futuro. Peccato che questo
libro - scritto nel 1946 - non sia pubblicato in nessuna lingua
straniera... se tradotto sarebbe secondo me ancora
interessantissimo e molto moderno.
La canzone "Konjuh planinom",
che mi sembra viene cantata sull'aria di una celebre canzone
russa "Komsomolsko serce razbito" (Il cuore di komsomolac rotto)
e dice più o meno: "Svojega drugara, husinjskog rudara
sahranjuje ceta proletera" (...un suo compagno, minatore
di Husinj caduto, mette in tomba un unità di proletari),
prende spunto da un evento storico:
Husinj era un paese di minatori che si erano ribellati nel 1920,
dopo i moti operai, alla reazione crescente dei padroni; ed
ebbero scontri con la stazione di gendarmeria nel paese. Viene
ucciso il comandante dei gendarmi e il conducente dello sciopero
e della sommossa dei minatori fu arrestato e condannato a morte,
ma sotto pressione dell'opinione pubblica ebbe mutata la pena in
ergastolo.
Nel 1941 gli ustascia, siccome Husinj era prevalentemente
abitata dai croati, mandarano lì i loro emissari, e poichè nel
paese era attiva una cella comunista, vennero fregati. Uno dei
capi del paese si finse convinto ustascia, così lo scelsero per
fare il "tabornik" (una specie di comandante sul campo) e gli
diedero uniformi, scarpe, armi. I minatori presero tutta la roba
e salirono fra i monti portando ai partigiani le armi di cui si
sentiva un enorme bisogno.
Peccato che quella unità, composta da minatori, comunisti scelti
e già temprati nella lotta, ebbe un destino atroce. Tutti
caddero nella Resistenza, fuorchè uno che nel periodo
postbellico morì in uno scontro con i rimasugli della
feccia fascista...
Certe categorie, come i minatori bosniaci appunto, erano
destinati a pagare tre volte...
Rodoljub Colakovic
Bosnia
Orientale, autunno 1941
Vlasenica
Nella Vlasenica adesso c'è
grande vivacità, ma non è quella vivacità dei tempi di prima
della guerra dovuta all'incrocio delle strade commerciali
della vendita di legna, dei carrettieri, che tiravano giù la
legna dalla montagna, degli autisti, che portavano i
viaggiatori e merci diverse da Zvornik a Sarajevo. Adesso la
cittadina è il centro del “vojvoda” dei cetnizi Acim Babic,
che è calato da Han Pijesak in questo posto. In essa adesso
si trovano le officine dove si cuce la biancheria per gli
insorti e le panetterie che fanno il pane per questa
parte del fronte di Kladanj e Zvornik, tenuto dai cetnizi.
Nella cittadina ronza un buon numero di cetnizi armati, con
le cartucciere incrociate sul petto a mo’ di decorazione.
Generalmente le sue vesti le portano dei contadini:
qualcheduno porta anche le bandoliere dei gendarmi, e quelli
che fanno parte della scorta del “vojvoda” indossano vestiti
di qualità detti “sciajacki”, e sui piedi le ciocie,
con tantissime decorazioni. Certi cetnizi si sono lasciati
crescere la barba e la lunghezza di questa barba, secondo
loro, mostra il tempo passato da quando chi la porta è
entrato “nella lotta”; a prima vista, costoro – quando si
deve dare l'impressione splendida del coraggio – non sono
avari di gesti e di parole.
Nella cittadina la
situazione è penosa. La stragrande parte degli abitanti sono
musulmani e questi vivono nel terrore e nella incertezza. È
vero che non ci sono stati massacri, ma capita spesso che i cetnizi avvinazzati
irrompono nelle case dei musulmani improvvisando
perquisizioni, cercando “gli ustascia nascosti”, e
minacciano che sgozzeranno tutti e si portano via tutta la
roba che ritengono bella o piacevole. Dai villaggi musulmani
vicini arrivano le voci, che i cetnizi terrorizzano la
gente, picchiano, violentano, e già sono successi degli
assassinii. Una delegazione formata dai musulmani di
Vlasenica più in vista, gente che non ha preso parte
al movimento ustascia, si è recata dal “voivoda” Acim per
chiedere protezione. Questi ha promesso solennemente che non
dovranno temere niente e poi subito - ha chiesto soldi!
