Most za Beograd
Un ponte per Belgrado in terra di Bari -
Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava 
via Abbrescia 97, 70121 BARI
tel/fax 0805562663
most.za.beograd@...  
conto corrente postale n. 13087754

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Gli ultimi dispacci di agenzia ci parlano di una situazione gravissima
di pogrom e pulizia etnica nei confronti dei pochi residenti non
albanesi rimasti in Kosovo (circa 300.000 sono già stati espulsi dopo
giugno '99).
Da Kosovska Mitrovica è giunto all'associazione SOS Yugoslavia (Torino)
e alle associazioni, che in questi anni si sono preoccupate di dare
informazioni  contro le menzogne mediatiche e di organizzare ponti di
solidarietà con la popolazione jugoslava bombardata dalla NATO, un
accorato e disperato appello, che diffondiamo e invitiamo a diffondere
il più possibile.
Riteniamo che in questi giorni, in cui si sviluppa la mobilitazione
contro la guerra degli USA e per il ritiro delle truppe italiane
dall'Iraq, la questione jugoslava - vera e propria guerra costituente
del "nuovo ordine mondiale" - debba ritornare al centro
dell'attenzione, delle mobilitazioni e della solidarietà con una
popolazione brutalmente aggredita, bombardata, umiliata e offesa dalla
"comunità internazionale"
L'iniziativa di giovedì 25 a Molfetta, con la presentazione di un video
inedito girato nella primavera del 2003 proprio a Kosokska Mitrovica
assume - dopo i terribili pogrom antiserbi di questi giorni - si
presenta come un appuntamento ancor più significativo. Siamo impegnati
a organizzarne una a Bari nei primi giorni di aprile, di cui daremo al
più presto notizia.

accludiamo qui, insieme con l'appello, un articolo di Enrico Vigna
dell'associazione SOS Yugoslavia, nonché alcuni articoli pubblicati in
questi giorni sui quotidiani italiani.

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giovedì 25 marzo - ore 20.00 - Casa dei popoli - Via Tenente Ragno 62
-  Molfetta
 
Jugoslavia perché...  A 5 anni dalla “guerra umanitaria” e
“costituente” della NATO
 
presentazione del libro  QUEL BRACCIO DI MARE... appunti di un viaggio
balcanico
intervengono Nellina Guarnieri  (Ass. ADIRT)
Mariella Cataldo (Ass. Most za Beograd)
 
Il ricavato della vendita del libro (10 euro: può essere richiesto
all'associazione) è devoluto a sostegno del progetto di “adozioni a
distanza” dei bambini della Zastava di Kragujevac distrutta dai
missili. (Il 12 marzo sono stati consegnati a Kragujevac i primi 1000
euro...)
 
Durante la serata
Performance teatrale a cura dell’Ass. Grammelot

“Le altre verità del Kosovo” - video-reportage presentato da Pasquale
Giordano


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KOSOVO METHOIJA - MARZO 2004

Appello per fermare la pulizia etnica e gli orrori contro la
popolazione serba e non albanese

 

Agli amici del popolo del Kosovo Methoija e del popolo serbo, alle
Associazioni come la vostra ed alla sua persona, conosciuta e stimata
per quanto fatto finora per il nostro popolo,

 

Vi giunga questo appello da questa terra martoriata, dove in questi
giorni il sangue e la guerra, sono nuovamente parte della nostra già
difficile quotidianità di questi terribili e duri cinque anni trascorsi
dai bombardamenti della Nato, e dalla conseguente espulsione e pulizia
etnica di centinaia di migliaia di nostri fratelli e sorelle dalle
proprie case, dai propri campi, dalle proprie radici millenarie e molte
migliaia anche strappati alla vita ed all’affetto delle loro famiglie,
mediante assassinii e rapimenti.

Vi chiediamo di attivarvi in qualsiasi modo e forma per contribuire a
cercare di fermare l’orrore e il bagno di sangue causati da queste
forze terroristiche che distruggono, incendiano, uccidono e lapidano
uomini e donne che da sempre vivono qui.

Vi chiediamo di informare correttamente sulle verità e la realtà di
quanto sta accadendo, di chiedere a tutte le persone oneste e che
credono nei diritti umani nel vostro paese di aiutare il nostro popolo
a non subire un vero e proprio genocidio.

Distruggono anche gli ultimi cimiteri, monumenti e monasteri della
cultura ortodossa che ancora non avevano distrutto in questi anni.

Siamo stanchi di vedere i nostri campi e le nostre case bruciate, di
essere vessati, uccisi, perseguitati con la sola colpa di essere serbi
e di voler continuare a vivere nella terra dove da centinaia di anni
abbiamo sempre vissuto. In una terra per la cui difesa dalle
aggressioni e dalle occupazioni degli stranieri invasori nel corso
della storia abbiamo sempre versato fiumi del nostro sangue.

Siamo stanchi, ma non consegneremo ad assassini e terroristi estremisti
la nostra terra, le nostre vite, le nostre radici, la nostra dignità.
Dovranno ucciderci tutti, anche i nostri figli e le nostre mogli. E’ un
nostro diritto.

