In occasione dell'uscita del prossimo numero di "Contropiano per la
rete dei comunisti", anticipiamo l'articolo di fondo di questo numero.
Gli altri temi del nr. 2/2006 di Contropiano:
1) Dibattito su "Rappresentanza politica e accumulazione delle
forze per una ipotesi politica di classe e indipendente"
2) L'avviso ai naviganti (di Giorgio Gattei)
3) Il "bambino e l'acqua sporca". La Rete dei comunisti apre il
dibattito sul Novecento
4) Scala mobile: banco di prova del nuovo governo. Salari al palo
5) Reportage sul movimento contro la precarietà in Francia
6) La rivolta dei latinos dentro e alle frontiere degli Stati
Uniti (Bianca Cerri)
7) Resistenza globale: intervista al FPLP, intervento di Mufid
Keteish (Libano)
Mail: cpiano @...
Sito : http://www.contropiano.org
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Il soft power dell'Europa
Guerra sporca in Iraq ma guerra "pulita" in Afganistan?
Il tragico inganno del "peace keeping"
Le manifeste ambizioni del nucleo duro del governo Prodi
di Sergio Cararo*
In un mondo minacciato dalla guerra e dalla disperata ricerca degli
Stati Uniti tesa a mantenere ed estendere la propria egemonia
globale, in molti ambiti cerca di riaffacciarsi l'ambizione ad un
multilateralismo nella gestione delle relazioni internazionali che
ridimensioni la supremazia statunitense, ricostruendo così quelle
condizioni di equilibrio che, nel bene e nel male, il bipolarismo est-
ovest aveva assicurato dalla fine della II Guerra mondiale alla fine
degli anni Ottanta.
Nella crisi e nella guerra irachena, gli Stati Uniti ed i loro
alleati più stretti si sono posizionati sul terreno della guerra
preventiva e sulla strategia della sicurezza nazionale USA, mentre il
resto del mondo - incluse potenze di un certo rilievo come Francia,
Germania, Russia, Cina - si sono sottratte al coinvolgimento in una
aggressione militare diretta come quella scatenata in Iraq. Lo
stesso posizionamento non è avvenuto però sull'Afganistan (dove sono
aumentate ad esempio le truppe spagnole ritirate invece dall'Iraq) né
sulla destabilizzazione della Siria (dove Francia e USA parlano lo
stesso linguaggio) né sulla neutralizzazione delle ambizioni nucleari
iraniane.
Nel dibattito sull'urgenza di un nuovo multilaterismo nelle relazioni
internazionali si è affacciata una sorta di divaricazione tra i
sostenitori dell'hard power cioè dell'esercizio diretto, brutale e
frontale della forza militare nelle aree strategiche ed i sostenitori
del soft power che affida invece ad un mix di pressioni diplomatiche,
tavoli di negoziato, sanzioni economiche, interventi militari con la
copertura dell'ONU, l'eliminazione dei problemi o dei governi scomodi
ed il controllo delle aree strategiche.
Su questa seconda opzione si sono schierati i governi, le elitè
intellettuali, le forze politiche moderate, progressiste o liberali
che hanno rigettato il brutale intervento militare anglo-statunitense
contro l'Iraq. In realtà queste forze hanno sostenuto anche posizioni
incoerenti, rendendosi responsabili dell'aggressione alla Jugoslavia
o dell'occupazione dell'Afganistan come modello di intervento
"multilaterale", ma criticando l'attacco e l'occupazione dell'Iraq in
quanto modello di intervento "unilaterale". Su tutti pesano poi le
opzioni in cantiere sia negli USA che in Europa per neutralizzare
l'Iran, destabilizzare la Siria, occupare il Darfur per tenere la
Cina fuori dagli assetti africani, determinare chi vincerà la
competizione tra il progetto statunitense del "Grande Medio Oriente"
o quello europeo del "Mercato Unico Euro-Mediterraneo" del 2010.
Soft power, peace keeping, governance: il nuovo lessico del colonialismo
Il cuore della opzione fondata sul soft power e l'intervento
"multilaterale", coincide in larga parte con i principali governi
europei, alle prese anch'essi con la definizione di una propria
dottrina di politica militare ed internazionale adeguata alle
possibilità e alle ambizioni del processo che ha portato alla moneta
unica, all'Unione Europea ed al suo Trattato Costituzionale comune.
