L'articolo che segue è apparso sull'ultimo numero (2/2005) de LA
MONTAGNE - periodico comunista per la "sinistra d'alternativa" (già
"L'Ernesto Toscano")
http://xoomer.virgilio.it/lamontagne/.htm
Kosovo: le potenze imperialiste preparano la soluzione finale
di Andrea Catone
"Time is running out in Kosovo", il tempo sta scadendo in Kosovo: la
stessa identica frase viene impiegata per l'incipit del rapporto
dell'International Crisis Group (ICG) del 24 gennaio 2005 (1) e per la
parte del rapporto della Commissione internazionale sui Balcani (2)
presieduta da Giuliano Amato e presentato il 29 aprile a Roma alla
Farnesina alla presenza del ministro degli esteri Gianfranco Fini.
Per farsi un'idea di cosa siano questi due grandi centri
transnazionali che si occupano di analisi delle situazioni di crisi e
confitto per meglio "consigliare" i governi della "comunità
internazionale" dei principali paesi imperialistici, basta dare una
scorsa alle pagine finali in cui si elencano membri e sostenitori
economici di essi. Nell'ICG che non si occupa solo di Balcani, ma
anche di tutta l'area ex sovietica, Asia centrale, Medio Oriente,
Africa, America Latina... - troviamo tra i membri del comitato
esecutivo personaggi quali Morton Abramowitz, Emma Bonino, George
Soros; e poi Zbigniew Brzezinski, Wesley Clark, comandante in capo
delle forze NATO nell'aggressione del 1999 contro la Repubblica
Federale Jugoslava, fino all'ex presidente messicano Ernesto Zedillo.
Questo potente e influente gruppo internazionale per le aree di crisi
è finanziato, oltre che da "donatori" individuali, società e
fondazioni "caritatevoli" (sic!), in gran parte statunitensi (la più
nota da noi è l'Open Society Institut di George Soros, ritornato di
recente agli onori della cronaca per aver sostenuto il gruppo di Otpor
in Ucraina), anche da agenzie governative, dall'Australia al Giappone,
da Taiwan alla Nuova Zelanda, dalla Francia alla Germania al Giappone,
passando naturalmente per il Regno Unito e la U.S Agency for
International Development (3). L'Italia invece non è presente tra i
sostenitori dell'ICG.
L'International Commission on the Balkans nasce dopo i pogrom
antiserbi del marzo dello scorso anno su iniziativa di fondazioni
statunitensi e tedesche (Robert Bosch Stiftung, German Marshall Fund
of the United States, Charles Stewart Mott Foundation), oltre la belga
King Baudouin Foundation. È composta da 19 membri, già presidenti o
ministri dei paesi dell'area balcanica (Turchia, Romania, Ungheria,
Bulgaria, Grecia, Albania, Macedonia, Serbia-Montenegro, Croazia,
Bosnia, Slovenia) e dell'Europa occidentale (Svezia, Regno Unito,
Belgio, Germania, Francia, Italia) e due statunitensi, Avis Bohlen e
Bruce Jackson, presidente del Project on Transitional Democracies. Dei
paesi che facevano parte del "gruppo di contatto", costituito nel 1994
tra gli Stati cui si riconosceva un interesse e un ruolo nella
Jugoslavia - USA, Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Russia -, è
visibilmente esclusa quest'ultima. Dato non casuale, che indica la
volontà delle grandi potenze imperialistiche occidentali di regolare e
ridisegnare la mappa dei Balcani senza o contro le decisioni di Mosca
(4).
E probabilmente non è casuale la coincidenza di frase con cui iniziano
i due rapporti, dato che entrambi propugnano una rapida indipendenza
del Kosovo, che pure la risoluzione 1244 del 10 giugno 1999 del
consiglio di sicurezza dell'ONU, per "sanare" l'illegalità della
"guerra umanitaria" della NATO contro la Repubblica Federale
Jugoslava, assegnava ancora a quest'ultima.
Diversamente dal rapporto dell'ICG, che è circolato essenzialmente tra
gli specialisti, il rapporto della "Commissione Internazionale" di
Amato, pur essendo de jure e de facto nient'altro che la conclusione
di un'inchiesta promossa da fondazioni private, senza nessun incarico
specifico di organismi internazionali quali l'ONU o l'Unione Europea,
ha avuto una sorprendente esposizione mediatica - sorprendente se si
considera il silenzio profondo di cui è stata circondata tutta la
vicenda del Kosovo che, dopo l'ingresso delle truppe della NATO nel
giugno 1999 fino ai pogrom antiserbi di marzo 2004, ha subito una
delle più violente pulizie etniche ad opera di bande albanesi contro
serbi, rom, gorani e altre etnie, con oltre 250.000 persone costrette
ad abbandonare le loro case, migliaia di rapiti e uccisi: omicidi
etnici rimasti in larghissima parte impuniti. Non è solo l'ANSA che
annuncia il senso della "commissione Amato" in diversi dispacci:
"Balcani: Commissione internazionale, superare status quo; Kosovo:
Commissione internazionale, situazione può esplodere; Balcani: Amato,
UE non può reggere situazione paracoloniale", ma uno dei maggiori
quotidiani italiani, il Corriere della sera che gli dedica ben tre
articoli con grande rilievo e con una titolazione che spiega
inequivocabilmente la scelta dell'indipendenza (5). L'Unità, dal canto
suo, ospita il 26 aprile un articolo, tradotto dall'International
Herald Tribune del 14 aprile, del "presidente del Kosovo" Ibrahim
Rugova: Kosovo, la strada che porta in Europa (6).
