[See also the english texts:
30 Giorni: After the bomb the chaos (by Gianni Valente)
http://www.kosovo.com/erpkim26feb03c.html
Interview: Bishop Artemije: Victims of humanitarianism (by Gianni
Valente)
http://www.kosovo.com/erpkim26feb03d.html#2%5d

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http://www.30giorni.it/articolo.asp?id=308

30GIORNI Nella chiesa e nel mondo
mensile internazionale diretto da Giulio Andreotti

Estratto del N. 2 - 2003

KOSOVO
A quattro anni dalla "guerra umanitaria" in Kosovo

Dopo le bombe il caos

Gli estremisti albanesi continuano a far saltare in aria le chiese
ortodosse. E l'incombente smobilitazione dei contingenti militari
internazionali mette a rischio anche gli antichi monasteri medievali.
Mentre aumentano le ostilità verso il personale Onu e gli attentati
contro gli esponenti moderati del partito di Rugova

di Gianni Valente



A Decani, che a parole è ancora una città della provincia autonoma del
Kosovo appartenente alla Serbia, di serbi non ce ne sono più. Solo nel
monastero dedicato all'Ascensione del Signore i 35 monaci e qualche
anziana perpetua della comunità, coi ritmi ordinari della loro vita
quotidiana, consentono che questo luogo tanto caro alla memoria e
alla devozione dell'ortodossia serba non si sia già trasformato in un
monumento alle glorie passate. Tra loro c'è anche padre Sava Janjic,
il "cybermonaco" che da quattro anni tiene le redini di un
cliccatissimo sito internet dove ha raccontato prima gli orrori del
conflitto e adesso la vita sotto assedio dei pochi serbi rimasti in
Kosovo dopo le pulizie etniche seguite alla "guerra giusta" targata
Nato del '99. Alle cinque, insieme ai suoi confratelli, si reca nella
chiesa senza elettricità per le preghiere del mattino. Che qui, da
quasi settecento anni, si ripetono sempre uguali. Così come le sante
liturgie, quelle scritte da san Giovanni Crisostomo nel IV secolo.
Poi, subito al lavoro, nella stanza piena di computer, di modem, di
scanner.
Non si può dire che padre Sava e i suoi compagni si presentino come
dei fanatici istigatori all'odio etnico. La documentazione che
divulgano via internet adesso batte tutta sul calvario della comunità
serba in Kosovo. Ma si ricordano anche gli interventi con cui, prima
della guerra, i monaci di Decani denunciavano la "politica cieca e
irrealistica" del regime di Milosevic, prendendo le distanze - a
differenza di altri esponenti dell'ortodossia serba - dalle mitologie
ancestrali della stirpe, del sangue e dei confini etnici perenni
tracciati dalla volontà divina. Per questi trascorsi, i monaci di
Decani sono stati accusati di tradimento dagli ultranazionalisti
serbi, specialmente quando durante l'escalation del conflitto etnico e
della repressione dell'esercito iugoslavo diedero asilo a più di
duecento musulmani albanesi in fuga dalle rappresaglie dell'esercito
serbo.
Eppure adesso quella che si vive a Decani è una normalità artificiale,
sospesa a un filo. Il filo spinato dei recinti militari della Kfor, la
forza multinazionale dislocata dal giugno '99 anche qui, come in tutto
il Kosovo, a garantire la "pace" bugiarda seguita alla pioggia delle
bombe intelligenti. Da allora, i reggimenti italiani che si sono
succeduti nella task force "Sauro" dislocata a Decani vengono ospitati
in un decadente ex centro-vacanze a cinquecento metri dal monastero. I
reticolati inglobano il complesso religioso ortodosso all'interno
dell'area militare. Ma presto anche questa tranquillità sotto tutela
potrebbe venir meno.
Non è un mistero che nei prossimi mesi, forse già entro la primavera,
le truppe italiane di stanza a Decani verranno trasferite a Pec, dove
è stato ultimato il cosiddetto Camp Italy, la struttura logistica
centrale intorno a cui ruotano i programmi di ristrutturazione e di
graduale smobilitazione della presenza militare italiana in Kosovo. La
cosa allarma intellettuali e studiosi di tutto il mondo, che vedono
messa a repentaglio la sopravvivenza di una delle opere più belle e
rilevanti dell'architettura serbo-ortodossa medievale. Ma preoccupa
soprattutto i monaci. Dice padre Sava: «Fin dalla scorsa estate
abbiamo raccolto per vie indirette notizie e documenti che
annunciavano lo spostamento della task force "Sauro". L'imminente
rimozione dell'unità Kfor è stata più volte confermata anche alle
autorità municipali albanesi di Decani. Io personalmente ho scritto al
comando Kfor in Kosovo, per riaffermare che la riduzione della
presenza militare, in condizioni di sicurezza così precarie, metterà a
rischio la sopravvivenza del monastero. Sto ancora aspettando risposte
concrete».
In questi anni neanche la presenza del contingente italiano ha
risparmiato al monastero di Decani le "provocazioni" degli estremisti
albanesi: il cimitero comunale dissacrato, il boschetto circostante
distrutto, un paio di granate atterrate vicino alla chiesa. Anche chi
fa la spesa per la comunità può girare in città solo grazie alla
scorta di soldati italiani. «La task force "Sauro"» aggiunge padre
Sava «è l'unico posto in cui possiamo ricevere assistenza medica e
altri aiuti urgenti. Non ci è permesso l'accesso a nessuna
istituzione, lì in città». Ora che nell'area di Decani si avvicina
anche il passaggio di consegne tra la polizia Onu e le forze di
polizia locale, in cui si sono riciclati buona parte degli ex
miliziani estremisti albanesi dell'Uck, gli appelli dei monaci per il
mantenimento della task force "Sauro" assumono toni allarmati: «Il
piano a lungo termine» insiste padre Sava «è di costringerci a
lasciare il monastero, per poi magari trasformarlo in un museo o in un
"monumento cristiano" del Kosovo indipendente. Ma confido nei soldati
italiani: già durante la guerra mondiale furono i vostri carabinieri a
salvare il monastero di Decani dai Balli Kombetar, i paramilitari
nazionalisti albanesi che combattevano a fianco dei nazisti e che
volevano distruggerlo...». Anche un colonnello italiano che ha passato
due anni nel Kosovo occidentale, e che chiede di mantenere
l'anonimato, sul destino delle antiche chiese ortodosse in caso di
smobilitazione dei peacekeepers internazionali, nutre pochi dubbi:
«Gli estremisti aspettano solo che ce ne andiamo per fare piazza
pulita dei luoghi santi ortodossi concentrati nel Kosovo. Pensano che
solo radendoli al suolo, le chiese e i santuari perderanno la forza di
richiami perenni al ritorno dei serbi».

