S. Taylor e J. Israel sul Kosmet

Quella che segue e' la traduzione del commento originariamente apparso
su:
http://www.icdsm.com/more/taylor1.htm (oppure
http://emperors-clothes.com/analysis/taylor1.htm ).
Essa ci e' pervenuta da A. Lattanzio, che ringraziamo.

L'articolo di Scott Taylor "Extremist on UN's payroll" ("Estremisti sul
libro paga dell'ONU"), al quale qui ci si riferisce, e' leggibile
integralmente in inglese alla URL:
http://www.herald.ns.ca/stories/2003/06/02/fOpinion173.raw.html

Scott Taylor e' tra l'altro autore di "Diary of an Uncivil War", libro
del quale diffondiamo qui di seguito un nuovo estratto, dopo quello
gia' fatto circolare:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/1621

Dello stesso Taylor consigliamo anche la lettura del recente
THE BLOODSHED CONTINUES
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2589
e dei numerosi altri articoli, dedicati anche alla aggressione NATO/UCK
contro la FYROM, da noi archiviati in:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/messages


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Commenti sull'articolo di Scott Taylor...
Come la NATO e L'ONU sono colpevoli per il terrore in
Kosovo?
di Jared Israel [3 Giugno 2003]

Molta della copertura sull'assalto terroristico al
Kosovo e alla Macedonia è stata pura disinformazione.
Perfino il miglior articolo è generalmente pieno di
affermazioni gratuite. Per esempio l'ultimo pezzo di
Scott Taylor sull'Halifax Herald. Taylor è un reporter
coraggioso. Ha intervistato un comandante terrorista
secessionista albanese che conduceva gli attacchi alla
Macedonia provando il supporto dato loro dall'US Army.
Ha rischiatola propria vita per dirci la verità. Ma
mentre Taylor tenta di superare le menzogne ufficiali,
egli spesso soccombe alla pressione di tutte queste
menzogne, anche quando i fatti che riporta
contraddicono le bugie! Possiamo, così, avere molte
notizie dagli articoli di Taylor, ma da maneggiare con
cura. Vediamo il caso dell'articolo del 2 giugno 2003
comparso sul The Halifax Herald, intitolato:
"Estremisti sul libro paga dell'ONU". Io avevo postato
la prima parte dell'articolo, nella sezione con alcuni
commenti

Pristina, Kosovo - In nel loro piccolo ufficio nel
quartier generale della polizia dell'ONU, l'ex
poliziotto di Ottawa Derek Chappell e il suo collega
Barry Fletcher, un ex poliziotto di New Orleans, mi
disse della loro frustrazione nel tentativo di
controllare l'andamento delle violenze etniche in
questa provincia balcanica devastata dalla guerra. Fin
dall'arrivo delle forze NATO in Kosovo e dalla
ritirata delle forze serbe nel giugno 1999, la
maggioranza degli attacchi terroristici erano compiuti
da estremisti albanesi contro serbi e altre minoranze
etniche. Il risultato è stato l'espulsione di circa
240.000 non-Albanesi dal Kosovo, con quei pochi
rimasti, rinchiusi in enclaves isolate. Tale pulizia
etnica del Kosovo ha avuto luogo negli anni appena
passati, nonostante la presenza di 27.000 soldati
della NATO e 4.400 poliziotti internazionali.