Quasi improvvisamente la questione dei Balcani e del Kosovo in
particolare la situazione più difficile di tutta l'area torna
d'attualità. Una poderosa corrente mediatica spira ora sul Kosovo, e
non solo in Italia. Il prestigioso quotidiano francese Le Monde
ospitava il 5 febbraio un articolo del teorico della "guerra celeste"
contro la Jugoslavia, l'invasato generale Wesley Clark, responsabile
di una delle più crudeli guerre terroristiche contro la popolazione
civile, che ha inquinato per millenni l'ambiente della Serbia e del
Kosovo con i proiettili all'uranio impoverito. Il titolo,
inequivocabile, è tutto un programma: Pour un Kosovo libre. Vi si
sostengono in maniera più secca e rozza, in tono di ultimatum alla
Serbia, le medesime argomentazioni sull'improcrastinabile indipendenza
del Kosovo proposte dall'ICG, di cui del resto egli è autorevole
esponente.
Nei Balcani, "dove nulla accade senza la leadership degli Stati
Uniti" (7), questi ultimi ritornano prepotentemente sulla scena con
tutto il peso della loro superpotenza "indispensabile" a governare il
mondo. Lo spiega quasi trionfalisticamente una vecchia conoscenza dei
Balcani, lo statunitense Richard Holbrooke, che si faceva passare
nelle guerre jugoslave degli anni '90 come "mediatore" realistico. E
non a caso, ancora una volta, sul Corriere della sera, che si
qualifica così, come il portavoce più autorevole e interessato a
sostenere la causa dell'indipendenza del Kosovo e della sua
integrazione in quanto nuovo stato nella Unione Europea (8). "Un
importante cambiamento nella politica scrive Holbrooke - è passato
praticamente inosservato quello riguardante il Kosovo, dove, dopo
quattro anni di negligenza ed errori, l'amministrazione ha compiuto
una notevole inversione di rotta", abbandonando la "tattica dilatoria
chiamata `standard prima, status poi', espressione che consentiva di
usare il `diplomatichese' per mascherare la paralisi burocratica".
Ora, "in seguito agli avvertimenti sull'infiammabilità della
situazione lanciati dal diplomatico americano Philip Goldberg,
Condoleezza Rice ha spedito il sottosegretario di Stato Nicholas Burns
in Europa affinché incontrasse il quasi moribondo Contact Group (Stati
Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Russia e Germania). Burns ha
detto ai membri del gruppo che la situazione in Kosovo era
intrinsecamente instabile e che, senza un'accelerazione negli sforzi
per determinarne lo status finale, le violenze si sarebbero
probabilmente intensificate, con conseguente paralisi protratta delle
forze della Nato, truppe Usa comprese" (9). Così, "sotto pressione
americana ingrediente sempre necessario negli affari che riguardano
una UE stagnante e in divenire inizia ad emergere una nuova politica
del Contact Group". Ora, afferma l'amerikano col tono di chi non
ammette repliche, "Belgrado dovrà accettare un passo politicamente
difficile: rinunciare alle pretese serbe sul Kosovo (10), che i serbi
considerano il loro cuore storico. I serbi dovranno scegliere tra il
tentativo di aderire all'Unione Europea e quello di riconquistare il
Kosovo. Se si concentreranno sulla loro provincia perduta, non
otterranno nulla".
I rapporti dell'ICG e della commissione internazionale sui Balcani,
gli articoli di Bonino, W. Clark, Rugova, Amato, Venturini, Holbrooke,
pur tra differenze di tono, ora "diplomatico", ora dichiaratamente
minaccioso, si muovono tutti sostanzialmente nella stessa direzione:
accelerare il processo di definizione formale di indipendenza del
Kosovo, che entro un decennio potrebbe entrare, insieme con la Serbia
e gli altri ministati della disciolta federazione socialista
jugoslava, nella UE. L'argomentazione di fondo è che la situazione non
può più attendere, il tempo sta scadendo, potrebbe presto verificarsi
un'esplosione violenta di dimensioni ben maggiori e più cruente di
quella del marzo 2004. Assistiamo in quest'argomentazione a un
rovesciamento delle posizioni politiche precedenti sostenute, nel
silenzio-assenso degli USA, dall'UNMIK e dalla UE, che vedevano nella
violenza antiserba scatenata nel marzo 2004 la ragione per rinviare
qualsiasi discorso sullo status del Kosovo, poiché mancavano i
requisiti minimi di sicurezza e vivibilità per le minoranze serbe,
rom, e delle altre etnie non albanesi. Perché si potesse avviare solo
il discorso dello status finale del Kosovo occorreva che la provincia
serba sotto amministrazione internazionale avesse raggiunto gli
standard minimi indicati dettagliatamente nel documento "Standards for
Kosovo", pubblicato a Pristina il 10 dicembre 2003 e approvato dal
consiglio di sicurezza dell'ONU con dichiarazione del 12 dicembre
2003, completato dal "Kosovo Standards Implementation plan" varato il
31 marzo 2004, proprio a ridosso dell'esplosione di violenza del 17-20
marzo: standard di sicurezza, pari trattamento sul mercato del lavoro,
libera circolazione nel territorio che, anche nell'ultimo rapporto del
segretario generale dell'ONU Kofi Annan, risultano ben lungi
dall'essere raggiunti (11).
Nessuno dei rapporti o degli articoli salvo quelli di W. Clark e
Rugova nega la gravità della situazione in cui sono costretti in una
prigione a cielo aperto i serbi, i rom e la popolazione non albanese
del Kosovo. Il rapporto Amato, anzi, pur senza scoprire nulla di nuovo
rispetto a quanto denunciato da altri osservatori internazionali (12),
dichiara senza mezzi termini che "un Kosovo multietnico non esiste
salvo che nelle dichiarazioni burocratiche della comunità
internazionale [ ] I Serbi in Kosovo vivono imprigionati nelle loro
enclave senza libertà di movimento, né lavoro, senza neppure la
speranza né l'opportunità di una significativa integrazione nella
società del Kosovo. La posizione della minoranza serba in Kosovo è il
più grande atto di accusa alla volontà e capacità dell'Europa di
difendere i suoi conclamati valori. [ ] Sotto la direzione dell'Unmik
il numero di serbi impiegato nella Kosovo Electric Company è sceso da
oltre 4.000 nel 1999 a 29 oggi, su un totale di oltre 8.000 addetti
[ ] la disoccupazione è tra il 60 e il 70 % (quasi il 90% tra le
minoranze) [ ] La commissione condivide il giudizio del segretario
generale delle N.U. Kofi Annan, secondo cui il Kosovo ha fatto
progressi insufficienti per il raggiungimento degli standard accettati
internazionalmente nel campo dei diritti umani, del rispetto delle
minoranze e per il mantenimento dell'ordine pubblico" (13).