Sotto gli occhi dell'Onu

Tra '98 e '99, durante le rappresaglie dell'esercito di Milosevic in
Kosovo, a detta della locale comunità islamica furono distrutte o
danneggiate più di duecento moschee. Ma adesso, in tutte le aree in
cui è spartita la regione sotto protettorato internazionale, i
minareti spigano a decine tra i cantieri delle città e dei paesi in
ricostruzione, anche grazie agli aiuti di solerti finanziatori
sauditi. Per le chiese è successo il contrario. Dall'arrivo delle
truppe Onu ne sono state distrutte o sventrate 112, mentre venivano
dissacrati a dozzine i cimiteri. La maggior parte delle distruzioni
avvenne tra il '99 e il duemila, quando tracimò la sete di vendetta
albanese contro tutto ciò che veniva identificato col dominio politico
serbo. In diversi casi, come a Djakovica, o a Pristina, le chiese
saltarono in aria sotto gli occhi dei soldati della Kfor. Poi
le truppe internazionali intensificarono la difesa intorno agli
obiettivi sensibili di natura religiosa. Soprattutto intorno ai
monasteri e alle chiese antiche - oltre al monastero di Decani, il
patriarcato di Pec, il monastero di Gracanica, la cattedrale della
Madonna di Ljevisa, a Prizren - che gli ortodossi considerano come la
culla della propria tradizione ortodossa. Vennero poste sotto scorta
anche decine di altre chiese. Ma passata la sfuriata, fuggita la gran
parte dei 200mila serbi, per comprensibili motivi di gestione delle
risorse si va gradualmente abbassando la guardia dei presidi militari
intorno alla rete sparsa di chiese e cappelle quasi sempre vuote e
spesso già danneggiate. E si apre il fianco allo stillicidio di
attentati sporadici ma persistenti, che oltre a sfogare la non sopita
ostilità etnica perseguono il calcolato, sistematico disegno di
bonificare per sempre la terra kosovara da luoghi e simboli cari alla
memoria storica e religiosa di tutti i serbi. Le ultime chiese
dinamitate sono state, nella notte tra il 16 e il 17 novembre scorso,
quella di Ognissanti a Durakovac e quella di San Basilio a Ljubovo,
ambedue nel distretto occidentale di Istog, dove negli ultimi mesi
erano stati rimossi i presidi permanenti e si era passati a un livello
di protezione "indiretta", affidata alle transenne, ai fasci di
luce accesi giorno e notte, a sporadici pattugliamenti e all'azione
della polizia civile, composta da albanesi. Il giorno dopo, una nota
del comando Kfor ha confermato la decisione della forza di pace a
guida Nato di mantenere presidi fissi solo intorno a siti religiosi
«di importanza storico-artistica o attivi al culto». Lo scorso 20
gennaio, il ministro dell'Educazione del governo provvisorio ha
addirittura ipotizzato la demolizione "autorizzata" della chiesa di
Cristo Salvatore, nel centro di Pristina, rimasta incompiuta dopo che
la costruzione era stata interrotta per gli eventi bellici, con
il pretesto che l'edificio sorgerebbe "illegalmente" su terreni
appartenenti al locale campus universitario. Infine, il 23 gennaio, il
comando Kfor ha fatto parziale marcia indietro, rendendo nota la
decisione di congelare il programma di rimozione dei check-point
ancora posti a protezione degli edifici di culto minacciati.

