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art68.html
Il Manifesto - 29 Novembre 2003
GUERRA E PACE
Missione umanitaria con l'elmetto
L'ambiguo aiuto
REPORTER di guerra per diversi giornali statunitensi, dalla Bosnia al
Ruanda, dall'Afghanistan all'Iraq, autore del libro «Un giaciglio per
la notte. Il paradosso umanitario» per Carocci, David Rieff critica le
scelte politiche di molte organizzazioni umanitarie. «Embedded», come
molta stampa internazionale, con le ragioni armate dell'amministrazione
di George W. Bush STEFANO LIBERTI
Scrittore e giornalista, inviato di guerra per diverse testate
statunitensi, David Rieff ha vissuto in prima persona le principali
crisi internazionali dell'ultimo decennio: è stato in Bosnia, in
Ruanda, in Kosovo, in Afghanistan e recentemente in Iraq. Entrando in
contatto con situazioni di guerra, o di dopoguerra, ha avuto modo di
vedere all'opera le organizzazioni non governative impegnate nell'aiuto
umanitario e ha potuto così condurre una sorta di ricerca sul campo
sulla loro azione pratica e sui meccanismi che ne sono alla base. A
questo tema ha dedicato un libro, da poco uscito anche in Italia (Un
giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario, Carocci, pp. 320, €
20. L'autore sarà presente nel convegno «Dove va l'aiuto umanitario»
che inizia oggi a Lucca). Un libro che rappresenta un duro atto
d'accusa nei confronti della politica degli aiuti umanitari e che ha
una conclusione estremamente pessimistica: «Negli ultimi anni, il sogno
di un umanitarismo indipendente è miseramente fallito». Mosse dalla
necessità di raccogliere fondi, gran parte delle Ong sono diventate in
qualche modo sub-appaltatrici dei governi, che le hanno impiegate come
braccio benevolo per le operazioni militari in quelle zone che per loro
rivestivano maggiore interesse strategico. Secondo David Rieff, diverse
Oragnizzazioni non governative hanno seguito l'agenda politica dei
governi, finendo per perdere quel principio di neutralità che
teoricamente avrebbe dovuto guidare ogni loro azione.
Una tendenza confermata in qualche modo ieri dallo scandalo sollevato
dal quotidiano inglese The Guardian, che metteva in evidenza come le
sezioni britannica e statunitense di Save the Children hanno subìto
enormi pressioni dopo che avevano accusato la coalizione
anglo-americana di aver violato le convenzioni di Ginevra in Iraq.
Pressioni che le hanno spinte a ritirare quell'accusa.
È proprio contro derive di questo tipo che si scaglia Rieff, invocando
l'esigenza di un ritorno a un umanitarismo neutrale e autonomo.
Come è possibile parlare di un umanitarismo indipendente, quando gran
parte delle Ong sono finanziate principalmente dai governi? Non è una
visione utopistica?
Io ritengo che la neutralità e l'indipendenza, che sono poi le linee
guida del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), siano due
principi imprescindibili dell'azione umanitaria. Se non ci sono queste
due condizioni, non è possibile parlare di reale umanitarismo. È per
questo che giudico estremamente dannosa la direzione che le Ong hanno
preso negli ultimi tempi, allontanandosi dalla loro missione
originaria. Basta prendere il caso delle guerre nei Balcani, in Bosnia
e in Kosovo.
Molte Ong erano ferocemente contrarie ai serbi e si sono schierate
apertamente con uno dei due contendenti, in alcuni casi invocando
l'intervento armato contro Milosevic. In Kosovo, dove è stata usata in
modo esplicito l'espressione «guerra umanitaria», le Ong sono state di
fatto arruolate dalla Nato. Una volta presa una posizione così netta,
hanno perso la loro capacità di agire in modo efficace: sono diventate
una parte in causa nel conflitto e come tale sono state percepite sul
terreno. Questa tendenza è legata ovviamente alla natura dei
finanziamenti. È difficile mettersi contro i governi, quando questi
sono i tuoi principali finanziatori. Per questo ritengo che non ci sia
altra alternativa: le Ong dovrebbero tornare a un umanitarismo assoluto
e non dovrebbero accettare fondi governativi. O meglio li dovrebbero
accettare solo da quei governi che sono tradizionalmente e
dichiaratamente neutrali, come la Svizzera, la Svezia o la Norvegia.