Tuttavia, in contrasto con il segretario generale dell'ONU e con le
esplicite dichiarazioni di alcune cancellerie europee, tra cui quella
italiana, che si attestano sulla posizione "standard prima dello
status" (14), il nuovo pensiero di questi think tank è rovesciato:
solo l'indipendenza potrà risolvere le questioni della sicurezza dei
serbi e non albanesi del Kosovo. Il ragionamento è fattualmente e
logicamente insostenibile: se oggi, nonostante la presenza di oltre
18.000 militari della KFOR quali truppe di interposizione, la vita dei
serbi è costantemente in pericolo, se, come osserva lo stesso rapporto
Amato, gli albanesi del Kosovo sono propensi unici tra tutti i
popoli della Jugoslavia ad avere un territorio "etnicamente
omogeneo" (15), se esiste una discriminazione sostanziale in tutti i
campi della vita sociale, dal lavoro agli ospedali alle scuole, come
sarà possibile salvaguardare domani i serbi del Kosovo e garantire
loro condizioni di vita meno oppressive e precarie di quelle attuali?
La sola promessa di indipendenza da parte della comunità
internazionale renderà più insicura la vita delle minoranze,
vanificherà qualsiasi anche remota chance di ritorno dei 250.000
profughi. Il rapporto Amato, del resto, ammette che "sono minime le
possibilità di un ritorno su larga scala dei Serbi in Kosovo" e mentre
propone piuttosto ipocritamente è lo specchietto delle allodole
della multietnicità! che "la comunità internazionale provveda a
incentivare per i serbi del Kosovo il ritorno anche nel caso in cui
essi preferiscano vivere in zone della provincia maggiormente popolate
da serbi piuttosto che in aree in cui vivevano prima della guerra",
aggiunge rivelando implicitamente il progetto di soluzione finale
per i serbi del Kosovo che bisognerà "prendersi cura anche di quelli
che preferiranno non tornare", istituendo un "Fondo di inclusione",
finanziato dalla UE, "per assistere l'integrazione nella società serba
dei serbi del Kosovo che hanno scelto di rimanere in Serbia". Ciò che
va assolutamente evitato infatti è "una `palestinizzazione' dei
rifugiati che decidono di non tornare in Kosovo", che renderebbe molto
vulnerabile la democrazia serba (16). Le parole sono pietre. I serbi
del Kosovo, come ha già scritto Michel Collon, sono i palestinesi
d'Europa!
Al di là di qualche parola d'occasione sulla multietnicità, la
prospettiva che il rapporto cinicamente delinea non è quella del
ritorno dei profughi serbi in Kosovo, ma del definitivo trasferimento
in Serbia con il bastone della pulizia etnica e la carota di un
incentivo monetario della UE dei serbi rimasti abbarbicati alle loro
case e alla loro storia in Kosovo. È la "soluzione finale" per i serbi
del Kosovo. La micidiale guerra del 1999 voluta da Clinton e D'Alema,
Jospin e Schroeder, Blair e il generale Clark in nome dei diritti
umani per fermare una indimostrata e indimostrabile "pulizia etnica"
contro gli albanesi, si conclude sei anni dopo con l'eliminazione dei
serbi dal Kosovo propugnata e sostenuta dalla "comunità
internazionale" e dalla UE.
Val la pena osservare anche il rovesciamento delle priorità nella
struttura del discorso della commissione Amato e degli altri think
tank: dai "diritti umani" alla "stabilizzazione dell'area". La
preoccupazione per i diritti umani e la condizione delle minoranze,
che, almeno formalmente, campeggiava nei programmi dell'ONU e della
UE, espressa nella formula "standards before status" cede ora il passo
a più prosaiche considerazioni pratiche ed economiche. Pagare il
trasferimento dei serbi dal Kosovo appare operazione meno costosa del
mantenimento a tempo indeterminato dei militari della KFOR e del
probabile aumento del loro numero in un Kosovo assolutamente
instabile. La retorica dei diritti umani si toglie la maschera e parla
oggi il linguaggio della stabilità e stabilizzazione dell'area, della
sua inclusione nell'Unione Europea. I diritti umani furono un pretesto
buono per fare la guerra contro la Serbia, ma oggi passano in secondo
piano, non sono più la priorità delle priorità, sono un accessorio, un
optional, di cui si può continuare a scrivere e parlare per riempire
qualche spazio bianco sulla carta.
NOTE:
1) Cfr. Kosovo: toward Final Status, Europe Report n. 161,
http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=3226&l=1.
2) Cfr. The Balkans in Europe's Future, § 1.3.1, Kosovo's Final
Status, http://www.balkan-commission.org/activities/pr-2.htm.
3) Cfr. Kosovo: toward Final Status, op. cit., pp. 33; 36-37.
4) A questo proposito, il rapporto dell'ICG è esplicito: "I paesi del
gruppo di contatto (includendo com'è molto auspicabile la Russia, ma
se necessario senza di essa)" dovrebbero definire con tempestività i
tempi per la risoluzione della questione dello status (Kosovo: toward
final status, op. cit., p. ii). Del resto, il rapporto della
Commissione di Amato prefigura l'indipendenza del Kosovo pur
prevedendo l'opposizione di Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza
dell'ONU (cfr. . The Balkans in Europe's Future, op. cit., p. 20).
