SLOBO VIVE!

I SERBI ASPETTANO, LA SINISTRA ITALIANA RANTOLA. (E “IL MANIFESTO”???)

In morte di Slobodan Milosevic, nell’anniversario del crimine Nato

MONDOCANE FUORILINEA

14/3/06

di Fulvio Grimaldi


Ho tra le mie foto più preziose, sopra il televisore, una con Slobodan
Milosevic. Siamo a casa sua, la residenza di Stato del presidente
della Jugoslavia, ormai “Piccola Jugoslavia”, sulla collina di Dedinje
in vista del Danubio ed è il 27 marzo 2001. Fuori dalla villa, amici e
militanti del Partito Socialista contengono una piccola folla che
sbraita contro colui che ormai è l’ex-presidente, destituito più che da
un voto manomesso fino a bruciarne le schede, dal pogrom di un’
organizzazione finto-nonviolenta e paramilitare, “Otpor”, finanziata ed
addestrata dalla Cia e dal brigante della speculazione finanziaria e
del narcotraffico George Soros. Tre giorni più tardi queste bande e i
loro padrini internazionali l’avranno vinta. Milosevic verrà arrestato
e, qualche mese dopo, consegnato per 30 milioni di dollari, trenta
denari, agli sgherri di un tribunale-farsa istituito all’Aja dal
governo Usa con la firma del notaio Kofi Annan ed affidato a fiduciari,
rinnegati dell’ordine giudiziario, come le “procuratrici” Louise
Harbour e Carla Del Ponte. Lo venderà ai suoi mandanti il capomafia e
Primo Ministro Zoran Djindjic, colui che aveva consegnato ai
bombardieri della Jugoslavia le mappe con gli obiettivi da colpire:
raffinerie, industrie, ponti, ferrovie, ma soprattutto case, scuole,
ospedali, gente: 10.000 vittime per 78 giorni di intervento umanitario
contro una totalmente inventata “pulizia etnica” in Kosovo. Con sulla
torre di controllo, in primissima fila, Massimo D’Alema (Non pago del
bagno di sangue jugoslavo, rilancia ancora oggi: “E’ giusto espandere
la democrazia anche con la forza”).

Guardo quella foto mentre, sotto, lo schermo tv è percorso da immagini
falso-vere di una logora propaganda umanitaria e percosso dall’eloquio
nevroticamente sincopato, di una corifea di tutti gli “interventi
umanitari”, Giovanna Botteri del Tg3. Una che ricordiamo stracciarsi le
vesti e annunciare macelli, possibilmente di bambini sventrati e di
turbe in stracci messe a fuoco, che si trattasse della Jugoslavia, o
dell’Iraq, con pari dedizione saprofita. Segue un'altra stampella
delle ragioni per l’ “intervento umanitario”, Ennio Remondino, che,
ricordando un gabbamondo da tavolino con le tre carte, con supponenza
elargisce e mescola “il despota Milosevic”, “il presidente democratico
Djindjic”, i cattivi bombardamenti Nato e i cattivissimi nazionalisti
serbi. Intanto mi premono sullo stomaco, forse un po’ come quell’ultimo
pasto avvelenato rifilato a Milosevic per stroncarne l’esito vittorioso
sugli avvoltoi del tribunale-postribolo, la parole tossiche, passate e
presenti, di altri eroi del cerchiobottismo, becchini della Jugoslavia
e della verità che, con piagnistei equamente distribuiti tra carnefici
e vittime, sono stati anche più efficienti nell’apparecchiare la
sepoltura di un nobile paese. Il dolore per la morte da assassinio di
quest’ uomo, senza retorica figura da tragedia greca, si mescola con
rabbia, indignazione, ripugnanza e ne viene quasi temperato.Non mi
riferisco alla grande stampa della borghesia, dall’Unità a Libero, da
Ferrara a Mieli. Fetecchie da “macellaio dei Balcani”, o ”
Hitlerosevic”. Chissenefrega, quelle sono le voci del padrone, fanno il
loro mestiere di ruffiani.. La loro dimensione è la menzogna
strutturale, ontologica, in sintonia con il potere che servono e,
sempre più spesso, sono. Nella nostra guerra stanno con ogni evidenza
dall’altra parte della trincea. Non c’è scandalo. La collera e il
disprezzo sono tutti per coloro che, dicendosi a sinistra, per la pace
e per gli oppressi, pretendono di elargirci verità e che, facendo
slittare sotto la commiserazione per le vittime (purchè inermi e non-
violente) i paradigmi dei carnefici, strategicamente questi puntellano
e agevolano.

