Erano certamente due grandi
bandiere bianche quelle che vedevo, erette sui fuoristrada
tedeschi, in avvicinamento alla piazzaforte di Sebenico, sulla
costa dalmata, quel mattino del 10 settembre 1943. Ma
altrettanto incerto era, invece, il loro significato, perché
l'ordine che avevo ricevuto era di difesa ad oltranza del porto
di una città, dal quale si sarebbero potuti imbarcare alcune
migliaia di nostri militari, evitando così la cattura.
Avvertivo la responsabilità di un ordine che voleva dire
"combattere" e della eccezionale posizione del fortino che
comandavo, il più avanzato sulla strada di Zara, a cui stava
sopraggiungendo la 14ª divisione SS tedesca. E avrei dovuto
essere io, inesperto sottotenente, da appena tre mesi uscito da
Modena, a dare inizio al previsto sbarramento di fuoco, per
impedire la occupazione della città.
Al mio segnale, senza alcun altro avviso, sarebbe seguito il
tiro di interdizione di decine di bocche da fuoco, concentrate
lungo tutto il perimetro di una difesa fra le più salde della
costa. Tuttavia, mi sorprendeva che nessuno, dopo gli ordini
della sera precedente, si facesse più vivo, malgrado che la
situazione fosse sempre più drammatica.
Ero solo, coi miei bersaglieri, i quali, la sera dell'otto
settembre, all'annuncio dell'armistizio, preceduto dai fuochi di
gioia dei partigiani si erano dati alle più sfrenate
manifestazioni di giubilo ma che, ora, erano tornati seri e
disciplinati, immobili dietro i muretti di sassi, con le armi
pronte a sparare.
Alcuni di loro appartenevano a
classi anziane, con tre anni di guerra sulle spalle; molti erano
siciliani, con la dolorosa notizia che la loro terra era stata
già invasa dagli anglo-americani.
L'alba ci aveva colti tutti così, dopo una notte insonne, in
posizione di massima all'erta. Stavo vivendo quegli attimi di
tensione spasmodica come sull'orlo di un precipizio, ma con il
cannocchiale ben puntato sulle bandiere bianche che si
avvicinavano alla linea di apertura fuoco, cinquecento metri da
noi, con quell'ambigua esposizione di un segnale di pace. Poi,
in rapida sequenza, gli avvenimenti che avrebbero segnato per
sempre la mia vita: l'urlo del telefonista che ripeteva: "signor
tenente non si spara più!"; l'assalto improvviso, a seguito
della nostra rinuncia, di un gruppo di partigiani, che non avevo
mai visto così da vicino, sbucati chissà da dove, che si para
spavaldamente davanti alla colonna tedesca e inonda le prime
macchine con un diluvio di colpi di parabellum; i drappi bianchi
che rapidamente si abbassano, mentre alcuni tedeschi si
riversano, esamini, sulla strada, fuori dai loro mezzi; e, su
tutto, il nostro assordante silenzio di uomini vinti.
Quel pomeriggio, venni lasciato ancora solo, coi miei pensieri
in subbuglio e le mie domande irrisolte, perché più nessuno
rispondeva, dall'altro capo del telefono. Più tardi, divenne
tutto più chiaro, quando alcuni colleghi, ormai prigionieri, ma
momentaneamente liberi sulla parola d'onore, saliti sino al mio
fortino, mi avevano ragguagliato sulla cattura dell'intero
reggimento.
Non c'era stata nessuna reazione, per la improvvisa resa ai
tedeschi del comandante della divisione "Bergamo", il quale,
subito dopo, aveva preso il largo verso l'ospitale Trieste, già
in mano nemica.
La notte che seguì, ancora insonne, con l'animo amareggiato e
pieno di voglia di rivincita, permisi di entrare nel fortino ad
un sergente del mio battaglione, da mesi disertore, che mi pose
la richiesta di consegnare le armi ai partigiani, in cambio
della libertà e del rimpatrio. Cedetti le armi a quegli uomini
che avevano dimostrato quello straordinario coraggio, sulla
strada della nostra capitolazione, ma rinunciai all'offerta del
ritorno a casa. Mi aspettavano quindici, interminabili mesi di
un cammino egualmente verso la libertà, ma in un Paese
straniero, dilaniato dalla occupazione nazifascista.