COMMENTO: è un bene che Taylor riporti il fatto che
usualmente i media ufficiali "scordano", quella del
quarto di milione di serbi e altri che sono stati
cacciati dal Kosovo. Adesso il dato è maggiore, ma va
bene, almeno parla dell'espulsione di massa. Tuttavia,
l'affermazione che "la maggioranza degli attacchi
terroristici erano compiuti da estremisti albanesi ...
ha avuto luogo negli anni appena passati" è assai
fuorviante. Suggerisce l'idea di una lotta tra gruppi
etnici opposti, che modella la percezione dominante:
il problema del Kosovo è la mostruosa prassi da "ogni
parte" e che questo comportamento cattivo nasca
spontaneamente nelle guerre di odio. Ma non è così. Il
terrore non proviene da tutti i lati, e non è
spontaneo. Gli attacchi sono assai organizzati, solo
da un lato, e sono sanzionati dalle potenze NATO.
Molti dei "Serbi e altre minoranze" sono stati
attaccati e cacciati dal Kosovo poco dopo l'arrivo
delle truppe NATO. Le forze terroriste "marciano a
fianco delle truppe NATO in Kosovo." Erano negli scopi
e negli intenti, parte della Nato. Una descrizione
grafica dell'unità del KFOR e i terroristi può essere
trovata nell'articolo: "come la NATO ha portato
l'inferno a Orahovac."
Tale articolo consiste di interviste con tre donne
della città del Kosovo di Orahovac, occupata dalla
NATO nel Giugno 1999. Le interviste furono fatte alla
fine dell'estate del 1999. Orahovac era una eccezione,
poiché all'arrivo dei terroristi, i serbi ivi
residenti, perlopiù "non" se ne andarono. Ho sentito
da queste tre donne, difficile da scrivere, anticipare
la cacciata dei serbi. In questa intervista, ho
chiesto a un a donna, Natasha Grkovic, perché i 3000
Serbi che erano rinchiusi a Orahovac, divenuta un
campo di concentramento, non se ne fossero andati
"prima" dell'arrivo della NATO. Non sapevano
dell'incubo che stava cadendo su di loro? Grkovic
spiegò che il bombardamento della NATO distrusse le
linee di comunicazione con Belgrado. Quindi, prima
dell'occupazione NATO, le notizie provenienti a
Orahovac erano della radio della NATO, inclusi le
costanti promesse che la NATO portava pace e
sicurezza. Il giorno prima dell'arrivo della NATO,
spedirono dei rappresentanti a incontrare delle
personalità importanti serbe, che ripetevano tali
promesse.

Grkovic: "la mattina prima dell'arrivo della KFOR vi
fu un meeting dei loro rappresentanti con il sindaco,
un serbo, più altri serbi inclusi il capo della
polizia. La KFOR disse che in due giorni la vita
sarebbe tornata normale. Il giorno dopo le nostre case
bruciavano." "Con la KFOR, giunse l'UCK. Lo stesso
giorno. Alcuni dei nostri vicini albanesi apparvero
con l'uniforme dell'UCK. Eravamo terrorizzati. Non ci
sentivamo al sicuro nel settore misto di Orahovac,
così partimmo per la parte serba. "quando ce ne
andammo, vedemmo, ancora, le case di serbi bruciare
ancora. La KFOR non fece nulla. Ci lamentammo,
risposero che non avevano abbastanza uomini. Presto
altre truppe NATO arrivarono ma la situazione non mutò
per un mese. Centinaia di case bruciarono. Rubavano
tutto il possibile. Alcune case di nomadi [Roma]
furono bruciate. 25 persone residenti nella zona mista
furono rapite, e le loro case bruciate. "Lentamente
capimmo la misura dell'errore che facemmo non
andandocene. Ogni giorno la KFOR offriva nuove scuse.
Dissero: 'non possiamo mettere guardie davanti ogni
casa. Non possiamo dare a ogni serbo una guardia
armata.' "Il checkpoint KFOR era vicino al ghetto. La
guardia KFOR era posta all'entrata e all'uscita
dell'area serba. Vi erano delle barricate, messe dagli
albanesi. Prima metti la KFOR e poi le barricate
albanesi. La KFOR dava tende agli albanesi che misero
su le barricate. E vi portarono la luce elettrica."

Da, "Intervista con tre donne serbe del Kosovo...Come
la NATO ha portato l'inferno a Orahovac," su
<http://www.emperors-clothes.com/analysis/savethe.htm>

'Nonostante o a causa'?

Nel suo articolo, Taylor dice che il terrore etnico
contro i serbi si svolse " nonostante la presenza di
27.000 soldati della NATO troops e 4.400 poliziotti
internazionali." Ciò suggerisce che la NATO fallì nel
prevenire il terribile crimine dovuta alla
interferenza politica o incompetenza. Ma Grkovic
descrive cose diverse: un "sistema" di terrore. In
questo sistema, l'UCK operava come braccio
terroristico della NATO, permettendo alla NATO il
lusso della negazione plausibile. Il lavoro sporco era
fatto e la NATO è criticata da Taylor, per
*omissione*. Ma l'evidenza punta sulla *commistione.*