Oppure dovrebbero limitarsi ad accettare fondi soltanto da donatori
privati.
Se è vero che le Ong seguono l'agenda politica dei governi, non si può
dire che in alcuni casi riescono anche a influenzarla?
Questo è quello che sostengono le stesse organizzazioni, almeno negli
Stati uniti. Dicono: «Facciamo azioni di lobbying sull'amministrazione
affinché dedichi parte dei suoi fondi a crisi dimenticate nel pianeta».
Alcune di queste Ong sono in buona fede e da un certo punto di vista
dicono anche la verità. È indubbio che se una parte del bilancio
dedicato all'aiuto allo sviluppo viene convogliato verso aree non
strategiche, questo è dovuto all'azione delle organizzazioni attive in
quei paesi. Si tratta però di spiccioli. Sulle aree di maggiore
interesse il governo vuole mantenere uno stretto controllo e imporre un
ruolo di assoluta subalternità agli operatori che in tali zone lavorano.
Nel suo libro, lei sembra individuare una specie di filo rosso che
unisce tutte le operazioni armate degli ultimi anni, nel corso delle
quali il settore umanitario è andato progressivamente perdendo la
propria indipendenza. In Iraq, tuttavia, le Ong si sono nella quasi
totalità schierate contro l'intervento e sono oggi per lo più assenti...
Rispetto all'assenza delle Ong dal terreno iracheno, bisogna fare una
precisazione doverosa: quella irachena non era una crisi umanitaria in
senso stretto. Non lo è stata prima della guerra, non lo è ora. In
questo dopoguerra caotico, c'è senz'altro un problema di infrastrutture
e di sviluppo. Ma non ci sono carestie, flussi di profughi o croniche
epidemie. Detto questo, riconosco che in Iraq il rapporto tra le
organizzazioni umanitarie e il governo è in parte cambiato. Ciò è
principalmente dovuto all'atteggiamento dell'amministrazione Usa: per
l'Iraq gli strateghi della Casa bianca non hanno ritenuto utile
sbandierare il pretesto umanitario.
Perché, secondo lei, hanno deciso di prendere un'altra strada?
Una delle cose più sorprendenti dell'attuale amministrazione americana
è un certo grado di candore e di rozzezza, che in molti casi la spinge
a dire ciò che effettivamente pensa. Tanto per fare un esempio, non si
è mai visto prima un sottosegretario di stato gioire pubblicamente per
«l'indebolimento delle Nazioni unite», come ha fatto John Bolton nelle
settimane che hanno preceduto l'attacco in Iraq. Si tratta di un
atteggiamento sprezzante, del tutto controproducente, perché in realtà
le Nazioni unite non aspettano altro che essere usate per gli interessi
americani. Ma questo tipo di esternazioni è dovuto al fanatismo che
anima molti esponenti di spicco dell'amministrazione: i cosiddetti
neo-conservatori sono mossi dal fervore proprio dei rivoluzionari e
dalla convinzione di star portando avanti un'autentica missione
globale. Per tornare alla situazione irachena, credo comunque che nel
lungo periodo anche in Iraq si metterà nuovamente in moto la macchina
umanitaria. Al momento la situazione sul terreno è troppo pericolosa.
Ma, se le cose miglioreranno, sono quasi sicuro che a Baghdad ci
saranno molte più Ong di quante ce ne sono oggi.
Eppure, l'amministrazione Bush sembra muoversi in tutt'altra direzione
per l'organizzazione del dopoguerra iracheno. Più che alle
organizzazioni dei diritti umani si rivolge a società private, come la
Bechtel o la Kellogg Brown & Root...