5) Cfr. Corriere della sera, 27.4.2005: Franco Venturini, Verso
l'indipendenza del Kosovo - La Superpotenza Europa e i Balcani; R.
Holbrooke, Il pragmatismo della Rice aiuterà il Kosovo; 29.4.2005:
Giuliano Amato Europa e Balcani - Il coraggio di un Kosovo indipendente.
6) Il titolo dell'articolo dell'International Herald Tribune è in
realtà molto netto e univoco: The path to independence, la strada per
l'indipendenza. L'Unità, il quotidiano del partito di D'Alema,
presidente del consiglio non pentito della guerra "umanitaria" e
"democratica" contro la popolazione jugoslava del 1999, preferisce un
titolo edulcorato e ingannevole, ospitando un articolo chiaramente
negazionista di una pulizia etnica in atto e di una situazione
invivibile per i serbi e le minoranze non albanesi, che lo stesso
rapporto della Commissione Amato ammette apertamente.
7) È quanto scrive R. Holbrooke nell'articolo Il pragmatismo della
Rice aiuterà il Kosovo, Corriere della sera del 27/04/2005.
8) Il quotidiano negli ultimi tempi ha ospitato in bell'evidenza
diversi articoli a sostegno dell'indipendenza del Kosovo. Si veda in
particolare l'articolo della radicale Emma Bonino, assatanata
sostenitrice con Marco Pannella dell'UCK nel 1999, Belgrado si
rassegni e accetti la sconfitta, del 28/01/2005. Una posizione
nettamente antiserba che non coincide neppure con quella del governo
italiano, attestata sulla politica di prudente attendismo degli
"standards prima dello status".
9) Il rischio che le truppe USA e NATO si trovino invischiate a lungo
in un Kosovo in ebollizione, - i moti del marzo 2004 hanno avuto a
bersaglio principalmente la popolazione e i monasteri serbi, ma anche
le truppe della KFOR e la polizia dell'UNMIK - viene sbandierato, a
sostegno della richiesta di indipendenza immediata del Kosovo, anche
nel rapporto dell'ICG, che ricorda gli impegni militari in altri
scacchieri, quali Afghanistan e Iraq. (Cfr. Kosovo: toward Final
Status, op. cit., p. 3).
10) Si noti come il diritto alla sovranità territoriale della Serbia
sul Kosovo, riconosciuto anche dalla risoluzione 1244, diventi per
Holbrooke una "pretesa".
11) Cfr. Report of the Secretary-General on the United Nations,
Interim Administration Mission in Kosovo, 14.2.2005 (S/2005/88). Il
rapporto, come i documenti sugli standard sono reperibili sul sito
dell'UNMIK: http://www.unmikonline.org.
12) Cfr. il rapporto del luglio 2004, vol. 16, No. 8 (D) della ONG,
certo non filoserba, Human Right Watch, "Failure to Protect:
Anti-Minority Violence in Kosovo, March 2004" (http://hrw.org).
13) Cfr. The Balkans in Europe's Future, op. cit., pp. 19-20.
14) Cfr. il comunicato dell'agenzia France Press del 15/02/2005 sotto
il titolo "L'indépendance du Kosovo serait `hautement déstabilisante',
selon Rome": "Roma. Il governo italiano ritiene che l'indipendenza del
Kosovo sarebbe `altamente destabilizzante' per la regione, ma rigetta
ugualmente un ritorno indietro quando la provincia non aveva alcuna
autonomia. `La posizione dell'Italia è che bisogna regolare la
questione della qualità delle norme applicate in questa provincia
prima di affrontare il problema del suo statuto', ha spiegato all'AFP
un portavoce del ministero, utilizzando una formula sintetica inglese:
`standards before status' per spiegare la posizione ufficiale.
`Rimangono in Kosovo molti problemi irrisolti e in questo contesto la
scelta di uno status definitivo sarebbe una fuga in avanti.
Un'indipendenza sarebbe altamente destabilizzante', ha dichiarato
Pasquale Terracciano, portavoce del ministero a una settimana dal
viaggio che il capo della diplomazia Gianfranco Fini effettuerà nella
regione"
(http://195.62.53.42/pressreview/print_right.php?func=detail&par=12398).
Anche nella conferenza del 29 aprile Fini si mostra cauto. Mentre
ribadisce l'importanza del ruolo degli USA, "senza i quali una
stabilizzazione dell'area balcanica sarebbe difficilmente
concepibile", richiama diversamente dall'ICG e dalla commissione
Amato il ruolo della Russia, la centralità dell'ONU e la 1244, e
rimane molto vago sul futuro, rigettando di fatto la proposta Amato:
"Non possiamo indicare fin d'ora le intese, che evidentemente saranno
in grado di definire il futuro del Kosovo solo se sapranno incontrare
il consenso delle parti coinvolte" (cfr. http://www.esteri.it).
15) Cfr. la tabella 22 dell'allegato al rapporto della commissione
internazionale sui Balcani. Alla domanda: "Sarebbe meglio se, sotto
gli auspici della comunità internazionale, fossero tracciati nuovi
confini nell'ex Jugoslavia e ogni nazionalità consistente (large)
vivesse in un territorio/stato separato", solo il 18% disapprova,
contro uno schiacciante 72% (il rimanente 10% non risponde). Anche in
Albania la stragrande maggioranza (68% contro un 20%) è favorevole a
stati etnicamente omogenei, mentre in tutti gli altri stati della ex
Jugoslavia gli intervistati dalla commissione sono nettamente contrari
(Bosnia e Erzegovina: 55% contrari a stati etnicamente omogenei contro
un 29%; Serbia: 53% contro un 19%; Macedonia: 68% contro 16%;
Montenegro 56% contro 14%).