Le chiediamo di divulgare queste parole, di dare voce a noi, semplici
cittadini, stranieri a casa propria, di un popolo senza voce, senza
televisioni, senza neanche più la forza per urlare la nostra
indignazione e le nostre ragioni. Ma determinati a non cedere.

Nel nostro ospedale di Kosovska Mitrovica non ci sono più posti liberi,
non ci sono sufficienti medicinali, non c’è sufficiente sangue per
colmare quello versato dagli estremisti albanesi; da ogni angolo di
questo Kosovo crocefisso questo è l’ultimo lembo di terra dove
confluiscono i nostri fratelli e sorelle scampati ai pogrom delle bande
assassine, che terrorizzano, incendiano le case, uccidono.

Nelle nostre case scarseggia tutto, i nostri figli non hanno più nulla
che non sia paura e angoscia. Aiutateci a fermarli. Che la gente onesta
e buona si alzi per gridare BASTA!

La nostra amicizia e fratellanza sarà eterna.

Noi siamo ancora in piedi e fermi nella volontà di fermarli, di
resistere, ma siamo soli con i nostri fratelli della Serbia. Il
personale internazionale di qui ci dice che siamo soli perché siamo
serbi. Sappiamo che lei e le vostre Associazioni non la pensano così.
Per questo confidiamo nella vostra amicizia e nel vostro impegno. Ma
fate presto!

Con rispetto e tanta amicizia.

 

Cittadini e cittadine delle Istituzioni e Municipalità, dell’Ospedale e
delle varie Associazioni civili e sociali di Kosovska Mitrovica, Nord
del fiume Ibar, a cui si associano i profughi delle Associazioni dei
Profughi in Serbia.



 

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Ora hanno messo a fuoco le ultime case, monasteri, campi che ancora non
avevano bruciato… Assalti, devastazioni, lapidazioni, bombe; ancora
paura, orrore, violenza, sangue, morte. Il tutto sotto l’occhio
“distratto” di 20.000 soldati della Nato.

ECCO a cinque anni dalla “liberazione”, dai “bombardamenti umanitari”,
che cosa è il “Kosovo liberato”. Un “bantustan”, un enorme campo di
concentramento a cielo aperto, dove alcune etnie non “pure” vivono da
cinque anni in una condizione di prigionieri e di paria, non potendo
svolgere alcuna attività.

Una regione dove in cinque anni ,ci sono stati migliaia di attentati,
migliaia di assassinati e di rapimenti, di feriti, nella stragrande
maggioranza commessi contro serbi, e in numero minore, contro non
albanesi o albanesi kosovari jugoslavisti.

Ecco nuovamente questi “dannati del Kosovo”, nuovamente in prima
pagina, ma non per denunciare questo stato di cose barbaro e criminale,
ma perché le bande assassine dell’ex UCK, oggi regolarizzate nel Corpo
Protezione del Kosovo, comandato dal criminale di guerra della ex
Jugoslavia A. Ceku, stanno cercando di terminare la pulizia etnica e la
cacciata definitiva delle ultime migliaia di serbi e di qualche altra
etnia, che non avevano preso la via dell’esilio e della fuga, come gli
altri circa 300.000 che sono scappati in gran parte in Serbia.

Quanto sta avvenendo non ha nulla di particolarmente nuovo per chi, in
questi anni ha continuato a seguire gli avvenimenti kosovari , è una
logica conseguenza del modo in cui è stata organizzata la dissoluzione
della Jugoslavia e il protettorato sul Kosovo.

Cosa è successo? Il pretesto per un gigantesco pogrom scatenato in
tutto il Kosovo lo ha fornito la notizia diffusa dai media della morte
di due bambini albanesi (un terzo è disperso) nelle acque del fiume
Ibar, a Mitrovica, per sfuggire all’inseguimento di coetanei serbi con
cane… La notizia è stata subito smentita ufficialmente, nella stessa
notte, da Derek Chappell portavoce dell’Unmik. Ma era solo il pretesto,
costruito per l’opinione pubblica occidentale (e ancora avallato
incredibilmente da una serie di quotidiani) – come fu la presunta
strage di Racak, o le stragi del mercato di Sarajevo, per mettere in
moto un ennesimo passaggio storico per l’area.

