L'articolo che qui alleghiamo appare sul numero appena uscito (5/2005)
de L'ERNESTO (vedi: http://www.lernesto.it/ ):
SOMMARIO
Occorre l'alternativa, non una svolta moderata - F. Giannini
Le condizioni per un mondo multipolare - S. Amin
Fiaccole e bombe atomiche - Intervista a L. Castellina (a cura di F.G.)
Il movimento per la pace e la Politika - N. Ginatempo
Allarme NATO! - M. Dinucci
I comunisti e le basi militari in Sardegna - A. Licheni
L'arretratezza del capitalismo italiano - V. Giacchè
Metalmeccanici e Congresso CGIL - M. Zipponi
All'ombra della precarizzazione - A. Martini
Diritti - Parigi/Banlieues (A. Fache - G. Oxley )
Bologna/ Cofferati - (M. Prosperi - R. Sconciaforni - Incontro con i
Centri sociali)
Lampedusa (A. Sciurba)
Autodeterminazione delle donne - (D. Tromboni - M. M. Salzer)
La Stanza dell'Arte - Elogio della lucertola (Pizzi Cannella) - a cura
di R. Gramiccia
Legge elettorale, primarie, Costituzione - G. Chiarante
Partito della Sinistra Europea - Congresso di Atene: documento di
"Essere Comunisti"
Internazionale - Portogallo (A. Nunes) - Iraq (G. Lannutti) - Sudan
(M. Graziosi)
Germania-Europa/Dibattito - H. H. Holz - J. Bischoff e B. Radke - J.
Elsasser
Cultura - P.Paolo Pasolini (V. Magnani) - Sergio Endrigo (G. Lucini) -
Cinema/"La Caduta" (G. Livio e A. Petrini)
Recensioni - "Cuba: orgoglio e pregiudizi" a cura di R. Caputo
Fiom: 1994-2004 - a cura di L.B.
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Intervista: Jürgen Elsässer
UNA GEOPOLITICA TEDESCA?
Durante l'aggressione all'Iraq ci si domandava: la "via speciale
tedesca" scelta da Schröder contro l'unilateralismo di Bush in Iraq ed
altrove porterà prima o poi ad un contrasto con gli USA ? Oppure
esistono delle possibilità per una politica della distensione in
Europa? Questi interrogativi sono stati al centro del libro di Jürgen
Elsässer "La via speciale tedesca. Tra eredità storica e sfida
politica" ("Der deutsche Sonderweg. Historische Last und politische
Herausforderung". Diederichs Verlag, aprile 2003, 264 pagine, 19.95
euro), che rimane attualissimo nonostante - tra l'altro - le recenti
elezioni politiche in Germania. L'attivismo diplomatico e militare
tedesco, infatti, sostanzialmente non ha mutato metodi ne' obiettivi
nel passaggio dai governi di centrodestra (era Kohl) a quelli di
centrosinistra (era Schröder), e non c'è ragione per attendersi
cambiamenti sostanziali nemmeno con la Grosse Koalition. I
commentatori attribuiscono ad Angela Merkel (CDU) una linea più
filo-atlantica, ma sugli schieramenti internazionali nella CDU
convivono più sensibilità. Le scelte geo-strategiche di fondo della
Germania sono in effetti condivise dal centrosinistra e dal
centrodestra: si pensi al ruolo svolto nella distruzione della
Jugoslavia, alla presenza delle truppe tedesche in missioni militari
come quelle in Kosovo ed in Afghanistan, o ai più recenti sforzi
compiuti per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza
dell'ONU. Recentissimamente è ricorso inoltre il decimo anniversario
del voto bipartisan con il quale il Parlamento tedesco autorizzò per
la prima volta dalla II Guerra Mondiale le cosiddette "missioni fuori
area" per il proprio esercito, invertendo il dettato costituzionale ai
danni della Jugoslavia.
Uno degli atti più recenti compiuti da Schröder nella veste di premier
è stata la firma con Putin, in visita a Berlino ad inizio settembre,
dell'importante, strategico accordo sulla realizzazione di un grande
gasdotto che percorrerà tutto il Mar Baltico, dalla Russia (nei pressi
di San Pietroburgo) fino alla Germania, aggirando i paesi baltici e la
Polonia che sono tra i più fedeli alleati degli USA e tra i più ostili
ad una politica di pace nei confronti della Russia. Questo accordo
appare come una tappa ulteriore della "via speciale tedesca", cioè del
processo di autonomizzazione dagli USA.
Abbiamo rivolto ad Elsässer una serie di domande allo scopo di
caratterizzare meglio questa "geopolitica tedesca".
D: Nel tuo libro "La via speciale tedesca" hai evidenziato una
differenza tra la "via speciale" che il cancelliere Schröder ha
scelto alla vigilia della guerra contro l'Iraq, e che ha implicato il
rifiuto della politica aggressiva statunitense, da una parte, e le
scelte autonome effettuate in passato dalla "Grande Germania". Dunque
tu non vedi in Schröder alcuna riedizione di quel guglielminismo o
bismarckismo di cui lo hanno accusato i suoi critici borghesi. La
Germania rosso-verde è insomma una "potenza di pace", come ha detto la
SPD nel corso della sua ultima campagna elettorale europea?
R: Certo che no: nel 1999 i rosso-verdi hanno aggredito la Jugoslavia!
Ma è semplicemente assurda la tesi secondo cui Berlino avrebbe
rispolverato la "via speciale tedesca" solamente nel 2002-2003, quando
insieme a Parigi e Mosca disse NO alla aggressione contro l'Iraq.
Innanzitutto, uno che fa quello che fanno tutti gli altri, non può
trovarsi su di una "via speciale". Con il rifiuto della campagna di
guerra in Iraq la Germania ha assunto la stessa posizione di circa l'
80-90 per cento dei paesi del mondo. Se prendiamo come unità di misura
non i governi, bensì i popoli del mondo, allora notiamo che il
dissenso è stato ancora più vasto, poichè alcuni degli alleati degli
Stati Uniti - come Tony Blair, José Aznar e Silvio Berlusconi - hanno
prestato il loro voto contro la volontà pressante della maggioranza
nei rispettivi paesi, mentre la legittimazione da parte di altri
sostenitori di Bush, quali i "neo-europei" dell'Est, era quantomeno
incerta. Probabilmente nessun episodio politico della storia tedesca
recente (per non dire di quella della fase antecedente il 1945) ha
visto la Germania tanto in sintonia con il resto del mondo quanto la
crisi irachena.
In secondo luogo, non si può attribuire una volontà di "via speciale"
ad un governo nel momento in cui esso semplicemente difende il
monopolio della forza da parte dell'ONU e la sovranità degli Stati
garantita nella Carta dell'ONU stessa. Sarebbe una contraddizione in
termini. Chi persegue una strada autonoma, o mira ad essa, deve temere
il dibattito e le conseguenti contraddizioni in sede di Nazioni Unite.
Chi vuole sottomettere a se altri Stati deve innanzitutto violare la
loro sovranità. Perciò la Germania si separò dalla Società delle
Nazioni poco dopo che Hitler ebbe preso il potere, e viceversa la
Società delle Nazioni incominciò a ricostituirsi nella forma delle
Nazioni Unite solo dopo la fine del regime nazista.
In terzo luogo, un asse con Parigi è certamente una garanzia contro il
riaffiorare del passato. La Francia è il nemico storico, contro il
quale tutte le "vie speciali" tedesche si sono rivolte in passato. La
coscienza nazionale tedesca si è formata nelle guerre di liberazione
contro Napoleone; secondo Ernst Moritz Arndt, l'odio verso i francesi
è la vera "religione tedesca", una "religione" che ha avuto degli
slanci di intensità sempre crescente nel 1971, dopo il 1914 e poi
ancora dopo il 1939. E viceversa: tutti i tedeschi che si sentivano
soffocare per il bigottume e la reazione imperanti in Germania - da
Heinrich Heine a Marlene Dietrich, fino a Romy Schneider - si sono
sempre rivolti verso la Senna. Che lo spirito di Liberté, Egalité e
Fraternité potesse smuovere i tedeschi dalla loro inerzia era anche la
speranza di Karl Marx: "Quando tutte le condizioni interne saranno
soddisfatte, allora il giorno della rinascita tedesca sarà annunciato
dal canto del gallo francese." (1)
In quarto luogo, anche la sintonia con la Russia è un allontanamento
dalla "via speciale", non una ripresa. L'odio antislavo è stato messo
nel piatto dei prussiani in ascesa, dall'ordine teutonico, ed il
pericolo russo era la motivazione principale della I Guerra Mondiale
così come lo spazio vitale in oriente lo era della II. Con 20 milioni
di morti, il nazionalsocialismo da nessuna parte ha richiesto un
tributo di sangue più alto che nella Russia sovietica. Eppure ci sono
anche esempi di collaborazione: i Prussiani ed i Russi combatterono
assieme contro Napoleone, nel Trattato di Rapallo la Repubblica di
Weimar e l'URSS si trovarono assieme, il patto tra Hitler e Stalin
dette ai tedeschi mano libera contro i Polacchi. Questi esempi
mostrano a quali condizioni diventa pericolosa una alleanza tra la
Germania e la Russia: e cioè quando e solo quando essa si indirizza
contro il resto dell'Europa. Non appena l'asse Mosca-Berlino si
estende e genera una intesa con Parigi, la Germania viene legata da
ambo i lati ed il problema si sgonfia.
In quinto luogo, e forse più importante di tutti: sarebbe del tutto
inedito dal punto di vista storico se una "via speciale" tedesca
consistesse nel rifiuto della soluzione bellica. Una cosa simile il
mondo non l'ha ancora mai vista. Il sorgere della Prussia come
potenza mitteleuropea è consistito in una serie di atti di violenza,
l'impero di Bismarck fu forgiato nella guerra, dopo le devastazioni in
Belgio nel 1914-1915 i tedeschi furono paragonati agli Unni, e che
dire dei crimini della Wehrmacht soprattutto nella campagna
orientale... È possibile che si sia ridestato il ricordo di queste
"vie speciali" nel momento in cui oggi il ministro della Difesa Peter
Struck inneggia alla difesa degli interessi tedeschi
"sull'Hindukutsch" [altipiano dell'Asia centrale, in Afghanistan,
ndT], e non certo quando Schröder ha negato l'invio delle truppe nel
Golfo.