16) Cfr. The Balkans in Europe's Future, op. cit., p. 22.
MONTAGNE - periodico comunista per la "sinistra d'alternativa" (già
"L'Ernesto Toscano")
http://xoomer.virgilio.it/lamontagne/.htm
Kosovo: le potenze imperialiste preparano la soluzione finale
di Andrea Catone
"Time is running out in Kosovo", il tempo sta scadendo in Kosovo: la
stessa identica frase viene impiegata per l'incipit del rapporto
dell'International Crisis Group (ICG) del 24 gennaio 2005 (1) e per la
parte del rapporto della Commissione internazionale sui Balcani (2)
presieduta da Giuliano Amato e presentato il 29 aprile a Roma alla
Farnesina alla presenza del ministro degli esteri Gianfranco Fini.
Per farsi un'idea di cosa siano questi due grandi centri
transnazionali che si occupano di analisi delle situazioni di crisi e
confitto per meglio "consigliare" i governi della "comunità
internazionale" dei principali paesi imperialistici, basta dare una
scorsa alle pagine finali in cui si elencano membri e sostenitori
economici di essi. Nell'ICG che non si occupa solo di Balcani, ma
anche di tutta l'area ex sovietica, Asia centrale, Medio Oriente,
Africa, America Latina... - troviamo tra i membri del comitato
esecutivo personaggi quali Morton Abramowitz, Emma Bonino, George
Soros; e poi Zbigniew Brzezinski, Wesley Clark, comandante in capo
delle forze NATO nell'aggressione del 1999 contro la Repubblica
Federale Jugoslava, fino all'ex presidente messicano Ernesto Zedillo.
Questo potente e influente gruppo internazionale per le aree di crisi
è finanziato, oltre che da "donatori" individuali, società e
fondazioni "caritatevoli" (sic!), in gran parte statunitensi (la più
nota da noi è l'Open Society Institut di George Soros, ritornato di
recente agli onori della cronaca per aver sostenuto il gruppo di Otpor
in Ucraina), anche da agenzie governative, dall'Australia al Giappone,
da Taiwan alla Nuova Zelanda, dalla Francia alla Germania al Giappone,
passando naturalmente per il Regno Unito e la U.S Agency for
International Development (3). L'Italia invece non è presente tra i
sostenitori dell'ICG.
L'International Commission on the Balkans nasce dopo i pogrom
antiserbi del marzo dello scorso anno su iniziativa di fondazioni
statunitensi e tedesche (Robert Bosch Stiftung, German Marshall Fund
of the United States, Charles Stewart Mott Foundation), oltre la belga
King Baudouin Foundation. È composta da 19 membri, già presidenti o
ministri dei paesi dell'area balcanica (Turchia, Romania, Ungheria,
Bulgaria, Grecia, Albania, Macedonia, Serbia-Montenegro, Croazia,
Bosnia, Slovenia) e dell'Europa occidentale (Svezia, Regno Unito,
Belgio, Germania, Francia, Italia) e due statunitensi, Avis Bohlen e
Bruce Jackson, presidente del Project on Transitional Democracies. Dei
paesi che facevano parte del "gruppo di contatto", costituito nel 1994
tra gli Stati cui si riconosceva un interesse e un ruolo nella
Jugoslavia - USA, Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Russia -, è
visibilmente esclusa quest'ultima. Dato non casuale, che indica la
volontà delle grandi potenze imperialistiche occidentali di regolare e
ridisegnare la mappa dei Balcani senza o contro le decisioni di Mosca
(4).
E probabilmente non è casuale la coincidenza di frase con cui iniziano
i due rapporti, dato che entrambi propugnano una rapida indipendenza
del Kosovo, che pure la risoluzione 1244 del 10 giugno 1999 del
consiglio di sicurezza dell'ONU, per "sanare" l'illegalità della
"guerra umanitaria" della NATO contro la Repubblica Federale
Jugoslava, assegnava ancora a quest'ultima.
Diversamente dal rapporto dell'ICG, che è circolato essenzialmente tra
gli specialisti, il rapporto della "Commissione Internazionale" di
Amato, pur essendo de jure e de facto nient'altro che la conclusione
di un'inchiesta promossa da fondazioni private, senza nessun incarico
specifico di organismi internazionali quali l'ONU o l'Unione Europea,
ha avuto una sorprendente esposizione mediatica - sorprendente se si
considera il silenzio profondo di cui è stata circondata tutta la
vicenda del Kosovo che, dopo l'ingresso delle truppe della NATO nel
giugno 1999 fino ai pogrom antiserbi di marzo 2004, ha subito una
delle più violente pulizie etniche ad opera di bande albanesi contro
serbi, rom, gorani e altre etnie, con oltre 250.000 persone costrette
ad abbandonare le loro case, migliaia di rapiti e uccisi: omicidi
etnici rimasti in larghissima parte impuniti. Non è solo l'ANSA che
annuncia il senso della "commissione Amato" in diversi dispacci:
"Balcani: Commissione internazionale, superare status quo; Kosovo:
Commissione internazionale, situazione può esplodere; Balcani: Amato,
UE non può reggere situazione paracoloniale", ma uno dei maggiori
quotidiani italiani, il Corriere della sera che gli dedica ben tre
articoli con grande rilievo e con una titolazione che spiega
inequivocabilmente la scelta dell'indipendenza (5). L'Unità, dal canto
suo, ospita il 26 aprile un articolo, tradotto dall'International
Herald Tribune del 14 aprile, del "presidente del Kosovo" Ibrahim
Rugova: Kosovo, la strada che porta in Europa (6).