Come “un’ora x” una notte dei cristalli, come è stata definita da media
locali, scatta una coordinata e sincronizzata campagna in tutto il
Kosovo Methoija, ovunque c’è ancora qualche “enclave” di sopravvissuti
serbi e rom, circondati da filo spinato e truppe KFOR, ovunque c’è
ancora una chiesa ortodossa, al cui interno vivono assediati qualche
anziano con i monaci, si scatenano assalti, incendi, assassinii, una
vera e propria azione sincronizzata militarmente, da un esercito senza
divisa, ma molto ben dotato di pistole, fucili mitragliatori, granate,
mortai e bottiglie incendiarie e in sole 20 ore si scatena l’orrore:

Mitrovica, Caljavica, Kosovo Polje, Gnjilane, Bicha, Grabac, Osojane,
Belopolje, Pec, Gorazdevac, Obilic, Prizren, Svinare, Lipljan e -
vergogna per l’Unesco e l’Onu - la distruzione della chiesa Sveti Ilja
a Vucitrin e dell’antichissimo monastero di Djakovica (che erano
patrimoni dell’umanità); parte delle 16 chiese e monasteri distrutti
nella sola notte. In 60 ore: 31 morti oltre 500 feriti secondo dati
ufficiali, mancano notizie dei villaggi sparsi per la regione,
centinaia di case incendiate e distrutte. Persino l’ospedale di
Mitrovica Nord è stato attaccato con mortai, come ha denunciato il
direttore M. Ivanovic. Anche la Kfor ha avuto quasi un centinaio di
feriti, di cui alcuni gravi; la stessa Onu ha avuto macchine incendiate
e sedi assaltate; per questo il 19 marzo Annan ha chiesto il rientro
dello staff presente nel Kosmet.

 

Ma in queste dinamiche militari emerge ancora una volta il ruolo
vergognoso - e funzionale alla preparazione degli eventi - dei mass
media occidentali (tranne rare eccezioni), che immediatamente parlano
della “barbara uccisione dei bambini albanesi” (prima falsità: smentita
dall’Unmik), poi di “scontri interetnici” (seconda falsità: da una
parte vi sono degli assalitori armati, dall’altra degli assaliti
disarmati), di “esplosione della rabbia degli albanesi per l’accaduto”
(terza falsità: gli stessi funzionari Unmik, a giornalisti scozzesi
dello Scotsman parlano di pogrom pianificato, così come il comandante
delle truppe italiane” dichiara a Repubblica che “ serviva solo un
pretesto…tutto era programmato…”; come è possibile che, in un
territorio completamente militarizzato, centinaia di individui si
spostino armati da una cittadina ad un’altra per dare assalti,
incendiare, uccidere e 20.000 soldati armati ed equipaggiati
sofisticatamente…non vedano ?!). Poi di “atti di violenza di estremisti
albanesi” (quarta falsità: uccidere uomini e bambini, bruciare case e
monasteri, non possono essere mediaticamente definiti “atti di
violenza”, ma sono giuridicamente dei crimini; il comandante delle
truppe italiane dichiara: “gli albanesi vanno di casa in casa per
uccidere…”).

La Serbia ha risposto nuovamente compatta, come all’inizio dei
bombardamenti Nato nel 1999, nelle telefonate con varie città emerge un
quadro di unità nazionale, di ripresa di una identità e dignità
nazionali in questi anni calpestati dallo strapotere occidentale e dai
quisling locali, che in questi anni hanno fatto da maggiordomi ai
voleri della Nato, del FMI e della Banca Mondiale, portando il popolo
serbo in un tunnel di miseria e disperazione sociale, mai visti neanche
durante embarghi e guerre. Fabbriche, uffici, miniere, scuole,
università in sciopero, le piazze di tutta la Serbia riempite da
centinaia di migliaia di manifestanti, in alcuni casi anche esasperati
e stanchi di tutto quanto è accaduto. Una ferma e grande prova di
presenza, di identità e dignità nazionali ritrovate, in un momento
nuovamente tragico della storia di questo generoso e forte popolo.

 

Ma proprio in questi aspetti si può trovare una lettura di quanto sta
accadendo non casualmente; in molte interviste di questi giorni, mi
viene spesso chiesto “PERCHE?”, proprio ora, in forme così violente.
Proprio la scorsa settimana ero in Serbia e ho fatto alcune interviste
a personalità politiche e sociali, che usciranno nei prossimi giorni, e
nelle quali sono spiegati e approfonditi alcuni aspetti delle scelte
politiche nazionali e statali di quest’ultimo mese a livello
istituzionale. In esse ci possono essere le chiavi per comprendere gli
avvenimenti di queste ore.

1. Una è quella della formazione del nuovo governo Kostunica, avvenuta
nelle scorse settimane, in cui il ruolo del Partito Socialista Serbo è
stato fondamentale, non perché - come erroneamente scritto da liberi
pensatori locali (anche di sinistra estrema) che non conoscono nei
dettagli gli avvenimenti -  il PSS sia andato al governo (questa è una
stupidaggine), oppure -  come anche ha scritto qualcuno - avrebbe
abbandonato scelte precedentemente sancite, ma perché la formazione e
la vita di questo nuovo governo è stata fondata sulla base di un
accordo istituzionale, basato sulla necessità di difendere gli
interessi nazionali del popolo serbo PRIMA DI TUTTO. E solo su questa
base il nuovo governo potrà contare sull’appoggio esterno del PSS. Ma è
qui che possiamo trovare la risposta al piano di violenza programmata
scatenata in questi giorni nel Kosovo Methoija, un vero e proprio
tentativo di dare una spallata definitiva alle ultime presenze serbe
nella regione, quasi per anticipare le prossime scelte del nuovo
governo di Belgrado. Infatti, in uno dei sei punti programmatici per la
formazione del nuovo governo ci sono due riguardanti il KOSMET : il
primo è l’aver stabilito per ora l’impossibilità del cambiamento della
Costituzione serba (cambiamento che il precedente governo Dindijc, su
pressioni occidentali, aveva più volte tentato di mettere all’ordine
del giorno), dove è sancita l’inviolabilità degli attuali confini della
Repubblica, per cui il Kosovo Methoija è e resta una provincia della
Repubblica di Serbia e nessuno può, a nome del popolo serbo, trattare
per la sua separazione. Questo è praticamente uno schiaffo agli USA,
fortemente schierati con la linea dell’ex Uck per l’indipendenza del
Kosovo, è quasi un ritorno indietro per la politica Usa nell’area.