Guardo la foto e la memoria srotola il filo della storia di un
avvicinamento a Slobo che parte dal 24 marzo e termina pochi istanti
dopo lo scatto di quell’immagine. Dopo aver sbranato oltre metà della
Jugoslavia, in parte anche grazie alla collaborazione di “pacifisti”
come Adriano Sofri, Alex Langer, Costruttori di pace, settori
cattolici, ongisti voraci e semplicemente fessi, fondata sull’assenso
agli inganni della guerra psicologica, nella notte tra 23 e 24 marzo le
classi dirigenti europee e nordamericana si apprestano alla soluzione
finale. La mattina del 24 marzo, a garanzia delle retrovie, insieme
alla Nato entra in guerra il Tg3, il canale “di sinistra”, cosiddetto
Telekabul, ma anche, a buon titolo, Telepapa (fin da quando un papa
ultrareazionario e guerresco aveva sobillato i neofascisti – ma
cattolicissimi – croati contro la federazione ancora ostinatamente
socialista). La donna-cannone è Botteri, il direttore del circo è Ennio
Chiodi, democristosinistro. Ci si dice, in riunione di redazione, da
che parte stare, ci si accalora sul “dittatore”, su “pulizia etnica”,
“ondate di profughi” e dunque, appunto, sull’ “intervento umanitario”.
Tutti annuiscono, il tavolo della riunione pare un carillon. Armiamoci
e partite. Da quel giorno non ho più messo piede in RAI, al Tg3. Di
decente c’erano rimasti solo gli operatori e i montatori, anche perché,
bravi per conto loro, non devono il pane a nessuna ruffianeria. E pochi
giorni dopo partii, con la prima delegazione dalla parte degli
aggrediti e tanto di telecamerina, per Belgrado, quella delle macerie,
della morte, della fame, della sfida-sfottò dei “target” sui ponti. Si
doveva passare da Austria e Ungheria, farsi taglieggiare dai rispettivi
doganieri, scendere sotto le bombe per la Voyvodina a Novi Sad. Gli
sgherri razzisti di Tudjman, cari al papa, non permettevano il
passaggio. Chi frequentava i serbi era infetto per l’Occidente intero.
Ci accompagna e assiste un piccolo partito comunista. Attraversiamo l’
inferno, la resistenza, la quinta colonna (che la “dittatura” lasciava
agire e ci aveva permesso di incontrare apertamente in piena Belgrado),
fino al geno-ecocidio programmato di Pancevo e di Zastava. I serbi non
si piegavano e non c’è momento più alto nella vicenda europea dopo la
liberazione partigiana – quella che tedeschi e statunitensi riuniti
intendevano vendicare – che quella, fortunosamente ripresa dai miei
documentari, delle legioni di uomini e di donne, veri combattenti con l’
arma nucleare della dignità, che sul Ponte Branco di Belgrado, sera
dopo sera, facevano svettare bandiere jugoslave, cartelli “target” sul
cuore, canti di orgoglio, incriminazione e resistenza, contro gli
strumenti tonitruanti degli stragisti Clinton, Schroeder e il
chierichetto col botto D’Alema.