In questa ambizione europea va inquadrato il nuovo governo Prodi, un
governo il cui nucleo duro è rappresentato dagli interessi che
spingono verso il Partito Democratico (dai DS al Corriere della Sera,
dalla Margherita alla Confindustria) contorniato dai partiti che
hanno dato vita all'Unione e che sembrano destinati ad un ruolo di
garanzia della stabilità e di marginalizzazione dai poteri
decisionali. Il governo Prodi maneggia questi problemi assai meglio
del suo predecessore Berlusconi, troppo limitato da un appiattimento
controproducente sulle posizioni statunitensi e israeliane. Il nuovo
esecutivo lancia suggestioni accattivanti utilizzando anglismi che
non inquietano più di tanto l'opinione pubblica ed anche settori
della sinistra: soft power, peace keeping e governance saranno
categorie che sentiremo spesso aleggiare quando il governo italiano
dovrà decidere di prendere parte a missioni militari all'estero o a
contribuire al depotenziamento della resistenza globale emersa in
questi anni a livello internazionale contro il neocolonialismo e
l'imperialismo.
In Italia riecheggiano i toni della "guerra umanitaria"
Attendere ancora per sganciare l'Italia dalla guerra, potrebbe essere
fatale, sia per chi è presente sul campo a Nassiriya o in Afganistan,
sia per le conseguenze all'interno del nostro paese, sia per la
prevedibile escalation regionale e globale della guerra in Medio
Oriente.
Mentre la guerra contro il popolo iracheno e afgano continua, le
prospettive di una nuova aggressione all'Iran si fanno ogni giorno
più forti, tornano a farsi sentire anche i templari del "peace
keeping" che quelle truppe, magari, vorrebbero portarle rapidamente
anche in Sudan e in Africa. Due esempi tra tutti: il discorso di
investitura di Giorgio Napoletano e la coraggiosa trasmissione
Report, che domenica 14 maggio ci ha invece offerto un servizio sui
militari italiani in Afganistan decisamente "embedded" e che non
avrebbe affatto sfigurato nelle trasmissioni delle reti Mediaset come
la famigerata "Terra" di Toni Capuozzo. Dunque l'arrivo dei DS al
governo, ci riconsegna un TG3 e le sue rubriche pronte a legittimare
il modello del "peace keeping" e a riaprire e ripetere la vergognosa
pagina del 1999, quando sostennero apertamente e spudoratamente i
bombardamenti "umanitari" contro la Jugoslavia.
La cornice dentro cui il governo Prodi intende dispiegare la sua
azione politica e internazionale, risiede ancora nel ruolo e nelle
ambizioni dell'Unione Europea.
Il primo ministro belga Guy Verhofstadt, qualche tempo fa, riassumeva
bene il ruolo, la percezione e le ambizioni internazionali
dell'Europa "L'Unione Europea gode nel mondo di una fama più moderata
che gli Stati Uniti. L'Europa è rappresentata come un esempio di
cooperazione multilaterale. E' chiamata per mediare e pacificare
nell'ambito di conflitti complessi. L'Europa è vista come un
continente sensibile alle sfide sociali ed ecologiche" (1).
A questa immagine dell'Europa come soggetto capace di cooperazione
multilaterale e di mediazione dei conflitti, fa la sponda anche
Romano Prodi, attuale Presidente del Consiglio in Italia: "L'Europa
si presenta al mondo come il più straordinario esempio di governo
democratico della globalizzazione.Dal Baltico ai Balcani l'Europa sta
dimostrando in modo tangibile quanto essa sia in grado di fare, come
potenza regionale, per la sicurezza e la stabilità internazionale".
Rivendicando "con serenità e con orgoglio" come l'Europa abbia fatto
la sua parte nel Kosovo (sic!), Prodi va un po' oltre e sottolinea
come in questa prospettiva regionale, " le sfide saranno quella del
Mediterraneo e dell'arco dei paesi che si collocano immediatamente al
di là delle frontiere dell'Europa riunificata". Prodi definisce
dunque una precisa area di influenza del modello europeo e del
modello concettuale/operativo con cui intervenire in questa area che
nel 2010 dovrà entrare a far parte del Mercato Unico Euro-
Mediterraneo.(2)
Dal peace keeping al peace-enforcement. Fare la guerra senza dirlo
Secondo un assioma del tutto informale, la divaricazione sugli
strumenti di intervento ed ingerenza nelle crisi internazionali
corrisponderebbe anche ad un posizionamento politico: l'hard power e
il peace enforcement sarebbero di destra mentre il soft power e il
peace keeping sarebbe di sinistra.
