STRATEGIA DELLA TENSIONE / KOSOVO / 1999 / RACAK
* Un articolo di T. Boari
* Link alla analisi completa di Chris Soda
* Altri link ed un articolo in materia
---
Il seguente articolo e' apparso su "Il Manifesto" del 15/4/2000:
L'esca di Racak
TIZIANA BOARI
U n massacro di civili inermi. Così un anno fa la comunità
internazionale e gran parte
della stampa definì il ritrovamento dei cadaveri di 45 albanesi nel
villaggio di Racak,
presso Stimlje, nel Kosovo meridionale, dove il giorno prima si erano
svolti violenti
scontri tra truppe serbe e guerriglieri dell'Uck. I corpi ritrovati
rilevavano ferite da
arma da fuoco e molti presentavano mutilazioni di vario genere. William
Walker, il
capo della missione Osce (Kvm) incaricata da metà ottobre 1998 di
verificare
l'applicazione del cessate il fuoco tra serbi e kosovari concordato tra
Milosevic e
Holbrooke, si recò sul luogo in tarda mattinata e convocò per il giorno
stesso una
conferenza stampa, in cui affermò di aver trovato "i corpi di oltre
venti uomini che
erano stati chiaramente giustiziati là dove giacevano (...) Tutti erano
in borghese;
tutti apparivano come umili abitanti del villaggio".
Walker definì l'episodio "un massacro, un crimine contro l'umanità" e
non esitò ad
attribuirne la responsabilità alle truppe serbe, chiedendo l'ntervento
dell'allora
procuratore capo del Tribunale Internazionale dell'Aja, la canadese
Louise Arbour.
A bruciapelo
Si parlò di un'esecuzione, di colpi sparati a bruciapelo contro civili
inermi. Gli Usa
puntavano ad un intervento militare immediato; l'Europa, pur scossa
dall'atrocità dei
fatti, cercò un'ulteriore mediazione diplomatica con la convocazione
della conferenza
di Rambouillet. Alla vigilia del suo fallimento pilotato, furono resi
noti in modo
sommario i risultati delle autopsie: secondo le dichiarazioni del
medico finlandese
incaricato dall'UE, Helena Ranta, "nessun elemento fa dedurre che non
si trattasse
di civili disarmati", uccisi nel luogo del loro ritrovamento. Il mondo
fraintese i suoi
"commenti personali", scritti e divulgati in quel momento e in quella
forma sotto
evidenti pressioni politiche, ed emise il verdetto di condanna contro i
serbi.
L'episodio di Racak fu strumentalizzato per preparare l'opinione
pubblica ad una
escalation militare, per fornire la giustificazione morale alla guerra.
Doveva essere un
massacro, un crimine contro l'umanità per chiarire al mondo chi fossero
i "buoni" e
chi i "cattivi". Oggi, sulla base della documentazione esclusiva in
nostro possesso,
possiamo dire che la verità fu sottaciuta. Non possiamo affermare di
sapere cosa
accadde quel 15 e 16 gennaio di un anno fa, ma possiamo stabilire in
modo fondato
ciò che non accadde.
E questo sulla base delle copie dei protocolli - finora tenuti segreti
e ora da noi
esaminati - delle 40 autopsie eseguite parallelamente dai patologi
jugoslavi e
bielorussi, e dal team di medici forensi finlandesi incaricati dall'UE
e guidati dalla
dottoressa Helena Ranta; nella documentazione sono inoltre contenuti
quattro
rapporti riservati dell'Osce sul ritrovamento di Racak, redatti il 16 e
il 17 gennaio
1999.
Esaminando le due serie di protocolli di autopsia, ci si accorge che
fondamentalmente quelli firmati unicamente dagli jugoslavi e bielorussi
e quelli firmati
anche dai finlandesi si equivalgono nelle conclusioni. Le prove
dimostrano che non fu
un'esecuzione e non è sicuro che si trattasse di civili inermi. Il
professor Dusan
Dunjic, patologo dell'Istituto di medicina forense di Pristina, afferma
- nel suo
articolo "The (Ab)use of Forensic Medicine" - che prima di eseguire le
autopsie, il
suo team effettuò la prova del guanto di paraffina, rilevando in 37
casi su 40 tracce
di polvere da sparo sulle mani dei cadaveri. Ma di ciò nei documenti
firmati
ufficialmente non è rimasta traccia. E anche le cifre, il numero e
soprattutto
l'identità dei morti registrati non sono elementi indiscutibili. Al
contrario, su questo
punto le contraddizioni e i misteri irrisolti restano tanti. Cos'è
dunque che "non
accadde"?
Quante erano le vittime?
Il 15 gennaio 1999 a Racak, una roccaforte dell'Uck piena di trincee,
scoppiarono
violenti combattimenti tra guerriglieri e truppe serbe. Nel rapporto
speciale dell'Osce,
redatto in data 17 gennaio, il 12 gennaio i leader locali dell'Uck
riferivano che oltre
un migliaio di civili aveva abbandonato i villaggi di Belince, Racak,
Petrova e
Malopoljce per rifugiarsi sulle colline.
Il giorno dopo invece, i verificatori della Kvm trovarono a Racak 350
persone, il
rapporto non menziona affatto che potesse trattarsi di guerriglieri
Uck. Alcuni
giornalisti internazionali presenti sul posto il 15 sera riferirono di
non aver rilevato
niente di strano nel paese, meno che mai la presenza di vittime di un
eccidio. Il 16 i
primi ad arrivare sul luogo, secondo testimoni diretti, furono gli
americani della
missione Usa di osservazione diplomatica in Kosovo (Uskdom), su
segnalazione di
fonti locali, probabilmente dell'Uck. Il rapporto Osce parla invece di
un gruppo di
verificatori che arrivò nel primo mattino, trovando, su una collina
dietro al villaggio,
23 cadaveri di uomini, tutti uccisi da colpi di arma da fuoco sparati
alla testa da una
"distanza estremamente ravvicinata" (extremely close range). Lungo un
sentiero
vicino al villaggio, come in fila, furono rinvenuti i corpi di altri
3-4 uomini ,
apparentemente "colpiti mentre fuggivano". All'interno del villaggio,
con la specifica
tra parentesi "uccisi al di fuori, ma i cadaveri sono stati riportati a
casa da alcune
famiglie", 18 corpi, tutti di adulti maschi, ad eccezione di un bambino
e di una
donna. Di questi, 11 corpi risultano rinvenuti all'interno delle case
del villaggio, 5
uccisi a Racak ma "portati a Malopoljce dalla loro famiglia": probabili
guerriglieri
portati via dalla "famiglia" dell'Uck?
L'Osce non menziona la probabile presenza di guerriglieri tra i caduti,
avvalorando lo
scenario dell'esecuzione sommaria contro civili. Peraltro il 15 a
mattina il Media
Center di Pristina, legato al governo serbo, chiamò gli operatori della
Ap tv e altri
giornalisti stranieri (tra questi l'inviato di Le Monde Christophe
Chatelot, quello di
Liberation Pierre Hasan e quello de Le Figaro Renaud Girard) segnalando
loro che
avrebbero dovuto trovarsi a Racak alle 10,30. Qualcosa stava accadendo.