2. Il secondo riguarda la richiesta ufficiale da parte del nuovo
governo, dell’applicazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu, che al punto 4, allegato 2, stabilisce il rientro
di personale dell’esercito e polizia della Yugoslavia (che non c’è più)
e della Serbia (che esiste ancora). È un altro punto che riapre una
trattativa sul futuro del Kosmet in modo diverso da come era stato fino
allo scorso governo; vi è anche qui un ostacolo alla soluzione
definitiva, prospettata dall’ex Uck e avallata dagli Usa, di una
definitiva indipendenza con conseguente espulsione delle ultime
comunità serbe rimaste.

3. Ma c’è anche un altro elemento che deve far riflettere, se guardiamo
alle attuali dinamiche dell’intera area: uno scontro di interessi
sempre più evidente tra Europa e Usa (uno su tutti, la questione dei
corridoi: uno, fortemente voluto da Germania ed Europa, l’altro, al
contrario, voluto dagli USA). Kostunica, anche per la sua formazione
culturale e storica, è fautore di una politica fortemente indirizzata,
a tutti i livelli, verso l’Europa.

Mentre vengono annunciati questi nuovi indirizzi politici, non certo
rivoluzionari, ma sicuramente fondati su concetti di sovranità
nazionale, diritto internazionale e interessi nazionali - tutti
altamente indigesti alla logica e politica imperialista nordamericana -
 ecco che improvvisamente accade un evento come “la barbara uccisione
di bambini albanesi”, che spiana la strada al tentativo di una pulizia
etnica completa e rapida con l’obiettivo di determinare una situazione
“de facto”, che la “comunità internazionale” appoggiata dagli Usa non
avrebbe potuto che ratificare.

Ecco che il nodo del Kosovo sarebbe definitivamente sciolto, con un
pesante monito al nuovo governo della Serbia, più attento ai propri
interessi nazionali, a rientrare nei ranghi e ad accettare supinamente
e docilmente decisioni prese altrove e non negoziabili, come è stato in
questi ultimi quattro anni.

Bisogna tener conto, anche se nessuno ne parla, che in questo momento,
all’interno della stessa Serbia, vi è un’altra situazione esplosiva, il
Sangiaccato, abitato in stragrande maggioranza da musulmani che già da
anni, ma ultimamente sempre di più, stanno proponendo - mediante
pressioni, violenze, attentati per scacciare serbi e rom - il distacco
dalla Serbia per unirsi al Kosovo indipendente e piano piano dare vita
alla famosa “trasversale verde”, che dalla Bosnia musulmana va fino
alla Macedonia, altra area esplosiva di cui non si parla, ma dove
ancora oggi le tensioni sono altissime e dove in molte zone vi è il
coprifuoco.

Ecco i tasselli per una Serbia ridotta anch’essa ad uno staterello dove
sarà solo possibile dire “signorsì” al padrone di turno.

 

Enrico Vigna (Associazione SOS Yugoslavia ), 19 marzo 2004

Per iniziative di informazione e solidarietà sono a disposizione di
tutti

-                         il Video di M. Collon e V. Stojilkovic, I
dannati del Kosovo, tradotto e curato dall’Associazione SOS Yugoslavia.

-                         il libro di E. Vigna -“Kosovo liberato”, Ed.
Città del sole

Per info: mail: posta@... - oppure : 338-1755563

 

 




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La guerra buona

TOMMASO DI FRANCESCO (il manifesto - 18 Marzo 2004)

 