Questa amministrazione crede ciecamente nel settore privato e nutre
comunque una certa sfiducia nelle Ong. Le percepisce come
organizzazioni di sinistra, da guardare con sospetto. Ma su questo
punto, come su molti altri, non c'è consonanza di vedute all'interno
del governo: se il dipartimento alla difesa, dominato dagli affaristi,
predilige le società private, altri invece vorrebbero seguire il
vecchio modello. Non per altro il segretario di stato Colin Powell
aveva detto apertamente alla conferenza dei donatori sull'Afghanistan,
nell'ottobre del 2001, che «le Ong sono per noi un'enorme
moltiplicatore di forza, una parte importantissima della nostra squadra
di combattimento».
Lei sottolinea la continuità tra tutte le crisi che analizza, dalla
Bosnia all'Afghanistan, passando per il Kosovo. Ma ritiene davvero che
con gli attacchi dell'11 settembre non sia cambiato nulla?
Sicuramente l'11 settembre e la guerra illimitata al terrorismo
lanciata da Geroge W. Bush hanno mutato gli assetti geo-politici
globali. Si è tornati a una situazione da guerra fredda in cui non ci
sono aree del mondo irrilevanti. Nella nuova dottrina, Washington deve
mantenere un controllo su tutto il pianeta, per evitare che paesi non
sospetti diventino rifugi per eventuali nemici e terroristi. Nel corso
di tutti gli anni Novanta, dopo il crollo dell'Unione sovietica, gli
Stati uniti si erano invece interessati soltanto a determinate zone,
trascurando totalmente interi continenti.
Ma allora perché, nel 1992 ,Washington era intervenuta in Somalia?
Credo che l'intervento in Somalia sia stato condotto per dirottare
l'attenzione dell'opinione pubblica, che chiedeva a gran voce che si
facesse qualcosa in Bosnia. L'amministrazione Usa ha fatto il calcolo -
rivelatosi poi sbagliato - che una guerra a basso costo avrebbe avuto
grandi risultati a livello di immagine. In realtà il costo è stato
alto: gli Stati uniti hanno subìto perdite e si sono ritirati. Ma è
anche vero che proprio in Somalia è nato il concetto di intervento
umanitario in senso stretto.
Lei scrive che l'interventismo umanitario è diventato il principale
meccanismo giustificatorio per una politica di vero e proprio
neo-colonialismo. Sottolinea poi che anche le guerre coloniali di un
tempo erano lanciate con il pretesto di portare la civiltà. Qual è, a
suo giudizio, la differenza tra i conflitti lanciati nell'Ottocento e
quelli di oggi?
In parte si tratta dello stesso meccanismo. Come scrivo anche nel mio
libro, la famosissima metafora del «fardello dell'uomo bianco»,
invocata da Rudyard Kipling per esortare gli americani a subentrare
nell'impresa imperiale britannica, è quanto mai attuale: può essere
applicata per descrivere i cosiddetti nuovi interventisti. Da un altro
punto di vista, però, oggi la situazione è diversa: all'epoca non c'era
un movimento umanitario. L'azione di assistenza alle popolazioni era
monopolizzata dai governi. Non esistevano organizzazioni indipendenti.
E' per questo che insisto sulla necessità che le Ong si ispirino a quei
principi di neutralità propri del Comitato internazionale della Croce
rossa.
La Croce rossa italiana è andata però in Iraq scortata dai
carabinieri, in aperto dissidio con il comitato di Ginevra...
Si tratta di un fatto assolutamente biasimevole, che segna una
regressione all'epoca della prima guerra mondiale, quando ogni sezione
nazionale della Croce rossa rispondeva ai propri governi. Non conosco
bene i particolari, ma la militarizzazione della Croce rossa italiana
mi sembra un episodio preoccupante, che mostra come anche le
organizzazioni teoricamente più pure possono cadere nella trappola
politica.
Quale ruolo svolgono e hanno svolto i media nel cementare quella che
ha definito la nuova dottrina dell'imperialismo umanitario?