L'inganno sul ruolo dell'ONU

Taylor certo non può essere incolpato per i commenti
dei due poliziotti che ha intervistato. Tuttavia,
forse una maggior accuratezza nella informazione
avrebbe potuto ottenere se avesse fatto domande più
pertinenti. Per esempio, uno dei poliziotti affermò
che il crimine organizzato in Kosovo:

"Uno dei maggiori ostacoli dell'ONU nell'affrontare la
mafia albanese che usa la bandiera del nazionalismo
kossovaro quando persegue i suoi scopi." dice
Fletcher. "ogni volta che arrestiamo un capobanda, si
avvolge nella bandiera albanese e le strade si
riempiono di protestanti questa non è una società
affetta dal crimine organizzato, ma è una società
basata sul crimine organizzato."

Mr. Fletcher ha detto, "Uno dei maggiori ostacoli
dell'ONU nell'affrontare la mafia albanese...". Ciò
suggerisce che la ben organizzata Mafia è, invece, un
ostacolo dell'ONU. Il problema è che la Mafia non era
ben piantata prima che NATO e ONU entrassero nel
Kosovo e ONU e NATO, che sia chiaro fin da subito,
hanno appoggiato ufficialmente le azioni dei
gangster-terroristi. Considerato il seguente brano da
una intervista con Cedomir Prlincevic, leader della
defunta comunità ebraica di Pristina, capitale della
provincia del Kosovo. Ho detto "defunta" poiché gli
ebrei sono fuggiti da Pristina pochi giorni dopo
l'arrivo della NATO. Qui è Prlincevic a descrivere la
risposta della KFOR inglese (nome della NATO in
Kosovo) all'attacco di un enorme gruppo di terroristi
albanesi a un complesso residenziale cui vivevano
migliaia di persone. Ciò pochi giorni dopo l'arrivo
della NATO a Pristina, accompagnata, secondo
Prlincevic, dagli assassini dell'UCK:

Cedda: quando gli albanesi iniziarono la distruzione
degli appartamenti, un persona chiamò la KFOR e i
soldati della KFOR entrarono nelle case, vi era una
squadra. E c'era un gruppo [di albanesi
gangster-terroristi] che saliva le scale, 24 ore di
persone che salivano e scendevano le scale, che
bussavano, entravano e demolivano... abbattevano le
porte, gettavano gas lacrimogeno, e rubavano.
Jared: scusami?
Cedda: rubavano, rubavano.
Jared: ora, dici che i soldati della KFOR erano lì?
Erano testimoni?
Cedda: Sì
Jared: che dicevano?
Cedda: Nulla. Non hanno aiutato nessuno.
Jared: per Dio, che dicevano?
Cedda: dicevano che le autorità civili avrebbero
sistemato la cosa. Si preoccupavano solo degli
omicidi.
Jared: Chi erano le autorità civili?
Cedda: Non c'erano.
Jared: credevi che ti avreb0bero ucciso se qualcuno
avesse abbattuto la porta? Suppongo che tu saresti
stato ucciso, vero?
Cedda: Sì. Avevano dei documenti nel caso fossi stato
ucciso.

Quindi nelle città del Kosovo, Orahovac o Pristina, o
altrove, procedeva la gangsterizzazione della
provincia in *mano della NATO*. È semplicemente
assurdo argomentare che tale processo avveniva senza
la guida della NATO. Così il tipo di scena descritta
da Fletcher, dove un criminale albanese veniva
arrestato, seguiva una dimostrazione albanese che ne
chiedeva il rilascio, ciò è solo un gioco.
Il gioco
a) permette all'ONU/KFOR di mantenere la pretesa che
"cerchino" di affrontare tale ondata di gangsters che
costituisce un terribile "ostacolo" mentre
b) infatti rafforza la banda dei gangsters.
Fletcher dice che i gangsters ", si avvolgono nella
bandiera albanese." Ma infatti, gli ultra nazionalisti
dell'UCK è sempre una organizzazione di gangsters. Per
garantire un adeguato aiuto ai gangsters dell'UCK, una
delle prime cose che la KFOR fece nell'entrare in
Kosovo fu di aprire i confini con l' Albania, come ben
spiega il seguente brano dell'articolo che ho scritto
nell'Agosto 1999, due mesi dopo la presa NATO del
Kosovo.