Precipita la crisi in Kosovo. Da cinque anni precipita, ma tutti hanno
preferito tacere su una ferita che i bombardamenti della Nato hanno
mantenuta aperta. Riesplode ora, quando la guerra all'Iraq vede
sfaldarsi il fronte dei belligeranti occidentali. Rimaneva il Kosovo,
la guerra buona e «di sinistra» - era D'Alema il presidente del
consiglio che la gestì e poi se ne vantò - e se ne vanta ancora - in un
libro di memorie presentato a Roma con l'ancora comandante Nato Wesley
Clark. Ieri Kosovska Mitrovica ha visto scene «normali» di guerra
etnica nei Balcani. Ma non era avviata ormai la pacificazione? No, e
appare forte la responsabilità di chi ha usato la guerra come arma di
risoluzione dei conflitti. Quella guerra occidentale - cominciò 5 anni
fa, il 24 marzo del 1999 - fu il risultato di una serie di
stravolgimenti del diritto internazionale. Oggi chi la rivendica parla
del ruolo dell'Onu, mentendo. Perché esisteva solo un dispositivo del
1998 che aveva avviato sul campo una missione di monitoraggio dell'Osce
proprio per impedire violenze da tutte le parti. Rapporti Onu ancora
nel gennaio `99 e quelli dell'Osce non parlavano di pulizia etnica ma
di «sfollati da una parte e dall'altra». Fu la Nato, invece, la
protagonista, per la prima volta ben oltre il suo mandato
istituzionale. La svolta avvenne con il legame perverso tra Richard
Holbrooke, l'inviato Usa, e le milizie dell'Uck, indicate come
«terroristi» solo pochi mesi prima dall'altro inviato Usa nei Balcani,
John Gelbart. Poi la pantomima della conferenza di Rambouillet. La
strage di Racak fece il resto: peccato che l'anatomopatologa finlandese
Helena Ranta, impegnata nelle indagini indipendenti, ha ribadito anche
in questi giorni che quella strage era inventata. Bastò perché
l'americano William Walker ritirasse la missione Osce.

 

Il 24 marzo del 1999 la Nato, senza alcun voto dell'Onu, avviava la più
grande campagna di bombardamenti sulla Jugoslavia dalla Seconda guerra
mondiale. Vennero rase al suolo tutte le infrastrutture del paese,
fabbriche, ponti, comunicazioni, ospedali, tornarono i rifugi a
Belgrado, vennero uccisi 1.500 civili - con l'«innocente» uso delle
cluster bomb sui centri abitati, gli effetti collaterali si
moltiplicarano con l'uccisione sotto i raid dell'Alleanza di centinaia
di profughi albanesi-kosovari in fuga dalla vendetta di Milosevic - che
reagì con furia etnica all'attacco Nato - ma anche in fuga dai
bombardamenti. Dopo 78 giorni di inarrestabili raid e bugie - fu il
battesimo delle menzogne di adesso - dei governi occidentali, si arrivò
alla pace di Kumanovo nel giugno 1999, le truppe serbe si ritirarono
lasciando il campo all'Alleanza atlantica. Allora cominciò quella che
l'Onu a fine dicembre 1999 chiamò «contropulizia etnica» dei civili
serbi, rom e goranci, accompagnata dalla mattanza degli albanesi
moderati. Proprio sotto gli occhi della Kfor che ha assistito senza
muovere un dito alla demolizione di più di 100 monasteri ortodossi.
Nulla era cambiato, le parti si erano invertite: 200mila serbi
fuggirono, i pochi rimasti vennero terrorizzati: dalla fine della
guerra sono 1.300 i serbi uccisi, 1.200 i desaparecidos.

 

Non solo. L'Amministrazione Onu a guida di Bernard Kouchner ha di fatto
avviato il Kosovo all'indipendenza, in aperto contrasto con gli accordi
di pace. Fino alla precipitazione di ieri. E adesso è premier a
Belgrado quel Vojslav Kostunica che da presidente jugoslavo tuonò
contro la guerra «umanitaria» e che ancora chiede all'Aja di processare
per le uccisioni di civili sotto i raid, i leader della Nato.

Ormai è chiaro: dietro il caos dei Ds sulla guerra all'Iraq e sulla
missione italiana a Baghdad - voto d'incostituzionalità e poi non voto
sul finanziamento - c'è proprio il mancato chiarimento sulla guerra
«umanitaria» del centrosinistra, diventata bipartisan con i voti della
destra. La guerra «buona», quella del moderno uranio impoverito, delle
cluster bomb progressiste.

 

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Un protettorato militare

SANDRO PROVVISIONATO (il manifesto - 18 Marzo 2004)

 

L'irrisolto conflitto etnico, a cinque anni dalla fine della guerra
«umanitaria»

La contropulizia E' nel «dopoguerra» che il Kosovo si è svuotato di
serbi: 200 mila sono fuggiti dalla provincia, con rom e goranci

 

Che il Kosovo fosse come una prateria secca, arsa e pronta all'incendio
non era difficile immaginarlo, nonostante l'ostinato silenzio dei media
italiani che considerano ormai definitivamente chiusa la «guerra
umanitaria» del 1999, la «guerra buona». Che l'incendio della prateria
dovesse cominciare a divampare proprio nella città divisa di Kosovska
Mitrovica neanche. E, infatti, così è accaduto. Il Kosovo, libro
dimenticato, torna ad aprirsi. E la pagina che ci mostra è sempre la
stessa. Un protettorato internazionale Nato, sotto egida e
amministrazione Onu, che non funziona; un'economia che non decolla dopo
cinque anni di investimenti falliti; una finzione come quella del Tmk,
la polizia interna kosovara formata unicamente da albanesi - nella
quale è stato trasferito per intero il gruppo dei guerriglieri dell'Uck
- artefice solo di vendette e regolamenti di conti; una pacificazione
tra le due etnie ormai ferma da tempo alla protezione armata delle
enclave serbe diventate solo delle miserande riserve indiane;
l'incapacità a ricreare delle vere istituzioni rappresentative di un
tessuto etnico composito.