D: Puoi riassumere i retroscena economici e le contraddizioni
politiche del NO di Schröder alla guerra in Iraq?
R: Si è trattato di un NO sulla carta, tutto interno ai rituali
diplomatici. In realtà, la Germania ha appoggiato la guerra ben più
della Turchia, che pure si trova sul fronte, e questo attraverso la
messa a disposizione degli aereoporti e degli spazi aerei, di tutta la
infrastruttura, benché la Costituzione ovviamente vieti ogni possibile
appoggio ad una guerra di aggressione. Per gli USA la Germania è stata
uno snodo di interesse essenziale per i rifornimenti aerei.
Il motivo per cui il rifiuto tedesco della guerra è rimasto in effetti
solo platonico va ricercato nella simbiosi economica con il Grande
Fratello USA. A causa del suo orientamento verso l'export, il capitale
tedesco nel corso degli anni Novanta è diventato sempre più dipendente
dagli USA. Mentre le esportazioni tedesche aumentavano nel complesso
di circa il 90 per cento, le esportazioni di merci negli USA
esplodevano del 217 per cento. Uno ogni cinque euro che le ditte
tedesche scambiano al di fuori della zona euro è un dollaro, e viene
dagli USA. (2) Se all'inizio degli anni Novanta gli USA erano solo il
sesto dei partner commerciali, adesso, con una frazione del dieci per
cento, essi sono diventati il secondo beneficiario delle esportazioni
tedesche. Solo la Francia acquista ancor più prodotti "Made in
Germany". (3) Per di più, la Germania ricava profitti più grandi dallo
scambio commerciale con gli USA che con qualsiasi altro partner (22.7
miliardi di euro nel 2003, dunque più di un sesto dell'intero
ammontare dei ricavi dell'export tedesco). (4)
La dipendenza indiretta è ancor più grande, perché il mercato mondiale
nel suo complesso dipende dalla domanda degli USA. La Repubblica
Popolare Cinese, ad esempio, che lo scorso anno ha acquistato tre
volte più merci dalla Germania di quanto non facesse dieci anni fa, si
procaccia la valuta necessaria per questi acquisti attraverso le sue
crescenti esportazioni verso gli USA.
Nella competizione mondiale tra le economie nazionali, è il capitale
tedesco - che è molto produttivo e non è affetto dal deficit di quello
statunitense - ad ingaggiare una concorrenza rigorosa ed aggressiva. A
questo proposito, il segretario di Stato alle Finanze Heiner Flassbeck
(SPD), ora caduto in disgrazia, disse: "Si trasferisce sulle nazioni
la concezione della concorrenza tra imprese. Questo è pericoloso. Una
impresa può scacciare dal mercato un'altra impresa, ed il risultato
può essere positivo per la società. Ma la corsa tra gli Stati, a
diminuire tasse e salari, non porta alcuno Stato ad uscire dalla
competizione. Stati ed economie nazionali non spariscono dai mercati
mondiali come le imprese, che falliscono o vengono inghiottite da
quelle più grandi. Dunque, o vengono foraggiate dai 'vincitori' (come
nel caso della Germania Est) oppure tendono a difendersi con gli
stessi metodi, e cioè: svalutano le proprie valute, oppure si ritirano
nel classico metodo di ritorsione mercantile, il protezionismo." (5)
Traendo le estreme conseguenze da questo ammonimento dell'esperto
socialdemocratico di finanza, arriviamo a riconoscere l'interesse
strutturale dell'economia tedesca per la guerra. Che cosa succede
quando uno Stato concorrente, in posizione subordinata, non si lascia
inghiottire volontariamente dal vincitore, come fece la DDR? Che cosa
succede, se si mette a difendere la propria autonomia, ad esempio
attraverso i dazi, i controlli sulla introduzione di capitale, le
nazionalizzazioni o la difesa della propria industria contro
l'acquisizione straniera? Ecco allora che lo Stato-canaglia viene
riportato alla ragione con mezzi militari, e la sua economia viene
soggiogata con la guerra.
Per questa ragione la Germania non nutre alcun dissenso di principio
rispetto agli USA e ad una politica militare globale. Ma conflitti di
interessi possono sorgere in casi specifici, perché le forze motrici
della politica delle cannoniere nei due Stati sono diverse. La spinta
aggressiva del capitale monopolistico tedesco deriva dalla sua
situazione largamente favorevole, e consiste - come per l'impero
guglielmino durante la Prima Guerra Mondiale - nella ricerca di nuovi
mercati e sfere di influenza. La politica aggressiva dei monopoli
statunitensi, invece, è piuttosto il risultato di una situazione di
forte disavanzo, per cui essi cercano - come fu per l'economia tedesca
nella Seconda Guerra Mondiale - di coprire la propria massa fittizia
di capitale rapinando materie prime e valuta.
Quando gli USA - come nel caso dell'Iraq - attaccano mercati già
tedeschi, Schröder, il "compare del boss", si sporge dalla finestra e
vince la campagna elettorale annunciando una cosiddetta "via speciale"
tedesca. Tuttavia egli non può mettere in questione il ruolo della
Germania come snodo e retroterra logistico della aggressione, perchè
una sconfitta americana sarebbe ancor meno nell'interesse tedesco di
quanto non lo sia questa guerra: come possono infatti le esportazioni
tedesche trovare degli acquirenti sul mercato mondiale, se il dollaro,
a causa di una disfatta militare dei garanti del dollaro, diventa un
pezzo di carta senza valore?
Una politica di pace tedesca dunque non è concepibile sulla base dello
status quo economico. Fintantoché il potere del capitale di
esportazione non si spezza, i suoi interessi saranno sempre difesi in
Afghanistan come su altri fronti analogamente distanti. Ma questo, al
contempo, significa anche che ogni passo verso il rafforzamento della
domanda interna - e cioè per salari più alti, pensioni e servizi
sociali - implicherebbe una svolta della politica estera. In questo
senso i sindacati, che potrebbero (dico: potrebbero) opporsi allo
sfascio sociale e salariale, rappresenterebbero la forma migliore di
movimento per la pace.
D: Perchè gli USA e la Gran Bretagna hanno aggredito l'Iraq? La
situazione economica interna statunitense ha davvero tanto a che fare
con questo, come hai sostenuto nel tuo libro?
R: Negli scorsi tre anni la valuta statunitense ha perso il 35 per
cento del suo valore rispetto all'euro ed il 24 per cento del suo
valore rispetto allo yen giapponese. Solo dall'ottobre scorso
l'ammontare della perdita è di circa il 7 per cento [fino a marzo
2005, ndt]. Se facciamo un paragone storico, prendendo il marco
tedesco al posto dell'euro, la moneta degli yankee si è svalutata
rispetto a quella dei crucchi dei due terzi a partire dal 1960.
All'epoca per il biglietto verde si dovevano pagare 4 marchi, mentre
oggi ne basterebbero circa 1,30. (6)
Causa principale di questa evoluzione è la debolezza della economia
americana. Le merci che questa produce sono tanto scadenti o tanto
costose che non riescono a piazzarsi sul mercato mondiale. Poiché gli
export statunitensi difficilmente trovano un mercato all'estero, e
persino all'interno vengono preferiti ad essi dei prodotti stranieri,
nella bilancia dei pagamenti esteri degli USA si é aperto un buco
sempre più grande. La sua crescita è esponenziale: nel 1992 si
trattava di 50 miliardi di dollari, nel 1998 di 245 miliardi, nel 2000
di 435, (7) per l'anno 2004 si pronosticavano 600 miliardi e per il
2006 ben 825 miliardi di dollari di deficit - più dell'otto per cento
del prodotto interno lordo annuale (PIL). (8) Per confronto, si
consideri che in Germania l'8 per cento del PIL corrisponderebbe ad un
saldo commerciale negativo di circa 130 miliardi di dollari USA;
viceversa, il commercio estero tedesco nel 2003 ha registrato un
positivo di 135 miliardi di euro.
Per il finanziamento delle importazioni, la Banca centrale
statunitense ha emesso moneta aggiuntiva, e tanto pubblici quanto
privati hanno prodotto titoli con buon tasso di interesse ed altri
buoni, che sono stati acquistati dall'estero. Al contempo, in questa
maniera, insieme al deficit con l'estero anche l'indebitamento degli
USA verso l'esterno è cresciuto. Al termine degli anni Settanta gli
USA erano creditori verso l'esterno per un ammontare netto di 20
miliardi di dollari; nel 1982 questi crediti, con 231 miliardi,
avevano raggiunto il loro massimo. Tuttavia, poco dopo sopraggiunse la
svolta e le cifre negative: a partire dal 1985 sono gli USA - Stato,
economia e privati - ad essere debitori verso l'estero. Nel settembre
2001 il debito lordo ammontava a 7815 miliardi di dollari, che - pur
corretti dei propri crediti verso l'estero - si traducono in tutti i
casi in un indebitamento netto residuo di 3493 miliardi di dollari.
(9) Rispetto ad un PIL che negli USA ammonta a circa 10mila miliardi
di dollari, il debito estero corrisponde a quasi il 35 per cento. Si
noti, per paragone, che la DDR, nell'ottobre 1989, fu dichiarata in
bancarotta da un gruppo di lavoro del Politbüro perché aveva
un'indebitamento verso l'occidente pari a 49 miliardi di marchi in
valuta: vale a dire solo il 16 per cento del PIL della DDR. (10)
Il presidente Bush ed il capo della FED, Alan Greenspan, devono avere
la stessa paura che ebbero Hitler, da cancelliere del Reich, ed il suo
banchiere Hjalmar Schacht: e cioè che la bolla inflattiva monetaria
non esplode solo fintantoché le proprie truppe riportano vittorie su
vittorie. Per il dollaro (e per tutte le valute che da questo
dipendono) vale oggi quello che valeva per il Reichsmark durante la
Seconda Guerra Mondiale: i creditori credono al valore stampato sulle
banconote solo finché chiunque sempre ed in qualsiasi posto può essere
costretto con la violenza militare a scambiare quella carta con delle
merci. Tanto più l'economia USA scivola in rosso, tanto più aggressiva
deve agire la politica estera statunitense.