A Novi Sad i ponti erano stati sbriciolati, la raffineria s’inceneriva
nell’uranio, la terra si scuoteva per terremoti da bombardamenti. A
Belgrado il cielo si apriva ai terminator con la chimica della guerra
meteorologica. Una volta, a Kragujevac tre missili ci mancarono di 80
metri. Mi è rimasta impressa la temeraria calma del compagno di
viaggio, Raniero La Valle. Una notte scampammo alla sorte dei neonati
a cui le bombe avevano spento le incubatrici, fuggendo dall’albergo e
dai pressi dell’ambasciata cinese in fiamme, con dentro tre morti,
mentre D’Alema e compari ammazzavano, nel nome della libertà di stampa,
16 giornalisti e tecnici della televisione serba (mai annoverati tra le
sue vittime dall’associazione mercenaria Reporters Sans Frontieres). A
Pancevo, la città della chimica e del petrolio, D’Alema e sodali
avevano fatto in modo che le nubi e i liquidi tossici, sprigionati dai
loro esercizi di sfoltimento dell’umanità, da aria, terra e acque
pervadessero, fino a corromperli, vita e futuro di generazioni. A
Kragujevac, la più grande industria dei Balcani era un ammasso
uranizzato di macerie e di storia operaia. Ma c’erano ancora, dopo i
missili e nell’uranio, gli scudi umani che avevano sfidato, inanellati
attorno agli stabilimenti, la foja assassina degli umanitari. Ci
avrebbero messo appena un anno a rimettere in piedi gran parte della
fabbrica. Non solo quella. Tornammo un anno e mezzo dopo: due ponti di
Novi Sad erano risorti, la Zastava era tornata a far correre due linee
di montaggio. Nell’inedia e nel gelo delle sanzioni, tra le macerie
delle loro case (ma migliaia erano già state ricostruite), con i corpi
ancora caldi delle vittime sezionate dalle bombe a grappolo a Nis e in
tanti altri posti, con il sangue avvelenato dalla guerra chimica, i
serbi erano rivissuti per orgoglio e per vendetta. Nessuno pensava
alla resa. “Serbi da morire!” titolai il documentario.

Sotto il controllo di un presunto “dittatore”, alla faccia degli
infiltrati, dei demonizzatori, di morte e rovina, dei governanti
avversi che le libere elezioni del “despota” avevano installato nelle
maggiori città del paese, nonostante il sabotaggio al servizio del
nemico di una stampa al 90% in mano all’opposizione filo-imperialista,
la Jugoslavia di Slobodan Milosevic aveva retto e si stava aggiustando
addosso i vestiti laceri.. A scandalo di una sinistra italiana
miseramente subalterna, avevo potuto scrivere su un giornale serbo
“Meglio serbi che servi”. Quella “sinistra” preferiva fraternizzare con
i sedicenti oppositori “democratici” di Radio B-92, della televisione
di Vuk Draskovic (oggi ministro agli ordini di Solana), “Studio B”,
entrambi del circuito europeo Cia di “Radio Liberty”, entrambi
foraggiati da George Soros, con un’alleanza civica assetata di libero
mercato, garantita da pretoriani Nato, chiamata “Zayedno” Ma,
soprattutto, si era gemellata con l’altra articolazione Cia, il mix
sottoproletari-fichi dei quartieri alti di “Otpor”, appena reduce da
corsi di eversione tenutigli a Budapest e a Sofia da generali Usa.
Eversione “non-violenta” fino al rovesciamento del governo legittimo,
ma violentissima dopo, nell’occupazione delle istituzioni, nell’
epurazione a bastonate e omicidi di sindacalisti, politici di sinistra,
giornalisti onesti, maestranze non vendute. Quando questa coalizione
del cialtroname opportunista e rinnegato colmò la piazza di Belgrado e
poi invase il parlamento per bruciare le schede che avevano dato, nel
settembre 2000, la vittoria alle sinistre, i miei reportage dal campo
venivano cestinati dal redattore capo di Liberazione, Salvatore
Cannavò. Cestinò anche le mie interviste ai capi di Otpor che esibivano
grande fierezza per essere i fiduciari “dell’intelligence di una grande
paese come l’America” e dichiaravano di auspicare l’avvento di una
“democrazia all’americana” in cui una “manodopera a basso costo serba
avrebbe fatto la fortuna delle multinazionali americane” e la si
sarebbe fatta finita con la “demagogia della garanzia del lavoro,
della sanità e dell’istruzione gratuite e per tutti”. Il compagno
trotzkista Cannavò fu invece svelto a invitare “i compagni di Otpor”
agli appuntamenti no-global.