Credo che i media stiano seguendo una deriva parallela a quella che ho
messo in luce per le organizzazioni umanitarie. Nel corso di un recente
incontro per discutere il mio libro, un lettore ha proposto un
parallelo tra i giornalisti «embedded» e le Ong embedded. Sono
sostanzialmente d'accordo: nelle ultime guerre, segnatamente in
Afghanistan e Iraq, sono comparsi per la prima volta giornalisti
armati. Non è ancora una tendenza generalizzata, ma è un inizio. Temo
che il seguito non sarà affatto confortante.
---
Dove vanno le Ong, un convegno a Lucca
David Rieff parteciperà oggi a Lucca a un convegno dal titolo «Dove va
l'aiuto umanitario. Ascesa e crisi dell'aiuto umanitario tra ambiguità
e solidarietà». Organizzato dal Consorzio italiano di solidarietà
(Ics), dalla provincia di Lucca e dalla scuola per la pace, l'incontro
- che inizierà alle ore 10:00 - prevede le relazioni dello stesso Rieff
e di Tony Vaux, dirigente di Oxfam e autore de L'altruista egoista
Analisi critica degli interventi umanitari in situazione di guerra e
carestia (Edizioni Gruppo Abele, 2002). Molti dei temi che sono stati
trattati da Rieff nel suo libro e di cui parla in questa intervista
verranno toccati nell'incontro. In particolare si parlerà di:
umanitarismo al tempo della guerra permanente e del terrorismo;
strumentalizzazione politica dell'aiuto umanitario e fine dello
sviluppo; crisi di rappresentanza, di legittimità, di «mission» delle
organizzazioni non governative; qualità dell'intervento: miti e realtà
delle «buone pratiche»; etica dell'umanitarismo e diritto
internazionale dei diritti umani.
Nel corso del pomeriggio, interverranno decine di operatori attivi
nelle Ong italiane, alcuni professori universitari e giornalisti che si
occupano di tematiche legate all'aiuto umanitario in situazioni di
crisi.
Nelle intenzioni degli organizzatori, il convegno vuole essere una
riflessione critica ed autocritica per stabilire nuove regole e codici
di condotta, basati su un'autentica autonomia politica e finanziaria.
Appuntamento alla Camera di commercio, sala Fanucchi, corte campana.
art68.html
Il Manifesto - 29 Novembre 2003
GUERRA E PACE
Missione umanitaria con l'elmetto
L'ambiguo aiuto
REPORTER di guerra per diversi giornali statunitensi, dalla Bosnia al
Ruanda, dall'Afghanistan all'Iraq, autore del libro «Un giaciglio per
la notte. Il paradosso umanitario» per Carocci, David Rieff critica le
scelte politiche di molte organizzazioni umanitarie. «Embedded», come
molta stampa internazionale, con le ragioni armate dell'amministrazione
di George W. Bush STEFANO LIBERTI
Scrittore e giornalista, inviato di guerra per diverse testate
statunitensi, David Rieff ha vissuto in prima persona le principali
crisi internazionali dell'ultimo decennio: è stato in Bosnia, in
Ruanda, in Kosovo, in Afghanistan e recentemente in Iraq. Entrando in
contatto con situazioni di guerra, o di dopoguerra, ha avuto modo di
vedere all'opera le organizzazioni non governative impegnate nell'aiuto
umanitario e ha potuto così condurre una sorta di ricerca sul campo
sulla loro azione pratica e sui meccanismi che ne sono alla base. A
questo tema ha dedicato un libro, da poco uscito anche in Italia (Un
giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario, Carocci, pp. 320, €
20. L'autore sarà presente nel convegno «Dove va l'aiuto umanitario»
che inizia oggi a Lucca). Un libro che rappresenta un duro atto
d'accusa nei confronti della politica degli aiuti umanitari e che ha
una conclusione estremamente pessimistica: «Negli ultimi anni, il sogno
di un umanitarismo indipendente è miseramente fallito». Mosse dalla
necessità di raccogliere fondi, gran parte delle Ong sono diventate in
qualche modo sub-appaltatrici dei governi, che le hanno impiegate come
braccio benevolo per le operazioni militari in quelle zone che per loro
rivestivano maggiore interesse strategico. Secondo David Rieff, diverse
Oragnizzazioni non governative hanno seguito l'agenda politica dei
governi, finendo per perdere quel principio di neutralità che
teoricamente avrebbe dovuto guidare ogni loro azione.