Quasi improvvisamente la questione dei Balcani e del Kosovo in
particolare la situazione più difficile di tutta l'area torna
d'attualità. Una poderosa corrente mediatica spira ora sul Kosovo, e
non solo in Italia. Il prestigioso quotidiano francese Le Monde
ospitava il 5 febbraio un articolo del teorico della "guerra celeste"
contro la Jugoslavia, l'invasato generale Wesley Clark, responsabile
di una delle più crudeli guerre terroristiche contro la popolazione
civile, che ha inquinato per millenni l'ambiente della Serbia e del
Kosovo con i proiettili all'uranio impoverito. Il titolo,
inequivocabile, è tutto un programma: Pour un Kosovo libre. Vi si
sostengono in maniera più secca e rozza, in tono di ultimatum alla
Serbia, le medesime argomentazioni sull'improcrastinabile indipendenza
del Kosovo proposte dall'ICG, di cui del resto egli è autorevole
esponente.
Nei Balcani, "dove nulla accade senza la leadership degli Stati
Uniti" (7), questi ultimi ritornano prepotentemente sulla scena con
tutto il peso della loro superpotenza "indispensabile" a governare il
mondo. Lo spiega quasi trionfalisticamente una vecchia conoscenza dei
Balcani, lo statunitense Richard Holbrooke, che si faceva passare
nelle guerre jugoslave degli anni '90 come "mediatore" realistico. E
non a caso, ancora una volta, sul Corriere della sera, che si
qualifica così, come il portavoce più autorevole e interessato a
sostenere la causa dell'indipendenza del Kosovo e della sua
integrazione in quanto nuovo stato nella Unione Europea (8). "Un
importante cambiamento nella politica scrive Holbrooke - è passato
praticamente inosservato quello riguardante il Kosovo, dove, dopo
quattro anni di negligenza ed errori, l'amministrazione ha compiuto
una notevole inversione di rotta", abbandonando la "tattica dilatoria
chiamata `standard prima, status poi', espressione che consentiva di
usare il `diplomatichese' per mascherare la paralisi burocratica".
Ora, "in seguito agli avvertimenti sull'infiammabilità della
situazione lanciati dal diplomatico americano Philip Goldberg,
Condoleezza Rice ha spedito il sottosegretario di Stato Nicholas Burns
in Europa affinché incontrasse il quasi moribondo Contact Group (Stati
Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Russia e Germania). Burns ha
detto ai membri del gruppo che la situazione in Kosovo era
intrinsecamente instabile e che, senza un'accelerazione negli sforzi
per determinarne lo status finale, le violenze si sarebbero
probabilmente intensificate, con conseguente paralisi protratta delle
forze della Nato, truppe Usa comprese" (9). Così, "sotto pressione
americana ingrediente sempre necessario negli affari che riguardano
una UE stagnante e in divenire inizia ad emergere una nuova politica
del Contact Group". Ora, afferma l'amerikano col tono di chi non
ammette repliche, "Belgrado dovrà accettare un passo politicamente
difficile: rinunciare alle pretese serbe sul Kosovo (10), che i serbi
considerano il loro cuore storico. I serbi dovranno scegliere tra il
tentativo di aderire all'Unione Europea e quello di riconquistare il
Kosovo. Se si concentreranno sulla loro provincia perduta, non
otterranno nulla".
I rapporti dell'ICG e della commissione internazionale sui Balcani,
gli articoli di Bonino, W. Clark, Rugova, Amato, Venturini, Holbrooke,
pur tra differenze di tono, ora "diplomatico", ora dichiaratamente
minaccioso, si muovono tutti sostanzialmente nella stessa direzione:
accelerare il processo di definizione formale di indipendenza del
Kosovo, che entro un decennio potrebbe entrare, insieme con la Serbia
e gli altri ministati della disciolta federazione socialista
jugoslava, nella UE. L'argomentazione di fondo è che la situazione non
può più attendere, il tempo sta scadendo, potrebbe presto verificarsi
un'esplosione violenta di dimensioni ben maggiori e più cruente di
quella del marzo 2004. Assistiamo in quest'argomentazione a un
rovesciamento delle posizioni politiche precedenti sostenute, nel
silenzio-assenso degli USA, dall'UNMIK e dalla UE, che vedevano nella
violenza antiserba scatenata nel marzo 2004 la ragione per rinviare
qualsiasi discorso sullo status del Kosovo, poiché mancavano i
requisiti minimi di sicurezza e vivibilità per le minoranze serbe,
rom, e delle altre etnie non albanesi. Perché si potesse avviare solo
il discorso dello status finale del Kosovo occorreva che la provincia
serba sotto amministrazione internazionale avesse raggiunto gli
standard minimi indicati dettagliatamente nel documento "Standards for
Kosovo", pubblicato a Pristina il 10 dicembre 2003 e approvato dal
consiglio di sicurezza dell'ONU con dichiarazione del 12 dicembre
2003, completato dal "Kosovo Standards Implementation plan" varato il
31 marzo 2004, proprio a ridosso dell'esplosione di violenza del 17-20
marzo: standard di sicurezza, pari trattamento sul mercato del lavoro,
libera circolazione nel territorio che, anche nell'ultimo rapporto del
segretario generale dell'ONU Kofi Annan, risultano ben lungi
dall'essere raggiunti (11).
Nessuno dei rapporti o degli articoli salvo quelli di W. Clark e
Rugova nega la gravità della situazione in cui sono costretti in una
prigione a cielo aperto i serbi, i rom e la popolazione non albanese
del Kosovo. Il rapporto Amato, anzi, pur senza scoprire nulla di nuovo
rispetto a quanto denunciato da altri osservatori internazionali (12),
dichiara senza mezzi termini che "un Kosovo multietnico non esiste
salvo che nelle dichiarazioni burocratiche della comunità
internazionale [ ] I Serbi in Kosovo vivono imprigionati nelle loro
enclave senza libertà di movimento, né lavoro, senza neppure la
speranza né l'opportunità di una significativa integrazione nella
società del Kosovo. La posizione della minoranza serba in Kosovo è il
più grande atto di accusa alla volontà e capacità dell'Europa di
difendere i suoi conclamati valori. [ ] Sotto la direzione dell'Unmik
il numero di serbi impiegato nella Kosovo Electric Company è sceso da
oltre 4.000 nel 1999 a 29 oggi, su un totale di oltre 8.000 addetti
[ ] la disoccupazione è tra il 60 e il 70 % (quasi il 90% tra le
minoranze) [ ] La commissione condivide il giudizio del segretario
generale delle N.U. Kofi Annan, secondo cui il Kosovo ha fatto
progressi insufficienti per il raggiungimento degli standard accettati
internazionalmente nel campo dei diritti umani, del rispetto delle
minoranze e per il mantenimento dell'ordine pubblico" (13).