Tornai ancora a Belgrado, quando tutto era davvero finito. I serbi, la
Jugoslavia, l’Europa, la pace, la verità avevano perso. Si poteva
espandere a macchia di vetriolo, senza più oppositori, l’infame inganno
di una “pulizia etnica” nel Kosovo, con la quale si volle giustificare
la fuga di povere popolazioni dai bombardamenti Nato e l’espulsione di
300.000 serbi innocenti ad opera degli ascari Nato e stragisti
narcotrafficanti dell’UCK. Disintegrata la trincea jugoslava, smembrata
una nazione democratica, progressista, antimperialista nei suoi
segmenti etnici e confessionali, creata la piattaforma per la
penetrazioni, bellica o con le “rivoluzioni colorate” tipo Otpor, verso
Est, verso gli idrocarburi del Caucaso e l’oppio afgano, rinchiuso nel
braccio della morte dell’Aja e nel cappio della diffamazione uno dei
più onesti ed equilibrati uomini di Stato del nostro tempo, la strada
era stata aperta per il terrorismo imperialista globale e permanente. A
mio avviso, soprattutto misurando la vicenda jugoslava contro quella
irachena, dove una Resistenza di popolo saggiamente predisposta dalla
sua dirigenza, ha bloccato l’avanzata dei mostri, a Slobodan Milosevic
possono essere imputati solo due errori. Aveva resistito all’infame
ricatto di Rambouillet e quel gesto di forza e di dignità aveva
mobilitato il suo popolo alla resistenza. Le due rese successive di
Dayton nel 1995 e di Kumanovo nel 1999, seppure motivate dall’impegno,
questo sì umanitario, a salvaguardare la sopravvivenza di genti che
avevano sofferto l’indicibile da un ventennale ostracismo
internazionale, dalle sanzioni e dalle guerre. Possiamo immaginare,
alla luce della vittoriosa guerra di popolo irachena, cosa sarebbe
successo nella Serbia della cacciata di sua propria mano della
Wehrmacht, se il rifiuto della Pace di Kumanovo avesse costretto i
mercenari della Nato a misurarsi con un esercito di popolo pratico di
ogni anfratto della sua terra e collaudato dal confronto con l’allora
più potente esercito d’Europa. Certo sangue, lacrime, sacrifici
inenarrabili, ma probabilmente l’avanzata del carnefice planetario
sarebbe stata arrestata prima della trincea irachena. Quale governo
europeo avrebbe potuto sostenere il peso di centinaia di suoi giovani
militari caduti in un’operazione che si sarebbe evidenziata via via più
criminale?

L’ultima mia Serbia l’ho vista qualche tempo dopo, a trauma collettivo
subito, a futuro oscurato. Con il difensore di un popolo che aveva
saputo imporre la sua agenda ai grandi, venduto e martirizzato in un
paese lontano, sembra che si sia dissolta ogni capacità di reazione. Al
vertice, coperte da un personaggio da incolore mezza stagione,
Kostunica, si avvicendavano bande di malfattori e rinnegati. Era
estate, ma neanche la stagione sorrideva a questo “volgo disperso che
nome non ha”. Le strade di Belgrado, di Pancevo, di Kragujevac, di Nis,
su cui ancora incombevano scheletri di corpi urbani che nessuno più
faceva rivivere. Gli anfratti suburbani in cui era stato ammassato il
milione di senza terra, senza casa, senzapatria. Passanti infreddoliti
che sembrano perdersi in un vuoto poststorico, come nella polvere
volteggiano prive di senso cartacce che un tempo erano alimenti, libri,
manifesti, lettere. Ricordo il mio ultimo saluto, dall’autobus, a una
protagonista della forza che aveva fatto rinascere la Zastava, una
comunista, figlia di partigiano.Il suo sguardo mi riportava a quello di
un vecchio palestinese davanti alla fotografia del suo villaggio
perduto. Un generoso lavoro di resistenza di compagni, riuniti nel
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, in pochi altri momenti di
militanza, come “SOS Jugoslavia” e l’associazione di Trieste, e di
pochi serbi della diaspora, per anni uniche voci di contrasto alla
menzogna, di solidarietà, ha dovuto ridursi a inascoltata denuncia di
disgrazie epigonali, ai possibili interventi, questi sì, umanitari, a
ricordi. E, in perfetta solitudine, a una minoritarissima mobilitazione
in difesa di Milosevic e della verità sullo pseudoprocesso dell’Aja.
Solitudine di cui possiamo ringraziare, oltrechè un pubblico offuscato
dall’inquinamento mediatico di destra, di centrosinistra e di
“sinistra”, anche la timidezza con la quale i personaggi di riferimento
dell’area antagonista hanno risposto al martellamento demonizzatore.
Quasi che corressero qualche inaccettabile rischio di carriera a
compromettersi con la verità. Personalmente ho potuto misurare la
distanza che correva tra la percezione nella base di sinistra su chi
erano i buoni e chi i cattivi nei Balcani, e la prudente riservatezza,
i distinguo a mezza bocca, dei leader del movimento. C’è rimasta, nel
desolante silenzio di voci balcaniche, la denuncia e il sostegno dell’
unica bandiera all’apparenza non ammainata: Slobodan Milosevic,
presidente della Jugoslavia, incarcerato all’Aja e ora ammazzato
oberandone il cuore malato di prove insostenibili, poi avvelenandolo.
Non si poteva tollerare che continuasse a sbugiardare i suoi boia, a
vincere ogni confronto e quindi a validare la sacrosanta richiesta di
risarcimenti del suo popolo. Tanto meno lasciargli tempi di ripresa
accettando la richiesta di un breve periodo di cura a Mosca, dove,
peraltro, medici non al guinzaglio della Del Ponte avrebbero potuto
scoprire la terapia assassina. Dove Slobo avrebbe potuto parlare con
giornalisti non velinari e compromettere ulteriormente il gioco.
Leggere gli atti del processo per credere.