Che anche sul piano più strettamente legato alla vita quotidiana il
fuoco stesse covando sotto la cenere non era un mistero: una
pirotecnica kermesse di tritolo sotto i monasteri e le chiese ortodosse
ormai ridotti a cumuli di macerie, alla faccia del patrimonio artistico
e culturale che gli stessi hanno rappresentato per secoli. Una lotta
politica in seno alla comunità albanese sempre più somigliante a una
faida tra cosche. Ultimo episodio l'attentato della settimana scorsa
all'abitazione del leader storico degli albanesi, Ibrahim Rugova. Un
ossessivo stillicidio di morti tra le file degli esponenti moderati
della stessa comunità ad opera dell'estremismo fascistoide della ex
guerriglia che cerca così di riequilibrare le scelte elettorali degli
anni passati.

Qualcuno ha osservato che la violenza dell'ufficialmente mai disciolto
Uck ha di fatto quasi azzerato le municipalità albanesi. Dove c'era un
sindaco filo-Rugova è stato sufficiente eliminarlo fisicamente per
amministrare quel comune con la protervia e l'intimidazione. E poi i
traffici, sempre più imponenti e sempre gestiti dalla stessa classe
politica proveniente dalle file della guerriglia. Il tutto con la più
ampia tolleranza, per non dire protezione, delle autorità
internazionali, timorose da un lato che il Kosovo torni ad esplodere e
dall'altro incapaci di rimettere ordine nella provincia. Le stesse
autorità che sembrano accontentarsi dei primi timidi arresti - ordinati
dal Tribunale penale internazionale dell'Aja - degli elementi dell'Uck
(per ora solo di seconda fila) che hanno commesso crimini di guerra (e
di dopoguerra).

Ed è nel dopoguerra che il Kosovo si è svuotato di serbi. 200 mila
fuggiti dalla provincia è la cifra ufficiale. E quelli che sono rimasti
praticamente costretti a vivere guardati a vista dai militari della
Kfor. E lo stillicidio di vittime riguarda anche loro. Case bruciate,
intimidazioni continue ed episodi disgustosi come quello avvenuto lo
scorso agosto nell'enclave serba di Gorazdevac: due bambini fucilati
mentre stavano facendo il bagno in un fiume.

Ora che sono cominciati i primi timidi colloqui tra albanesi moderati e
serbi il clima torna a riaccendersi come non mai. Chi rifiuta la
cantonizzazione e pretende l'indipendenza ha ora tutto l'interesse a
gettare nuovamente il Kosovo nel caos. Punta sull'impotenza della
comunità internazionale che gli ha lasciato mano libera in tutti questi
anni. Conta su chi ancora crede che quella guerra, la guerra del `99,
sia stata una «giusta» e «umanitaria».

 

 


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da "il manifesto" del 19 Marzo 2004

Kosovo, caccia al serbo L'Onu sotto assedio

Evacuata la sede Onu a Mitrovica. Gravi responsabilità nella violenza
etnica del Tmk, il corpo di «polizia» del Kosovo, nel quale si sono
riciclati i miliziani dell'Uck E' pulizia etnica, è un pogrom: 31
morti, quasi tutti serbo-kosovari. Bruciano case, villaggi, monasteri
ortodossi: 18mila militari della Nato stanno a guardare o spesso
soccombono di fronte alle violenze. Arriveranno altri mille militari
dalla Bosnia. A fare che? Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite
balbetta

 

LUCIA SGUEGLIA *,

 