Questi ed altri recenti episodi simili riaprono le domande
sull'esistenza o meno di una strategia a lungo termine per
la salvaguardia delle chiese serbo-ortodosse. E anche gli
interrogativi sulle singolari aporie del pensiero unico
occidentalista. Sempre solerte nel raccogliere e divulgare i segnali
dell'ostilità islamica verso la sedicente civiltà cristiana
occidentale. Ma quanto mai omertoso rispetto alle violenze ancora
perpetuate nel cuore dell'Europa dagli estremisti
islamici albanesi. Gli stessi che durante la guerra, organizzati nelle
milizie dell'Uck, godettero guardacaso di diffuse e
documentate complicità politiche e militari da parte dei centri di
potere occidentali.

Dopo la guerra umanitaria, il caos

L'incerto destino delle chiese ortodosse è solo un tassello vagante
del frantumato mosaico kosovaro. A quasi quattro anni dall'intervento
Nato, l'ultima sanguinosa convulsione della storia balcanica si
prolunga nello stato confusionale e sconnesso in cui si
trascina il Kosovo sotto tutela internazionale. Una polveriera
attraversata da confitti latenti, senza prospettive credibili di
stabilità politica. L'ambigua risoluzione 1244 dell'Onu, che
congela ogni discussione sullo status definitivo della regione
condizionandola al ritorno dei profughi serbi e rom e al rispetto dei
loro diritti, è giudicata dagli osservatori come un'irrealizzabile
utopia. In essa, vengono richiamati esplicitamente gli accordi di
Rambouillet del 23 febbraio '99, col riferimento al principio di
autodeterminazione dei popoli come criterio per stabilire
il definitivo assetto della regione. E questo conferma la schiacciante
maggioranza albanese nella convinzione che, prima o poi, verrà
ufficialmente riconosciuta la completa indipendenza della nazione
kosovara. Ma la stessa risoluzione non giustifica alcuna violazione
unilaterale del principio di integrità e sovranità territoriale della
peraltro agonizzante Federazione Iugoslava.

Sul campo, la situazione concreta fa apparire a molti irrealistico il
puntiglio europeo di tener fede agli obiettivi annunciati di
"restaurare" la convivenza multietnica prima di cercare, a lungo
termine, una via morbida e "consensuale" all'indipendenza kosovara.
Dei quasi 200mila serbi fuggiti, ne sono tornati (secondo i dati
forniti dalla Kfor) poco più di tremila. Quelli che erano rimasti
sopravvivono sotto assedio in enclave protette dalle truppe
internazionali. A nord, nella fascia dove adesso si è concentrata la
minoranza serba, Mitrovica, la nuova Berlino, rimane il simbolo del
rifiuto della convivenza tra serbi e albanesi, con la linea di
divisione tra le due etnie che scorre lungo l'Ibar, il fiume
cittadino. A Pristina, per fare un esempio, sono rimaste poche decine
di serbi, dei 40mila che ce ne erano prima della guerra.
Nell'intera regione di Pec erano 32mila, e ne sono rimasti un
migliaio.