“Il manifesto”
Leggere, invece, quanto ha scritto sull’evento l’unico quotidiano
italiano ancora “diverso” , “il manifesto”. Messo in salvo un po’ di
coscienza con la condanna dell’intervento Nato, ecco che si rilanciano
e si riabilitano, contro ogni evidenza storica nel frattempo
disponibile a chiunque, tutti gli stereotipi della gigantesca truffa.
Si esonerano i mandanti della morte di Slobo, ormai inchiodati da
elementi inesorabili, parlando sprezzantemente di “milioni di teorie e
complotti a cavallo di fantapolitica e storie di spionaggio di altri
tempi”; si parte definendo il difensore dell’unità jugoslava, l’unico
dei personaggi di quella stagione né quisling, né chauvinista, “uno dei
protagonisti della mattanza balcanica”. Si parla, riferendosi al famoso
discorso di Kosovo Polje del 1989, in cui, pur garantendo ai serbi del
Kosovo protezione dai pogrom albanesi sollecitati dai cospiratori
imperialisti, Slobo s’impegnò come nessun altro leader delle provincie
a salvaguardare i pari diritti di tutte le popolazioni jugoslave, come
del lancio di una grande e ipernazionalistica Serbia, avallando l’alibi
dell’aggressione che sarebbe partita da lì a poco. Cerchiobottismo, si
direbbe, che da anni ci rifila una specie di avallo ex post alla
menzogna della pulizia etnica serba, ora diventata addirittura
“campagna di terrore verso gli albanesi”, secondo quanto dettavano
Giovanna Botteri e l’infiltrato radicale Antonio Russo che sparava
cazzate granguignolesche di matrice Nato da un finto nascondiglio a
Pristina.. L’avallo viene con quel “contropuliza etnica” con cui l’
autore si ostina a definire le stragi degli ultimi serbi del Kosovo e
che pareggerebbe implicitamente un qualche conto. Stesso avallo viene
ripetutamente offerto, a scorno di tutte le documentate smentite, all’
altra delle grandi truffe che, dagli attentati al mercato di Sarajevo
in giù, hanno giustificato la distruzione della Jugoslavia: la “strage
di Sebrenica”. Le bande Otpor, che certamente si erano trascinate
dietro disillusi e illusi della sofferenza serba, oltre alle milizie
armate del sindaco nazista di Cacak , diventano per Tommaso Di
Francesco “la folla scesa in piazza a Belgrado per ottenere il
riconoscimento della vittoria alle presidenziali di Vojslav Kostunica”.
Sul discorso di Kosovo Polje, che non deve aver mai letto per intero,
nella sua appassionata perorazione del pluralismo e delle pari dignità,
ecco che viene riesumata la bugia del lancio di una “Grande Serbia”,
che avrebbe tolto al Kosovo l’autonomia garantitagli da Tito. Possibile
che un esperto giornalista non sappia come l’unica cosa che Belgrado
tolse al Kosovo, già in pieno pogrom antiserbo ed antijugoslavo per
conto dell’imperialismo, era l’assurdo e paralizzante diritto di veto
sul legiferare delle altre repubbliche e della federazione intera? L’
autonomia restò intatta, per quanto emissari di Washington, come Soros
e madre Teresa di Calcutta, già vi stavano costruendo uno Stato
parallelo, albanese, etnicamente pulito, eminentemente un narcostato al
servizio della finanza occidentale. Con il concorso di un collega,
anche lui da tramandare agli onori dei negazionisti della verità (non
ci sono solo quelli dell’olocausto), il giornalista ripercorre proprio
tutte le tappe dell’intossicazione: “estremismo nazionalistico che
ispirava il suo regime”, “gestione di un paese solo apparentemente
democratico” (dove pur si votava con una frequenza quasi maniacale tra
repubbliche, federazione, amministrazioni locali, dove le grandi città
venivano conquistate dall’opposizione e dove, in piena guerra, si
andava e si veniva come Pisanu si sognerebbe di lasciar fare), fino
alle infamanti “collusione con le organizzazioni illegali”. Già quelle
che avrebbero contribuito a formare il famoso “tesoro di Milosevic”,
mai trovato, mai esistito, al punto che perfino i suoi detrattori hanno
dovuto ammettere che Milosevic aveva come unico cespite il suo
stipendio. Non basta a riscattare tanta aderenza al diktat
propagandistico degli aggressori, il finalino con cui si mette in
dubbio la credibilità giuridica di un tribunale dell’Aja, creato dal
vincitore e la cui procuratrice ha respinto ogni addebito che milioni
di cittadini colpiti avevano rivolto alla Nato dei 78 giorni di crimini
di guerra.

