COMUNISTI SALDI, O SALDI COMUNISTI ?

Fulvio Grimaldi
(da MONDOCANE FUORI LINEA del 29/10/03)


Lutrario Guido è un ragazzo minuto, nervoso, un po’ anziano e pelatino,
di modi soffici e persuasivi, che, personaggio-guida del giro
Disobbedienti di Roma, si potrebbe definire un Casarini dal volto umano
e, con Wilma Mazza, vociferante e irosa pasionaria del movimento e
padrona dell’emittente disobbediente Radio Sherwood di Padova, il Trio
Lescano della musica new-global italiana diretta dal maestro
(pseudo)cattivo Tony Negri. Sono quelli, per intenderci, che per vedere
il bosco Impero non vedono il taglialegna Imperialismo USA. Lutrario
Guido, dirigente senza elezioni di un gruppo di forse 500 militanti più
qualche migliaio di credenti semplici, costituisce insieme al parimenti
mai votato Casarini, (quando tentò di farsi votare dalla gente,
Casarini rimediò il classico prefisso telefonico) la leadership
carismatica veneto-romana del più chiassoso e virulento aparat
nonviolento della scena politica italiana. Ora, Lutrario Guido,
essendogli apparso in sogno una vetrina con la scritta “Saldi di
comunisti”, ha diffuso e scritto un “documento” intitolato “Movimento o
partito?”, nel quale sollecita i Giovani Comunisti, organizzazione
giovanile di Rifondazione Comunista, a sciogliersi per confluire nella
sua società di Disobbedienti, in apnea di consensi numerici e, ancor
più, sociali. Incurante, peraltro, del fatto, che il fior fiore
dirigenziale dei G.C. tale scelta aveva già fatto, esibendosi e
presentandosi come Disobbedienti al pubblico, e solo in camera
caritatis partitica come anche Giovani Comunisti, mentre gli altri
restavano dov’erano, anche perché gli pareva incongruo stare con un
piede in un partito comunista e con l’altro in un contenitore
anti-partito e anticomunista.

Lutrario Guido, un po’ più irsuto, lo avevo conosciuto in un viaggio in
Chiapas, alcuni anni fa, quando lui e i suoi amici si chiamavano
soltanto “Ya Basta” e “Centri sociali del Nord-Est”. Virgulti della
piccola e media borghesia romano-veneta, più qualche residuale
fricchettone e una spruzzata di borgatari, avevano invaso il Chiapas
per portare agli indios della Realidad il progetto di una turbina ad
acqua che avrebbe fornito corrente alla comunità. Gli indios, pazienti,
ci accolsero con fazzoletto zapatista d’ordinanza sulla faccia, si
fecero fotografare e intervistare e non dissero nulla di sconveniente
quando videro per l’ennesima volta gli ospiti rovistare tra le sponde
di un ruscelletto per stabilire come e dove installare il prodigio
tecnologico (che verrà inaugurato ancora varie volte, prima che
un mulinello venisse posato tra le acque e accendesse qualche
lampadina).

Mancammo il sospirato incontro con il Sub. Marcos, disegnato da un
esperto dell’età evolutiva nei panni di Zorro, rintanato nella foresta
Lacandona (?), doveva essere intento, dopo aver spento, con la sua
insurrezione del 1.gennaio 1994, i numerosi fuochi endemici di
guerriglia che ardevano da decenni, a preparare quella lunga marcia a
Città del Messico che lo avrebbe portato dal neo-presidente amerikano
Fox, davanti al quale, ottenuta una leggina a protezione delle piume
dei copricapo indios, depose le armi e proclamò la nonviolenza
zapatista universale e il totale disinteresse dei “ribelli” per il
potere. Disinteresse che a molti di noi parve parente stretto di quello
che Marcos, riferimento intergalattico dei no-global, riservava a tutti
i movimenti di lotta latinoamericani, armati o pacifici, dai piqueteros
argentini, agli insorti di Chavez, a Cuba assediata e vincente, ai
guerriglieri indios e ai movimenti di lotta operai e contadini che
sempre più scuotono il Messico e tutto il cortile di casa degli USA, ma
anche alla tragedia palestinese, allo squartamento della Jugoslavia,
alla polverizzazione dell’Afganistan. Borbottò qualcosa sull’ Iraq, ma
solo perché lì l’ONU aveva nicchiato. Si rispense subito e non mandò
neanche un fazzoletto zapatista al vertice WTO di Cancun.