Se valesse la legge dell'offerta e della domanda, il dollaro sarebbe
precipitato molto più in basso, da tempo. Già da due anni, i ricchi
stranieri ed i fondi privati internazionali ritirano capitale dai
depositi in dollari, e solo l'acquisto sempre crescente di valuta USA
da parte delle banche nazionali di Tokio e di Pechino sostiene ancora
il biglietto verde. Giapponesi e cinesi con questa politica vogliono
mantenere forte la valuta USA e deboli le loro, allo scopo di rendere
competitive le loro esportazioni nello spazio del dollaro. Ma quanto a
lungo potranno ancora permettersi di sciupare i loro buoni soldi con
quelli cattivi americani?
La fine del dollaro come valuta mondiale sarebbe raggiunta qualora il
commercio internazionale di petrolio non si fondasse più sul dollaro.
L'Iraq era stato precursore di questo sviluppo. Alla fine del 2000,
Saddam Hussein aveva convertito la fatturazione delle esportazioni di
petrolio iracheno in euro. Questa scelta è stata invertita dopo la
conquista dell'Iraq da parte degli USA. Anche altri Stati, che vengono
minacciati dagli USA, sono tentati di convertire le esportazioni di
petrolio sulla base dell'euro. Si ragiona in tal senso in Venezuela,
paese dal quale provengono un quarto delle importazioni di petrolio
statunitensi, nonché in Russia. Nell'ottobre 2003, il Moscow Times
pubblicò un articolo intitolato: "Putin: perché non misurare il
petrolio in euro?" Già alla fine del 2002 la Corea del Nord passava
dal dollaro all'euro. È dall'anno 2003 che l'Iran chiede che i conti
per le forniture di petrolio, calcolati in dollari USA, vengano pagati
in euro. In precedenza Teheran aveva già convertito la gran parte
delle sue riserve di valuta in euro: uno sviluppo che è cominciato
anche in Russia.
Perciò, tanto in Iraq come negli altri Stati sopra menzionati, anche
essi minacciati di guerra, non si tratta di "sangue per il petrolio"
quanto piuttosto della difesa della capacità di pagamento da parte
degli USA, cosa per la quale d'altronde il controllo sul petrolio non
è comunque irrilevante. In ultima analisi tuttavia non si tratta tanto
di guerra per le risorse, quanto piuttosto di un conflitto tra le
valute - dollaro contro euro.
Il collasso economico deve dunque essere impedito con misure di
carattere extra-economico. A questo proposito, la rivista di Monaco
"Gegenstandpunkt" ha scritto: "È come se Bush ed i suoi combattenti
contro il terrore volessero sostituire la 'Legge del valore'
capitalistica con una vittoria strategica planetaria che si sono
prefissi e che vogliono conquistare in combattimento, fino a
sbarazzarsi di quella 'Legge' in questo modo." (11) Ma questo
chiaramente non può funzionare: "Ma che vuol dire questo - in un mondo
che comunque... non viene governato da chi conosce la 'Legge del
valore' bensì da maschere recitanti." La volta scorsa, questo
esperimento osceno è costato la vita a circa 60 milioni di persone.
D: Nel tuo libro hai scritto: "Un campo di battaglia decisivo è stata
la Jugoslavia, e precisamente nei due sensi: lì gli USA hanno condotto
una guerra calda contro i serbi, ed una guerra fredda contro i
tedeschi. In effetti la Germania aveva appoggiato i secessionisti
albanesi ben prima degli USA (...) Ma la guerra vera e propria era un
progetto di Washington, e la frammentazione ne è stata la conseguenza
- sia per la Jugoslavia che per l'Europa. Perciò l'aviazione USA ha
bombardato obiettivi scelti nella provincia della Vojvodina, nel nord
della Serbia, senza con questo causare alcun disturbo alle manovre
militari nella provincia meridionale del Kosovo. Invece, lassù sono
stati distrutti i ponti sul Danubio e così è stata paralizzata - fino
ad oggi - un'arteria decisiva per il traffico tra l'Europa centrale ed
il Mar Nero."
La bombe sui ponti del Danubio e sulle industrie chimiche, e
l'occupazione occidentale del Kosovo e della Macedonia, hanno dunque
anch'esse qualcosa a che vedere con il petrolio e con gli oleodotti?
R: Una parte del petrolio del Caspio - laggiù ci sono le seconde
riserve mondiali - dovrebbe essere trasportata attraverso il Mar Nero.
Nel porto bulgaro di Burgas essa dovrebbe poi essere pompata
all'interno di un oleodotto del consorzio AMBO, controllato dagli USA,
che attraverso i territori albanesi della Macedonia e forse del Kosovo
condurrebbe fino al porto albanese di Vlora, sul Mediterraneo. Un
contratto in questo senso è stato sottoscritto alla fine del Dicembre
2004 a Sofia tra AMBO e gli Stati interessati. Il londinese Guardian
ha scritto in proposito: "Per l'Occidente questa sarebbe probabilmente
la rotta più importante per il petrolio e per il gas naturale che
adesso vengono procurati in Asia. 750mila barili al giorno: un
progetto necessario, secondo l'agenzia statunitense per il commercio e
lo sviluppo, perché... assegna alle imprese USA un ruolo-chiave nello
sviluppo di questo corridoio vitale tra l'Oriente e l'Occidente." (12)
Il britannico Michael Jackson, primo comandante della KFOR [forza
internazionale a guida NATO, che ha preso il controllo del territorio
del Kosovo dopo i bombardamenti, ndt], ha spiegato il legame diretto
con la occupazione dei Balcani da parte della NATO: "Di sicuro, noi,
qui, resteremo a lungo, per garantire la sicurezza dei corridoi
energetici che passano attraverso la Macedonia." (13)
Le bombe sulla Vojvodina hanno interrotto il corridoio concorrente
della UE, che dovrebbe servire a pompare il petrolio del Caspio
attraverso la Romania verso il porto mediterraneo di Rijeka/Fiume e
nell'oleodotto transalpino verso Austria e Baviera.
D: Che cosa significa il recente litigio per i nuovi seggi nel
Consiglio di Sicurezza dell'ONU?
R: Questa vicenda mostra nel migliore dei modi la insensatezza della
politica tedesca dalla Guerra irachena in poi. da una parte si
vorrebbe controbilanciare la potenza USA; ma al contempo non si vuole
rompere con gli USA in nessun caso. È la quadratura del cerchio.
Concretamente: se la Germania non avesse fatto blocco con il Giappone,
essa avrebbe potuto guadagnare l'appoggio di Mosca e di Pechino, e
dunque la maggioranza dei voti nella Assemblea Generale. Ma il
Giappone, strumento asiatico degli USA, doveva per forza essere
coinvolto - e perciò il fallimento era prevedibile. Lo scontro tra
Germania ed Italia in sede ONU è stato perlomeno una divertente "lotta
nel fango": alla fine si sono insozzate entrambe, come era logico.
L'esito (inconcludente) è in fondo positivo per chi si oppone alla
guerra, da Roma a Berlino.
D: Come è stato accolto in Germania il rifiuto del progetto di
Costituzione Europea da parte della Francia?
R: La Bild Zeitung - che con 4 milioni di copie ogni giorno è il
quotidiano più diffuso [si tratta di un tabloid di impostazione
scandalistica, ndt] - ha svolto subito dopo un sondaggio telefonico
sul tema della Costituzione Europea. Ebbene, 390mila lettori hanno
voluto partecipare, esprimendosi per il NO nella misura del 96,9 per
cento! Ma che cosa fa il Cancelliere Schröder? Annuncia, venendo meno
alle sue promesse, che la Germania aumenterà le sue contribuzioni per
la UE - dunque, ancora la minestra che è stata appena rifiutata...
Quando mai un governante è stato tanto lontano dai suoi sudditi?
D: Si parla di un asse Berlino-Parigi-Mosca, ma il tuo libro dimostra
che la posizione tedesca in realtà è contraddittoria. Forse che
l'imperialismo francese è un avversario più coerente dell'imperialismo
statunitense?
R: La Germania economicamente dipende dagli USA, la Francia invece
dipende dalla Germania. Un blocco europeo indipendente è concepibile
solo se la linea Parigi-Berlino viene prolungata fino a Mosca. Il
fondamento di questa alleanza è la ricchezza russa in termini di
petrolio e gas naturale, che potrebbe emancipare l'Europa occidentale
dai rifornimenti nelle aree di conflitto tra Africa settentrionale ed
Asia centrale. Ma, al di là di certe le versioni oleografiche, bisogna
tenere presente che questo asse non sarebbe un asse di pace. Nel mio
libro si fa vedere chiaramente come Berlino ha conseguentemente
rafforzato la sua posizione di potere in Europa sud-orientale ed
orientale tanto sotto Kohl quanto sotto Schroeder, e questo spesso
giocando con rappresentazioni revansciste e facendo uso dei suoi mezzi
militari. Ogni impedimento, che fosse di carattere costituzionale o
relativo alla Carta dell'ONU, è stato allegramente accantonato. Il
capitale tedesco domina dall'Atlantico fino agli Urali.