"Non è stata la NATO che ha usato la minaccia di
bombardamenti continui delle forze jugoslave ai
confini per costringerle a abbandonare i propri posti
sul confine albanese? La NATO non può dichiarare che
intendeva proteggere l'etnia albanese nel Kosovo; le
guardie di confine controllano il confine. L'Albania
del Nord, che confina con il Kosovo, è controllato da
bande di gangsters e dall'UCK che arruolano criminali.
I guardiani del confine della Yugoslavia avevano un
ruolo cruciale nel proteggere albanesi a chiunque
altro nel Kosovo dagli attacchi criminali e
terroristici. Allontanati gli jugoslavi, la NATO non
installò guardie proprie. Il confine si aprì, non
poroso, aperto. La NATO è così stupida da sapere che i
confini non custoditi permettono ai criminali di
passare? Forse, ma la stupidità non è una scusa. Il
confine albanese è stato l'oggetto del contendere tra
NATO e governo jugoslavo per un anno. Invece, quando
la minaccia dei bombardamenti della NATO spinse gli
jugoslavi a ritirarsi in parte nell'Ottobre 1998, gli
fu permesso di mantenere dei soldati nel Kosovo
precisamente allo scopo di proteggere il confine. La
NATO ha saputo che aprire il confine avrebbe garantito
un flusso di assassini dell'UCK e di criminali. Fin
quando la NATO insiste nel mantenere aperti i confini,
possiamo solo concludere che la NATO desidera il
risultato di tale apertura. Adesso che i
terroristi/criminali sono dentro, la NATO offre "aiuto
nei confronti del caos" come soluzione per non fermare
il terrore secessionista. Non è ragionevole per i
critici della NATO vedere che ciò è un colpo
propagandistico, teso a nascondere una reale divisione
del lavoro? Insomma la presenza della NATO è tesa a
impedire agli jugoslavi di intervenire e di illudere
la gente di credere di essere protetta, ciò per
garantire che essi non prendano misure di autodifesa?
Così che, con molta sorpresa della NATO, i
terroristi/criminali possono attaccare con impunità?
Con il risultato che i sopravvissuti lasciano il
Kosovo? Solo un superstite di Gracko ha lasciato,
ufficialmente."

Io accuso la NATO di organizzare la presa del Kosovo
da parte dei secessionisti/gangsters albanesi, per due
ragioni. Primo, poiché i gangsters-terroristi albanesi
hanno i loro scopi nel distruggere le organizzazioni
politiche di *ogni* gruppo etnico che vuole tenere il
Kosovo nella Serbia, libero dal dominio straniero.
Secondo, poiché questi secessionisti sono consumati
dall'odio verso serbi, zingari (Roma), Gorani e altri
gruppi etnici favorevoli all'unità della Yugoslavia,
la distruzione di essi è il maggior obiettivo della
NATO nei Balcani.

Si può leggere l'ultimo articolo di Taylor in forma integrale su
http://www.herald.ns.ca/stories/2003/06/02/fOpinion173.raw.html

Tempo permettendo, metterò altri commenti sullo
scritto di Taylor, fin quando fornirà informazioni
utili e motivi di riflessione.
Jared Israel

Traduzione di Alessandro Lattanzio
e-mail: alexlattanzio@...
sito: http://members.xoom.it/sitoaurora


=== FLASHBACK ===


http://www.antiwar.com/orig/taylor2.html

This is the first chapter of Scott Taylor's upcoming book, Diary of an
Uncivil War, detailing the author's war reporting in Macedonia.

PRISTINA, KOSOVO - 15 JUNE 1999 (Tuesday)

Queuing up at 6:00 a.m., I was lucky to get a ticket on the last
Belgrade-bound bus. It was standing room only as I boarded with 67 Serb
refugees carrying all their worldly possessions. The 78-day bombing
campaign had reduced the Pristina bus station to little more than a
pile of rubble.
(The first NATO ground troops had arrived in the capital of Kosovo two
days earlier, and it was now serving as a major logistics point for the
British 5th Brigade.) As our overloaded bus backed away from the
platform, British soldiers came out of their tents to laugh at the
spectacle.