Alle 14,30
dello stesso giorno, il Media Center comunicava che nel villaggio
controllato dall'Uck
era stato portato a termine un attacco antiguerriglia e che "15
terroristi" erano stati
uccisi. Perché un organo governativo avrebbe dovuto inviare un gruppo
di giornalisti
in un luogo dove si stava compiendo un massacro preordinato dai serbi?
I "criteri" dell'Aja
Di sicuro si sa che il giorno dopo, l'Esercito di Liberazione del
Kosovo aveva riportato
tra le sue file sei morti, che sarebbero saliti a otto, e sei feriti:
lo afferma un
rapporto interno dell'Ue datato 17 gennaio (nr. 10829), come riportato
dal
quotidiano tedesco Berliner Zeitung. l'Uck inoltre aveva annunciato che
22 suoi
guerriglieri erano stati giustiziati dalla polizia serba: sul reale
numero dei morti
dunque regna ancora una certa confusione. Per la raccolta delle prove e
per
l'identificazione dei morti, altro capitolo poco chiaro, l'Osce si basò
sulle
testimonianze degli abitanti del villaggio. I protocolli delle autopsie
infatti
attribuiscono un numero in codice per ogni cadavere e indicazioni di
base per la sua
identificazione, ovvero sesso, età largamente approssimativa (ad es.
"25-45 anni"),
statura e corporatura. Ma nessun nome.
Con quali criteri dunque il Tribunale internazionale dell'Aja ha
associato i 45 nomi
presenti nell'elenco degli "assassinati a Racak" (inserito tra i capi
di imputazione
emessi contro i vertici di Belgrado il 22 maggio 1999) con i 40
cadaveri ritrovati e
sottoposti ad autopsia dai medici forensi? Secondo l'inchiesta tedesca
condotta dal
quotidiano "Berliner Zeitung", almeno 13 delle 45 persone elencate dal
Tribunale
internazionale oggi non risultano seppellite nel "cimitero dei martiri"
di Racak. Tra le
43 tombe che compongono il cimitero, invece, compaiono una dozzina di
nomi
estranei all'elenco. Che fine hanno fatto quei cadaveri? Chi erano in
verità?
Il balletto delle autopsie
Torniamo a Racak. Dopo il ritrovamento, i cadaveri furono portati nella
moschea
dalla popolazione locale (e dall'Uck che li controllava a vista): come
prescrive la
religione musulmana, avrebbero dovuto essere seppelliti entro 48 ore
dalla morte. Il
17 gennaio, il magistrato inquirente del tribunale distrettuale di
Pristina, Danica
Marinkovic, si recò a Stimlje, presso Racak, per iniziare le dovute
indagini sul caso,
come previsto dalle leggi jugoslave. Il capo delle operazioni della
Kvm, generale John
Drewienkiewicz, le offrì una scorta disarmata per entrare nel
villaggio, sotto
controllo dell'Uck. I guerriglieri, secondo un comunicato stampa della
Kvm (n.12/99),
avrebbero concesso l'entrata di un gruppo disarmato. Ma la Marinkovic
non si fidò e
chiese di entrare con poliziotti armati. La mediazione fallì, le truppe
serbe
occuparono il villaggio per recuperare i cadaveri e trasferirli
all'obitorio di Pristina
dove un gruppo di 4 medici forensi jugoslavi e 2 osservatori bielorussi
potè avviare le
autopsie. Le prime quindici dimostrano che non c'è prova del massacro e
che - al
contrario di quanto affermato da William Walker e dai rapporti Osce -
le ferite non
sono state causate da proiettili sparati a distanza ravvicinata (meno
due casi, in cui
si rileva una presenza sospetta di polvere da sparo intorno al foro di
entrata del
proiettile, si esclude tuttavia lo sparo a bruciapelo e si rimanda alla
"necessità di
ulteriori analisi", una costante di tutti i protocolli).
Ma il mondo vuole le prove delle responsabilità serbe, urla al massacro
e accusa di
faziosità il team di patologi slavi. Qui entra in gioco Helena Ranta e
il suo gruppo di
medici finlandesi a partire dal 22 gennaio.
Non controfirma le prime 15 autopsie eseguite dai colleghi slavi e
decide di rifarle:
nessuno ci ha detto che la dottoressa Ranta cercherà, sull'onda emotiva
del fatto,
le prove di un massacro contro civili inermi, senza utilizzare mai la
prova del guanto
di paraffina che avrebbe indicato se tra i caduti c'erano dei
guerriglieri (come invece
risulta al suo collega jugoslavo). Cosa dicono dunque i risultati?
Per tutti i casi, meno uno (RA-34), "non c'è prova di proiettili
sparati a bruciapelo o
a distanza fortemente ravvicinata". Le ferite sono in molti casi
numerose, di tipo
diverso. La maggioranza, oltre che al torace e alla testa, riporta
ferite da arma da
fuoco alle mani e alle gambe. Frequenti le ferite di striscio nella
zona della testa. Le
traiettorie dei proiettili sono variabili e diverse anche su uno stesso
corpo; perlopiù
si tratta di colpi alla schiena o laterali, qualche frontale. Un
particolare elemento di
comprensione dell'accaduto è dato dalle autopsie della donna (Ra-36,
tra i 20 e i 30
anni) e del bambino (Ra-13, tra i 10 e i 15 anni), entrambe deceduti a
causa di una
ferita nella zona toracica causata rispettivamente da un solo
proiettile. Riferimenti al
ferimento di questi due soggetti si ritrovano nel rapporto speciale
dell'Osce datato
17 gennaio che, relativamente al 15 riporta: "Nel tardo pomeriggio una
pattuglia di
verificatori della Kvm è riuscita ad entrare nel villaggio di Racak. I
verificatori hanno
visto un albanese morto e cinque civili feriti inclusa una donna e un
bambino
sofferenti per ferite da arma da fuoco. La Kvm ha inoltre ricevuto
altri rapporti non
confermati relativi ad ulteriori decessi".
Le autopsie
Secondo protocolli finlandesi, i proiettili utilizzati risultano
provenienti da "armi di
piccolo calibro, di grande potenza". In un caso è stata rilevata
l'azione di un
proiettile a frammentazione.
In un caso (Ra-3) troviamo il cadavere di un uomo "ben nutrito, di
un'età stimata tra
i 25-45 anni" che presenta ben 35 ferite, tutte di diametro diverso, 20
delle quali da
arma da fuoco, abrasioni multiple nella zona degli arti inferiori,
costole rotte e
oggetti sensibili ai raggi X. Le cause del decesso sono chiaramente
riportate: tra le
più frequenti, ferite alla testa, al torace, emorragie interne. Per
tutti non è stato
ufficialmente possibile determinare la categoria delle modalità del
decesso, ovvero
cosa accadde: nulla di ufficiale conferma la tesi del massacro. E le
mutilazioni che
tanto sdegnarono l'opinione pubblica? Il termine "mutilazione" non
ricorre in alcun
caso. I referti indicano invece ferite o perdita di tessuti o materiale
organico post
mortem., "presumibilmente" causati da morsi di animali.
In sette casi è presente lo stato di putrefazione del corpo. Un uomo
tra i 20 e 40
anni risulta decapitato (Ra-31) ; il cadavere di un uomo anziano
(Ra-26) tra i 60 e
75 anni presenta all'analisi enfisema polmonare, fibrosi e adesione
pleurica.