Sai, caro collega, una volta che ti sei piegato all’assunto
principale, pulizia etnica, Sebrenica, regime autoritario, mafia, le
sparate contro la guerra etnico-imperialista hanno la forza di una
pistolettata ad acqua. Almeno i Disobbedienti, allora Tute Bianche di
Padova, una volta fatta la megacazzata di andare, in piena guerra, a
Belgrado e, ospitati dalla Tv di Stato, di sbraitare contro il governo
serbo aggredito e fraternizzare con forze d’opposizione, quinte colonne
dichiaratamente filoamericane, oggi se ne stanno zitti. Il gemellaggio
con la radio Cia B-92, fatta allora passare per “radio di movimento”,
gli deve ancora bruciare. Ma dubito che bruci a una Wilma Mazza di
Radio Sherwood il ricordo di come i suoi picchiatori si fossero
avventati, il 6 giugno ad Aviano, manifestazione contro la guerra, su
coloro che alzavano bandiere jugoslave, li avessero colpiti e ne
avessero stracciato i vessilli.Tornando al “manifesto” che, fin qui, va
deplorato per quel suo colpo al cerchio e colpo alla botte che,
ovviamente alla fin fine, rafforza essenzialmente la botte delle
mistificazioni, là dove questo giornale pare addirittura perdere l’
identità che gli abbiamo sempre riconosciuta è in un paginone di tale
Slavoj Zizek (leggetelo nell’edizione in rete del 15/3/06). C’è da
restare sgomenti. L’autore, attribuita ogni nefandezza di prammatica a
Milosevic, portando al diapason gli stereotipi del “nazionalismo
fondamentalista”, che Slobo avrebbe “manipolato”, arriva a descrivere
una Jugoslavia sotto Milosevic dove tutti si sarebbero potuti abbuffare
e fare quel che cazzo che gli pareva, dimenticando la terribile
pressione, prima economica e poi militare, con la quale le potenze
occidentali e l’FMI avevano portato la Serbia sull’orlo della rovina.
Niente si dice della criminale cospirazione imperialista che fin dalla
morte di Tito aveva programmato il disfacimento della Federazione e l’
obliterazione dei serbi. Tra altre autentiche nefandezze, si arriva
addirittura a deplorare – e qui l’asino casca proprio – che americani
e complici non abbiano fatto fuori Milosevic e la Serbia molto tempo
prima (“L’interminabile differimento delle potenze occidentali”), visto
che erano da interpretarsi “come guerra civile o persino tribale (sic!)
alcuni chiari episodi di aggressione serba”. Questo autentico
trombettiere delle guerre di devastazione e rapina raggiunge un lucido
delirio quando inserisce Milosevic nientemeno che in una schiera che
comprende Pinochet, Idi Amin, Pol Pot, Hitler e Mussolini. Non Clinton,
non Bush, non Wesley Clark, non Madeleine Albright, non i fascisti
Tudjman e Izetbegovic esecutori del nazionicidio. Milosevic. Con questo
indecente apologeta della vicenda imperialista che ha aperto le porte
dell’inferno all’umanità, un personaggi che da l’impressione di agire
come pupazzo per conto di qualche individuabilissimo ventriloquo, “il
Manifesto”, ha tradito non solo la verità di un popolo e del suo
rispettabilissimo leader. Ha tradito tutti noi. Si tratta della nuova
linea bertinottian-unionista? Che tristezza.