Brucia sempre più il Kosovo, mentre dalla vicina Bosnia arrivano di
corsa i primi rinforzi Nato guidate da uno scettico comandante Gregory
Johnson (250 italiani e 750 inglesi, più 80 carabinieri in partenza da
Sarajevo, oltre a 130 in partenza da Livorno). La Russia preme sul
Consiglio di Sicurezza dell'Onu riunito, l'esercito serbo è in stato di
massima allerta alle frontiere pronto ad intervenire, con tanto di
appiglio legale della risoluzione Onu 1244, la vera anima del Kosovo
post-1999. Mentre i quotidiani italiani titolano «La Nato in Kosovo»
come se non ci fossero da 5 anni più di 18.000 militari. A fare che, su
un territorio grande quanto l'Abruzzo?), a Pristina ci si prepara a
vegliare per una notte che si preannuncia ancora più infuocata della
precedente. Tutto intorno è di nuovo il caos: mentre scriviamo la sede
dell'Onu - i funzionari sono stati evacuati quasi tutti dal Kosovo - è
assediata da una folla di albanesi. E' salito a 31 il numero delle
vittime, quasi tutte serbe. Bruciano case serbe e monasteri ortodossi
tra Gjlan/Gnjlane e Prizren come a Fushë Kosovë/Kosovo Polje, mentre a
Mitrovica nel pomeriggio sono ripresi gli scontri, con l'incendio della
chiesa ortodossa a sud del ponte. Tutti gli internazionali presenti a
nord del fiume Ibar hanno trovato riparo a sud nell'edificio della
Yugobankae successivamente evacuati. A Pristina a mezzogiorno le strade
hanno visto una nuova invasione di manifestanti, universitari
estremisti capitanati da Gani Morina (Unione Indipendente Studenti) e
insegnanti, mentre nel pomeriggio l'aeroporto è stato definitivamente
chiuso, tagliando fuori anche numerosi giornalisti in attesa alle
frontiere. Bloccate già da ieri tutte le strade da nord a sud, blindata
la frontiera con la Macedonia (ancora in bilico sulla guerra civile):
da Pristina per ora non si esce. Nella notte di mercoledì un gruppo di
albanesi aveva assaltato lo Yu-programme Building, complesso abitato
dai serbi della capitale, poi evacuato in tutta fretta dalla Kfor; in
mattinata era stato preso di mira il palazzo e i veicoli Onu,
incendiati. La tensione è esplosa nuovamente a Caglavica e poi anche a
Gracanica, l'enclave serba adiacente alla capitale leggermente più
«integrata» con la maggioranza albanese negli ultimi tempi. Brucia
anche il bel monastero di Devic, a Skenderaj/Srbica. A Prizren, ore
15.15, la Kfor ha aperto il fuoco su alcuni albanesi che avevano
assaltato la stazione di polizia. L'assalto alla minoranza serba, sia
dentro che fuori dalle enclaves, è continuato tra fiamme e polvere da
sparo, accompagnato dalla distruzione di quel poco che resta dei
simboli ortodossi.

 

Mentre scriviamo tutte le enclaves sono in via di evacuazione, e gli
attacchi si estendono alle altre minoranze (ashkalia, Rom a Obiliq,
Vushtri e Kosovo Polje). I 32 abitanti del villaggio di Vijelo Polje,
nei pressi di Peje/Pec, sono stati evacuati dalla Kfor italiana di
stanza nella vicina base di Villaggio Italia dopo che il fuoco era
divampato in 24 case, appena costruite per i serbi «rientranti». La
situazione più preoccupante è però nuovamente a Prizren - la città
kosovara dalla tradizione più tollerante -, dove mercoledi sera il
terrore è invece dilagato: assalto agli edifici Onu e Osce, violenze
abbattutesi sulla parte antica della città abitata da serbi,
sull'antico seminario ortodosso di Bogoslovja e infine sulla chiesa
ortodossa nel centro città. Le truppe Kfor hanno «coraggiosamente»
ripiegato. Mentre scriviamo le dimostrazioni si sono estese a tutte le
municipalità. La strategia del terrore con l'obiettivo della pulizia
etnica finale sembra dunque esportata con successo anche in Kosovo, ad
opera di chi da sempre vede di pessimo occhio qualsiasi forma di
dialogo con Belgrado e preferisce accelerare la corsa cieca verso
l'indipendenza senza assicurare le minime garanzie democratiche e di
rispetto dei diritti umani alle minoranze. E riuscendo anche, negli
ultimi tempi, a mettere da parte le fazioni più moderate (vedi bomba
piazzata la scorsa settimana sotto casa di Ibrahim Rugova, seguita a
quella inesplosa fatta trovare di fronte ai quartieri Unmik), ormai
escluse dal gioco politico che conta. In queste ore, l'impressione di
trovarsi di fronte ad una campagna abilmente orchestrata da tempo, si
tramuta in una amara certezza.

 

Martedì scorso, in 27 municipalità del Kosovo, si era svolta una
dimostrazione del Tmk ¡ l'attuale corpo di protezione civile della
regione, composto in gran parte da ex membri dell'Uck -, al grido di
«difenderemo a tutti i costi i valori della Guerra di liberazione
dell'Uck». In particolare Sadik Krasnici e Kajtaz Fazlia (capo
dell'Associazione dei martiri della guerra), avevano in quell'occasione
accusato l'Onu di lavorare più per i serbi che per gli albanesi,
chiedendo ai «neocolonialisti dell'Unmik» di rivedere la propria
posizione sul Kosovo e la propria politica nei confronti degli ex
membri dell'Uck, minacciando in caso contrario «gravi conseguenze». In
serata Agim Ceku, comandante del Tmk, ha indicato nelle «strutture
parallele serbe» la causa del deterioramento della situazione. Dai
rappresentanti dell'Assemblea Centrale kosovara sono venute intanto
dichiarazioni ambigue. Lo speaker Nexhat Daci ha chiesto ai cittadini
di mettere fine alle proteste, ma si è poi affrettato ad aggiungere,
spalleggiato dal leader dell'Ldk Hamiti e da quello del Pdk Bajrami,
che «i morti di ieri sono caduti combattendo per la democrazia e la
libertà». Quasi una dichiarazione di «via all'indipendenza».