Finimmo poi in un villaggio, Taniperlas, che le autorità ci avevano
inibito bloccandoci i pulmini. Affrontammo 40 km di marcia sotto 45° a
piedi, molti collassarono, ma poi riapparvero miracolosamente i pulmini
e ci portarono fin là. Là porgemmo fiori e sorrisi alle donne
cattoliche e zapatiste di una manesca comunità inquinata dagli
evangelici USA, facemmo cordoni a loro protezione per mezz’ora e
ripartimmo, vedendo tra nuvole di polvere gli uni avventarsi sulle
altre. Per questa nostra azione rivoluzionaria, il governo messicano ci
bandì per qualche tempo dal paese. Ma molti e elogiativi furono gli
echi sulla stampa italiana, del resto curiosamente sempre assai
ospitale verso le imprese disobbedienti, con tanto di telecamere e
taccuini tempestivamente sul posto. Sai, quando fai caciara, ma te ne
fotti del Potere…

Ritrovai questi dinamici globetrotter due anni dopo dall’altra parte
del mondo, a stringere legami con l’altro loro polo di riferimento:
l’opposizione serba. Rimasti in puntiglioso silenzio durante le stragi
ed espulsioni di mezza popolazione serba da Croazia e Bosnia (e, più
tardi, dal Kosovo), divennero rumorosissimi allorché la Nato si avventò
sulla Jugoslavia per l’ultimo banchetto. Inventarono la sofisticata
linea politica cui diedi una fortunata denominazione: “il partito del
né-né”, né con la Nato né con Milosevic. La cosa costò nulla alla Nato
e, ovviamente, parecchio alla Jugoslavia, ai serbi e a Milosevic, al
punto che tutti costoro sono scomparsi dal palcoscenico. Alcuni
compagni che recavano una bandiera jugoslava al corteo di Aviano furono
centrosocialmente bastonati e derubati della bandiera. E’un vizio
recentemente ribadito a Venezia con il pestaggio di compagni di
Rifondazione che protestavano contro la glorificazione di “martiri del
comunismo” da parte di un prosindaco loro amico. In una sosta nel
viaggio di ritorno da Aviano incrociai Lutrario Guido e gli feci
presente la sconvenienza del comportamento del Casarini e squadristi
associati. Lui si inalberò, nella misura della sua statura e, meno
affabile del solito, inveì che un “Grande Compagno come Luca non va
diffamato!” A Belgrado i nordestini, benedetti da un Don Vitaliano,
strinsero forte e duratura amicizia con Otpor, una versatile
formazione che strombazzava dalla radio del circuito CIA “B-92”,
aggrediva operai in corteo, schierò bande di squadristi per scorribande
nelle città e l’incendio del Parlamento, in quel 5 ottobre della
cosiddetta (da “sinistra”) “rivoluzione democratica” di Belgrado, ma,
fino alla caduta di Milosevic, esibiva nel suo logo un pugno nero alla
parigina. Uno sdoppiamento ripraticato oggi da non pochi, tra filosofi
torinesi ed elmetti da scontro scenico umbri. Risultò subito che questi
ragazzi-bene della Serbia si erano attivati, non solo per il
rovesciamento del governo jugoslavo, ma per un programma politico che
prevedeva la cessione agli “investitori” stranieri del patrimonio
nazionale, della forza- lavoro serba (definita di “modico costo”) e del
welfare. Protezioni sociali fin lì garantite da un “dittatore”
ripetutamente eletto e che, peraltro, se la doveva vedere con 16
partiti nemici su 18 e con il 92% dei media avversi, tutti, compreso
Otpor, largamente finanziati da Washington. All’uopo, i quadri di Otpor
erano stati addestrati da un generale della CIA a Budapest e a Sofia.
Lo dissero loro, lo provarono la BBC, il New York Times, il “Diario” di
De Aglio e il sottoscritto, che per questo fu castigato dal suo
giornale al quale Otpor risultava “compagno di strada del movimento
no-global” (la resa dei conti definitiva verrà poi con Cuba). Otpor
venne a banchettare, convegnare e trasmettere in Italia e lo stesso
fecero dall’altra parte i compagni italiani.