Una tendenza confermata in qualche modo ieri dallo scandalo sollevato
dal quotidiano inglese The Guardian, che metteva in evidenza come le
sezioni britannica e statunitense di Save the Children hanno subìto
enormi pressioni dopo che avevano accusato la coalizione
anglo-americana di aver violato le convenzioni di Ginevra in Iraq.
Pressioni che le hanno spinte a ritirare quell'accusa.
È proprio contro derive di questo tipo che si scaglia Rieff, invocando
l'esigenza di un ritorno a un umanitarismo neutrale e autonomo.
Come è possibile parlare di un umanitarismo indipendente, quando gran
parte delle Ong sono finanziate principalmente dai governi? Non è una
visione utopistica?
Io ritengo che la neutralità e l'indipendenza, che sono poi le linee
guida del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), siano due
principi imprescindibili dell'azione umanitaria. Se non ci sono queste
due condizioni, non è possibile parlare di reale umanitarismo. È per
questo che giudico estremamente dannosa la direzione che le Ong hanno
preso negli ultimi tempi, allontanandosi dalla loro missione
originaria. Basta prendere il caso delle guerre nei Balcani, in Bosnia
e in Kosovo.
Molte Ong erano ferocemente contrarie ai serbi e si sono schierate
apertamente con uno dei due contendenti, in alcuni casi invocando
l'intervento armato contro Milosevic. In Kosovo, dove è stata usata in
modo esplicito l'espressione «guerra umanitaria», le Ong sono state di
fatto arruolate dalla Nato. Una volta presa una posizione così netta,
hanno perso la loro capacità di agire in modo efficace: sono diventate
una parte in causa nel conflitto e come tale sono state percepite sul
terreno. Questa tendenza è legata ovviamente alla natura dei
finanziamenti. È difficile mettersi contro i governi, quando questi
sono i tuoi principali finanziatori. Per questo ritengo che non ci sia
altra alternativa: le Ong dovrebbero tornare a un umanitarismo assoluto
e non dovrebbero accettare fondi governativi. O meglio li dovrebbero
accettare solo da quei governi che sono tradizionalmente e
dichiaratamente neutrali, come la Svizzera, la Svezia o la Norvegia.
Oppure dovrebbero limitarsi ad accettare fondi soltanto da donatori
privati.
Se è vero che le Ong seguono l'agenda politica dei governi, non si può
dire che in alcuni casi riescono anche a influenzarla?
Questo è quello che sostengono le stesse organizzazioni, almeno negli
Stati uniti. Dicono: «Facciamo azioni di lobbying sull'amministrazione
affinché dedichi parte dei suoi fondi a crisi dimenticate nel pianeta».
Alcune di queste Ong sono in buona fede e da un certo punto di vista
dicono anche la verità. È indubbio che se una parte del bilancio
dedicato all'aiuto allo sviluppo viene convogliato verso aree non
strategiche, questo è dovuto all'azione delle organizzazioni attive in
quei paesi. Si tratta però di spiccioli. Sulle aree di maggiore
interesse il governo vuole mantenere uno stretto controllo e imporre un
ruolo di assoluta subalternità agli operatori che in tali zone lavorano.
Nel suo libro, lei sembra individuare una specie di filo rosso che
unisce tutte le operazioni armate degli ultimi anni, nel corso delle
quali il settore umanitario è andato progressivamente perdendo la
propria indipendenza. In Iraq, tuttavia, le Ong si sono nella quasi
totalità schierate contro l'intervento e sono oggi per lo più assenti...
Rispetto all'assenza delle Ong dal terreno iracheno, bisogna fare una
precisazione doverosa: quella irachena non era una crisi umanitaria in
senso stretto. Non lo è stata prima della guerra, non lo è ora. In
questo dopoguerra caotico, c'è senz'altro un problema di infrastrutture
e di sviluppo. Ma non ci sono carestie, flussi di profughi o croniche
epidemie. Detto questo, riconosco che in Iraq il rapporto tra le
organizzazioni umanitarie e il governo è in parte cambiato. Ciò è
principalmente dovuto all'atteggiamento dell'amministrazione Usa: per
l'Iraq gli strateghi della Casa bianca non hanno ritenuto utile
sbandierare il pretesto umanitario.