Al di là di categorie consolatorie o peggio ancora auto-assolutorie,
niente di ciò sarebbe più errato.
L'esperienza fatta nel teatro di crisi africano dalle missioni
militari dell'Unione Europea in Congo o da quelle francesi in Costa
d'Avorio, fa ritenere ad alcuni osservatori militari come "Il peace-
keeping tradizionale stia lasciando il passo a forme di tutela della
pace decisamente più risolute" e che l'Unione Europea potrebbe
diventare protagonista anche di un intervento militare nel Darfur, in
Sudan (3)
In realtà, come analizzano egregiamente due giuristi - Luisa Lerda e
Vincenzo Di Ferdinando - siamo in presenza di una "evoluzione" degli
strumenti di intervento militare internazionale.
La dottrina del peace keeping ha raggruppato le operazioni di pace -
a seconda del contesto e del periodo storico - in tre categorie:
operazioni di prima, di seconda e di terza generazione (4).
1) Nelle prime vengono comprese tutte le operazioni poste in
essere nel periodo della guerra fredda e portate a compimento prima
del crollo del muro di Berlino. Esse vengono giustificate in base al
capo VI della Carta delle Nazioni Unite che si occupa della soluzione
pacifica delle controversie. Queste operazioni prevedono l'impiego di
militari con compiti di interposizione previo consenso dello Stato
ospite e le forze militari devono mantenersi neutrali tra le parti in
conflitto. E' previsto l'uso delle armi solo per legittima difesa.
2) Le operazioni di "seconda generazione" hanno visto crescere i
compiti di natura civile e attenuarsi la presenza militare (rimpatrio
dei rifugiati, controllo della regolarità di elezioni o referendum,
assistenza umanitaria). Permangono le caratteristiche di neutralità
delle forze impiegate e del consenso degli Stati che ospitano i
contingenti delle missioni;
3) Le operazioni di "terza generazione" si differenziano
sostanzialmente dalle prime due. Le forze militari sono legittimate
all'uso della violenza con il fine non più di mantenere la pace ma di
imporla (peace-enforcement). Dunque rispetto alle prime due
generazioni, i contingenti militari non sono più neutrali e possono
operare anche in assenza del consenso degli Stati in cui intervengono
i contingenti militari delle missioni internazionali. Questo
meccanismo sarebbe consentito dal capo VII della Carta delle Nazioni
Unite che autorizza l'intervento in caso di minaccia alla pace, ma
questo concetto è stato esteso a dismisura andando oltre la minaccia
alla pace ed inserendovi le "catastrofi umanitarie". La guerra
umanitaria nasce dentro questa ambiguità.
Già con il Trattato Europeo di Amsterdam era emersa un'ampia delega
all'Unione Europea per la costituzione e gestione di operazioni
militari di mantenimento della pace che spaziano dal peace keeping di
prima generazione a quelle più "intrusive" che prevedono l'uso della
forza (peace enforcement). Il recente Trattato Costituzionale europeo
va ben oltre.
Il crescente ruolo delle ONG nelle missioni militari
Se fino ad oggi il peace-keeping ha rassicurato gli animi e
consentito alle forze progressiste di nascondere dietro un dito le
proprie ambiguità su missioni militari neocoloniali o sulle ingerenze
militari umanitarie, nel movimento per la pace sarà bene sbarazzarsi
di ogni benevolenza verso questa categoria.
Il crescente coinvolgimento delle ONG nelle operazioni militari di
ingerenza umanitaria, non deve consertire alcuna forma di complicità.
Anche perché i pianificatori militari del Pentagono, della NATO e
dell'Unione Europea condividono ormai il modello di vero e proprio
"outsorcing della guerra" che affida ad agenzie "civili" sia numero
sia ambiti della sicurezza sia la cooptazione delle missioni
umanitarie dentro le operazioni militari vere e proprie.
Questo connubio immorale tra forze armate e organizzazioni civili, ha
fatto che oggi il peace-keeping sia diventato addirittura materia di
insegnamento nelle università italiane. E' il caso delle università
di Bologna, Roma, Firenze, Pisa, Ferrara, Milano,Torino per citarne
alcune.