Glieli hanno dati, ma chi può stare sicuro in questa
cittadina in cui ogni cetnik
è convinto di rappresentare il potere e di poterlo
esercitare a suo piacimento? Quando un cetnik nel bel mezzo di
Vlasenica ha ammazzato un musulmano, il comando della città
non lo ha nemmeno arrestato. L’episodio è stato spiegato
semplicemente: a questo cetnik
gli ustascia gli hanno ammazzato il fratello, e lui si è
solo vendicato. Che questo musulmano ammazzato fosse un
cittadino tranquillo, che con gli assassini del fratello non
avesse nulla da spartire, per i cetnizi non era una ragione
valida per perseguire l’assassino. Per loro il cetnik era un
“vendicatore serbo” che, in verità, non aveva ammazzato
proprio un ustascia, ma si era sfogato su un “turco”. Nessun
musulmano, a Vlasenica, poteva stare tranquillo per la
propria dignità, per i propri averi, tantomeno per la
propria vita. A causa di questo i musulmani si vedono
raramente per le strade, e nelle case dei musulmani
prevalgono ansia ed apprensione – proprio la stessa che
c’era nelle case serbe nel periodo del potere ustascia. È
vero: un piccolo gruppo dei nostri [i partigiani, ndt] tutto il tempo veglia
che questa gente innocente non venga maltrattata; per ogni
caso di infrazione delle leggi essi vanno al Comando della
città e protestano, fanno coraggio ai nostri musulmani,
spiegano loro la nostra politica di fratellanza; ma essi non
detengono il potere e tutti i loro sforzi non bastano ad
infrangere l’atmosfera di paura e di insicurezza.
. . . . .
Cosa era successo
prima della ribellione
La testimonianza di
un sopravvissuto:
“Il 7 luglio, di
sera, gli ustascia sono entrati nel carcere, ci hanno
portato fuori uno per uno, ci hanno perquisiti e ci hanno
tolto tutto quello che avevamo addosso, e poi ci hanno messo
in un'altra cella. C’era soltanto il vice del “logornik”, lo
studente Suljo Suscic ed altri tre ustascia. Ci hanno portat
in corridoio, ci hanno legati due a due e poi tutti insieme
ad una lunghissima catena di ferro. Ci hanno portati verso
Scehovici. Mezzo chilometro dopo Vlasenica ci ha sorpassato
un camion con i fari accesi pieno di soldati, che andava in
direzione di Sarajevo. La strada era assicurata
militarmente: ad ogni curva c’era un ustascia armato di
mitragliatrice. Arrivati davanti alla casa di Hoxa Medo
Brugeglia la colonna si è fermata. Il figlio di Brugeglia,
Huso, che ci aveva dapprima legati in carcere, ha fatto un
fischio ed è uscito dalla casa. Medo, senza una parola, si è
messo a capo della colonna, accanto a suo figlio Huso, e
tutta la colonna si è messa in cammino. Dopo un po’ ha
cambiato la direzione, svoltando verso Rascicia Gaj. Subito
quando siamo usciti dalla strada maestra svoltando verso Gaj
siamo diventati tutti consapevoli che ci portavano a morire.
Gli uni hanno cominciato a piangere, gli altri a ricordare i
loro bambini, altri ancora a battersi il petto con la mano
libera.
Io ero nella seconda fila,
legato a Giuro Vuckovic. Ho approfittato di una occasione,
ho fatto segno al
compagno di tenere il lucchetto con la mano libera, e con un
colpo ho rotto il lucchetto che ci teneva legati alla
catena; e tutto questo nel momento in cui già eravamo
arrivati fino alla fossa, e già stavamo sulla terra vangata
di fresco. Adesso tutti stavamo fermi e zitti. Anche gli
ustascia stavano
zitti. Aspettavo che ci falciassero con la mitraglietta,
ma invece Suscic, che in una mano teneva la torcia
elettrica e nell’altra il revolver, urlò: entrate
nella fossa. Questo per noi due era il segno che nello
stesso istante saltassimo nel ruscello, il cui
mormorio si sentiva subito dietro la fossa. Appresso a noi
saltò anche Giorgie Viskovic, che era riuscito a liberarsi
dalla catena. Dietro di noi gli ustascia spararono
caricatori interi dai fucili. Vuckovic è stato ammazzato, ma
Viskovic ed io siamo arrivati, all’alba, scalzi e senza
nulla in testa, al villaggio di Zicote. Dai contadini
abbiamo sentito dire che lì nessun'altra notte si erano
sentiti degli spari, si è
sparato soltanto quella notte in cui noi siamo scappati
via. Quindi significa che gli ustascia le loro vittime le
sgozzavano o le seppellivano vive, visto che a noi avevano
ordinato di entrare vivi nella fossa...”