Un solo protocollo, quello relativo al cadavere Ra-34, parla di colpo
di arma da fuoco
sparato a distanza relativamente ravvicinata ("relatively close
range"), come
dedotto dai residui di polvere da sparo ritrovati intorno al foro
d'entrata del
proiettile. Ma non si tratta, precisa l'autopsia, di uno sparo a
bruciapelo ("contact
discharge").
In conclusione, 39 casi su 40 escludono nettamente l'ipotesi
dell'esecuzione
sommaria.
Le autopsie furono realizzate tra il 22 e il 29 gennaio 1999 dai medici
finlandesi a
Pristina, che però vollero eseguire alcune analisi e accertamenti a
Helsinki.
Accertamenti per altro non conclusi quando su Helena Ranta furono
esercitate
pressioni affinché rendesse pubblici i risultati delle autopsie, cosa
che la dottoressa
non riteneva affatto opportuna. Quale fu la vera ragione di tanta
insistenza? Il
rapporto diffuso il 17 marzo alla stampa riportava chiaramente la
natura del
documento, sottolineando che si trattava dei commenti che esprimevano
"l'opinione
personale dell'autrice" e non una comunicazione ufficiale. Ma nessuno
ci fece caso:
tutti vi lessero le prove dell'eccidio. L'Esercito di Liberazione del
Kosovo e gli Stati
uniti registrarono una vittoria strategica.
Tre giorni dopo la missione dell'Osce guidata dall'americano William
Walker
abbandonava il Kosovo verso Skopje. L'esca di Racak era stata gettata e
il pesce
europeo aveva abboccato. Quel che bastò a scatenare la guerra. Una
distrazione
fatale, troppi silenzi. E' ora di fare chiarezza.
---
*** LINK ALLA DETTAGLIATISSIMA ANALISI DI CHRIS SODA ***
The very best and most thorough analysis of Racak was done by Chris
Soda from Windsor, Ontario, and provided by Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
It is titled "Complete analysis of the indicent at Racak, Jan. 15/99"
and runs into 22 printed pages. You should be able to get it by
requesting it from the yugoslaviainfo.
Hi All, just to add link to excellent analysis by Chris Soda.
Chris Soda's analyses available on yugoslavia info:
http://www.egroups.com/message/yugoslaviainfo/618?&start=3
Send this to your favorite spinmaster, along with this quote:
These acts are punishable:
(b) Conspiracy to commit genocide;
(c) Direct and public incitement to commit genocide;
(e) Complicity in genocide.
Art. 3 Genocide Convention of 1948
http://www.tufts.edu/departments/fletcher/multi/texts/BH225.txt
.....
---
FILE SONORI DELLE TRASMISSIONI ALLA RADIO CANADESE CBC
> > ==============================================
> > * * * AUDIO: CBC RACAK files available...* * *
> > ==============================================
> >
> > Listen to:
> > [1] The "Road to Racak" :
> > http://home.cbc.ca/real/radio/news-audio/features/racak_000522.ram
> >
> > [2] Panel discussion on the difficulties in getting to the truth in a
war
> zone,
> > James Bisset and FAIR-magazine:
> > http://home.cbc.ca/real/radio/news-audio/features/racak2_000522.ram
> >
> >
> > [*] HTML-TEXT: http://cbc.ca/news/indepth/racak/
> > NOTE:) They've renamed the Road to Racak, "William Walker Road".!!!
Monday 22 May 2000
http://cbc.ca/news/indepth/racak/
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Racak | Kosovo coverage | links
The Road to Racak
Based on a World at Six documentary by Michael McAuliffe
CBC Radio News
Even if they don't remember the village's name, most Canadians will
remember the pictures. The images of bodies piled in a ravine in the
tiny Kosovo village of Racak in January 1999. That massacre of Albanian
civilians by Serbian forces provoked immediate anger and international
condemnation against Yugoslav leader Slobodan Milosevic. It became the
galvanizing event that led to NATO's armed intervention against
Yugoslavia.
In the year that has passed since NATO's bombing campaign, there is
mounting evidence the Racak massacre was not as gruesomely simple as it
first appeared. There are suggestions the massacre was allowed to happen
to fuel sympathy for Kosovo's Albanians, while strengthening demands for
NATO's bombs.
Over the past three months, CBC Radio has sought to unravel the mystery
of the Racak massacre: was it a massacre or an act of manipulation by
those interested in bringing NATO to war?
January 15, 1999
Racak is a village of about 2,000 people, tucked against the bottom of a
small mountain. It's a 40-minute drive southwest of Kosovo's capital
Pristina. Racak's many red-roofed homes are built across a series of
small rolling hills at the base of the mountain. The population, like
most of Kosovo, is overwhelmingly Albanian and Muslim.
Up the hill, overlooking the village of Racak today On the day of the
massacre, the village of Racak was largely deserted. Most of the
village's residents had fled the previous summer during a major assault
by Yugoslav forces. No more than a few hundred had bothered to return.
On the morning of January 15, 1999, as dawn broke, people were wakened
by machine gun fire. Yugoslav tanks were perched on the hilltop
overlooking the village. People began running from their homes, in an
attempt to escape.
Most of the events related to the coming massacre would unfold on the
property of the Osmani family. As the shooting began, as many as 60
people rushed to the Osmani's property, looking for a place to hide.
"The men went into the barn," 18-year-old Burim Osmani told CBC Radio
recently. "The women and four men were in the cellar of the house. We
hoped that maybe we would be able to escape up the hill but we were
surrounded."
A group of Serbian police officers entered the yard. They found the men
hiding in the barn. They forced them into the yard. According to
survivors, the Serb police officers brutally beat the men. The police
officers also found the women and a few men in the cellar of the home.
They, too, were forced outside.
Eventually, the women and a few of the men were sent back into the
cellar. The police ordered the rest of the men to get up out of the mud
and start walking up a steep hill on the edge of the Osmani's yard.
Nusret Shabani was among the men marched up the hill. He says when they
reached the top of the hill, dozens of Serb police officers were
waiting.
"My son and I were at the very end of the line of men," Sahabani told
CBC News. "There were five of us who managed to survive. The first men
continued to walk up the hill but we were the last ones and we managed
to escape over the side of the hill by running away at the end of the
line."
Back in the village, the women would spend several more hours locked in
the cellar before they felt safe enough to leave. When they got out,
there was no sign of the men. It wasn't until early the next morning
that the bodies of the men were found in a ravine at the top of the hill
behind the Osmani's yard.
NATO reacts quickly to the massacre
Racak's surviving residents made the trek up the hill to see the carnage
for themselves. They also came across a contingent of international
observers. But not just any international observers.
Journalists compare notes near the massacre scene U.S. diplomat William
Walker had personally rushed to the scene. As the head of the observer
mission for the Organization for Security and Co-operation in Europe,
known as the OSCE, it was Walker's job to monitor a ceasefire that had
been negotiated with Yugoslav leader Slobodan Milosevic the previous
October. Walker had come to Racak to see for himself the results of yet
another break in the ceasefire.
Walker left the ravine and rushed back to Pristina where he held a news
conference for the international media. His swift and damning
condemnation of the Serbs would quickly reverberate around the world.
"I've seen all the ingredients of a massacre," Walker told reporters
gathered in Pristina. "I've seen a lot of bodies up there. A lot of men
who'd been shot in various ways, mostly very close up. It's horrendous.
It's a horrible sight."