Seguirono, nella storia di questo segmento del “popolo di Seattle”,
tutta una serie di tumulti, spesso concordati con la polizia, come da
loro ammesso, una caterva di botte a compagni di organizzazioni
antirazziste, di sinistra, antagoniste varie, che osavano invadere il
territorio loro sovrano, un discreto stipendio al sub-sub nazionale,
impegnatissimo nella difesa degli immigrati, da parte del ministro
autore di una odiosa legge anti-immigrati, nerborute scalate al
controllo del Movimento dei movimenti. Un episodio emblematico e che
più di altri mi colpì fu quello che vide Ya Basta lanciare contro
l’Intifada palestinese, il 9 novembre 2001, manifestazione nazionale
per la Palestina, una dura reprimenda per aver chiesto anche il popolo
palestinese uno Stato come tutti gli altri, con la conseguente
dissociazione dalla manifestazione di solidarietà. Forse, quella volta,
si accorsero dell’errore, perché rimasero soli come pitbull sotto
Sirchia. E allora ripararono avventandosi in massa sulla Palestina, ne
trassero un video nel quale si vedevano più casarini che kefieh e
presero a collocare poster di lanciasassi nei loro ambienti. Fu moto
breve, forse un altro errore uguale e contrario. Tant’è vero che se ora
chiedi a un Disobbediente cosa ne è della Palestina, o magari
dell’Iraq, ti risponderà di farla finita con questi nazionalismi e di
occuparti del WTO (mai di FMI, Banca Mondiale, Nato, o Bush, che hanno
l’attenuante di essere del tutto amerikani), tanto lì è facile
rivendicare vittorie conseguite piuttosto dai paesi poveri guidati da
Cina, Sudafrica, Brasile e Venezuela. E’ che gli espulsi ai
Disobbedienti piacciono in quanto individui in barca. Come nazioni sono
detestabili.

Tutto questa festa di colori, esodi, moltitudini, muncipalismi e
imperi, bilanci partecipativi ha fatto sì che il movimento e perfino
partiti vezzeggianti seppure schifati – ma mai votati – se ne siano
andati da un’altra parte e abbiano lasciato l’ideale municipalista e
antistatalista alla riserva teorica dei Disobbedienti, in ciò ormai
soli, seppure colmati di comprensione da Bossi e da Bush, che se ne
servono per disintegrare possibili blocchi di contrasto
antimperialista. Da questa profonda solitudine, si sprigiona il grido
di Lutrario Guido. Si chiede, Guido, “a che serve Rifondazione
Comunista?” E la domanda, in verità, potrebbe avere un qualche
fondamento, alla luce di certe ombre che avanzano alle spalle di un
D’Alema-Amato-Rutelli in congiunzione elittica con gli unici che
annoverano tra di loro ancora dei comunisti. Vedremo chi avrà più filo…
Ma, stia pur certo Lutrario, a tutto pensano i comunisti, con la loro
storia di oltre un secolo di battaglie contro il padrone e i suoi
collateralisti, fuorché rintanarsi nei buchi dell’autogestione
spinellara e birraiola, compatita dal potere finchè vi si rimane
invischiati,. Si chiede qual è il “contributo in avanti sul piano
dell’elaborazione teorica e quindi dell’innovazione delle pratiche che
i giovani comunisti hanno portato tra i disobbedienti, quale il
contributo che la loro tradizione di provenienza ha portato nel
movimento?” E ha ragione a rispondersi implicitamente: zero, se pensa a
coloro che hanno calzato sulla falce e sul martello la tutina dei
Disobbedienti, o la camicia nera di Otpor. Ma se invece si riferisce ai
giovani e comunisti che lottano con quelli nel mondo che, come Ebe de
Bonafini a Porto Alegre, a voraci ONG e a ambigui nonviolenti
partecipazionisti del campanile sbattono la porta in faccia e vanno a
fare la rivoluzione, Lutrario si è picconato i piedi. Vedi, Guido, per
psicologi e antropologi l’infanzia è giustamente l’età in cui si
disobbedisce e si ruba la marmellata; da ragazzi, poi, ci si ribella e
si marina la scuola. Se si riesce a crescere ancora – non è da tutti –
si diventa rivoluzionari e si cambia il mondo.

Dai, ancora uno sforzo, chè ce la fate, prima che vi cadano tutti i
capelli. Quanto ai saldi, quella vetrina ti aveva preso per il culo.