. . . . .
Srebrenica
Dinanzi a Srebrenica
ci aspettavano una decina di giovani con i regali di
benvenuto. Non ho visto le loro facce nel buio, ma dalle
loro voci liete e concitate ho dedotto che si rallegravano
per il nostro arrivo.
- Abbiamo già pensato che
non sareste venuti -, diceva una voce nel baccano, più alta
delle altre, - e noi avevamo già preparato la conferenza.
Srebrenica vuole sentire e vuole vedere i partigiani!
Ci siamo incamminati
per la strada che sale, piena di curve, seguendo un
ruscello, e ci siamo fermati davanti ad un’osteria. Siamo
entrati in un caffè. Dietro al tavolo dove erano allineate
le bibite l’oste mi è venuto incontro e mi ha salutato come
un vecchio conoscente.
All’inizio non sapevo chi
fosse, ma guardandolo con un po’ più d’attenzione in volto,
ho riconosciuto Simo Bogovic, un operaio panettiere,
che nel 1920 era il segretario della nostra piccola
cella del Partito comunista di Bjeljina. In seguito, quando
il nostro Partito è stato proibito, lui era andato a vivere
a Srebrenica ed era diventato padrone di un’osteria.
Nel bel mezzo del discorso
lui improvvisamente si mise a singhiozzare e le lacrime gli
solcarono il viso.
- Il figlio mi è caduto un
mese fa, il mio primo figlio -, disse singhiozzando. - È
molto penoso, ma è morto coraggiosamente, come un vero
comunista...
Simo aveva lasciato il movimento ed aveva cominciato a
servire le bibite ai clienti, ma i suoi figli li aveva
tirati su come si deve.
- Guarda, tutti questi sono
i compagni del mio figliuolo caduto - mi disse, mostrando i
giovani che sedevano intorno al tavolo. - Loro ti possono
dire come era coraggioso mio figlio...
- Ma non c’è bisogno di
testimoni, ti credo, compagno Simo.
- No, no, chiediglielo, non
pensare che io questo lo abbia detto come padre - disse
Simo, e ricominciò a piangere.
- Bene, Simo, calmati
compagno, in una lotteria come questa sono i migliori che
muoiono -, gli disse Jaksic.
Ho pernottato dal
medico del distretto, il dottor Asim Cemerlic, mio compagno
di scuola, che in questa regione ha prestato servizio già
vent’anni. Nei primi giorni dell’occupazione lui ha reso
servigi enormi ai Serbi di questa zona, perchè con la sua
autorità ha ottenuto dal “logornik” ustascia che questi non
eseguisse nessun ordine dei suoi superiori di Tuzla e
Sarajevo, e soprattutto nessun ordine che riguardasse
arresto e internamento di “sospetti”. Il distretto di
Srebrenica forse è l’unico in Bosnia ed Erzegovina dal quale
nessuno, nel 1941, sia stato portato nei campi di
concentramento tenuti dagli ustascia e dove nessuno sia
stato ammazzato nei giorni del massacro ustascia ai danni
dei serbi. In questa regione così fuori dal mondo nessuno
dei caporioni ustascia si è mai azzardato a venire, e già
nel mese d’agosto si era accesa la ribellione.
Cemerlic si lagnava che i
cetnizi già cominciavano a dare noie agli abitanti dei
villaggi musulmani, i quali non erano più al riparo ne' in
casa ne' in strada dai soprusi dei cetnizi, tollerati dal
comando cetnico.