Perché, secondo lei, hanno deciso di prendere un'altra strada?
Una delle cose più sorprendenti dell'attuale amministrazione americana
è un certo grado di candore e di rozzezza, che in molti casi la spinge
a dire ciò che effettivamente pensa. Tanto per fare un esempio, non si
è mai visto prima un sottosegretario di stato gioire pubblicamente per
«l'indebolimento delle Nazioni unite», come ha fatto John Bolton nelle
settimane che hanno preceduto l'attacco in Iraq. Si tratta di un
atteggiamento sprezzante, del tutto controproducente, perché in realtà
le Nazioni unite non aspettano altro che essere usate per gli interessi
americani. Ma questo tipo di esternazioni è dovuto al fanatismo che
anima molti esponenti di spicco dell'amministrazione: i cosiddetti
neo-conservatori sono mossi dal fervore proprio dei rivoluzionari e
dalla convinzione di star portando avanti un'autentica missione
globale. Per tornare alla situazione irachena, credo comunque che nel
lungo periodo anche in Iraq si metterà nuovamente in moto la macchina
umanitaria. Al momento la situazione sul terreno è troppo pericolosa.
Ma, se le cose miglioreranno, sono quasi sicuro che a Baghdad ci
saranno molte più Ong di quante ce ne sono oggi.
Eppure, l'amministrazione Bush sembra muoversi in tutt'altra direzione
per l'organizzazione del dopoguerra iracheno. Più che alle
organizzazioni dei diritti umani si rivolge a società private, come la
Bechtel o la Kellogg Brown & Root...
Questa amministrazione crede ciecamente nel settore privato e nutre
comunque una certa sfiducia nelle Ong. Le percepisce come
organizzazioni di sinistra, da guardare con sospetto. Ma su questo
punto, come su molti altri, non c'è consonanza di vedute all'interno
del governo: se il dipartimento alla difesa, dominato dagli affaristi,
predilige le società private, altri invece vorrebbero seguire il
vecchio modello. Non per altro il segretario di stato Colin Powell
aveva detto apertamente alla conferenza dei donatori sull'Afghanistan,
nell'ottobre del 2001, che «le Ong sono per noi un'enorme
moltiplicatore di forza, una parte importantissima della nostra squadra
di combattimento».
Lei sottolinea la continuità tra tutte le crisi che analizza, dalla
Bosnia all'Afghanistan, passando per il Kosovo. Ma ritiene davvero che
con gli attacchi dell'11 settembre non sia cambiato nulla?
Sicuramente l'11 settembre e la guerra illimitata al terrorismo
lanciata da Geroge W. Bush hanno mutato gli assetti geo-politici
globali. Si è tornati a una situazione da guerra fredda in cui non ci
sono aree del mondo irrilevanti. Nella nuova dottrina, Washington deve
mantenere un controllo su tutto il pianeta, per evitare che paesi non
sospetti diventino rifugi per eventuali nemici e terroristi. Nel corso
di tutti gli anni Novanta, dopo il crollo dell'Unione sovietica, gli
Stati uniti si erano invece interessati soltanto a determinate zone,
trascurando totalmente interi continenti.
Ma allora perché, nel 1992 ,Washington era intervenuta in Somalia?
Credo che l'intervento in Somalia sia stato condotto per dirottare
l'attenzione dell'opinione pubblica, che chiedeva a gran voce che si
facesse qualcosa in Bosnia. L'amministrazione Usa ha fatto il calcolo -
rivelatosi poi sbagliato - che una guerra a basso costo avrebbe avuto
grandi risultati a livello di immagine. In realtà il costo è stato
alto: gli Stati uniti hanno subìto perdite e si sono ritirati. Ma è
anche vero che proprio in Somalia è nato il concetto di intervento
umanitario in senso stretto.