International leaders joined the chorus of condemnation against
Yugoslavia. The pressure was put on Yugoslav President Slobodan
Milosevic to attend peace talks in Paris. They began two weeks later.
Milosevic balked at what he felt were demands to accept United Nations'
control of Kosovo. The process broke down. A month later, NATO began its
bombing campaign.
Graves of victims of the Racak massacre Los Angeles Times Correspondent
Paul Watson was among those who joined Walker's rush to judgment. A
Canadian, Watson is an experienced and highly decorated foreign
correspondent. He won a Pulitzer in Somalia and the prestigious George
Polk award for his reporting from Kosovo.
"At the time when I was listening to him I thought to myself good on
you, go for it," Watson told CBC News. "Now someone's finally cutting
through the crap and saying what he thinks. Subsequently I started to
wonder whether it was as simple as that."
Questions raised
Questions about the Racak massacre began to be raised almost
immediately. Recently, French journalist Renaud Girard of the newspaper
Le Figaro recalled the more pragmatic questions that occurred to him
that day in the ravine. If this was such a barbaric crime against
humanity, why had William Walker's monitors not immediately sealed off
the area to protect evidence for the International War Crimes Tribunal?
It also occurred to Girard that if this was an execution site why were
there very few bullet casings on the ground?
Four monitors from William Walker's OSCE observer mission were in and
around Racak the day of the massacre. They were also there the next
morning when the bodies were discovered in the ravine. One of them, an
American army captain had confided to one of Girard's colleagues that
he'd picked up all the bullet casings once he'd arrived at the scene.
Overlooking Racak today That wasn't the only thing journalists found
strange. If the Serbs had been planning a bloody massacre that day, why
had they issued a press release in Pristina that morning, inviting
journalists to come to Racak to cover the police operation? They said
they would be carrying out an operation aimed at capturing Kosovo
Liberation Army soldiers in the area responsible for killing three Serb
policemen in ambushes the week before.
Journalist Christophe Chatelot of Le Monde says he was in another part
of Kosovo when the attack began. He told CBC News that when he returned
to his hotel during the morning, he read the press release from Serbian
officials.
"I read the police report announcing that they are preparing the
attack," Chatelot said. "At noon there was a second report. The first,
they will attack. The second, they began. And the third it was a
successful operation and they killed dozens of KLA fighters. I arrived
in Racak around four o'clock in the afternoon. The Serbs congratulated
themselves for this operation, calling it a very tough, very efficient
but a clean operation."
Those many initial questions very quickly spawned conspiracy theories
and stories challenging Walker's version of events. Had the KLA
manipulated the massacre scene to provoke condemnation against the
Serbs? Were the dead men in the ditch really innocent civilians, or
possibly dead KLA soldiers who'd been taken out of uniform?
Conspiracy theories
What spurred the conspiracy theories was the simple fact that so many
might be motivated to provoke NATO's intervention. The KLA and most
Kosovar Albanians wanted NATO to step in. Some have questioned William
Walker's ambitions. NATO itself was floundering in search of a post-cold
war purpose. And in Washington U.S. Bill Clinton was struggling to get
stories about the Monica Lewinsky affair off the front pages of
newspapers.
The conspiracy theories have played more prominently in Europe than in
North America. William Walker rejects them as an attempt to rewrite
history. He insists that he did not go to Kosovo with instructions to
find something that would give NATO the excuse to go in and start
dropping bombs.
"I find that almost as ludicrous as some of the things that Belgrade has
been saying about Racak," Walker said.
The quest to determine what was going on in the days before the massacre
has unearthed disturbing new information about the conduct of both the
Kosovo Liberation Army and William Walker's observer mission.
Much of that new information comes from the people of Racak themselves.
People like Sadije Ramadani say the first hints of what was to come
appeared on the weekend prior to the Friday massacre.
The Yugoslav Army had always maintained a small presence on the large
hill overlooking Racak. But suddenly a significant number of
reinforcements arrived. They showed up a day after the KLA ambushed and
killed three Serb police officers.
Canadian General Michel Maisonneuve admits the KLA had to know how the
Serbs were likely to react to that ambush.
"If they were hit by something they would retaliate with
disproportionate force," Maisonneuve told CBC News. "That's something I
always used to say to the KLA - why do you do these things, you're
provoking them and they're going to retaliate on defenceless people.
That's just what they did. That was their normal modus operandi."
Dugi Gorani, a prominent Kosovar Albanian, suggests the KLA was very
aware of the consequences of their actions.
"The more civilians were killed," he said, "the chances of international
intervention became bigger, and the KLA of course realized that."
Some KLA supporters have conceded that a key unit was based in the hills
above and around Racak. But, when the Serbs finally attacked on January
15, eyewitnesses say the KLA fought back from high in the hills and made
no real attempt to defend or protect the village.
By the next morning, however, KLA soldiers were all over Racak to lead
journalists into the ravine where the bodies were piled. Le Figaro's
Renaud Girard remembers asking the KLA where they'd been the day before.
But the actions of KLA commanders aren't the only actions that are now
coming under scrutiny. For every question being asked about their
whereabouts on the day of the massacre, an equal number of questions are
being aimed at William Walker's observer mission.
Walker himself concedes the OSCE's modus operandi was to be seen and to
be present anywhere trouble might flare because the OSCE's presence was
a powerful limiting force.
Canadian General Michel Maisonneuve says the OSCE's monitoring force was
structured so that monitors were intimately aware of everything going on
within their areas of responsibility.
"We operated on a beat cop principle," Maisonneuve told CBC News.
"People would go back to the same place, patrol the same areas, the same
villages, and so on. Our guys got to the point they knew an area so well
they could sense a change in atmosphere and if the Albanians or the
authorities would actually have a problem they didn't hesitate to stop
us and say there's a problem here."
OSCE monitors knew about the KLA's ambush on police and the arrival of
Serb reinforcements near Racak the very next day.
Burim Osmani says his father Sadik had always been in frequent touch
with the OSCE monitors responsible for Racak. He says that two or three
weeks before the massacre, his father pleaded with the monitors to
establish a permanent presence in the village. The OSCE refused.
Even more strangely, Burim says OSCE monitors paid a visit to Racak just
a few days prior to the massacre.
"They just told us the Serbs who had positioned themselves up on the
hill would be staying there for a while and then they would leave,"
Osmani said. "They said because the OSCE were here, the Serbs wouldn't
dare to attack. So we stayed, relying on what they said."
In the immediate aftermath of the Racak massacre, the OSCE would insist
its monitors were prevented from entering the village once the army
assault began from the hills and Serbian police began their sweep
through the village. The OSCE claimed its people were helpless to do
anything but monitor the assault from a nearby hilltop. Osmani says
that's not what he was told.
"The Serbs said to the OSCE if you want to go in, go in," Osmani told
CBC News. "But we have orders to do this and we have to do it."
The world may no longer care to remember the massacre that sparked
NATO's bombing campaign and the subsequent occupation of Kosovo by tens
of thousands of NATO soldiers. But the people of Racak have found a way
to thank and remember the man they believe made it all possible.
They've renamed the Road to Racak, William Walker Road.