In un master di "Peace-keeping and security studies" dell'Università
di Roma Tre è prevista la partecipazione di 30 civili e 26 ufficiali
e dirigenti della Difesa. In un master della facoltà di Scienze
Politiche dell'Università di Milano, su 9 docenti, cinque sono civili
e quattro sono ufficiali delle forze armate. La presentazione di
questo master afferma esplicitamente che "Il master si propone di
favorire la condivisione di una base di conoscenza e di linguaggio
comune tra militari e civili, tanto più necessaria quanto frequente
diviene il loro impiego coordinato".
Un analista militare italiano, Giuseppe Romeo, ci toglie da ogni
imbarazzo: "Le missioni di peace-keeping si sono rivelate la nuova
frontiera delle Forze Armate.Le missioni di peace-keeping non possono
esaurire se stesse soltanto nel concepire l'impiego delle Forze
Armate esclusivamente in missioni umanitarie.In Iraq non si gioca una
partita di peace-keeping ma una partita di vera e propria peace-
enforcing" (5)
Questo salto di qualità è stato incubato e sperimentato proprio nella
ex Jugoslavia e con l'aggressione NATO del 1999 contro la Serbia.
I suoi teorici spaziano da Bernard Kouchner (esponente dei MSF/
Francia ed oggi deputato del PSF) alle teste d'uovo di Soros
riunitesi in quell'International Crisis Group (da adesso ICG) che
porta enormi responsabilità nella dissoluzione della Jugoslavia,
nella campagna serbofobica che l'ha accompagnata finanche alla
privatizzazione e annessione delle miniere di Trepca in Kosovo ed
oggi nella crisi dell'Ucraina.
Alla guida dell'ICG c'è il sig. Gareth Evans, ex ministro degli
esteri laburista australiano e candidato al premio Nobel per la Pace
nel 1994 (che invece fu poi assegnato a Yasser Arafat ed a Shimon
Peres) (6).
Secondo Evans, i conflitti e le catastrofi umanitarie vanno
prevenute. Come? "Le strategie di prevenzione strutturale implicano
la consueta miscela di tecniche - strategie di sostegno diplomatico,
economico, politico, mezzi militari - associate alla minaccia di un
intervento militare e perfino al preventivo dispiegamento di truppe
come è successo in Macedonia nel 1998". Quello indicato da Evans è un
contesto molto significativo perché è esattamente lo stesso in cui il
generale inglese Jackson confessava in una famosa intervista, che i
militari inglesi e americani erano in Macedonia per restarvi a
protezione dei corridoi strategici e degli oleodotti che sarebbero
transitati in quel territorio(7)
L'idea di peace-keeping di Evans e dell'ICG è anch'essa emblematica:
"Esistono diversi livelli di utilizzo della forza militare. Uno di
questi è la minaccia in contesto di prevenzione, finalizzata a
mettere i cattivi sull'avviso che in caso di superamento del limite
si troveranno a fronteggiare una reazione militare. Un altro,
corollario della democrazia preventiva, consiste nella spiegamento
preventivo di forze sul campo, finalizzato a dare un segnale
immediato di impegno simbolico. Il terzo è costituito dal
tradizionale sistema previsto dalla Carta delle Nazioni Unite
consistente nel sostegno della resistenza contro le aggressioni
esterne. Il quarto livello è quello propriamente peace-keeping cioè
di tutela di quelle situazioni in cui si è stabilita una qualche
forma di pace e la presenza militare ha scopi di supervisione,
monitoraggio e verifica della tregua" (8). Dunque il peace-keeping
non è la prima ma l'ultima opzione ad esser presa in considerazione
dei teorici dell'ingerenza umanitaria.
La conclusione che possiamo trarne è che il peace-keeping di terza
generazione e nelle condizioni del XXI° Secolo è ormai una dottrina
politico-militare di ingerenza di un altro paese da parte delle
principali potenze in seno all'ONU, alla NATO o all'Unione Europea.
Quest'ultima, con il Trattato Costituzionale Europeo e con il
documento elaborato da Javier Solana, ha avviato un processo assai
rapido per dotarsi dell'hard power militare, tecnologico e politico
che le consenta - come sostiene Solana - di affrontare le nuove
minacce. "In un'era di globalizzazione, le minacce lontane possono
rappresentare una preoccupazione così come quelle che sono più a
portata di mano" afferma Javier Solana "Il concetto di autodifesa
fino alla guerra fredda si basava sulla minaccia di invasione, ma con
le nuove minacce la prima linea di difesa si trova spesso all'estero.