Since Sunday, the streets of Pristina had been clogged with dusty
columns of retreating Yugoslav Army units. British tanks and armoured
vehicles were overseeing their progress at every major intersection.
Under the terms of the Technical Agreement, signed June 9 in Kumanovo,
Macedonia, the Yugoslav security forces still had 48 hours to withdraw
from Kosovo. The presence of 4800 NATO peacekeepers had done little to
reassure Serbian civilians of their continued safety. Televised
statements by U.S. State Department officials fuelled their fears by
warning, "Kosovo will not be a very healthy place for Serbs in the
coming days."

The Albanian Kosovo Liberation Army wasted little time in making that
prophecy a reality. As the first NATO vehicles rolled into the
embattled province, several off-duty Serbian soldiers waiting for
withdrawal orders were gunned down in Pristina while dozens of farmers
were brutally murdered
outside Prizren. The outbreak of violence sparked the exodus of
hundreds of thousands of terrified Serbian civilians.

Although I had been offered safe passage back to Belgrade with a
NATO-escorted convoy of foreign journalists, I felt the major news
story was the reverse ethnic-cleansing. What better way to cover it
than as a participant.

Just before noon our bus reached the northern city limits of Pristina.
There to greet us were 600 or so rock-throwing Albanians. British
soldiers were on hand, but they made no attempt to disperse the crowd.
As our driver accelerated, the bus was pelted with rocks. It was a
terrifying experience,
particularly for the young children and elderly.

The gauntlet had been established coincidentally with the arrival of
the NATO vanguard on Sunday. For two days and nights groups of
Albanians manned this checkpoint to "see off" their Serbian neighbours.
Several vehicles had been disabled and their Serbian occupants hauled
out and beaten.


Pristina, June 1999. Despite the presence of NATO troops, not all
Serbian refugees passed through the Albanian gauntlets unharmed. When
vehicles were disabled by the stone-throwing mobs, the occupants would
often be dragged into the streets and beaten. (Photo by Scott Taylor)


Here too, British troops stood by, laughed and did nothing. Except for
me, no reporter was there to record the incident, despite the fact that
2700 foreign journalists had been accredited by NATO to report from
Kosovo.

Apparently, this gauntlet was not considered newsworthy enough.
Journalists were distracted by the victory celebrations following
NATO's "liberation" of Kosovo, and images of terrified Serbs being
taunted and stoned by Kosovars might have also altered the cultivated
image of Albanians as "innocent victims of an oppressive regime."

Of course, it was largely these same journalists, through their
one-sided reporting on the war, who had created this simplified picture
of a complex situation. When the NATO campaign began, only a handful of
Western journalists had been allowed to remain inside Serbia and
Kosovo. The Serbs had great difficulty in presenting their side of the
story as television
studios and transmitters were bombed. As a result, most of the daily
news coverage came from either the NATO press center in Brussels or
from unconfirmed witness statements collected from refugee camps in
neighbouring Macedonia. Although the exodus of Albanians from Kosovo
started two days after the air strikes began, this humanitarian crisis
and allegations of
genocide were accepted as justification for the Alliance's military
intervention.

As the bombing campaign dragged on and the Serbs showed no sign of
surrender, the prospect of NATO launching a ground assault loomed
larger.

In order to strengthen support for such a risky escalation of the
conflict, NATO spokesman Jamie Shea simply upped his numbers.
Overnight, the figure of Albanians presumed murdered by the Serbs was
multiplied tenfold to 100,000.

Similarly, NATO's tactical successes were wildly exaggerated by Shea,
and dutifully reported by the Western media.

When the horde of journalists finally descended upon Kosovo, reporters
weren't interested in Albanian revenge killings of Serbs - they were on
a collective race to uncover the first "mass graves," discover the
"rape camps," and the shattered remains of the Serbian army.

What they found was evidence of a very different war from the one they
had just spent the past three months reporting. The mass grave sites
proved to be elusive. Despite much-repeated eyewitness accounts of the
execution of 700 Albanians at the Trepca mines for example, not a
single body was found.
The biggest find was seven corpses exhumed at Ljubenic - a site which
had purportedly been the burial ground of over 350 Kosovars. After five
months of searching, UN forensic teams had uncovered only 670 bodies:
Keeping in mind that this tally included Albanian, Serbian and Gypsy
civilians plus suspected combatants, the numbers did not justify the
careless use of the
word genocide, and was a far cry from Jamie Shea's wildly exaggerated
claims.