Se l'esportazione tedesca di merci e di capitali si rivolgesse verso i
nuovi partner dell'alleanza anzichè verso l'America, questi potrebbero
sostenere l'impatto? Che cosa succede nel momento in cui questo
colosso centroeuropeo diventa determinante nelle scelte della Force de
Frappe [l'esercito francese, ndt], oppure: e se la Russia si mette a
costruire gli aerei da trasporto per le truppe tedesche (che il
ministro delle Finanze Hans Eichel fino ad ora non ha potuto
finanziare)? Putin potrebbe opporsi se la Deutsche Bank volesse
comprare Kaliningrad - come fu proposto già nel 1989 da Alfred
Herrhausen - e ribattezzarla Koenigsberg? Ed in questa situazione, che
cosa ne sarebbe dei piccoli Stati centroeuropei, che sono comunque
dipendenti economicamente dalla Germania e sono sottoposti alla
pressione delle lobby revansciste dei profughi? (*)
D: Ti consideri dunque un sostenitore oppure un oppositore del modello
eurasiatico, cioè di questo asse Parigi-Berlino-Mosca?
R: I pericoli che ho appena elencato rappresentano delle minacce solo
a medio termine. A breve termine la Germania è costretta a mantenere
gli equilibri nella costellazione Parigi-Berlino-Mosca, e senza la
"copertura" statunitense non avrebbe la forza di esercitare pressioni.
Da quando Schröder si confronta con Bush, deve allo stesso tempo
cedere a Chirac sulle politiche europee: l'esempio più eclatante di
questo è nell'aver sacrificato il Patto di Stabilità. I criteri che
esso fissava per regolare i conti domestici erano stati usati
inizialmente dalla Germania contro la Francia ed il Club
Mediterranée" (così lo aveva chiamato l'allora Ministro delle Finanze
Theo Waigel), per costringere questi paesi ad una rigida politica di
risparmio secondo il modello tedesco.
Se la Germania rimanesse dalla parte dell'America, la conseguenza
immediata sarebbe una marcia comune verso ulteriori guerre: Iran,
Siria, Arabia Saudita, Corea del Nord, Cuba, ed alla fine persino
l'aggressione contro la Russia o la Cina, il che vorrebbe dire la
guerra atomica.
Se le crociate di Bush falliscono, l'economia statunitense soffre di
una crisi ulteriore e, di conseguenza, non può più assorbire le
esportazioni europee, allora si potrebbe affermare l'opzione
eurasiatica. Ma se questo non avviene secondo un piano ed in maniera
graduale, bensì precipitosamente e come conseguenza di sviluppi
catastrofici sui campi di battaglia o sulle borse, allora le elites
politico-militari eurasiatiche finirebbero con l'impigliarsi in
contraddizioni e contrasti.
Ma anche nel caso più favorevole ci vorrebbe comunque molto tempo
prima che una blanda intesa si consolidi in un blocco militare
alternativo, il quale allora potrebbe perseguire a sua volta degli
obiettivi in maniera aggressiva. Bisogna tenere presente la difficoltà
con cui si vanno costruendo delle strutture di difesa per l'Unione
Europea. Una rottura nell'Alleanza Atlantica comporterebbe pesanti
turbolenze anche all'interno dell'Unione Europea nella forma in cui la
conosciamo adesso - sotto il fuoco di sbarramento dei governi
filoamericani, una integrazione, ed in particolare una integrazione
militare, potrebbe procedere ancor meno di adesso. Se poi pensiamo
alla Russia, con la sua tradizione e la sua geopolitica completamente
diverse, ci facciamo un quadro delle difficoltà che una eventuale
nuova alleanza dovrebbe affrontare sin dalla nascita.
In generale possiamo dire: la politica aggressiva che la Germania ha
perseguito sin dalla riunificazione, è stata messa in atto di norma
con l'appoggio o sotto la copertura degli USA - e contro
l'opposizione, aperta o mascherata, di Parigi o di Mosca o di
entrambe. Se Berlino si impegnasse in una alleanza con queste potenze,
allora sarebbero indispensabili correzioni e compromessi in politica
estera.
Un allontanamento dall'America causerebbe anche sconvolgimenti nel
panorama politico interno. I Verdi probabilmente farebbero fronte al
meglio alla nuova situazione, adattandosi in modo flessibile a
qualsiasi cosa come hanno fatto sempre negli ultimi anni, ed
acquisendo così potere e risorse. Però per la Unione [CDU-CSU] la cosa
potrebbe essere drammatica, perchè esiste già una minaccia di
scissione tra un'ala atlantista ed una gollista. Analogamente, anche
la FDP potrebbe spaccarsi in una frazione globalista-neoliberale ed in
una europeista-nazionale. Nella SPD avrebbero perso tutti gli
argomenti contro Lafontaine, che è da sempre più vicino a Parigi che
non a Washington, o a Berlino addirittura.
In questa atmosfera turbolenta ed in vista dello scioglimento dei
campi politici tradizionali, una terza posizione avrebbe qualche
possibilità di affermarsi: la finlandizzazione o, per meglio dire, la
ellenizzazione del continente. Il rapporto Parigi-Berlino-Mosca non
come nucleo di un asse militare, bensì come nodo di una rete di pace
eurasiatica. Nessuna corsa agli armamenti, ma piuttosto un disarmo
generalizzato; nessun intervento in giro per il mondo, bensì il ritiro
delle truppe; i profitti di pace verrebbero usati per l'economia
civile, per la formazione e per la cultura; la Jugoslavia distrutta
dalla guerra ed i paesi dell'Est sprofondati nella miseria dal
neoliberalismo sarebbero ricostruiti. Un'area di pace da Brest fino a
Vladivostok... Una federazione di repubbliche sovrane, così come
l'antica Grecia era una federazione di libere città - la vecchia
Europa nella sua forma più bella. A Pietroburgo o piuttosto a
Leningrado, punto di intersezione storico tra l'Est e l'Ovest,
potrebbe riunirsi il Parlamento di questa federazione! Una simile
unione di Stati non minaccerebbe nessuno. Anche l'America dovrebbe
sentirsi non più sfidata e potrebbe ritornare alle sue virtù
isolazioniste. Atene e Roma si riconcilierebbero. È possibile una cosa
simile nell'ordine economico dominante? No, ovviamente essa è
possibile solo contro di esso. In ogni caso, in Germania lo status quo
è non solo nell'interesse del complesso militare-industriale, ma anche
nell'interesse generale del grande capitale. Per il suo orientamento
alle esportazioni senza frontiere essa ha bisogno di sicurezza
militare. Ma noi, cittadine e cittadini, dobbiamo vivere per questo in
continua apprensione di guerra?
La "via speciale" tedesca, percorsa sin dalla riunificazione in
alleanza con gli USA, è una via verso la catastrofe. Una rottura con
l'America è l'offerta del minuto. Il paese tra il Reno e l'Oder
potrebbe finalmente trovare la pace mettendosi alla pari con i suoi
vicini all'Est ed all'Ovest.
(a cura di A. Martocchia)
NOTE:
(1) Karl Marx, "Einleitung zur Kritik der Hegelschen
Rechtsphilosophie", pag.224
(2) isw-Wirtschaftsinfo Nr. 34, München 2002, pag.12
(3) Vedi: DIW-Wochenbericht 10/2003
(4) Bmwa, Entwicklung des Außenhandels der Bundesrepublik Deutschland
2003 ("Sviluppo del commercio estero della RF di Germania nel 2003")
(5) Lafontaines letzter Kampf" ("L'ultima battaglia di Lafontaine"),
in: Konkret 11/1999 (www.konkret-verlage.de)
(6) The passing of the buck?, in: The Economist , 2.12.2004
(7) Kreditanstalt für Wiederaufbau, Das Leistungsbilanzdefizit der
USA eine Gefahr für die Weltwirtschaft? ("Il deficit di bilancio USA
- un pericolo per l'economia mondiale?"), Frankfurt/M. 1999
(8) The disappearing dollar, in: The Economist, 2.12.2004
(9) Dati della Banca Centrale USA, accessibili da: www.federalreserve.gov
(10) Siegfried Wenzel, vice presidente della Commissione per la
pianificazione della DDR: "La DDR non era in bancarotta", in Konkret
10/1999; Wenzel ritiene che la cifra di 49 miliardi di marchi in
valuta sia eccessiva, e che sia stata usata dai riformisti della SED
solo per far cadere Ulbricht
(11) "Gegenstandpunkt" 3/2002
(12) Vedi Michel Collon, Après le Kosovo, la Macédonie, testo fatto
circolare in internet il 15.3.2001
(13) Michel Collon, ibidem
(*) Si pensi alla questione dei Sudeti per la Repubblica Ceca, alla
Slesia ed alla Pomerania per la Polonia, o agli "svevi danubiani" che
agitano le loro rivendicazioni sulla Vojvodina e sulla Romania,
analogamente a quanto fanno gli esuli italiani di Istria e Dalmazia ai
danni di Slovenia e Croazia. (ndt)
SCHEDA: JÜRGEN ELSÄSSER
Jürgen Elsässer, giornalista e saggista, esperto di politica
internazionale, lavora per diversi periodici della sinistra di lingua
tedesca, tra i quali il quotidiano di Berlino "Junge Welt" ed il
settimanale "Freitag". Elsässer ha scritto una dozzina di libri su
questioni di politica estera, specialmente incentrati
sull'imperialismo tedesco e sui retroscena della distruzione della
Jugoslavia. Questo autore è conosciuto in Italia in particolare per
"Menzogne di Guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel
conflitto per il Kosovo" (Napoli, La Città del Sole, 2002; versione
italiana di "Kriegslügen - Vom Kosovokonflikt zum Milosevic-Prozess",
edito da Kai Homilius Verlag, Berlino, ultima edizione aggiornatissima
2004): si tratta di uno dei pochissimi testi editi nel nostro paese a
proposito della disinformazione strategica sulla guerra nei Balcani e
sui crimini di guerra della NATO. Elsässer è stato varie volte di
recente nel nostro paese, su invito del Coordinamento Nazionale per la
Jugoslavia, per presentare i suoi libri in una decina di iniziative
pubbliche. L'ultima occasione, la scorsa primavera, è stata data dalla
presentazione del suo lavoro più recente, "Come la Jihad giunse in
Europa. Combattenti di dio e servizi segreti nei Balcani".