Lei scrive che l'interventismo umanitario è diventato il principale
meccanismo giustificatorio per una politica di vero e proprio
neo-colonialismo. Sottolinea poi che anche le guerre coloniali di un
tempo erano lanciate con il pretesto di portare la civiltà. Qual è, a
suo giudizio, la differenza tra i conflitti lanciati nell'Ottocento e
quelli di oggi?
In parte si tratta dello stesso meccanismo. Come scrivo anche nel mio
libro, la famosissima metafora del «fardello dell'uomo bianco»,
invocata da Rudyard Kipling per esortare gli americani a subentrare
nell'impresa imperiale britannica, è quanto mai attuale: può essere
applicata per descrivere i cosiddetti nuovi interventisti. Da un altro
punto di vista, però, oggi la situazione è diversa: all'epoca non c'era
un movimento umanitario. L'azione di assistenza alle popolazioni era
monopolizzata dai governi. Non esistevano organizzazioni indipendenti.
E' per questo che insisto sulla necessità che le Ong si ispirino a quei
principi di neutralità propri del Comitato internazionale della Croce
rossa.
La Croce rossa italiana è andata però in Iraq scortata dai
carabinieri, in aperto dissidio con il comitato di Ginevra...
Si tratta di un fatto assolutamente biasimevole, che segna una
regressione all'epoca della prima guerra mondiale, quando ogni sezione
nazionale della Croce rossa rispondeva ai propri governi. Non conosco
bene i particolari, ma la militarizzazione della Croce rossa italiana
mi sembra un episodio preoccupante, che mostra come anche le
organizzazioni teoricamente più pure possono cadere nella trappola
politica.
Quale ruolo svolgono e hanno svolto i media nel cementare quella che
ha definito la nuova dottrina dell'imperialismo umanitario?
Credo che i media stiano seguendo una deriva parallela a quella che ho
messo in luce per le organizzazioni umanitarie. Nel corso di un recente
incontro per discutere il mio libro, un lettore ha proposto un
parallelo tra i giornalisti «embedded» e le Ong embedded. Sono
sostanzialmente d'accordo: nelle ultime guerre, segnatamente in
Afghanistan e Iraq, sono comparsi per la prima volta giornalisti
armati. Non è ancora una tendenza generalizzata, ma è un inizio. Temo
che il seguito non sarà affatto confortante.
---
Dove vanno le Ong, un convegno a Lucca
David Rieff parteciperà oggi a Lucca a un convegno dal titolo «Dove va
l'aiuto umanitario. Ascesa e crisi dell'aiuto umanitario tra ambiguità
e solidarietà». Organizzato dal Consorzio italiano di solidarietà
(Ics), dalla provincia di Lucca e dalla scuola per la pace, l'incontro
- che inizierà alle ore 10:00 - prevede le relazioni dello stesso Rieff
e di Tony Vaux, dirigente di Oxfam e autore de L'altruista egoista
Analisi critica degli interventi umanitari in situazione di guerra e
carestia (Edizioni Gruppo Abele, 2002). Molti dei temi che sono stati
trattati da Rieff nel suo libro e di cui parla in questa intervista
verranno toccati nell'incontro. In particolare si parlerà di:
umanitarismo al tempo della guerra permanente e del terrorismo;
strumentalizzazione politica dell'aiuto umanitario e fine dello
sviluppo; crisi di rappresentanza, di legittimità, di «mission» delle
organizzazioni non governative; qualità dell'intervento: miti e realtà
delle «buone pratiche»; etica dell'umanitarismo e diritto
internazionale dei diritti umani.
Nel corso del pomeriggio, interverranno decine di operatori attivi
nelle Ong italiane, alcuni professori universitari e giornalisti che si
occupano di tematiche legate all'aiuto umanitario in situazioni di
crisi.
Nelle intenzioni degli organizzatori, il convegno vuole essere una
riflessione critica ed autocritica per stabilire nuove regole e codici
di condotta, basati su un'autentica autonomia politica e finanziaria.
Appuntamento alla Camera di commercio, sala Fanucchi, corte campana.