Sono andato a dormire tardi
e non riuscivo ad addormentarmi, tanto mi aveva scosso il
discorso di Cemalovic. Ieri in questa regione i musulmani
erano i fratelli dei serbi, si erano comportati umanamente,
e oggi questo era il ringraziamento. Per loro, in grande
maggioranza contadini ignoranti, diventa assai difficile
distinguere un serbo da un cetnico, visto che qui per il
bene si rende il male, nel falso nome della “vendetta
serba”. E che cosa ci sarebbe allora da meravigliarsi se
loro, con le loro teste, dovessero concludere che bisogna
prestar fede al vecchio proverbio – maledetto – che dice: ”Non credere al morlacco
(serbo) e neanche al lupo”; proverbio che fu forgiato dagli
aga e dai bey [dignitari turchi, ndt]
per avvelenare l’anima dei braccianti musulmani, e che oggi
viene ripetuto da Mesic, Ciapljic, Haxic, Sciuljak, e da
altri delinquenti ustascia. ”Fate fuori i morlacchi e poi
vivrete in santa pace” – questa è la base della loro
criminale propaganda. In questa regione i musulmani non
hanno voluto dar loro retta. Ma adesso vengono gli
sciovinisti serbi, i bastardi cetnizi, a mostrare con il
loro operato che “la libertà serba” della quale
strombazzano, per i musulmani vuol dire insicurezza, ogni
specie di umiliazione, e forse anche annientamento. Ci
sarebbe dunque da meravigliarsi se concludessero che è Adem
Aga Mesic ad aver ragione e non la gente che gli aveva detto
di vivere in concordia e in buoni rapporti con i loro vicini
serbi? In questa regione sperduta della Bosnia non ci sono
le unità partigiane a far vedere ai musulmani che esiste una
diversa specie di insorti, che conduce la lotta anche per la
loro libertà, convinta che senza la libertà per i serbi, i
musulmani ed i croati di Bosnia-Erzegovina, nella stessa
misura, non ci sarà libertà per nessuno di questi tre
popoli. Con il loro operato i cetnizi non soltanto riempiono
di vergogna la bandiera dell’insurrezione, ma le scavano la
fossa e la indeboliscono. L’odio sciovinista che loro
seminano vuol dire portare acqua al mulino dell’occupante
fascista: questo detto ben noto qui trova la sua profonda
conferma.
L'indomani alla conferenza, trasformatasi in un raduno,
abbiamo parlato io, Giukanovic e Jaksic. Il caffè era
strapieno di gente che con la massima attenzione ascoltava
le nostre esposizioni.
Nel mio discorso ho dato la
più grande importanza alla questione della fratellanza e
dell'unità nella Bosnia ed Erzegovina. Ho parlato di ciò di
cui la sera prima, dopo il discorso con Cemalovic, avevo
pensato a lungo. Non ho risparmiato niente agli sciovinisti
serbi, a quelli che intendevano il senso della nostra
insurrezione come una occasione per “sgozzare i turchi”.
Per via di questo certa
“cittadinanza” serba ce l’aveva con me, e mi guardava
storto. È chiaro che le mie parole non sono state tenere. A
loro conveniva di più ascoltare Dangic, un ufficiale dell’ex
esercito e “un vero serbo”, uno che ciancia della “libertà
serba”, sulla quale loro nutrono sí nobili sentimenti: non
vanno al fronte, nessuno tocca i loro cassetti, e per di più
possono comportarsi come “razza superiore” verso i musulmani
e tenere verso di loro un atteggiamento tra il pietoso ed il
protettivo... E questo comunista parla in un modo offensivo:
vuole renderli uguali alle “balije” (musulmani), e chiede
inoltre che i più ricchi aprano il portafoglio e diano più
danaro per il fronte.
Ma all’opposto rispetto a
loro, i musulmani e la gioventù serba, una ventina o
trentina di studenti, sono stati entusiasmati. Per la prima
volta hanno sentito le parole del Partito comunista, che
chiamano alla lotta non soltanto contro gli occupanti, ma
anche contro tutti quelli che in qualche maniera li aiutano:
per la prima volta hanno sentito parole sulla fratellanza e
sull’unità di tutta la gente onesta nella lotta per la
libertà e per una Bosnia-Erzegovina riconciliata, parole su
di un futuro più felice nella Jugoslavia che sarà frutto
della nostra lotta...
Lo stesso giorno,
nel pomeriggio, ho tenuto una conferenza con i giovani. In
questa conferenza abbiamo formato una compagnia partigiana
di Srebrenica, visto che per la formazione di una unità più
grande non c’erano ancora le condizioni in questa regione.