Più tardi, venni a sapere che, nei dintorni di Spalato, il primo
di ottobre, a seguito della loro collaborazione coi partigiani,
favorita dal generale transfuga a Trieste, quarantotto ufficiali
e tre generali erano stati condannati e fucilati, da un
tribunale della stessa divisione SS "Prinz Eugen".
I loro corpi, riportati in Italia, sono oggi sepolti nel tempio
militare del Lido di Venezia. Si è trattato di uno degli eccidi
più sanguinosi della guerra di Liberazione, il cui ricordo,
forse perché in parte offuscato da quello di Cefalonia, non è
mai stato celebrato.
Anche la mia vicenda di transfuga e della consegna delle armi ai
partigiani, sembra che abbia avuto un tragico epilogo, nella
persona del Col. Verdi, comandante del mio reggimento, di stanza
a Spalato e, perciò, molto distante dal mio fortino. Un
testimone oculare lo avrebbe visto scendere dal mezzo sul quale
si stava già avviando verso la prigionia, dopo che un
motociclista, latore di un ordine urgente, aveva bloccato
l'automezzo e ordinato la consegna dell'alto ufficiale. Ritenuto
ingiustamente responsabile del mio gesto, verrà anch'egli
fucilato dai feroci SS della "Prinz Eugen". Ho cercato invano la
sua lapide, fra quelle del Lido, ove avrei tanto desiderato
deporre un fiore.
La Resistenza dei militari
italiani a Spalato
A Spalato gli uomini della Divisione Bergamo
fecero causa comune con i partigiani iugoslavi. La città venne
difesa per giorni dagli attacchi delle colonne motorizzate della
divisione SS Prinz Eugen, che per passare dovette attendere il
rinforzo della 114^ divisione tedesca. Nel frattempo però alcune
unità della nostra Marina poterono salpare alla volta
dell'Italia portando in salvo interi reparti con tutto il loro
armamento. E mentre i tedeschi facevano intervenire anche la
loro aviazione, dalla città i partigiani iugoslavi andavano
evacuando un'enorme quantità di materiale bellico col quale
armarono poi migliaia di nuove reclute del maresciallo Tito. I
bombardamenti di rappresaglia provocarono centinaia di vittime
negli accampamenti dei militari italiani. Quando la situazione
divenne insostenibile, i superstiti uscirono dalla città per
raggiungere i partigiani. Una volta occupata Spalato, il comando
della divisione SS Prinz Eugen istituì un tribunale speciale per
giudicare gli ufficiali della divisione Bergamo che avevano
collaborato con i partigiani di Tito. Il verdetto fu spietato: il 1° ottobre nei pressi della
città vennero fucilati tre generali e 47 ufficiali. Oggi le
loro salme sono accolte a Venezia nel tempio votivo dedicato
ai caduti delle due guerre mondiali.
La Resistenza dei militari
italiani a Belgrado
I superstiti della difesa di Spalato continuarono a
combattere e nacquero così prima il battaglione Garibaldi,
subito accolto nelle fila della I brigata proletaria iugoslava,
e poi il battaglione
Matteotti, costituito grazie al moltiplicarsi dei
militari che avevamo scelto di combattere i tedeschi. Per ben
tre volte i due battaglioni Garibaldi e Matteotti, le maggiori
formazioni italiane in Bosnia, rischiarono di essere annientati
dalle offensive tedesche a largo raggio e di lunga durata e
tuttavia ressero alle più dure prove meritando l'elogio di Tito
e frequenti citazioni nei bollettini di Radio Londra. I due
battaglioni parteciparono anche alla conquista di Belgrado,
città alla cui tenuta i tedeschi attribuivano un'enorme
importanza morale e strategica. La sede del Teatro nazionale
della città fu liberata il 19 ottobre dal battaglione Garibaldi,
dopo tre giorni di violenti scontri con i tedeschi. A Belgrado venne decisa anche
la costituzione della brigata d'assalto Italia, grazie alla
fusione dei due battaglioni Garibaldi e Matteotti con altri
tre composti da centinaia di italiani liberati dalla
prigionia; una brigata forte di 4.000 uomini che nel maggio
1945 ritornò in patria con il nome di Divisione Italia.
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P A R T I G
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Una iniziativa internazionale
ed internazionalista
nel 60.esimo anniversario
della Liberazione dal nazifascismo
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