Sotto la foto di Slobo ora scorrono sullo schermo immagini di gente
che porta fiori ai suoi ritratti. “E tu onor di pianti Ettore avrai,
ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato…” Donne,
uomini, vecchi e giovani serbi. Gente qualunque. Sono tanti, sempre di
più. Mi ricordano un mesto e forte corteo di contadini e operai, di ex-
partigiani e donne, in una ricorrenza lontana della morte di Tito.
Furono aggrediti e sprangati da giovinastri scesi da Radio B-92. Vecchi
operai coperti di sangue…”e finchè il sole risplenderà sulle sciagure
umane”.

Era un rigido autunno di qualche anno fa. I soliti pochi, non ligi,
non vili, ancora una volta con un’inadeguata ma fedelissima
rappresentanza serba, ci riunimmo davanti alla prigione-fortezza di
Scheveningen. Ci dissero che di là, oltre il fossato e alle muraglie
di bugnato, il carcerato poteva udirci. Centocinquanta combattenti
contro la menzogna si misero a lanciare messaggi d’affetto urlando:”
Slobo-Slobo”! Fino a quando energumeni olandesi in nere uniformi non c’
imposero di tacere. Guai a trasmettere ulteriore coraggio, quello che
ti viene quando scampi all’abbandono, a chi già aveva svergognato uno
dopo l’altro i suoi accusatori mercenari, aveva costretto alla ritirata
testimoni tanto grotteschi quanto istruiti per la bisogna. Pur di
impedire che l’accusa al presidente jugoslavo gli franasse addosso, ai
giudici e ai governanti Nato, facendo riemergere i mai considerati
crimini Nato e lo spettro delle riparazioni dovute al popolo serbo, il
tribunale dell’Aja, il giudice Meron e la pseudoprocuratrice Del Ponte
(che chiamava la signora degli eccidi, Madeleine Albright, “madre del
tribunale”) abbandonarono ogni parvenza di legalità, di etica
giudiziaria e di umanità nei confronti del detenuto. Contro la sua
volontà e contro il diritto gli imposero avvocati d’ufficio con i quali
ci si rifiuta di parlare, di cui i tuoi testimoni non si possono
fidare, che non ti riferiscono fatti rilevanti e che, con un conflitto
d’interesse di fronte al quale impallidisce anche quello del malvivente
nostrano, erano stati scelti tra i tuoi giudici! Nessuna autorità del
diritto internazionale ha avuto mai da obiettare contro aberrazioni
come queste, come la detenzione per cinque anni di un uomo affetto da
ipertensione gravissima, l’imposizione di ritmi di udienza da stroncare
un rinoceronte, l’espansione illimitata degli spazi e testimoni d’
accusa e la riduzione a pochissimo di quelli della difesa (non per
nulla Slobodan è stato fatto morire prima che fosse costretto a
testimoniare il da lui citato criminale di guerra Bill Clinton, seguito
poi dai succedanei D’Alema, Blair, Chirac e affini), la negazione di
terapie richieste e l’obbligo a quelle non volute. Milosevic, nel
silenzio del sistema legale e di quello mediatico, fu rinchiuso in una
vergine di Norimberga giudiziaria. Cionondimeno riusciva, passo dopo
passo, a far emergere il vero volto, euro-americano, delle guerre
balcaniche, dei massacri, delle pulizie etniche. Bisognava fermarlo. Lo
si è fermato quando già aveva vinto e il Tribunale dell’Aja per i
crimini di guerra in Jugoslavia era a tutti gli effetti destinato nella
discarica della storia.