--------- COORDINAMENTO ROMANO PER LA JUGOSLAVIA -----------
RIMSKI SAVEZ ZA JUGOSLAVIJU
e-mail: crj@... - URL: http://marx2001.org/crj
http://www.egroups.com/group/crj-mailinglist/
------------------------------------------------------------
* Un articolo di T. Boari
* Link alla analisi completa di Chris Soda
* Altri link ed un articolo in materia
---
Il seguente articolo e' apparso su "Il Manifesto" del 15/4/2000:
L'esca di Racak
TIZIANA BOARI
U n massacro di civili inermi. Così un anno fa la comunità
internazionale e gran parte
della stampa definì il ritrovamento dei cadaveri di 45 albanesi nel
villaggio di Racak,
presso Stimlje, nel Kosovo meridionale, dove il giorno prima si erano
svolti violenti
scontri tra truppe serbe e guerriglieri dell'Uck. I corpi ritrovati
rilevavano ferite da
arma da fuoco e molti presentavano mutilazioni di vario genere. William
Walker, il
capo della missione Osce (Kvm) incaricata da metà ottobre 1998 di
verificare
l'applicazione del cessate il fuoco tra serbi e kosovari concordato tra
Milosevic e
Holbrooke, si recò sul luogo in tarda mattinata e convocò per il giorno
stesso una
conferenza stampa, in cui affermò di aver trovato "i corpi di oltre
venti uomini che
erano stati chiaramente giustiziati là dove giacevano (...) Tutti erano
in borghese;
tutti apparivano come umili abitanti del villaggio".
Walker definì l'episodio "un massacro, un crimine contro l'umanità" e
non esitò ad
attribuirne la responsabilità alle truppe serbe, chiedendo l'ntervento
dell'allora
procuratore capo del Tribunale Internazionale dell'Aja, la canadese
Louise Arbour.
A bruciapelo
Si parlò di un'esecuzione, di colpi sparati a bruciapelo contro civili
inermi. Gli Usa
puntavano ad un intervento militare immediato; l'Europa, pur scossa
dall'atrocità dei
fatti, cercò un'ulteriore mediazione diplomatica con la convocazione
della conferenza
di Rambouillet. Alla vigilia del suo fallimento pilotato, furono resi
noti in modo
sommario i risultati delle autopsie: secondo le dichiarazioni del
medico finlandese
incaricato dall'UE, Helena Ranta, "nessun elemento fa dedurre che non
si trattasse
di civili disarmati", uccisi nel luogo del loro ritrovamento. Il mondo
fraintese i suoi
"commenti personali", scritti e divulgati in quel momento e in quella
forma sotto
evidenti pressioni politiche, ed emise il verdetto di condanna contro i
serbi.
L'episodio di Racak fu strumentalizzato per preparare l'opinione
pubblica ad una
escalation militare, per fornire la giustificazione morale alla guerra.
Doveva essere un
massacro, un crimine contro l'umanità per chiarire al mondo chi fossero
i "buoni" e
chi i "cattivi". Oggi, sulla base della documentazione esclusiva in
nostro possesso,
possiamo dire che la verità fu sottaciuta. Non possiamo affermare di
sapere cosa
accadde quel 15 e 16 gennaio di un anno fa, ma possiamo stabilire in
modo fondato
ciò che non accadde.
E questo sulla base delle copie dei protocolli - finora tenuti segreti
e ora da noi
esaminati - delle 40 autopsie eseguite parallelamente dai patologi
jugoslavi e
bielorussi, e dal team di medici forensi finlandesi incaricati dall'UE
e guidati dalla
dottoressa Helena Ranta; nella documentazione sono inoltre contenuti
quattro
rapporti riservati dell'Osce sul ritrovamento di Racak, redatti il 16 e
il 17 gennaio
1999.
Esaminando le due serie di protocolli di autopsia, ci si accorge che
fondamentalmente quelli firmati unicamente dagli jugoslavi e bielorussi
e quelli firmati
anche dai finlandesi si equivalgono nelle conclusioni. Le prove
dimostrano che non fu
un'esecuzione e non è sicuro che si trattasse di civili inermi. Il
professor Dusan
Dunjic, patologo dell'Istituto di medicina forense di Pristina, afferma
- nel suo
articolo "The (Ab)use of Forensic Medicine" - che prima di eseguire le
autopsie, il
suo team effettuò la prova del guanto di paraffina, rilevando in 37
casi su 40 tracce
di polvere da sparo sulle mani dei cadaveri. Ma di ciò nei documenti
firmati
ufficialmente non è rimasta traccia. E anche le cifre, il numero e
soprattutto
l'identità dei morti registrati non sono elementi indiscutibili. Al
contrario, su questo
punto le contraddizioni e i misteri irrisolti restano tanti. Cos'è
dunque che "non
accadde"?
Quante erano le vittime?
Il 15 gennaio 1999 a Racak, una roccaforte dell'Uck piena di trincee,
scoppiarono
violenti combattimenti tra guerriglieri e truppe serbe. Nel rapporto
speciale dell'Osce,
redatto in data 17 gennaio, il 12 gennaio i leader locali dell'Uck
riferivano che oltre
un migliaio di civili aveva abbandonato i villaggi di Belince, Racak,
Petrova e
Malopoljce per rifugiarsi sulle colline.
Il giorno dopo invece, i verificatori della Kvm trovarono a Racak 350
persone, il
rapporto non menziona affatto che potesse trattarsi di guerriglieri
Uck. Alcuni
giornalisti internazionali presenti sul posto il 15 sera riferirono di
non aver rilevato
niente di strano nel paese, meno che mai la presenza di vittime di un
eccidio. Il 16 i
primi ad arrivare sul luogo, secondo testimoni diretti, furono gli
americani della
missione Usa di osservazione diplomatica in Kosovo (Uskdom), su
segnalazione di
fonti locali, probabilmente dell'Uck. Il rapporto Osce parla invece di
un gruppo di
verificatori che arrivò nel primo mattino, trovando, su una collina
dietro al villaggio,
23 cadaveri di uomini, tutti uccisi da colpi di arma da fuoco sparati
alla testa da una
"distanza estremamente ravvicinata" (extremely close range). Lungo un
sentiero
vicino al villaggio, come in fila, furono rinvenuti i corpi di altri
3-4 uomini ,
apparentemente "colpiti mentre fuggivano". All'interno del villaggio,
con la specifica
tra parentesi "uccisi al di fuori, ma i cadaveri sono stati riportati a
casa da alcune
famiglie", 18 corpi, tutti di adulti maschi, ad eccezione di un bambino
e di una
donna. Di questi, 11 corpi risultano rinvenuti all'interno delle case
del villaggio, 5
uccisi a Racak ma "portati a Malopoljce dalla loro famiglia": probabili
guerriglieri
portati via dalla "famiglia" dell'Uck?
L'Osce non menziona la probabile presenza di guerriglieri tra i caduti,
avvalorando lo
scenario dell'esecuzione sommaria contro civili. Peraltro il 15 a
mattina il Media
Center di Pristina, legato al governo serbo, chiamò gli operatori della
Ap tv e altri
giornalisti stranieri (tra questi l'inviato di Le Monde Christophe
Chatelot, quello di
Liberation Pierre Hasan e quello de Le Figaro Renaud Girard) segnalando
loro che
avrebbero dovuto trovarsi a Racak alle 10,30. Qualcosa stava accadendo.