Tuttavia, in contrasto con il segretario generale dell'ONU e con le
esplicite dichiarazioni di alcune cancellerie europee, tra cui quella
italiana, che si attestano sulla posizione "standard prima dello
status" (14), il nuovo pensiero di questi think tank è rovesciato:
solo l'indipendenza potrà risolvere le questioni della sicurezza dei
serbi e non albanesi del Kosovo. Il ragionamento è fattualmente e
logicamente insostenibile: se oggi, nonostante la presenza di oltre
18.000 militari della KFOR quali truppe di interposizione, la vita dei
serbi è costantemente in pericolo, se, come osserva lo stesso rapporto
Amato, gli albanesi del Kosovo sono propensi unici tra tutti i
popoli della Jugoslavia ad avere un territorio "etnicamente
omogeneo" (15), se esiste una discriminazione sostanziale in tutti i
campi della vita sociale, dal lavoro agli ospedali alle scuole, come
sarà possibile salvaguardare domani i serbi del Kosovo e garantire
loro condizioni di vita meno oppressive e precarie di quelle attuali?
La sola promessa di indipendenza da parte della comunità
internazionale renderà più insicura la vita delle minoranze,
vanificherà qualsiasi anche remota chance di ritorno dei 250.000
profughi. Il rapporto Amato, del resto, ammette che "sono minime le
possibilità di un ritorno su larga scala dei Serbi in Kosovo" e mentre
propone piuttosto ipocritamente è lo specchietto delle allodole
della multietnicità! che "la comunità internazionale provveda a
incentivare per i serbi del Kosovo il ritorno anche nel caso in cui
essi preferiscano vivere in zone della provincia maggiormente popolate
da serbi piuttosto che in aree in cui vivevano prima della guerra",
aggiunge rivelando implicitamente il progetto di soluzione finale
per i serbi del Kosovo che bisognerà "prendersi cura anche di quelli
che preferiranno non tornare", istituendo un "Fondo di inclusione",
finanziato dalla UE, "per assistere l'integrazione nella società serba
dei serbi del Kosovo che hanno scelto di rimanere in Serbia". Ciò che
va assolutamente evitato infatti è "una `palestinizzazione' dei
rifugiati che decidono di non tornare in Kosovo", che renderebbe molto
vulnerabile la democrazia serba (16). Le parole sono pietre. I serbi
del Kosovo, come ha già scritto Michel Collon, sono i palestinesi
d'Europa!
Al di là di qualche parola d'occasione sulla multietnicità, la
prospettiva che il rapporto cinicamente delinea non è quella del
ritorno dei profughi serbi in Kosovo, ma del definitivo trasferimento
in Serbia con il bastone della pulizia etnica e la carota di un
incentivo monetario della UE dei serbi rimasti abbarbicati alle loro
case e alla loro storia in Kosovo. È la "soluzione finale" per i serbi
del Kosovo. La micidiale guerra del 1999 voluta da Clinton e D'Alema,
Jospin e Schroeder, Blair e il generale Clark in nome dei diritti
umani per fermare una indimostrata e indimostrabile "pulizia etnica"
contro gli albanesi, si conclude sei anni dopo con l'eliminazione dei
serbi dal Kosovo propugnata e sostenuta dalla "comunità
internazionale" e dalla UE.
Val la pena osservare anche il rovesciamento delle priorità nella
struttura del discorso della commissione Amato e degli altri think
tank: dai "diritti umani" alla "stabilizzazione dell'area". La
preoccupazione per i diritti umani e la condizione delle minoranze,
che, almeno formalmente, campeggiava nei programmi dell'ONU e della
UE, espressa nella formula "standards before status" cede ora il passo
a più prosaiche considerazioni pratiche ed economiche. Pagare il
trasferimento dei serbi dal Kosovo appare operazione meno costosa del
mantenimento a tempo indeterminato dei militari della KFOR e del
probabile aumento del loro numero in un Kosovo assolutamente
instabile. La retorica dei diritti umani si toglie la maschera e parla
oggi il linguaggio della stabilità e stabilizzazione dell'area, della
sua inclusione nell'Unione Europea. I diritti umani furono un pretesto
buono per fare la guerra contro la Serbia, ma oggi passano in secondo
piano, non sono più la priorità delle priorità, sono un accessorio, un
optional, di cui si può continuare a scrivere e parlare per riempire
qualche spazio bianco sulla carta.
NOTE:
1) Cfr. Kosovo: toward Final Status, Europe Report n. 161,
http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=3226&l=1.
2) Cfr. The Balkans in Europe's Future, § 1.3.1, Kosovo's Final
Status, http://www.balkan-commission.org/activities/pr-2.htm.
3) Cfr. Kosovo: toward Final Status, op. cit., pp. 33; 36-37.
4) A questo proposito, il rapporto dell'ICG è esplicito: "I paesi del
gruppo di contatto (includendo com'è molto auspicabile la Russia, ma
se necessario senza di essa)" dovrebbero definire con tempestività i
tempi per la risoluzione della questione dello status (Kosovo: toward
final status, op. cit., p. ii). Del resto, il rapporto della
Commissione di Amato prefigura l'indipendenza del Kosovo pur
prevedendo l'opposizione di Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza
dell'ONU (cfr. . The Balkans in Europe's Future, op. cit., p. 20).