---
Ulteriori informazioni ai siti:
http://www.juergen-elsaesser.de
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/roma290305.htm
de L'ERNESTO (vedi: http://www.lernesto.it/ ):
SOMMARIO
Occorre l'alternativa, non una svolta moderata - F. Giannini
Le condizioni per un mondo multipolare - S. Amin
Fiaccole e bombe atomiche - Intervista a L. Castellina (a cura di F.G.)
Il movimento per la pace e la Politika - N. Ginatempo
Allarme NATO! - M. Dinucci
I comunisti e le basi militari in Sardegna - A. Licheni
L'arretratezza del capitalismo italiano - V. Giacchè
Metalmeccanici e Congresso CGIL - M. Zipponi
All'ombra della precarizzazione - A. Martini
Diritti - Parigi/Banlieues (A. Fache - G. Oxley )
Bologna/ Cofferati - (M. Prosperi - R. Sconciaforni - Incontro con i
Centri sociali)
Lampedusa (A. Sciurba)
Autodeterminazione delle donne - (D. Tromboni - M. M. Salzer)
La Stanza dell'Arte - Elogio della lucertola (Pizzi Cannella) - a cura
di R. Gramiccia
Legge elettorale, primarie, Costituzione - G. Chiarante
Partito della Sinistra Europea - Congresso di Atene: documento di
"Essere Comunisti"
Internazionale - Portogallo (A. Nunes) - Iraq (G. Lannutti) - Sudan
(M. Graziosi)
Germania-Europa/Dibattito - H. H. Holz - J. Bischoff e B. Radke - J.
Elsasser
Cultura - P.Paolo Pasolini (V. Magnani) - Sergio Endrigo (G. Lucini) -
Cinema/"La Caduta" (G. Livio e A. Petrini)
Recensioni - "Cuba: orgoglio e pregiudizi" a cura di R. Caputo
Fiom: 1994-2004 - a cura di L.B.
---
Intervista: Jürgen Elsässer
UNA GEOPOLITICA TEDESCA?
Durante l'aggressione all'Iraq ci si domandava: la "via speciale
tedesca" scelta da Schröder contro l'unilateralismo di Bush in Iraq ed
altrove porterà prima o poi ad un contrasto con gli USA ? Oppure
esistono delle possibilità per una politica della distensione in
Europa? Questi interrogativi sono stati al centro del libro di Jürgen
Elsässer "La via speciale tedesca. Tra eredità storica e sfida
politica" ("Der deutsche Sonderweg. Historische Last und politische
Herausforderung". Diederichs Verlag, aprile 2003, 264 pagine, 19.95
euro), che rimane attualissimo nonostante - tra l'altro - le recenti
elezioni politiche in Germania. L'attivismo diplomatico e militare
tedesco, infatti, sostanzialmente non ha mutato metodi ne' obiettivi
nel passaggio dai governi di centrodestra (era Kohl) a quelli di
centrosinistra (era Schröder), e non c'è ragione per attendersi
cambiamenti sostanziali nemmeno con la Grosse Koalition. I
commentatori attribuiscono ad Angela Merkel (CDU) una linea più
filo-atlantica, ma sugli schieramenti internazionali nella CDU
convivono più sensibilità. Le scelte geo-strategiche di fondo della
Germania sono in effetti condivise dal centrosinistra e dal
centrodestra: si pensi al ruolo svolto nella distruzione della
Jugoslavia, alla presenza delle truppe tedesche in missioni militari
come quelle in Kosovo ed in Afghanistan, o ai più recenti sforzi
compiuti per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza
dell'ONU. Recentissimamente è ricorso inoltre il decimo anniversario
del voto bipartisan con il quale il Parlamento tedesco autorizzò per
la prima volta dalla II Guerra Mondiale le cosiddette "missioni fuori
area" per il proprio esercito, invertendo il dettato costituzionale ai
danni della Jugoslavia.
Uno degli atti più recenti compiuti da Schröder nella veste di premier
è stata la firma con Putin, in visita a Berlino ad inizio settembre,
dell'importante, strategico accordo sulla realizzazione di un grande
gasdotto che percorrerà tutto il Mar Baltico, dalla Russia (nei pressi
di San Pietroburgo) fino alla Germania, aggirando i paesi baltici e la
Polonia che sono tra i più fedeli alleati degli USA e tra i più ostili
ad una politica di pace nei confronti della Russia. Questo accordo
appare come una tappa ulteriore della "via speciale tedesca", cioè del
processo di autonomizzazione dagli USA.
Abbiamo rivolto ad Elsässer una serie di domande allo scopo di
caratterizzare meglio questa "geopolitica tedesca".
D: Nel tuo libro "La via speciale tedesca" hai evidenziato una
differenza tra la "via speciale" che il cancelliere Schröder ha
scelto alla vigilia della guerra contro l'Iraq, e che ha implicato il
rifiuto della politica aggressiva statunitense, da una parte, e le
scelte autonome effettuate in passato dalla "Grande Germania". Dunque
tu non vedi in Schröder alcuna riedizione di quel guglielminismo o
bismarckismo di cui lo hanno accusato i suoi critici borghesi. La
Germania rosso-verde è insomma una "potenza di pace", come ha detto la
SPD nel corso della sua ultima campagna elettorale europea?
R: Certo che no: nel 1999 i rosso-verdi hanno aggredito la Jugoslavia!
Ma è semplicemente assurda la tesi secondo cui Berlino avrebbe
rispolverato la "via speciale tedesca" solamente nel 2002-2003, quando
insieme a Parigi e Mosca disse NO alla aggressione contro l'Iraq.
Innanzitutto, uno che fa quello che fanno tutti gli altri, non può
trovarsi su di una "via speciale". Con il rifiuto della campagna di
guerra in Iraq la Germania ha assunto la stessa posizione di circa l'
80-90 per cento dei paesi del mondo. Se prendiamo come unità di misura
non i governi, bensì i popoli del mondo, allora notiamo che il
dissenso è stato ancora più vasto, poichè alcuni degli alleati degli
Stati Uniti - come Tony Blair, José Aznar e Silvio Berlusconi - hanno
prestato il loro voto contro la volontà pressante della maggioranza
nei rispettivi paesi, mentre la legittimazione da parte di altri
sostenitori di Bush, quali i "neo-europei" dell'Est, era quantomeno
incerta. Probabilmente nessun episodio politico della storia tedesca
recente (per non dire di quella della fase antecedente il 1945) ha
visto la Germania tanto in sintonia con il resto del mondo quanto la
crisi irachena.
In secondo luogo, non si può attribuire una volontà di "via speciale"
ad un governo nel momento in cui esso semplicemente difende il
monopolio della forza da parte dell'ONU e la sovranità degli Stati
garantita nella Carta dell'ONU stessa. Sarebbe una contraddizione in
termini. Chi persegue una strada autonoma, o mira ad essa, deve temere
il dibattito e le conseguenti contraddizioni in sede di Nazioni Unite.
Chi vuole sottomettere a se altri Stati deve innanzitutto violare la
loro sovranità. Perciò la Germania si separò dalla Società delle
Nazioni poco dopo che Hitler ebbe preso il potere, e viceversa la
Società delle Nazioni incominciò a ricostituirsi nella forma delle
Nazioni Unite solo dopo la fine del regime nazista.
In terzo luogo, un asse con Parigi è certamente una garanzia contro il
riaffiorare del passato. La Francia è il nemico storico, contro il
quale tutte le "vie speciali" tedesche si sono rivolte in passato. La
coscienza nazionale tedesca si è formata nelle guerre di liberazione
contro Napoleone; secondo Ernst Moritz Arndt, l'odio verso i francesi
è la vera "religione tedesca", una "religione" che ha avuto degli
slanci di intensità sempre crescente nel 1971, dopo il 1914 e poi
ancora dopo il 1939. E viceversa: tutti i tedeschi che si sentivano
soffocare per il bigottume e la reazione imperanti in Germania - da
Heinrich Heine a Marlene Dietrich, fino a Romy Schneider - si sono
sempre rivolti verso la Senna. Che lo spirito di Liberté, Egalité e
Fraternité potesse smuovere i tedeschi dalla loro inerzia era anche la
speranza di Karl Marx: "Quando tutte le condizioni interne saranno
soddisfatte, allora il giorno della rinascita tedesca sarà annunciato
dal canto del gallo francese." (1)
In quarto luogo, anche la sintonia con la Russia è un allontanamento
dalla "via speciale", non una ripresa. L'odio antislavo è stato messo
nel piatto dei prussiani in ascesa, dall'ordine teutonico, ed il
pericolo russo era la motivazione principale della I Guerra Mondiale
così come lo spazio vitale in oriente lo era della II. Con 20 milioni
di morti, il nazionalsocialismo da nessuna parte ha richiesto un
tributo di sangue più alto che nella Russia sovietica. Eppure ci sono
anche esempi di collaborazione: i Prussiani ed i Russi combatterono
assieme contro Napoleone, nel Trattato di Rapallo la Repubblica di
Weimar e l'URSS si trovarono assieme, il patto tra Hitler e Stalin
dette ai tedeschi mano libera contro i Polacchi. Questi esempi
mostrano a quali condizioni diventa pericolosa una alleanza tra la
Germania e la Russia: e cioè quando e solo quando essa si indirizza
contro il resto dell'Europa. Non appena l'asse Mosca-Berlino si
estende e genera una intesa con Parigi, la Germania viene legata da
ambo i lati ed il problema si sgonfia.
In quinto luogo, e forse più importante di tutti: sarebbe del tutto
inedito dal punto di vista storico se una "via speciale" tedesca
consistesse nel rifiuto della soluzione bellica. Una cosa simile il
mondo non l'ha ancora mai vista. Il sorgere della Prussia come
potenza mitteleuropea è consistito in una serie di atti di violenza,
l'impero di Bismarck fu forgiato nella guerra, dopo le devastazioni in
Belgio nel 1914-1915 i tedeschi furono paragonati agli Unni, e che
dire dei crimini della Wehrmacht soprattutto nella campagna
orientale... È possibile che si sia ridestato il ricordo di queste
"vie speciali" nel momento in cui oggi il ministro della Difesa Peter
Struck inneggia alla difesa degli interessi tedeschi
"sull'Hindukutsch" [altipiano dell'Asia centrale, in Afghanistan,
ndT], e non certo quando Schröder ha negato l'invio delle truppe nel
Golfo.