As the last of the Yugoslav Army and police columns withdrew,
journalists were equally hard-pressed to locate the burnt-out hulks of
vehicles promised them by Jamie Shea. In his daily press briefings,
Shea had kept a running tally of destroyed Serbian weapon systems,
boasting that NATO air power had
effectively created "a ring of death around Kosovo."

The truth was sobering. Despite dropping over $15 billion (U.S.) worth
of ordnance, only 13 Serbian tanks were destroyed in 78 days of
bombing, and five of these were credited to UCK land mines.

Claims of mass rape also failed to stand up to scrutiny.

At the height of the fighting, the Canadian Broadcasting Corporation
produced a short documentary profiling a female fighter in the Kosovo
Liberation Army. Her heart-rending story was that she had taken up arms
after being forced to watch as Serbian police raped, then killed, her
sister. When a television news crew tracked her down for a follow-up
homecoming piece, they found her sister very much alive - and
unmolested.
When the CBC aired what amounted to a retraction of the original story,
she was unrepentant. "We did what we had to do," she said. "We could
not beat the Serbs ourselves."

As journalists are loathe to admit they've been duped, retractions or
corrections rarely receive the same prominence as the original stories
- and once public opinion has been shaped, it is difficult to shift.
Since news reports are considered the first rough draft of history,
books based on this one-sided coverage of the conflict exacerbate the
original distortions.


As Serbian refugees fled their homes, their departure from Kosovo was
hastened by angry mobs of Albanian civilians. The Western media largely
ignored this reversal in ethnic cleansing. (Photo by Scott Taylor)


In Virtual War: Kosovo and Beyond, Canadian author and Balkan analyst
Michael Ignatieff perpetuated many of the falsehoods generated to
justify NATO's intervention. Although it can be gleaned from the
anecdotes he uses that only one side of the conflict is being
presented, Ignatieff gives the impression that he is telling the whole
story. His interviews with U.S. envoy Richard Holbrooke, The Hague War
Crimes chief prosecutor Louise Arbour, and General Wesley Clark are not
offset with the views of the Serbian leadership. Much of Virtual War
was written during the air campaign and was based only on information
available at the time.

Consequently, Ignatieff's supporting arguments for the campaign are
based on the same two "galvanizing incidents" used by NATO spokesmen to
justify their actions: the January 1999 massacre of Albanian civilians
by Serbian police at Racak, and Operation Horseshoe, the plan for
Yugoslavia to
ethnically-cleanse Kosovo. By the time Virtual War was published in
2000, German intelligence confessed to having fabricated the Operation
Horseshoe documents, and a UN forensic team had concluded that "no
massacre" had taken place at Racak. Despite the importance of these
findings, Ignatieff chose to ignore them rather than rethink his basic
premise.

Likewise, veteran CBC journalist Carol Off failed to note that Racak
was a hoax in The Lion, The Fox and The Eagle: A story of generals and
justice in Rwanda and Yugoslavia. Although Off devoted one-third of her
book to Hague prosecutor Louise Arbour (the Eagle), no mention was made
of this new evidence.

Arbour's indictment of Yugoslav President Slobodan Milosevic as a war
criminal on the basis of the Racak massacre during the NATO air
campaign had served the U.S. State Department's propaganda interests.
However, by proceeding with this indictment without corroborating
forensic evidence,
Arbour undermined not only the credibility of The Hague Tribunal, but
also her professional reputation as an impartial prosecutor.

In her book, and her subsequent defence of it, Carol Off displays a
marked anti-Serbian bias, which is echoed by many of the Western
journalists who ventured into the Balkans from time to time over the
past decade to size up the situation. Their stories were often
misleading. Conditions in the "besieged" Muslim enclave of Sarajevo,
for example, were deemed
representative of the overall situation in Bosnia.

A dumbed-down version of 'Serbs as aggressors' became the
media-accepted template for coverage, even when it completely ignored
the complexity behind the multi-factional violence taking place in the
former Yugoslavia.