Sullo sfondo, proprio la questione rimossa dello status definitivo del
Kosovo mantiene tutta la situazione sospesa in un limbo carico di
tensioni. Con una presenza internazionale frammentata, dai costi
astronomici (l'Umnik, l'Amministrazione Onu che gestisce le
istituzioni politiche e amministrative, paga anche gli stipendi di
molti impiegati pubblici, oltre a quelli del proprio personale), su
cui si concentra una sempre più palpabile ostilità popolare. Negli
ultimi mesi, si sono infittite le intimidazioni, i microattentati e le
manifestazioni di insofferenza popolare contro i dipendenti Onu.
L'arresto di esponenti del movimento guerrigliero Uck accusati di
orrendi crimini compiuti spesso contro albanesi moderati, ha provocato
nei mesi scorsi diversi scontri di piazza tra le frange di popolazione
più legate agli ex paramilitari e le forze di polizia internazionali.
E lo scorso 22 gennaio, un missile anticarro ha centrato il comando di
polizia Onu a Pec. Si è trattato del più grave attentato contro le
forze di pace di tutto il "dopoguerra". Allo stesso tempo, la
prospettiva di un protettorato Onu prolungato per decenni, che prenda
tempo sulla questione cruciale dello status definitivo della
regione nell'attesa di far decantare gli odi atavici, rischia di
modificare alla lunga solo i rapporti di forza all'interno del
campo albanese. Alle elezioni municipali dello scorso 26 ottobre, che
hanno visto un'affluenza di elettori inferiore al 60 per cento, il
partito del presidente Ibrahim Rugova (Ldk), pur confermando la sua
preminenza, ha perso consensi nei confronti dei partiti più radicali
(Pdk e Aak), che ancora accarezzano il sogno della "grande Albania",
guidati dagli ex miliziani dell'Uck Hashim Taqi e Ramush Haradinaj. E
negli ultimi tempi i gruppi estremisti albanesi hanno firmato
una serie di attentati rivolti direttamente a colpire le forze
moderate che si riconoscono in Rugova. A ottobre, il giorno
dopo il voto, è stato ucciso il sindaco di Suhareka, esponente
dell'Ldk. Il 13 dicembre, un ordigno fatto esplodere a
Pristina ha ferito 25 persone. Il 4 gennaio, a cadere sotto i colpi
dei terroristi insieme al figlio ventenne e a un parente è
stato Tahir Zemaj, noto ex capo guerriglia, anche lui legato al
partito di Rugova e soprattutto testimone eccellente nei
processi contro gli ex miliziani dell'Uck.

Ora che gli imbonitori di turno preparano il mondo a una nuova guerra
"moralmente giustificata", potrebbe non essere inutile dare uno
sguardo a come i bombardamenti umanitari hanno lasciato le cose in
Kosovo. Dove, quattro anni dopo, in un groviglio da cui nessuno sa
come uscire, la realtà più stabile appare l'enorme base militare Usa
di Ferizaj/Urosevac. Una vera e propria città di cinquemila soldati,
con case e caserme sorte in tempo record su un terreno che gli
strateghi militari a stelle e strisce hanno "affittato" fino al 2099.


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KOSOVO: MONASTERI A RISCHIO SENZA SOLDATI ITALIANI
(ANSA) - ROMA, 19 FEB - I monasteri medievali serbo ortodossi del
Kosovo rischiano di sparire se non continuera' la protezione dei
soldati della missione Nato (Kfor) presenti nella regione dal giugno
del 1999. L'allarme viene lanciato dalla rivista '30 giorni' nel
numero in edicola questa settimana.
Secondo il giornale dal 1999 sono state 110 le chiese ortodosse
distrutte dalla dinamite degli estremisti albanesi e ora e' a rischio
anche il gioiello medievale del monastero di Decani per il ventilato
ritiro dei soldati italiani della Kfor che lo presidiano da tre anni e
mezzo, e che dovrebbero essere trasferiti nella nuova base italiana
appena ultimata vicino a Pec. ''Ho scritto al comando Kfor in Kosovo -
ha detto padre Sava, uno dei monaci - e ho espresso la mia
preoccupazione per la sopravvivenza del monastero. Non ho
ancora avuto una risposta ma confido nei soldati italiani, gia'
durante la seconda guerra mondiale sono stati i carabinieri a salvare
il monastero di Decani dai Balli Kombetar'', i paramilitari
nazionalisti albanesi che combattevano a fianco dei nazisti. Anche un
colonnello italiano che ha chiesto l'anonimato, ha dichiarato al
giornale che ''gli estremisti albanesi aspettano solo che ce ne
andiamo per far piazza pulita dei luoghi sacri ortodossi, pensano che
solo radendoli al suolo le chiese e i monasteri perderanno la forza di
richiami perenni al ritorno dei serbi''. Il giornale ospita anche
un'intervista a Vittorio Sgarbi che sostiene la necessita' di
proteggere le chiese e i monasteri ortodossi che, eretti tra il XIII e
il XIV secolo, ''hanno reso questo lembo dei Balcani un vero e proprio
scrigno di tesori artistici''. Sgarbi si sofferma in particolare
sugli affreschi ''nei quali la decorazione espressa con una vivacita'
e una originalita' tanto piu' difficile quanto piu' rigido e' lo
schema bizantino''. ''Vi sono dei passaggi - ha aggiunto Sgarbi - in
cui sembra di vedere Giotto''.
(ANSA) COR*VD 19/02/2003 19:06
http://www.ansa.it/balcani/kosovo/20030219190632478891.html