Le nuove minacce sono dinamiche e se abbandonate, diventeranno sempre
più pericolose. Ciò comporta che dobbiamo essere pronti ad agire
prima che si verifichi la crisi" (9).
I signori della guerra a Washington o Bruxelles parlano la stessa lingua
E' quasi incredibile la connessione tra i concetti strategici
espressi da persone dell'establishment diverse tra loro. Bush e i
neocons teorizzano la guerra preventiva; un laburista come Gareth
Evans teorizza l'intervento militare preventivo sul terreno ; il
rappresentante della politica estera e di sicurezza europea Javier
Solana afferma che occorre essere pronti ad agire preventivamente
anche al di fuori dei confini dell'Unione Europea. Ma non ci avevano
detto che il soft power dell'Europa e il modello del peace-keeping
erano diversi e alternativi all'hard power e alla guerra preventiva
di Bush dei cattivi americani? Ha le idee chiare su questo il prof.
Arturo Colombo che, intervistato dal Manifesto sulla espansione a sud
della missione militare in Afganistan ha sottolineato come "si
tratterà di una missione estremamente pericolosa, anche se continuerà
a operare nella finzione di un'operazione di peace keeping. Questo
secondo elemento, se rappresenta un vantaggio dal momento che
fornisce all'ISAF legittimazione ufficiale, d'altro lato - quando
inizieranno ad arrivare le prime vittime - svelerà l'ipocrisia di
fondo di un'operazione che è anche di guerra mascherata da missione
di pace" (10).
Il ricorso agli anglismi nel linguaggio politico rischia di
confondere non solo le parole e le categorie ma rischia di fare
confusione nelle idee e nelle posizioni politiche della sinistra
italiana e dei movimenti per la pace. Quel "NO alla guerra senza se e
senza ma" ci risulta ancora la bussola giusta per orientare l'azione
politica dei movimenti e della sinistra nei prossimi mesi.
* direttore di Contropiano per la rete dei comunisti
Note:
(1) Guy Verhofstadt "Plaidoyer pour un nouvelle atlantisme", l'Aja,
19 Febbraio 2002
(2) Romano Prodi : « L'Europa, il sogno, le scelte », novembre 2003
(3) Report di www.equilibri.net. Aprile 2004
(4) Luisa Lerda, Vincenzo Di Ferdinando: "Le operazioni di peace-
keeping" nel sistema comunitario", in "Diritto e Diritti", rivista
giuridica ondine
(5) Giuseppe Romeo: "Sicurezza industriale" in Pagine Difesa, 2004
(6) L'ICG è stato costituito nel 1995 con le donazioni di George
Soros. Tra i fondatori ci sono l'ex ambasciatore USA in Jugoslavia
Morton Abramovitz, il giornalista de L'Economist Marc Malloch
Brown,lo scrittore Mario Vargas Llosa, l'ex primo ministro francese
Michel Rocard. Nell'attuale consiglio ci sono Emma Bonino, Jaques
Delors, il generale americano Wesley Clark, Shimon Peres e l'ex
ministro degli esteri polacco Geremek.
(7) Intervista del gen. Jackson ad Alberto Negri su Sole 24 Ore del
24 aprile 1999
(8) Intervista di Moises Naim a Gareth Evans, in "Global" aprile 2001.
(9) Tobias Pfuger in Informationsstelle Militarisierung, novembre
2003/Indymedia
(10) Intervista sul Manifesto del 16 maggio 2006
rete dei comunisti", anticipiamo l'articolo di fondo di questo numero.
Gli altri temi del nr. 2/2006 di Contropiano:
1) Dibattito su "Rappresentanza politica e accumulazione delle
forze per una ipotesi politica di classe e indipendente"
2) L'avviso ai naviganti (di Giorgio Gattei)
3) Il "bambino e l'acqua sporca". La Rete dei comunisti apre il
dibattito sul Novecento
4) Scala mobile: banco di prova del nuovo governo. Salari al palo
5) Reportage sul movimento contro la precarietà in Francia
6) La rivolta dei latinos dentro e alle frontiere degli Stati
Uniti (Bianca Cerri)
7) Resistenza globale: intervista al FPLP, intervento di Mufid
Keteish (Libano)
Mail: cpiano @...