Nelle ore prima di quella foto sul televisore, Slobo mi aveva
raccontato un gran pezzo della vita sua e del suo paese. Un discorso la
cui architettura erano fatti, date, citazioni. Ne uscivano i
protagonisti della vicenda nelle dimensioni e con i profili che la
storia conferma e confermerà: le ipocrisie dei negoziatori alleati e i
trucchi di Rambouillet, le mille diffamazioni di una sistema
imperialista che, essendo gestito da criminali, si era convertito in
coacervo di Stati criminali, l’utilizzo di mafie e quinte colonne
contro il governo democratico, l’ininterrotto uso dei termini
“dittatore” e “despota”, le bugie sui famigliari: Mira Markovic che
diventa “Lady Macbeth”, secondo un’iconografia classica degli stregoni
della guerra psicologica, la stessa delle varie “Lady Antrace” o “Lady
Veleno” irachene; la piccola boutique del figlio Marko che diventa la
satrapica catena di negozi di un puttaniere che, in pieno
bombardamento, si permette addirittura di costruire un parco giochi per
bambini, magari per attenuare il trauma delle atrocità Nato…Ma anche il
racconto della propria vicenda come barriera contro la spinta verso l’
abisso di qualcosa che andava ben oltre la Jugoslavia. Slobo aveva
parlato con voce piana, senza alterarsi, con qualche virata verso l’
ironia, con qualche momento accorato. Poi la foto e ci siamo salutati,
noi con la sensazione fredda di un qualcosa di terribilmente
inesorabile, lui certo con la stessa consapevolezza, ma senza
aggravarci dandocelo ad intendere. Curiosamente, tra i tagli di luce
che dagli alberi neri piovevano sul viale, come fossimo davanti al
banco di un “Tre palle un soldo”, mi sfilavano nella mente le facce dei
politici che accompagnano la stagione del nostro sconforto: pagliacci,
imbonitori, trucidi, idioti, perversi, voraci, ottusi, volgari, osceni.
Milosevic, alle nostre spalle nell’arco del portico, ci salutava con
la mano. Strana inversione : noi partivamo, ma restavamo; lui era fermo
lì, ma capimmo che sapeva di essere lui ad andar via a lungo.

Quell’intervista, oggettivamente storica, la portai all’allora mio
giornale, “Liberazione”, quello di Bertinotti. L’omologa del capo, Rina
Gagliardi, la rifiutò con la seguente motivazione, di chiaro tenore
democratico e professionale: “Mica ci possiamo appiattire sulle
posizioni di un Milosevic!”. E già, “il macellaio dei Balcani”… Passai
l’intervista a gratis al maggiore quotidiano italiano, “Corriere della
Sera”, che ovviamente la pubblicò. A proposito di ignavia. Ne hanno
espresso uno tsunami i capi e capetti del movimento, sia quelli che si
erano squali-ficati a Sarajevo, cattopacifisti, sindacalisti,
disobbedienti imbroglioni o imbrogliati, missionari, ambiguoni ed
infiltrati travestiti da non-violenti, sia gli antimperialisti.
Antimperialisti finchè si vuole, ma rettificare le infamie su Milosevic
e schierarsi dalla parte di questo autentico combattente
antimperialista, beh, sarebbe imbarazzante, magari pericoloso. Ne avete
ascoltato in questi giorni il silenzio da sordomuti?

Slobo, pochi giorni prima, aveva detto ad amici che non si sarebbe
arreso a nessuno, se non alla morte. Ha mantenuto la sua promessa e,
come aveva denunciato gli assassini del suo paese e gli iniziatori di
una guerra globale contro l’umanità, prima di essere ucciso aveva
additato i suoi boia e i loro fini. Ma che la morte lo abbia sconfitto
è tanto poco vero quanto lo fu nel caso del Che. Gli ignavi di allora
furono confusi, i bugiardi smascherati, i vili svergognati, i criminali
puniti, o quanto meno condannati dagli uomini. Così sarà, a tempo
debito. Qualche serbo c’è ancora. Rispondendo alla domanda in
televisione su cosa pensasse di Slobodan Milosevic, il calciatore
Sinisa Mihailovic, quello del “target” sotto la maglia, ha detto ieri,
senza un filo di esitazione e con decisione irrevocabile, “E’ il mio
presidente!”

Vorrei poter dire la stessa cosa anch’io. La dico.




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