Alle 14,30
dello stesso giorno, il Media Center comunicava che nel villaggio
controllato dall'Uck
era stato portato a termine un attacco antiguerriglia e che "15
terroristi" erano stati
uccisi. Perché un organo governativo avrebbe dovuto inviare un gruppo
di giornalisti
in un luogo dove si stava compiendo un massacro preordinato dai serbi?
I "criteri" dell'Aja
Di sicuro si sa che il giorno dopo, l'Esercito di Liberazione del
Kosovo aveva riportato
tra le sue file sei morti, che sarebbero saliti a otto, e sei feriti:
lo afferma un
rapporto interno dell'Ue datato 17 gennaio (nr. 10829), come riportato
dal
quotidiano tedesco Berliner Zeitung. l'Uck inoltre aveva annunciato che
22 suoi
guerriglieri erano stati giustiziati dalla polizia serba: sul reale
numero dei morti
dunque regna ancora una certa confusione. Per la raccolta delle prove e
per
l'identificazione dei morti, altro capitolo poco chiaro, l'Osce si basò
sulle
testimonianze degli abitanti del villaggio. I protocolli delle autopsie
infatti
attribuiscono un numero in codice per ogni cadavere e indicazioni di
base per la sua
identificazione, ovvero sesso, età largamente approssimativa (ad es.
"25-45 anni"),
statura e corporatura. Ma nessun nome.
Con quali criteri dunque il Tribunale internazionale dell'Aja ha
associato i 45 nomi
presenti nell'elenco degli "assassinati a Racak" (inserito tra i capi
di imputazione
emessi contro i vertici di Belgrado il 22 maggio 1999) con i 40
cadaveri ritrovati e
sottoposti ad autopsia dai medici forensi? Secondo l'inchiesta tedesca
condotta dal
quotidiano "Berliner Zeitung", almeno 13 delle 45 persone elencate dal
Tribunale
internazionale oggi non risultano seppellite nel "cimitero dei martiri"
di Racak. Tra le
43 tombe che compongono il cimitero, invece, compaiono una dozzina di
nomi
estranei all'elenco. Che fine hanno fatto quei cadaveri? Chi erano in
verità?
Il balletto delle autopsie
Torniamo a Racak. Dopo il ritrovamento, i cadaveri furono portati nella
moschea
dalla popolazione locale (e dall'Uck che li controllava a vista): come
prescrive la
religione musulmana, avrebbero dovuto essere seppelliti entro 48 ore
dalla morte. Il
17 gennaio, il magistrato inquirente del tribunale distrettuale di
Pristina, Danica
Marinkovic, si recò a Stimlje, presso Racak, per iniziare le dovute
indagini sul caso,
come previsto dalle leggi jugoslave. Il capo delle operazioni della
Kvm, generale John
Drewienkiewicz, le offrì una scorta disarmata per entrare nel
villaggio, sotto
controllo dell'Uck. I guerriglieri, secondo un comunicato stampa della
Kvm (n.12/99),
avrebbero concesso l'entrata di un gruppo disarmato. Ma la Marinkovic
non si fidò e
chiese di entrare con poliziotti armati. La mediazione fallì, le truppe
serbe
occuparono il villaggio per recuperare i cadaveri e trasferirli
all'obitorio di Pristina
dove un gruppo di 4 medici forensi jugoslavi e 2 osservatori bielorussi
potè avviare le
autopsie. Le prime quindici dimostrano che non c'è prova del massacro e
che - al
contrario di quanto affermato da William Walker e dai rapporti Osce -
le ferite non
sono state causate da proiettili sparati a distanza ravvicinata (meno
due casi, in cui
si rileva una presenza sospetta di polvere da sparo intorno al foro di
entrata del
proiettile, si esclude tuttavia lo sparo a bruciapelo e si rimanda alla
"necessità di
ulteriori analisi", una costante di tutti i protocolli).
Ma il mondo vuole le prove delle responsabilità serbe, urla al massacro
e accusa di
faziosità il team di patologi slavi. Qui entra in gioco Helena Ranta e
il suo gruppo di
medici finlandesi a partire dal 22 gennaio.
Non controfirma le prime 15 autopsie eseguite dai colleghi slavi e
decide di rifarle:
nessuno ci ha detto che la dottoressa Ranta cercherà, sull'onda emotiva
del fatto,
le prove di un massacro contro civili inermi, senza utilizzare mai la
prova del guanto
di paraffina che avrebbe indicato se tra i caduti c'erano dei
guerriglieri (come invece
risulta al suo collega jugoslavo). Cosa dicono dunque i risultati?
Per tutti i casi, meno uno (RA-34), "non c'è prova di proiettili
sparati a bruciapelo o
a distanza fortemente ravvicinata". Le ferite sono in molti casi
numerose, di tipo
diverso. La maggioranza, oltre che al torace e alla testa, riporta
ferite da arma da
fuoco alle mani e alle gambe. Frequenti le ferite di striscio nella
zona della testa. Le
traiettorie dei proiettili sono variabili e diverse anche su uno stesso
corpo; perlopiù
si tratta di colpi alla schiena o laterali, qualche frontale. Un
particolare elemento di
comprensione dell'accaduto è dato dalle autopsie della donna (Ra-36,
tra i 20 e i 30
anni) e del bambino (Ra-13, tra i 10 e i 15 anni), entrambe deceduti a
causa di una
ferita nella zona toracica causata rispettivamente da un solo
proiettile. Riferimenti al
ferimento di questi due soggetti si ritrovano nel rapporto speciale
dell'Osce datato
17 gennaio che, relativamente al 15 riporta: "Nel tardo pomeriggio una
pattuglia di
verificatori della Kvm è riuscita ad entrare nel villaggio di Racak. I
verificatori hanno
visto un albanese morto e cinque civili feriti inclusa una donna e un
bambino
sofferenti per ferite da arma da fuoco. La Kvm ha inoltre ricevuto
altri rapporti non
confermati relativi ad ulteriori decessi".
Le autopsie
Secondo protocolli finlandesi, i proiettili utilizzati risultano
provenienti da "armi di
piccolo calibro, di grande potenza". In un caso è stata rilevata
l'azione di un
proiettile a frammentazione.
In un caso (Ra-3) troviamo il cadavere di un uomo "ben nutrito, di
un'età stimata tra
i 25-45 anni" che presenta ben 35 ferite, tutte di diametro diverso, 20
delle quali da
arma da fuoco, abrasioni multiple nella zona degli arti inferiori,
costole rotte e
oggetti sensibili ai raggi X. Le cause del decesso sono chiaramente
riportate: tra le
più frequenti, ferite alla testa, al torace, emorragie interne. Per
tutti non è stato
ufficialmente possibile determinare la categoria delle modalità del
decesso, ovvero
cosa accadde: nulla di ufficiale conferma la tesi del massacro. E le
mutilazioni che
tanto sdegnarono l'opinione pubblica? Il termine "mutilazione" non
ricorre in alcun
caso. I referti indicano invece ferite o perdita di tessuti o materiale
organico post
mortem., "presumibilmente" causati da morsi di animali.
In sette casi è presente lo stato di putrefazione del corpo. Un uomo
tra i 20 e 40
anni risulta decapitato (Ra-31) ; il cadavere di un uomo anziano
(Ra-26) tra i 60 e
75 anni presenta all'analisi enfisema polmonare, fibrosi e adesione
pleurica.