D: Puoi riassumere i retroscena economici e le contraddizioni
politiche del NO di Schröder alla guerra in Iraq?
R: Si è trattato di un NO sulla carta, tutto interno ai rituali
diplomatici. In realtà, la Germania ha appoggiato la guerra ben più
della Turchia, che pure si trova sul fronte, e questo attraverso la
messa a disposizione degli aereoporti e degli spazi aerei, di tutta la
infrastruttura, benché la Costituzione ovviamente vieti ogni possibile
appoggio ad una guerra di aggressione. Per gli USA la Germania è stata
uno snodo di interesse essenziale per i rifornimenti aerei.
Il motivo per cui il rifiuto tedesco della guerra è rimasto in effetti
solo platonico va ricercato nella simbiosi economica con il Grande
Fratello USA. A causa del suo orientamento verso l'export, il capitale
tedesco nel corso degli anni Novanta è diventato sempre più dipendente
dagli USA. Mentre le esportazioni tedesche aumentavano nel complesso
di circa il 90 per cento, le esportazioni di merci negli USA
esplodevano del 217 per cento. Uno ogni cinque euro che le ditte
tedesche scambiano al di fuori della zona euro è un dollaro, e viene
dagli USA. (2) Se all'inizio degli anni Novanta gli USA erano solo il
sesto dei partner commerciali, adesso, con una frazione del dieci per
cento, essi sono diventati il secondo beneficiario delle esportazioni
tedesche. Solo la Francia acquista ancor più prodotti "Made in
Germany". (3) Per di più, la Germania ricava profitti più grandi dallo
scambio commerciale con gli USA che con qualsiasi altro partner (22.7
miliardi di euro nel 2003, dunque più di un sesto dell'intero
ammontare dei ricavi dell'export tedesco). (4)
La dipendenza indiretta è ancor più grande, perché il mercato mondiale
nel suo complesso dipende dalla domanda degli USA. La Repubblica
Popolare Cinese, ad esempio, che lo scorso anno ha acquistato tre
volte più merci dalla Germania di quanto non facesse dieci anni fa, si
procaccia la valuta necessaria per questi acquisti attraverso le sue
crescenti esportazioni verso gli USA.
Nella competizione mondiale tra le economie nazionali, è il capitale
tedesco - che è molto produttivo e non è affetto dal deficit di quello
statunitense - ad ingaggiare una concorrenza rigorosa ed aggressiva. A
questo proposito, il segretario di Stato alle Finanze Heiner Flassbeck
(SPD), ora caduto in disgrazia, disse: "Si trasferisce sulle nazioni
la concezione della concorrenza tra imprese. Questo è pericoloso. Una
impresa può scacciare dal mercato un'altra impresa, ed il risultato
può essere positivo per la società. Ma la corsa tra gli Stati, a
diminuire tasse e salari, non porta alcuno Stato ad uscire dalla
competizione. Stati ed economie nazionali non spariscono dai mercati
mondiali come le imprese, che falliscono o vengono inghiottite da
quelle più grandi. Dunque, o vengono foraggiate dai 'vincitori' (come
nel caso della Germania Est) oppure tendono a difendersi con gli
stessi metodi, e cioè: svalutano le proprie valute, oppure si ritirano
nel classico metodo di ritorsione mercantile, il protezionismo." (5)
Traendo le estreme conseguenze da questo ammonimento dell'esperto
socialdemocratico di finanza, arriviamo a riconoscere l'interesse
strutturale dell'economia tedesca per la guerra. Che cosa succede
quando uno Stato concorrente, in posizione subordinata, non si lascia
inghiottire volontariamente dal vincitore, come fece la DDR? Che cosa
succede, se si mette a difendere la propria autonomia, ad esempio
attraverso i dazi, i controlli sulla introduzione di capitale, le
nazionalizzazioni o la difesa della propria industria contro
l'acquisizione straniera? Ecco allora che lo Stato-canaglia viene
riportato alla ragione con mezzi militari, e la sua economia viene
soggiogata con la guerra.
Per questa ragione la Germania non nutre alcun dissenso di principio
rispetto agli USA e ad una politica militare globale. Ma conflitti di
interessi possono sorgere in casi specifici, perché le forze motrici
della politica delle cannoniere nei due Stati sono diverse. La spinta
aggressiva del capitale monopolistico tedesco deriva dalla sua
situazione largamente favorevole, e consiste - come per l'impero
guglielmino durante la Prima Guerra Mondiale - nella ricerca di nuovi
mercati e sfere di influenza. La politica aggressiva dei monopoli
statunitensi, invece, è piuttosto il risultato di una situazione di
forte disavanzo, per cui essi cercano - come fu per l'economia tedesca
nella Seconda Guerra Mondiale - di coprire la propria massa fittizia
di capitale rapinando materie prime e valuta.
Quando gli USA - come nel caso dell'Iraq - attaccano mercati già
tedeschi, Schröder, il "compare del boss", si sporge dalla finestra e
vince la campagna elettorale annunciando una cosiddetta "via speciale"
tedesca. Tuttavia egli non può mettere in questione il ruolo della
Germania come snodo e retroterra logistico della aggressione, perchè
una sconfitta americana sarebbe ancor meno nell'interesse tedesco di
quanto non lo sia questa guerra: come possono infatti le esportazioni
tedesche trovare degli acquirenti sul mercato mondiale, se il dollaro,
a causa di una disfatta militare dei garanti del dollaro, diventa un
pezzo di carta senza valore?
Una politica di pace tedesca dunque non è concepibile sulla base dello
status quo economico. Fintantoché il potere del capitale di
esportazione non si spezza, i suoi interessi saranno sempre difesi in
Afghanistan come su altri fronti analogamente distanti. Ma questo, al
contempo, significa anche che ogni passo verso il rafforzamento della
domanda interna - e cioè per salari più alti, pensioni e servizi
sociali - implicherebbe una svolta della politica estera. In questo
senso i sindacati, che potrebbero (dico: potrebbero) opporsi allo
sfascio sociale e salariale, rappresenterebbero la forma migliore di
movimento per la pace.
D: Perchè gli USA e la Gran Bretagna hanno aggredito l'Iraq? La
situazione economica interna statunitense ha davvero tanto a che fare
con questo, come hai sostenuto nel tuo libro?
R: Negli scorsi tre anni la valuta statunitense ha perso il 35 per
cento del suo valore rispetto all'euro ed il 24 per cento del suo
valore rispetto allo yen giapponese. Solo dall'ottobre scorso
l'ammontare della perdita è di circa il 7 per cento [fino a marzo
2005, ndt]. Se facciamo un paragone storico, prendendo il marco
tedesco al posto dell'euro, la moneta degli yankee si è svalutata
rispetto a quella dei crucchi dei due terzi a partire dal 1960.
All'epoca per il biglietto verde si dovevano pagare 4 marchi, mentre
oggi ne basterebbero circa 1,30. (6)
Causa principale di questa evoluzione è la debolezza della economia
americana. Le merci che questa produce sono tanto scadenti o tanto
costose che non riescono a piazzarsi sul mercato mondiale. Poiché gli
export statunitensi difficilmente trovano un mercato all'estero, e
persino all'interno vengono preferiti ad essi dei prodotti stranieri,
nella bilancia dei pagamenti esteri degli USA si é aperto un buco
sempre più grande. La sua crescita è esponenziale: nel 1992 si
trattava di 50 miliardi di dollari, nel 1998 di 245 miliardi, nel 2000
di 435, (7) per l'anno 2004 si pronosticavano 600 miliardi e per il
2006 ben 825 miliardi di dollari di deficit - più dell'otto per cento
del prodotto interno lordo annuale (PIL). (8) Per confronto, si
consideri che in Germania l'8 per cento del PIL corrisponderebbe ad un
saldo commerciale negativo di circa 130 miliardi di dollari USA;
viceversa, il commercio estero tedesco nel 2003 ha registrato un
positivo di 135 miliardi di euro.
Per il finanziamento delle importazioni, la Banca centrale
statunitense ha emesso moneta aggiuntiva, e tanto pubblici quanto
privati hanno prodotto titoli con buon tasso di interesse ed altri
buoni, che sono stati acquistati dall'estero. Al contempo, in questa
maniera, insieme al deficit con l'estero anche l'indebitamento degli
USA verso l'esterno è cresciuto. Al termine degli anni Settanta gli
USA erano creditori verso l'esterno per un ammontare netto di 20
miliardi di dollari; nel 1982 questi crediti, con 231 miliardi,
avevano raggiunto il loro massimo. Tuttavia, poco dopo sopraggiunse la
svolta e le cifre negative: a partire dal 1985 sono gli USA - Stato,
economia e privati - ad essere debitori verso l'estero. Nel settembre
2001 il debito lordo ammontava a 7815 miliardi di dollari, che - pur
corretti dei propri crediti verso l'estero - si traducono in tutti i
casi in un indebitamento netto residuo di 3493 miliardi di dollari.
(9) Rispetto ad un PIL che negli USA ammonta a circa 10mila miliardi
di dollari, il debito estero corrisponde a quasi il 35 per cento. Si
noti, per paragone, che la DDR, nell'ottobre 1989, fu dichiarata in
bancarotta da un gruppo di lavoro del Politbüro perché aveva
un'indebitamento verso l'occidente pari a 49 miliardi di marchi in
valuta: vale a dire solo il 16 per cento del PIL della DDR. (10)
Il presidente Bush ed il capo della FED, Alan Greenspan, devono avere
la stessa paura che ebbero Hitler, da cancelliere del Reich, ed il suo
banchiere Hjalmar Schacht: e cioè che la bolla inflattiva monetaria
non esplode solo fintantoché le proprie truppe riportano vittorie su
vittorie. Per il dollaro (e per tutte le valute che da questo
dipendono) vale oggi quello che valeva per il Reichsmark durante la
Seconda Guerra Mondiale: i creditori credono al valore stampato sulle
banconote solo finché chiunque sempre ed in qualsiasi posto può essere
costretto con la violenza militare a scambiare quella carta con delle
merci. Tanto più l'economia USA scivola in rosso, tanto più aggressiva
deve agire la politica estera statunitense.