5) Cfr. Corriere della sera, 27.4.2005: Franco Venturini, Verso
l'indipendenza del Kosovo - La Superpotenza Europa e i Balcani; R.
Holbrooke, Il pragmatismo della Rice aiuterà il Kosovo; 29.4.2005:
Giuliano Amato Europa e Balcani - Il coraggio di un Kosovo indipendente.
6) Il titolo dell'articolo dell'International Herald Tribune è in
realtà molto netto e univoco: The path to independence, la strada per
l'indipendenza. L'Unità, il quotidiano del partito di D'Alema,
presidente del consiglio non pentito della guerra "umanitaria" e
"democratica" contro la popolazione jugoslava del 1999, preferisce un
titolo edulcorato e ingannevole, ospitando un articolo chiaramente
negazionista di una pulizia etnica in atto e di una situazione
invivibile per i serbi e le minoranze non albanesi, che lo stesso
rapporto della Commissione Amato ammette apertamente.
7) È quanto scrive R. Holbrooke nell'articolo Il pragmatismo della
Rice aiuterà il Kosovo, Corriere della sera del 27/04/2005.
8) Il quotidiano negli ultimi tempi ha ospitato in bell'evidenza
diversi articoli a sostegno dell'indipendenza del Kosovo. Si veda in
particolare l'articolo della radicale Emma Bonino, assatanata
sostenitrice con Marco Pannella dell'UCK nel 1999, Belgrado si
rassegni e accetti la sconfitta, del 28/01/2005. Una posizione
nettamente antiserba che non coincide neppure con quella del governo
italiano, attestata sulla politica di prudente attendismo degli
"standards prima dello status".
9) Il rischio che le truppe USA e NATO si trovino invischiate a lungo
in un Kosovo in ebollizione, - i moti del marzo 2004 hanno avuto a
bersaglio principalmente la popolazione e i monasteri serbi, ma anche
le truppe della KFOR e la polizia dell'UNMIK - viene sbandierato, a
sostegno della richiesta di indipendenza immediata del Kosovo, anche
nel rapporto dell'ICG, che ricorda gli impegni militari in altri
scacchieri, quali Afghanistan e Iraq. (Cfr. Kosovo: toward Final
Status, op. cit., p. 3).
10) Si noti come il diritto alla sovranità territoriale della Serbia
sul Kosovo, riconosciuto anche dalla risoluzione 1244, diventi per
Holbrooke una "pretesa".
11) Cfr. Report of the Secretary-General on the United Nations,
Interim Administration Mission in Kosovo, 14.2.2005 (S/2005/88). Il
rapporto, come i documenti sugli standard sono reperibili sul sito
dell'UNMIK: http://www.unmikonline.org.
12) Cfr. il rapporto del luglio 2004, vol. 16, No. 8 (D) della ONG,
certo non filoserba, Human Right Watch, "Failure to Protect:
Anti-Minority Violence in Kosovo, March 2004" (http://hrw.org).
13) Cfr. The Balkans in Europe's Future, op. cit., pp. 19-20.
14) Cfr. il comunicato dell'agenzia France Press del 15/02/2005 sotto
il titolo "L'indépendance du Kosovo serait `hautement déstabilisante',
selon Rome": "Roma. Il governo italiano ritiene che l'indipendenza del
Kosovo sarebbe `altamente destabilizzante' per la regione, ma rigetta
ugualmente un ritorno indietro quando la provincia non aveva alcuna
autonomia. `La posizione dell'Italia è che bisogna regolare la
questione della qualità delle norme applicate in questa provincia
prima di affrontare il problema del suo statuto', ha spiegato all'AFP
un portavoce del ministero, utilizzando una formula sintetica inglese:
`standards before status' per spiegare la posizione ufficiale.
`Rimangono in Kosovo molti problemi irrisolti e in questo contesto la
scelta di uno status definitivo sarebbe una fuga in avanti.
Un'indipendenza sarebbe altamente destabilizzante', ha dichiarato
Pasquale Terracciano, portavoce del ministero a una settimana dal
viaggio che il capo della diplomazia Gianfranco Fini effettuerà nella
regione"
(http://195.62.53.42/pressreview/print_right.php?func=detail&par=12398).
Anche nella conferenza del 29 aprile Fini si mostra cauto. Mentre
ribadisce l'importanza del ruolo degli USA, "senza i quali una
stabilizzazione dell'area balcanica sarebbe difficilmente
concepibile", richiama diversamente dall'ICG e dalla commissione
Amato il ruolo della Russia, la centralità dell'ONU e la 1244, e
rimane molto vago sul futuro, rigettando di fatto la proposta Amato:
"Non possiamo indicare fin d'ora le intese, che evidentemente saranno
in grado di definire il futuro del Kosovo solo se sapranno incontrare
il consenso delle parti coinvolte" (cfr. http://www.esteri.it).
15) Cfr. la tabella 22 dell'allegato al rapporto della commissione
internazionale sui Balcani. Alla domanda: "Sarebbe meglio se, sotto
gli auspici della comunità internazionale, fossero tracciati nuovi
confini nell'ex Jugoslavia e ogni nazionalità consistente (large)
vivesse in un territorio/stato separato", solo il 18% disapprova,
contro uno schiacciante 72% (il rimanente 10% non risponde). Anche in
Albania la stragrande maggioranza (68% contro un 20%) è favorevole a
stati etnicamente omogenei, mentre in tutti gli altri stati della ex
Jugoslavia gli intervistati dalla commissione sono nettamente contrari
(Bosnia e Erzegovina: 55% contrari a stati etnicamente omogenei contro
un 29%; Serbia: 53% contro un 19%; Macedonia: 68% contro 16%;
Montenegro 56% contro 14%).
16) Cfr. The Balkans in Europe's Future, op. cit., p. 22.