Sito : http://www.contropiano.org
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Il soft power dell'Europa
Guerra sporca in Iraq ma guerra "pulita" in Afganistan?
Il tragico inganno del "peace keeping"
Le manifeste ambizioni del nucleo duro del governo Prodi
di Sergio Cararo*
In un mondo minacciato dalla guerra e dalla disperata ricerca degli
Stati Uniti tesa a mantenere ed estendere la propria egemonia
globale, in molti ambiti cerca di riaffacciarsi l'ambizione ad un
multilateralismo nella gestione delle relazioni internazionali che
ridimensioni la supremazia statunitense, ricostruendo così quelle
condizioni di equilibrio che, nel bene e nel male, il bipolarismo est-
ovest aveva assicurato dalla fine della II Guerra mondiale alla fine
degli anni Ottanta.
Nella crisi e nella guerra irachena, gli Stati Uniti ed i loro
alleati più stretti si sono posizionati sul terreno della guerra
preventiva e sulla strategia della sicurezza nazionale USA, mentre il
resto del mondo - incluse potenze di un certo rilievo come Francia,
Germania, Russia, Cina - si sono sottratte al coinvolgimento in una
aggressione militare diretta come quella scatenata in Iraq. Lo
stesso posizionamento non è avvenuto però sull'Afganistan (dove sono
aumentate ad esempio le truppe spagnole ritirate invece dall'Iraq) né
sulla destabilizzazione della Siria (dove Francia e USA parlano lo
stesso linguaggio) né sulla neutralizzazione delle ambizioni nucleari
iraniane.
Nel dibattito sull'urgenza di un nuovo multilaterismo nelle relazioni
internazionali si è affacciata una sorta di divaricazione tra i
sostenitori dell'hard power cioè dell'esercizio diretto, brutale e
frontale della forza militare nelle aree strategiche ed i sostenitori
del soft power che affida invece ad un mix di pressioni diplomatiche,
tavoli di negoziato, sanzioni economiche, interventi militari con la
copertura dell'ONU, l'eliminazione dei problemi o dei governi scomodi
ed il controllo delle aree strategiche.
Su questa seconda opzione si sono schierati i governi, le elitè
intellettuali, le forze politiche moderate, progressiste o liberali
che hanno rigettato il brutale intervento militare anglo-statunitense
contro l'Iraq. In realtà queste forze hanno sostenuto anche posizioni
incoerenti, rendendosi responsabili dell'aggressione alla Jugoslavia
o dell'occupazione dell'Afganistan come modello di intervento
"multilaterale", ma criticando l'attacco e l'occupazione dell'Iraq in
quanto modello di intervento "unilaterale". Su tutti pesano poi le
opzioni in cantiere sia negli USA che in Europa per neutralizzare
l'Iran, destabilizzare la Siria, occupare il Darfur per tenere la
Cina fuori dagli assetti africani, determinare chi vincerà la
competizione tra il progetto statunitense del "Grande Medio Oriente"
o quello europeo del "Mercato Unico Euro-Mediterraneo" del 2010.
Soft power, peace keeping, governance: il nuovo lessico del colonialismo
Il cuore della opzione fondata sul soft power e l'intervento
"multilaterale", coincide in larga parte con i principali governi
europei, alle prese anch'essi con la definizione di una propria
dottrina di politica militare ed internazionale adeguata alle
possibilità e alle ambizioni del processo che ha portato alla moneta
unica, all'Unione Europea ed al suo Trattato Costituzionale comune.
In questa ambizione europea va inquadrato il nuovo governo Prodi, un
governo il cui nucleo duro è rappresentato dagli interessi che
spingono verso il Partito Democratico (dai DS al Corriere della Sera,
dalla Margherita alla Confindustria) contorniato dai partiti che
hanno dato vita all'Unione e che sembrano destinati ad un ruolo di
garanzia della stabilità e di marginalizzazione dai poteri
decisionali. Il governo Prodi maneggia questi problemi assai meglio
del suo predecessore Berlusconi, troppo limitato da un appiattimento
controproducente sulle posizioni statunitensi e israeliane. Il nuovo
esecutivo lancia suggestioni accattivanti utilizzando anglismi che
non inquietano più di tanto l'opinione pubblica ed anche settori
della sinistra: soft power, peace keeping e governance saranno
categorie che sentiremo spesso aleggiare quando il governo italiano
dovrà decidere di prendere parte a missioni militari all'estero o a
contribuire al depotenziamento della resistenza globale emersa in
questi anni a livello internazionale contro il neocolonialismo e
l'imperialismo.