Se valesse la legge dell'offerta e della domanda, il dollaro sarebbe
precipitato molto più in basso, da tempo. Già da due anni, i ricchi
stranieri ed i fondi privati internazionali ritirano capitale dai
depositi in dollari, e solo l'acquisto sempre crescente di valuta USA
da parte delle banche nazionali di Tokio e di Pechino sostiene ancora
il biglietto verde. Giapponesi e cinesi con questa politica vogliono
mantenere forte la valuta USA e deboli le loro, allo scopo di rendere
competitive le loro esportazioni nello spazio del dollaro. Ma quanto a
lungo potranno ancora permettersi di sciupare i loro buoni soldi con
quelli cattivi americani?
La fine del dollaro come valuta mondiale sarebbe raggiunta qualora il
commercio internazionale di petrolio non si fondasse più sul dollaro.
L'Iraq era stato precursore di questo sviluppo. Alla fine del 2000,
Saddam Hussein aveva convertito la fatturazione delle esportazioni di
petrolio iracheno in euro. Questa scelta è stata invertita dopo la
conquista dell'Iraq da parte degli USA. Anche altri Stati, che vengono
minacciati dagli USA, sono tentati di convertire le esportazioni di
petrolio sulla base dell'euro. Si ragiona in tal senso in Venezuela,
paese dal quale provengono un quarto delle importazioni di petrolio
statunitensi, nonché in Russia. Nell'ottobre 2003, il Moscow Times
pubblicò un articolo intitolato: "Putin: perché non misurare il
petrolio in euro?" Già alla fine del 2002 la Corea del Nord passava
dal dollaro all'euro. È dall'anno 2003 che l'Iran chiede che i conti
per le forniture di petrolio, calcolati in dollari USA, vengano pagati
in euro. In precedenza Teheran aveva già convertito la gran parte
delle sue riserve di valuta in euro: uno sviluppo che è cominciato
anche in Russia.
Perciò, tanto in Iraq come negli altri Stati sopra menzionati, anche
essi minacciati di guerra, non si tratta di "sangue per il petrolio"
quanto piuttosto della difesa della capacità di pagamento da parte
degli USA, cosa per la quale d'altronde il controllo sul petrolio non
è comunque irrilevante. In ultima analisi tuttavia non si tratta tanto
di guerra per le risorse, quanto piuttosto di un conflitto tra le
valute - dollaro contro euro.
Il collasso economico deve dunque essere impedito con misure di
carattere extra-economico. A questo proposito, la rivista di Monaco
"Gegenstandpunkt" ha scritto: "È come se Bush ed i suoi combattenti
contro il terrore volessero sostituire la 'Legge del valore'
capitalistica con una vittoria strategica planetaria che si sono
prefissi e che vogliono conquistare in combattimento, fino a
sbarazzarsi di quella 'Legge' in questo modo." (11) Ma questo
chiaramente non può funzionare: "Ma che vuol dire questo - in un mondo
che comunque... non viene governato da chi conosce la 'Legge del
valore' bensì da maschere recitanti." La volta scorsa, questo
esperimento osceno è costato la vita a circa 60 milioni di persone.
D: Nel tuo libro hai scritto: "Un campo di battaglia decisivo è stata
la Jugoslavia, e precisamente nei due sensi: lì gli USA hanno condotto
una guerra calda contro i serbi, ed una guerra fredda contro i
tedeschi. In effetti la Germania aveva appoggiato i secessionisti
albanesi ben prima degli USA (...) Ma la guerra vera e propria era un
progetto di Washington, e la frammentazione ne è stata la conseguenza
- sia per la Jugoslavia che per l'Europa. Perciò l'aviazione USA ha
bombardato obiettivi scelti nella provincia della Vojvodina, nel nord
della Serbia, senza con questo causare alcun disturbo alle manovre
militari nella provincia meridionale del Kosovo. Invece, lassù sono
stati distrutti i ponti sul Danubio e così è stata paralizzata - fino
ad oggi - un'arteria decisiva per il traffico tra l'Europa centrale ed
il Mar Nero."
La bombe sui ponti del Danubio e sulle industrie chimiche, e
l'occupazione occidentale del Kosovo e della Macedonia, hanno dunque
anch'esse qualcosa a che vedere con il petrolio e con gli oleodotti?
R: Una parte del petrolio del Caspio - laggiù ci sono le seconde
riserve mondiali - dovrebbe essere trasportata attraverso il Mar Nero.
Nel porto bulgaro di Burgas essa dovrebbe poi essere pompata
all'interno di un oleodotto del consorzio AMBO, controllato dagli USA,
che attraverso i territori albanesi della Macedonia e forse del Kosovo
condurrebbe fino al porto albanese di Vlora, sul Mediterraneo. Un
contratto in questo senso è stato sottoscritto alla fine del Dicembre
2004 a Sofia tra AMBO e gli Stati interessati. Il londinese Guardian
ha scritto in proposito: "Per l'Occidente questa sarebbe probabilmente
la rotta più importante per il petrolio e per il gas naturale che
adesso vengono procurati in Asia. 750mila barili al giorno: un
progetto necessario, secondo l'agenzia statunitense per il commercio e
lo sviluppo, perché... assegna alle imprese USA un ruolo-chiave nello
sviluppo di questo corridoio vitale tra l'Oriente e l'Occidente." (12)
Il britannico Michael Jackson, primo comandante della KFOR [forza
internazionale a guida NATO, che ha preso il controllo del territorio
del Kosovo dopo i bombardamenti, ndt], ha spiegato il legame diretto
con la occupazione dei Balcani da parte della NATO: "Di sicuro, noi,
qui, resteremo a lungo, per garantire la sicurezza dei corridoi
energetici che passano attraverso la Macedonia." (13)
Le bombe sulla Vojvodina hanno interrotto il corridoio concorrente
della UE, che dovrebbe servire a pompare il petrolio del Caspio
attraverso la Romania verso il porto mediterraneo di Rijeka/Fiume e
nell'oleodotto transalpino verso Austria e Baviera.
D: Che cosa significa il recente litigio per i nuovi seggi nel
Consiglio di Sicurezza dell'ONU?
R: Questa vicenda mostra nel migliore dei modi la insensatezza della
politica tedesca dalla Guerra irachena in poi. da una parte si
vorrebbe controbilanciare la potenza USA; ma al contempo non si vuole
rompere con gli USA in nessun caso. È la quadratura del cerchio.
Concretamente: se la Germania non avesse fatto blocco con il Giappone,
essa avrebbe potuto guadagnare l'appoggio di Mosca e di Pechino, e
dunque la maggioranza dei voti nella Assemblea Generale. Ma il
Giappone, strumento asiatico degli USA, doveva per forza essere
coinvolto - e perciò il fallimento era prevedibile. Lo scontro tra
Germania ed Italia in sede ONU è stato perlomeno una divertente "lotta
nel fango": alla fine si sono insozzate entrambe, come era logico.
L'esito (inconcludente) è in fondo positivo per chi si oppone alla
guerra, da Roma a Berlino.
D: Come è stato accolto in Germania il rifiuto del progetto di
Costituzione Europea da parte della Francia?
R: La Bild Zeitung - che con 4 milioni di copie ogni giorno è il
quotidiano più diffuso [si tratta di un tabloid di impostazione
scandalistica, ndt] - ha svolto subito dopo un sondaggio telefonico
sul tema della Costituzione Europea. Ebbene, 390mila lettori hanno
voluto partecipare, esprimendosi per il NO nella misura del 96,9 per
cento! Ma che cosa fa il Cancelliere Schröder? Annuncia, venendo meno
alle sue promesse, che la Germania aumenterà le sue contribuzioni per
la UE - dunque, ancora la minestra che è stata appena rifiutata...
Quando mai un governante è stato tanto lontano dai suoi sudditi?
D: Si parla di un asse Berlino-Parigi-Mosca, ma il tuo libro dimostra
che la posizione tedesca in realtà è contraddittoria. Forse che
l'imperialismo francese è un avversario più coerente dell'imperialismo
statunitense?
R: La Germania economicamente dipende dagli USA, la Francia invece
dipende dalla Germania. Un blocco europeo indipendente è concepibile
solo se la linea Parigi-Berlino viene prolungata fino a Mosca. Il
fondamento di questa alleanza è la ricchezza russa in termini di
petrolio e gas naturale, che potrebbe emancipare l'Europa occidentale
dai rifornimenti nelle aree di conflitto tra Africa settentrionale ed
Asia centrale. Ma, al di là di certe le versioni oleografiche, bisogna
tenere presente che questo asse non sarebbe un asse di pace. Nel mio
libro si fa vedere chiaramente come Berlino ha conseguentemente
rafforzato la sua posizione di potere in Europa sud-orientale ed
orientale tanto sotto Kohl quanto sotto Schroeder, e questo spesso
giocando con rappresentazioni revansciste e facendo uso dei suoi mezzi
militari. Ogni impedimento, che fosse di carattere costituzionale o
relativo alla Carta dell'ONU, è stato allegramente accantonato. Il
capitale tedesco domina dall'Atlantico fino agli Urali.