Le armi gliele avremmo spedite dopo qualche giorno. Appena
avute le armi loro sarebbero dovuti andare verso il fronte
di Zvornik, sul settore controllato dai cetnizi di
Srebrenica, ed insieme a loro avrebbero dovuto prendere
parte alla liberazione di Zvornik. Ho spiegato che a Zvornik
la situazione non era buona, e che loro avrebbero potuto
fare molto per migliorarla se fossero riusciti a trovare il
modo di stare vicini ai contadini cetnizi e di esercitare
una influenza politica su di loro in accordo con la nostra linea di unità di
tutte le forze insurrezionali.
Poi siamo andati al
piccolo villaggio vicino di Bratunac. Qui abbiamo tenuto il
comizio in un caffè abbandonato. La stragrande parte dei
presenti erano i musulmani dai villaggi vicini. Erano venuti
per sentire i partigiani, che in questa regione nessuno
aveva mai visto, ma dei quali avevano sentito che erano
gente onesta e piena di giustizia. Anche qua, in questa
regione sperduta, erano arrivate le voci su Cicia, che sta sul
monte Romanija, voci su di un capo partigiano che trattava
alla pari tutti i figli onesti di questa terra.
Con difficoltà sono
riuscito ad arrivare, fendendo la massa, fino al posto
assegnato all’oratore – un tavolo malfermo del caffè. Mentre
parlava Pero, un uomo di queste parti, il quale per primo
dopo di me aveva preso la parola, osservavo il pubblico.
Erano tutti gente contadina, che fatica in questa regione,
vestiti da contadini, con vesti consunte, certuni proprio
vestiti di stracci. Erano presenti pochi giovani, e la
maggiorparte erano persone avanti con l'età, che sembravano
depresse, anzi impaurite. Durante i nostri discorsi nessuno
espresse ad alta voce il suo consenso, ma tutti ascoltavano
con grande attenzione. Come se avessero paura di mostrarsi
apertamente d’accordo con qualcosa che, dopo, avrebbe potuto
nuocere loro, negli occhi e nelle orecchie di coloro che
erano venuti a questo raduno da poliziotti, per vedere e
sentire e per controllare che atteggiamento avessero i
presenti. Questi erano un gruppo di cetnizi del posto,
capeggiato da Srbislav Blazic, che stava vicino alla porta
del caffè e da quella posizione seguiva l'andamento del
raduno.
Quando, dopo il
raduno, sono uscito fuori con Jaksic, Blazic mi ha fermato
ed ha cominciato, subito senza nessuna introduzione, a dire
che i serbi di questa regione non saranno mai d’accordo con
quello che avevo detto sulla fratellanza di serbi e
musulmani. Questo per prima cosa. Seconda cosa,
che i serbi non andranno
mai d’accordo con i comunisti, visto che essi non credono in
dio. I serbi di qui non vogliono più sentire discorsi del
genere che offendono i loro sentimenti nazionali.
Quest’ultima frase era
detta con tono di minaccia.
(...) Mi creava
disagio quel colloquio, ma non potevo passare oltre Blazic
ed i suoi senza dir nulla, visto che lui avrebbe
interpretato questo come una fuga ed avrebbe potuto, come
ogni codardo, spararmi nella schiena. Ho spostato la pistola
dalla schiena verso avanti ed ho sbloccato la sicura. Ho
risposto a Blazic, che si era accorto del mio gesto, che
quello che avevo detto nel comizio era l'unica vera politica
serba e che essa era allo stesso tempo la politica di tutti
i nostri popoli. Ogni baruffa fra i nostri popoli sarebbe
stata utile soltanto all’occupatore. Quanto alla
collaborazione fra i comunisti ed altri patrioti, essa è più
che possibile. Se si sono potuti mettere d’accordo i russi e
gli inglesi per battere Hitler, perchè non si dovrebbero
mettere d’accordo i nostri patrioti, siano essi repubblicani
o monarchici, credenti o atei: oggi il compito primario è
lottare per la libertà della patria, e questa è la stessa
per credenti e non credenti, come lo è per i repubblicani e
per i monarchici. E infine – noi diremo sempre al popolo
quello che pensiamo e non obblighiamo nessuno a sentirci...
Tratto da: Rodoljub Colakovic, "Zapisi iz
oslobodilackog rata" (Scritti dalla guerra di Liberazione), Svjetlost, Sarajevo 1948.
Pg.110 e segg.
Selezione e traduzione a cura di Jasna Tkalec.
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