Un solo protocollo, quello relativo al cadavere Ra-34, parla di colpo
di arma da fuoco
sparato a distanza relativamente ravvicinata ("relatively close
range"), come
dedotto dai residui di polvere da sparo ritrovati intorno al foro
d'entrata del
proiettile. Ma non si tratta, precisa l'autopsia, di uno sparo a
bruciapelo ("contact
discharge").
In conclusione, 39 casi su 40 escludono nettamente l'ipotesi
dell'esecuzione
sommaria.
Le autopsie furono realizzate tra il 22 e il 29 gennaio 1999 dai medici
finlandesi a
Pristina, che però vollero eseguire alcune analisi e accertamenti a
Helsinki.
Accertamenti per altro non conclusi quando su Helena Ranta furono
esercitate
pressioni affinché rendesse pubblici i risultati delle autopsie, cosa
che la dottoressa
non riteneva affatto opportuna. Quale fu la vera ragione di tanta
insistenza? Il
rapporto diffuso il 17 marzo alla stampa riportava chiaramente la
natura del
documento, sottolineando che si trattava dei commenti che esprimevano
"l'opinione
personale dell'autrice" e non una comunicazione ufficiale. Ma nessuno
ci fece caso:
tutti vi lessero le prove dell'eccidio. L'Esercito di Liberazione del
Kosovo e gli Stati
uniti registrarono una vittoria strategica.
Tre giorni dopo la missione dell'Osce guidata dall'americano William
Walker
abbandonava il Kosovo verso Skopje. L'esca di Racak era stata gettata e
il pesce
europeo aveva abboccato. Quel che bastò a scatenare la guerra. Una
distrazione
fatale, troppi silenzi. E' ora di fare chiarezza.
---
*** LINK ALLA DETTAGLIATISSIMA ANALISI DI CHRIS SODA ***
The very best and most thorough analysis of Racak was done by Chris
Soda from Windsor, Ontario, and provided by Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
It is titled "Complete analysis of the indicent at Racak, Jan. 15/99"
and runs into 22 printed pages. You should be able to get it by
requesting it from the yugoslaviainfo.
Hi All, just to add link to excellent analysis by Chris Soda.
Chris Soda's analyses available on yugoslavia info:
http://www.egroups.com/message/yugoslaviainfo/618?&start=3
Send this to your favorite spinmaster, along with this quote:
These acts are punishable:
(b) Conspiracy to commit genocide;
(c) Direct and public incitement to commit genocide;
(e) Complicity in genocide.
Art. 3 Genocide Convention of 1948
http://www.tufts.edu/departments/fletcher/multi/texts/BH225.txt
.....
---
FILE SONORI DELLE TRASMISSIONI ALLA RADIO CANADESE CBC
> > ==============================================
> > * * * AUDIO: CBC RACAK files available...* * *
> > ==============================================
> >
> > Listen to:
> > [1] The "Road to Racak" :
> > http://home.cbc.ca/real/radio/news-audio/features/racak_000522.ram
> >
> > [2] Panel discussion on the difficulties in getting to the truth in a
war
> zone,
> > James Bisset and FAIR-magazine:
> > http://home.cbc.ca/real/radio/news-audio/features/racak2_000522.ram
> >
> >
> > [*] HTML-TEXT: http://cbc.ca/news/indepth/racak/
> > NOTE:) They've renamed the Road to Racak, "William Walker Road".!!!
Monday 22 May 2000
http://cbc.ca/news/indepth/racak/
Copyright ) 2000 CBC
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Racak | Kosovo coverage | links
The Road to Racak
Based on a World at Six documentary by Michael McAuliffe
CBC Radio News
Even if they don't remember the village's name, most Canadians will
remember the pictures. The images of bodies piled in a ravine in the
tiny Kosovo village of Racak in January 1999. That massacre of Albanian
civilians by Serbian forces provoked immediate anger and international
condemnation against Yugoslav leader Slobodan Milosevic. It became the
galvanizing event that led to NATO's armed intervention against
Yugoslavia.
In the year that has passed since NATO's bombing campaign, there is
mounting evidence the Racak massacre was not as gruesomely simple as it
first appeared. There are suggestions the massacre was allowed to happen
to fuel sympathy for Kosovo's Albanians, while strengthening demands for
NATO's bombs.
Over the past three months, CBC Radio has sought to unravel the mystery
of the Racak massacre: was it a massacre or an act of manipulation by
those interested in bringing NATO to war?
January 15, 1999
Racak is a village of about 2,000 people, tucked against the bottom of a
small mountain. It's a 40-minute drive southwest of Kosovo's capital
Pristina. Racak's many red-roofed homes are built across a series of
small rolling hills at the base of the mountain. The population, like
most of Kosovo, is overwhelmingly Albanian and Muslim.
Up the hill, overlooking the village of Racak today On the day of the
massacre, the village of Racak was largely deserted. Most of the
village's residents had fled the previous summer during a major assault
by Yugoslav forces. No more than a few hundred had bothered to return.
On the morning of January 15, 1999, as dawn broke, people were wakened
by machine gun fire. Yugoslav tanks were perched on the hilltop
overlooking the village. People began running from their homes, in an
attempt to escape.
Most of the events related to the coming massacre would unfold on the
property of the Osmani family. As the shooting began, as many as 60
people rushed to the Osmani's property, looking for a place to hide.
"The men went into the barn," 18-year-old Burim Osmani told CBC Radio
recently. "The women and four men were in the cellar of the house. We
hoped that maybe we would be able to escape up the hill but we were
surrounded."
A group of Serbian police officers entered the yard. They found the men
hiding in the barn. They forced them into the yard. According to
survivors, the Serb police officers brutally beat the men. The police
officers also found the women and a few men in the cellar of the home.
They, too, were forced outside.
Eventually, the women and a few of the men were sent back into the
cellar. The police ordered the rest of the men to get up out of the mud
and start walking up a steep hill on the edge of the Osmani's yard.
Nusret Shabani was among the men marched up the hill. He says when they
reached the top of the hill, dozens of Serb police officers were
waiting.
"My son and I were at the very end of the line of men," Sahabani told
CBC News. "There were five of us who managed to survive. The first men
continued to walk up the hill but we were the last ones and we managed
to escape over the side of the hill by running away at the end of the
line."
Back in the village, the women would spend several more hours locked in
the cellar before they felt safe enough to leave. When they got out,
there was no sign of the men. It wasn't until early the next morning
that the bodies of the men were found in a ravine at the top of the hill
behind the Osmani's yard.
NATO reacts quickly to the massacre
Racak's surviving residents made the trek up the hill to see the carnage
for themselves. They also came across a contingent of international
observers. But not just any international observers.
Journalists compare notes near the massacre scene U.S. diplomat William
Walker had personally rushed to the scene. As the head of the observer
mission for the Organization for Security and Co-operation in Europe,
known as the OSCE, it was Walker's job to monitor a ceasefire that had
been negotiated with Yugoslav leader Slobodan Milosevic the previous
October. Walker had come to Racak to see for himself the results of yet
another break in the ceasefire.
Walker left the ravine and rushed back to Pristina where he held a news
conference for the international media. His swift and damning
condemnation of the Serbs would quickly reverberate around the world.
"I've seen all the ingredients of a massacre," Walker told reporters
gathered in Pristina. "I've seen a lot of bodies up there. A lot of men
who'd been shot in various ways, mostly very close up. It's horrendous.