Se l'esportazione tedesca di merci e di capitali si rivolgesse verso i
nuovi partner dell'alleanza anzichè verso l'America, questi potrebbero
sostenere l'impatto? Che cosa succede nel momento in cui questo
colosso centroeuropeo diventa determinante nelle scelte della Force de
Frappe [l'esercito francese, ndt], oppure: e se la Russia si mette a
costruire gli aerei da trasporto per le truppe tedesche (che il
ministro delle Finanze Hans Eichel fino ad ora non ha potuto
finanziare)? Putin potrebbe opporsi se la Deutsche Bank volesse
comprare Kaliningrad - come fu proposto già nel 1989 da Alfred
Herrhausen - e ribattezzarla Koenigsberg? Ed in questa situazione, che
cosa ne sarebbe dei piccoli Stati centroeuropei, che sono comunque
dipendenti economicamente dalla Germania e sono sottoposti alla
pressione delle lobby revansciste dei profughi? (*)
D: Ti consideri dunque un sostenitore oppure un oppositore del modello
eurasiatico, cioè di questo asse Parigi-Berlino-Mosca?
R: I pericoli che ho appena elencato rappresentano delle minacce solo
a medio termine. A breve termine la Germania è costretta a mantenere
gli equilibri nella costellazione Parigi-Berlino-Mosca, e senza la
"copertura" statunitense non avrebbe la forza di esercitare pressioni.
Da quando Schröder si confronta con Bush, deve allo stesso tempo
cedere a Chirac sulle politiche europee: l'esempio più eclatante di
questo è nell'aver sacrificato il Patto di Stabilità. I criteri che
esso fissava per regolare i conti domestici erano stati usati
inizialmente dalla Germania contro la Francia ed il Club
Mediterranée" (così lo aveva chiamato l'allora Ministro delle Finanze
Theo Waigel), per costringere questi paesi ad una rigida politica di
risparmio secondo il modello tedesco.
Se la Germania rimanesse dalla parte dell'America, la conseguenza
immediata sarebbe una marcia comune verso ulteriori guerre: Iran,
Siria, Arabia Saudita, Corea del Nord, Cuba, ed alla fine persino
l'aggressione contro la Russia o la Cina, il che vorrebbe dire la
guerra atomica.
Se le crociate di Bush falliscono, l'economia statunitense soffre di
una crisi ulteriore e, di conseguenza, non può più assorbire le
esportazioni europee, allora si potrebbe affermare l'opzione
eurasiatica. Ma se questo non avviene secondo un piano ed in maniera
graduale, bensì precipitosamente e come conseguenza di sviluppi
catastrofici sui campi di battaglia o sulle borse, allora le elites
politico-militari eurasiatiche finirebbero con l'impigliarsi in
contraddizioni e contrasti.
Ma anche nel caso più favorevole ci vorrebbe comunque molto tempo
prima che una blanda intesa si consolidi in un blocco militare
alternativo, il quale allora potrebbe perseguire a sua volta degli
obiettivi in maniera aggressiva. Bisogna tenere presente la difficoltà
con cui si vanno costruendo delle strutture di difesa per l'Unione
Europea. Una rottura nell'Alleanza Atlantica comporterebbe pesanti
turbolenze anche all'interno dell'Unione Europea nella forma in cui la
conosciamo adesso - sotto il fuoco di sbarramento dei governi
filoamericani, una integrazione, ed in particolare una integrazione
militare, potrebbe procedere ancor meno di adesso. Se poi pensiamo
alla Russia, con la sua tradizione e la sua geopolitica completamente
diverse, ci facciamo un quadro delle difficoltà che una eventuale
nuova alleanza dovrebbe affrontare sin dalla nascita.
In generale possiamo dire: la politica aggressiva che la Germania ha
perseguito sin dalla riunificazione, è stata messa in atto di norma
con l'appoggio o sotto la copertura degli USA - e contro
l'opposizione, aperta o mascherata, di Parigi o di Mosca o di
entrambe. Se Berlino si impegnasse in una alleanza con queste potenze,
allora sarebbero indispensabili correzioni e compromessi in politica
estera.
Un allontanamento dall'America causerebbe anche sconvolgimenti nel
panorama politico interno. I Verdi probabilmente farebbero fronte al
meglio alla nuova situazione, adattandosi in modo flessibile a
qualsiasi cosa come hanno fatto sempre negli ultimi anni, ed
acquisendo così potere e risorse. Però per la Unione [CDU-CSU] la cosa
potrebbe essere drammatica, perchè esiste già una minaccia di
scissione tra un'ala atlantista ed una gollista. Analogamente, anche
la FDP potrebbe spaccarsi in una frazione globalista-neoliberale ed in
una europeista-nazionale. Nella SPD avrebbero perso tutti gli
argomenti contro Lafontaine, che è da sempre più vicino a Parigi che
non a Washington, o a Berlino addirittura.
In questa atmosfera turbolenta ed in vista dello scioglimento dei
campi politici tradizionali, una terza posizione avrebbe qualche
possibilità di affermarsi: la finlandizzazione o, per meglio dire, la
ellenizzazione del continente. Il rapporto Parigi-Berlino-Mosca non
come nucleo di un asse militare, bensì come nodo di una rete di pace
eurasiatica. Nessuna corsa agli armamenti, ma piuttosto un disarmo
generalizzato; nessun intervento in giro per il mondo, bensì il ritiro
delle truppe; i profitti di pace verrebbero usati per l'economia
civile, per la formazione e per la cultura; la Jugoslavia distrutta
dalla guerra ed i paesi dell'Est sprofondati nella miseria dal
neoliberalismo sarebbero ricostruiti. Un'area di pace da Brest fino a
Vladivostok... Una federazione di repubbliche sovrane, così come
l'antica Grecia era una federazione di libere città - la vecchia
Europa nella sua forma più bella. A Pietroburgo o piuttosto a
Leningrado, punto di intersezione storico tra l'Est e l'Ovest,
potrebbe riunirsi il Parlamento di questa federazione! Una simile
unione di Stati non minaccerebbe nessuno. Anche l'America dovrebbe
sentirsi non più sfidata e potrebbe ritornare alle sue virtù
isolazioniste. Atene e Roma si riconcilierebbero. È possibile una cosa
simile nell'ordine economico dominante? No, ovviamente essa è
possibile solo contro di esso. In ogni caso, in Germania lo status quo
è non solo nell'interesse del complesso militare-industriale, ma anche
nell'interesse generale del grande capitale. Per il suo orientamento
alle esportazioni senza frontiere essa ha bisogno di sicurezza
militare. Ma noi, cittadine e cittadini, dobbiamo vivere per questo in
continua apprensione di guerra?
La "via speciale" tedesca, percorsa sin dalla riunificazione in
alleanza con gli USA, è una via verso la catastrofe. Una rottura con
l'America è l'offerta del minuto. Il paese tra il Reno e l'Oder
potrebbe finalmente trovare la pace mettendosi alla pari con i suoi
vicini all'Est ed all'Ovest.
(a cura di A. Martocchia)
NOTE:
(1) Karl Marx, "Einleitung zur Kritik der Hegelschen
Rechtsphilosophie", pag.224
(2) isw-Wirtschaftsinfo Nr. 34, München 2002, pag.12
(3) Vedi: DIW-Wochenbericht 10/2003
(4) Bmwa, Entwicklung des Außenhandels der Bundesrepublik Deutschland
2003 ("Sviluppo del commercio estero della RF di Germania nel 2003")
(5) Lafontaines letzter Kampf" ("L'ultima battaglia di Lafontaine"),
in: Konkret 11/1999 (www.konkret-verlage.de)
(6) The passing of the buck?, in: The Economist , 2.12.2004
(7) Kreditanstalt für Wiederaufbau, Das Leistungsbilanzdefizit der
USA eine Gefahr für die Weltwirtschaft? ("Il deficit di bilancio USA
- un pericolo per l'economia mondiale?"), Frankfurt/M. 1999
(8) The disappearing dollar, in: The Economist, 2.12.2004
(9) Dati della Banca Centrale USA, accessibili da: www.federalreserve.gov
(10) Siegfried Wenzel, vice presidente della Commissione per la
pianificazione della DDR: "La DDR non era in bancarotta", in Konkret
10/1999; Wenzel ritiene che la cifra di 49 miliardi di marchi in
valuta sia eccessiva, e che sia stata usata dai riformisti della SED
solo per far cadere Ulbricht
(11) "Gegenstandpunkt" 3/2002
(12) Vedi Michel Collon, Après le Kosovo, la Macédonie, testo fatto
circolare in internet il 15.3.2001
(13) Michel Collon, ibidem
(*) Si pensi alla questione dei Sudeti per la Repubblica Ceca, alla
Slesia ed alla Pomerania per la Polonia, o agli "svevi danubiani" che
agitano le loro rivendicazioni sulla Vojvodina e sulla Romania,
analogamente a quanto fanno gli esuli italiani di Istria e Dalmazia ai
danni di Slovenia e Croazia. (ndt)
SCHEDA: JÜRGEN ELSÄSSER
Jürgen Elsässer, giornalista e saggista, esperto di politica
internazionale, lavora per diversi periodici della sinistra di lingua
tedesca, tra i quali il quotidiano di Berlino "Junge Welt" ed il
settimanale "Freitag". Elsässer ha scritto una dozzina di libri su
questioni di politica estera, specialmente incentrati
sull'imperialismo tedesco e sui retroscena della distruzione della
Jugoslavia. Questo autore è conosciuto in Italia in particolare per
"Menzogne di Guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel
conflitto per il Kosovo" (Napoli, La Città del Sole, 2002; versione
italiana di "Kriegslügen - Vom Kosovokonflikt zum Milosevic-Prozess",
edito da Kai Homilius Verlag, Berlino, ultima edizione aggiornatissima
2004): si tratta di uno dei pochissimi testi editi nel nostro paese a
proposito della disinformazione strategica sulla guerra nei Balcani e
sui crimini di guerra della NATO. Elsässer è stato varie volte di
recente nel nostro paese, su invito del Coordinamento Nazionale per la
Jugoslavia, per presentare i suoi libri in una decina di iniziative
pubbliche. L'ultima occasione, la scorsa primavera, è stata data dalla
presentazione del suo lavoro più recente, "Come la Jihad giunse in
Europa. Combattenti di dio e servizi segreti nei Balcani".
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Ulteriori informazioni ai siti:
http://www.juergen-elsaesser.de
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/roma290305.htm