 

* Lettera 22


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La Nato accusa gli estremisti albanesi. La regione in fiamme



Kosovo, «Una regia dietro le violenze»

 

Ivan Bonfanti 

Liberazione 20 Marzo-2004

 

 

C'è un tremendo sussurro che sale mentre le fiamme avvolgono di nuovo
il Kosovo e un'altro monastero brucia, un nuovo villaggio guarda
impotente la violenza e la fuga, mentre al cielo si levano di nuovo le
grida, i simboli e i miti dell'eterna contrapposizione che dallo
sprofondo dei secoli torna ad infiammare i Balcani. Il sospetto che,
una volta ancora, il vento che sta attizzando il braciere dell'odio
etnico tra albanesi e serbi non sia il frutto di un cataclisma
naturale, ma il prodotto confezionato di un regia politica. Che ha
innescato la miccia con la vecchia tecnica, sperimentata con grande
successo nell'ultimo decennio balcanico, di mettere le agende negoziali
di fronte a fatti compiuti. Funzionò in Slavonia, nella Herzegovina, a
Srebrenica, accadde nell'agosto 1995 nelle Krajine e in cento altre
valli ancora. E anche in Kosovo non sarebbe la prima volta. Il conto,
provvisorio a ieri sera, sono 28 casse da morto e 600 feriti di cui 22
(tutti serbi) in condizioni gravissime. Senza contare le devastazioni
della furia iconoclasta che infierisce sui monumenti e i simulacri che
testimoniano la presenza e l'esistenza dall'altro, 16 chiese e
monasteri cristiano-ortodossi sono stati distrutti, 100 case di
famiglie serbe incendiate o rase al suolo, l'unica moschea di Belgrado
in fiamme.

Così i portavoce e i generali della Kfor, ma anche Bruxelles i vertici
Nato, hanno attribuito principalmente agli «estremisti albanesi» la
responsabilità delle violenze, chiamando in causa i leader di quell'Uck
che ufficialmente dovrebbe essere disciolto. Il numero delle truppe dei
contingenti internazionali è aumentato di qualche migliaio di unità
principalmente nei contingenti italiano, tedesco e francese, una
presenza più massiccia con cui i vertici dell'Alleanza sperano di
raffreddare gli animi. Nel frattempo meglio evacuare la minoranza
serba, soprattutto quelli che vivono isolati nei villaggi albanesi, e
ieri circa mille persone sono state evacuate dalle loro case (in molto
casi costrette perché non ne volevano sapere di andarsene), ancora nel
mirino dell'ondata di violenza che per molti è un deliberato tentativo
di eliminare le enclave serbe isolate in "territorio albanese" prima
della spartizione del Kosovo.

«Gli albanesi stanno tentando di ripulire il Paese dai serbi e creare
un fatto compiuto prima di qualsiasi colloquio», ha detto una fonte
diplomatica occidentale citata da Reuters. La stessa ombra degli
estremisti albanesi sollevata dall'agenzia Onu per i rifugiati (Unhr),
che ieri ha messo in guardia contro «una nuova pulizia etnica ai danni
della minoranza serba». Derek Chappell, responsabile dell'Unmik, ha
definito gli accadimenti «una azione coordinata». «La violenza è
scoppiata in molti posti diversi allo stesso momento, e questo dimostra
che era stata pianificata da prima - ha dichiarato il portavoce
dell'Unmik ventilando anche la possibilità che la notizia che ha
contribuito ad innescare gli scontri - i ragazzi albanesi che hanno
raccontato di essersi gettati nel fiume Ibar a Mitrovica perché
inseguiti da coetanei serbi - possa essere stata inventata. «Quello che
sta accadendo in Kosovo deve purtroppo essere descritto come un pogrom
antiserbo: le chiese sono incendiate e la gente attaccata per nessun
altro motivo che non sia la appartenenza etnica» ha detto il portavoce
Unmik delle Nazioni Unite a Radio B92 di Belgrado.

Teatro delle violenze anche ieri, oltre a Mitrovica dove alcuni
militari Nato hanno ucciso un cecchino, Pristina, Caglavica, Prizren,
Pec, Gnijlane e altri centri minori. L'arrivo dei rinforzi Nato non
sembra tuttavia aver placato quei gruppi di estremisti serbi che, da
Belgrado, hanno promesso di andare in Kosovo per «difendere i
fratelli». Le autorità serbe hanno fermato ieri numerosi paramilitari
che cercavano di varcare il confine, mentre il ministro della Difesa di
Serbia e Montenegro Boris Tadic ha detto di «aspettarsi altre violenze»
e ha fatto appello alla Nato a fare di più per far fronte a «una
situazione terribile». I comandanti delle brigate multinazionali sono
stati autorizzati a «fare uso della forza nella misura in cui sarà
necessario per assicurare la sicurezza dei nostri soldati, per
proteggere la gente innocente in Kosovo e per ristabilire la libertà di
movimento in tutto il Kosovo». Fino ad ora le truppe si sono limitate a
gas lacrimogeni e proiettili di gomma, a Mitrovica ma anche a Caglavica
e ad Obilic, dove gli albanesi hanno sparato contro i soldati che
difendevano l case dei serbi.

 




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