In reporting the civil wars in Croatia and Bosnia, journalists often
described the Serbs as invaders and whatever territory they occupied
was referred to as captured.

Such simplistic interpretations ignore history. Most of the ethnic
Serbian inhabitants of disputed areas have been living there for over
250 years. Forced from Kosovo, their religious heartland, by the Turks
in 1737 during the Great Migration, thousands of displaced Serbs
resettled in the Austro-Hungarian Empire and formed a buffer zone
against further Turkish expansion.

In addition to ignoring past population shifts, the Western media also
chose to rewrite modern history. Inspired by Croatian- and
Muslim-funded U.S. public relations firms, the Serbs were often
compared to Nazi stormtroopers. For the Serbian people to be depicted
in this fashion is particularly
puzzling. In World War II, when the Germans invaded Yugoslavia, Hitler
had exploited underlying ethnic hatreds to divide and conquer. Croatia
was recognized as an independent state and its Ustasha pledged
allegiance to the
Nazis. Albanians in Kosovo were recruited in great numbers into an SS
Division, Skenderberg, while the Bosnian Muslims joined another SS
Division, Handschar, noted for its brutality. As they had in World War
I, the Serbs supported the Allied cause and fiercely resisted German
occupation. As Communist partisans, or Royalist Chetniks, the Serbs
were dogged fighters, much admired in the West. But they paid a hefty
price for their defiance. As part of the Nazi policy of retribution,
the death of every German soldier was avenged with the execution of 100
Serbian civilians. At concentration camps in Croatia, the Ustasha
exterminated Serbs, Jews and Gypsys with such savagery that even the
German SS commanders were compelled to protest.

The media continued to refer to the Serbian military as a Nazi-like
juggernaut throughout the various Balkan wars of the past decade. Some
juggernaut. By the time the Dayton Peace Accord was signed in December
1995, it had been defeated on all fronts and over 750,000 Serb
civilians had been expelled from lost territory in western Slovonia,
the Krajina, eastern
Croatia and Bosnia.

Despite military setbacks and widespread suffering in Yugoslavia after
a decade of economic sanctions, the media stereotype remained
unchanged. In March 1999, on the eve of the Kosovo conflict, U.S.
Secretary of State Madeleine Albright likened Slobodan Milosevic to
"Adolf Hitler in 1938."

Milosevic was the very man who, in 1996, Albright had praised as a "man
of peace," in recognition of the part he played in securing the Dayton
agreement. When hundreds of thousands of Serbs took to the streets of
Belgrade later that same year to protest his manipulation of municipal
elections, the U.S. refused to intervene. With a U.S.-led NATO
stabilization force maintaining a shaky cease-fire in Bosnia, the
Americans needed Milosevic.


On June 16, 1999, British troops watched as hundreds of cheering
Albanians formed a gauntlet on the streets of Pristina. (Photo by Scott
Taylor)


While the American media chose to ignore Albright's flip-flop, the
Serbs did not forget. As NATO bombs rained down on Belgrade, so did
U.S. propaganda leaflets urging Yugoslavs to rise up and overthrow
Milosevic. Despite their hatred for the president, they were not about
to do America's bidding while
in the cross-hairs of a bombsight.

In the end, NATO had been forced to back down and negotiate the Kosovo
peace deal with indicted war criminal Slobodan Milosevic. In return for
allowing NATO ground troops to enter the province (under a United
Nations mandate), Kosovo was to remain the sovereign territory of
Yugoslavia, the Albanian Kosovo Liberation Army was to be disbanded,
and Serbian security forces were to remain in control of the border
crossings.

The neighbouring Republic of Macedonia expected its own reward for
having provided emergency assistance to the flood of Albanian refugees
and for allowing NATO troops to use its territory as a staging ground
for the Kosovo operation. Bankrupt and militarily unprepared, the
Macedonians believed that they would be accepted as partners in NATO
and the European Union, and that they would not be caught up in the
escalating regional violence.
Events would prove them wrong.


Scott Taylor is editor of Esprit de Corps magazine and writes for the
Canadian press."
Thanks to Benjamin Works of the Strategic Issues Research Institute of
the US (SIRIUS).


ANOTHER EXTRACT FROM THE SAME BOOK AT:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/1621