It's a horrible sight."
International leaders joined the chorus of condemnation against
Yugoslavia. The pressure was put on Yugoslav President Slobodan
Milosevic to attend peace talks in Paris. They began two weeks later.
Milosevic balked at what he felt were demands to accept United Nations'
control of Kosovo. The process broke down. A month later, NATO began its
bombing campaign.
Graves of victims of the Racak massacre Los Angeles Times Correspondent
Paul Watson was among those who joined Walker's rush to judgment. A
Canadian, Watson is an experienced and highly decorated foreign
correspondent. He won a Pulitzer in Somalia and the prestigious George
Polk award for his reporting from Kosovo.
"At the time when I was listening to him I thought to myself good on
you, go for it," Watson told CBC News. "Now someone's finally cutting
through the crap and saying what he thinks. Subsequently I started to
wonder whether it was as simple as that."
Questions raised
Questions about the Racak massacre began to be raised almost
immediately. Recently, French journalist Renaud Girard of the newspaper
Le Figaro recalled the more pragmatic questions that occurred to him
that day in the ravine. If this was such a barbaric crime against
humanity, why had William Walker's monitors not immediately sealed off
the area to protect evidence for the International War Crimes Tribunal?
It also occurred to Girard that if this was an execution site why were
there very few bullet casings on the ground?
Four monitors from William Walker's OSCE observer mission were in and
around Racak the day of the massacre. They were also there the next
morning when the bodies were discovered in the ravine. One of them, an
American army captain had confided to one of Girard's colleagues that
he'd picked up all the bullet casings once he'd arrived at the scene.
Overlooking Racak today That wasn't the only thing journalists found
strange. If the Serbs had been planning a bloody massacre that day, why
had they issued a press release in Pristina that morning, inviting
journalists to come to Racak to cover the police operation? They said
they would be carrying out an operation aimed at capturing Kosovo
Liberation Army soldiers in the area responsible for killing three Serb
policemen in ambushes the week before.
Journalist Christophe Chatelot of Le Monde says he was in another part
of Kosovo when the attack began. He told CBC News that when he returned
to his hotel during the morning, he read the press release from Serbian
officials.
"I read the police report announcing that they are preparing the
attack," Chatelot said. "At noon there was a second report. The first,
they will attack. The second, they began. And the third it was a
successful operation and they killed dozens of KLA fighters. I arrived
in Racak around four o'clock in the afternoon. The Serbs congratulated
themselves for this operation, calling it a very tough, very efficient
but a clean operation."
Those many initial questions very quickly spawned conspiracy theories
and stories challenging Walker's version of events. Had the KLA
manipulated the massacre scene to provoke condemnation against the
Serbs? Were the dead men in the ditch really innocent civilians, or
possibly dead KLA soldiers who'd been taken out of uniform?
Conspiracy theories
What spurred the conspiracy theories was the simple fact that so many
might be motivated to provoke NATO's intervention. The KLA and most
Kosovar Albanians wanted NATO to step in. Some have questioned William
Walker's ambitions. NATO itself was floundering in search of a post-cold
war purpose. And in Washington U.S. Bill Clinton was struggling to get
stories about the Monica Lewinsky affair off the front pages of
newspapers.
The conspiracy theories have played more prominently in Europe than in
North America. William Walker rejects them as an attempt to rewrite
history. He insists that he did not go to Kosovo with instructions to
find something that would give NATO the excuse to go in and start
dropping bombs.
"I find that almost as ludicrous as some of the things that Belgrade has
been saying about Racak," Walker said.
The quest to determine what was going on in the days before the massacre
has unearthed disturbing new information about the conduct of both the
Kosovo Liberation Army and William Walker's observer mission.
Much of that new information comes from the people of Racak themselves.
People like Sadije Ramadani say the first hints of what was to come
appeared on the weekend prior to the Friday massacre.
The Yugoslav Army had always maintained a small presence on the large
hill overlooking Racak. But suddenly a significant number of
reinforcements arrived. They showed up a day after the KLA ambushed and
killed three Serb police officers.
Canadian General Michel Maisonneuve admits the KLA had to know how the
Serbs were likely to react to that ambush.
"If they were hit by something they would retaliate with
disproportionate force," Maisonneuve told CBC News. "That's something I
always used to say to the KLA - why do you do these things, you're
provoking them and they're going to retaliate on defenceless people.
That's just what they did. That was their normal modus operandi."
Dugi Gorani, a prominent Kosovar Albanian, suggests the KLA was very
aware of the consequences of their actions.
"The more civilians were killed," he said, "the chances of international
intervention became bigger, and the KLA of course realized that."
Some KLA supporters have conceded that a key unit was based in the hills
above and around Racak. But, when the Serbs finally attacked on January
15, eyewitnesses say the KLA fought back from high in the hills and made
no real attempt to defend or protect the village.
By the next morning, however, KLA soldiers were all over Racak to lead
journalists into the ravine where the bodies were piled. Le Figaro's
Renaud Girard remembers asking the KLA where they'd been the day before.
But the actions of KLA commanders aren't the only actions that are now
coming under scrutiny. For every question being asked about their
whereabouts on the day of the massacre, an equal number of questions are
being aimed at William Walker's observer mission.
Walker himself concedes the OSCE's modus operandi was to be seen and to
be present anywhere trouble might flare because the OSCE's presence was
a powerful limiting force.
Canadian General Michel Maisonneuve says the OSCE's monitoring force was
structured so that monitors were intimately aware of everything going on
within their areas of responsibility.
"We operated on a beat cop principle," Maisonneuve told CBC News.
"People would go back to the same place, patrol the same areas, the same
villages, and so on. Our guys got to the point they knew an area so well
they could sense a change in atmosphere and if the Albanians or the
authorities would actually have a problem they didn't hesitate to stop
us and say there's a problem here."
OSCE monitors knew about the KLA's ambush on police and the arrival of
Serb reinforcements near Racak the very next day.
Burim Osmani says his father Sadik had always been in frequent touch
with the OSCE monitors responsible for Racak. He says that two or three
weeks before the massacre, his father pleaded with the monitors to
establish a permanent presence in the village. The OSCE refused.
Even more strangely, Burim says OSCE monitors paid a visit to Racak just
a few days prior to the massacre.
"They just told us the Serbs who had positioned themselves up on the
hill would be staying there for a while and then they would leave,"
Osmani said. "They said because the OSCE were here, the Serbs wouldn't
dare to attack. So we stayed, relying on what they said."
In the immediate aftermath of the Racak massacre, the OSCE would insist
its monitors were prevented from entering the village once the army
assault began from the hills and Serbian police began their sweep
through the village. The OSCE claimed its people were helpless to do
anything but monitor the assault from a nearby hilltop. Osmani says
that's not what he was told.
"The Serbs said to the OSCE if you want to go in, go in," Osmani told
CBC News. "But we have orders to do this and we have to do it."
The world may no longer care to remember the massacre that sparked
NATO's bombing campaign and the subsequent occupation of Kosovo by tens
of thousands of NATO soldiers. But the people of Racak have found a way
to thank and remember the man they believe made it all possible.
They've renamed the Road to Racak, William Walker Road.
--------- COORDINAMENTO ROMANO PER LA JUGOSLAVIA -----------
RIMSKI SAVEZ ZA JUGOSLAVIJU
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