In Italia riecheggiano i toni della "guerra umanitaria"
Attendere ancora per sganciare l'Italia dalla guerra, potrebbe essere
fatale, sia per chi è presente sul campo a Nassiriya o in Afganistan,
sia per le conseguenze all'interno del nostro paese, sia per la
prevedibile escalation regionale e globale della guerra in Medio
Oriente.
Mentre la guerra contro il popolo iracheno e afgano continua, le
prospettive di una nuova aggressione all'Iran si fanno ogni giorno
più forti, tornano a farsi sentire anche i templari del "peace
keeping" che quelle truppe, magari, vorrebbero portarle rapidamente
anche in Sudan e in Africa. Due esempi tra tutti: il discorso di
investitura di Giorgio Napoletano e la coraggiosa trasmissione
Report, che domenica 14 maggio ci ha invece offerto un servizio sui
militari italiani in Afganistan decisamente "embedded" e che non
avrebbe affatto sfigurato nelle trasmissioni delle reti Mediaset come
la famigerata "Terra" di Toni Capuozzo. Dunque l'arrivo dei DS al
governo, ci riconsegna un TG3 e le sue rubriche pronte a legittimare
il modello del "peace keeping" e a riaprire e ripetere la vergognosa
pagina del 1999, quando sostennero apertamente e spudoratamente i
bombardamenti "umanitari" contro la Jugoslavia.
La cornice dentro cui il governo Prodi intende dispiegare la sua
azione politica e internazionale, risiede ancora nel ruolo e nelle
ambizioni dell'Unione Europea.
Il primo ministro belga Guy Verhofstadt, qualche tempo fa, riassumeva
bene il ruolo, la percezione e le ambizioni internazionali
dell'Europa "L'Unione Europea gode nel mondo di una fama più moderata
che gli Stati Uniti. L'Europa è rappresentata come un esempio di
cooperazione multilaterale. E' chiamata per mediare e pacificare
nell'ambito di conflitti complessi. L'Europa è vista come un
continente sensibile alle sfide sociali ed ecologiche" (1).
A questa immagine dell'Europa come soggetto capace di cooperazione
multilaterale e di mediazione dei conflitti, fa la sponda anche
Romano Prodi, attuale Presidente del Consiglio in Italia: "L'Europa
si presenta al mondo come il più straordinario esempio di governo
democratico della globalizzazione.Dal Baltico ai Balcani l'Europa sta
dimostrando in modo tangibile quanto essa sia in grado di fare, come
potenza regionale, per la sicurezza e la stabilità internazionale".
Rivendicando "con serenità e con orgoglio" come l'Europa abbia fatto
la sua parte nel Kosovo (sic!), Prodi va un po' oltre e sottolinea
come in questa prospettiva regionale, " le sfide saranno quella del
Mediterraneo e dell'arco dei paesi che si collocano immediatamente al
di là delle frontiere dell'Europa riunificata". Prodi definisce
dunque una precisa area di influenza del modello europeo e del
modello concettuale/operativo con cui intervenire in questa area che
nel 2010 dovrà entrare a far parte del Mercato Unico Euro-
Mediterraneo.(2)
Dal peace keeping al peace-enforcement. Fare la guerra senza dirlo
Secondo un assioma del tutto informale, la divaricazione sugli
strumenti di intervento ed ingerenza nelle crisi internazionali
corrisponderebbe anche ad un posizionamento politico: l'hard power e
il peace enforcement sarebbero di destra mentre il soft power e il
peace keeping sarebbe di sinistra.
Al di là di categorie consolatorie o peggio ancora auto-assolutorie,
niente di ciò sarebbe più errato.
L'esperienza fatta nel teatro di crisi africano dalle missioni
militari dell'Unione Europea in Congo o da quelle francesi in Costa
d'Avorio, fa ritenere ad alcuni osservatori militari come "Il peace-
keeping tradizionale stia lasciando il passo a forme di tutela della
pace decisamente più risolute" e che l'Unione Europea potrebbe
diventare protagonista anche di un intervento militare nel Darfur, in
Sudan (3)
In realtà, come analizzano egregiamente due giuristi - Luisa Lerda e
Vincenzo Di Ferdinando - siamo in presenza di una "evoluzione" degli
strumenti di intervento militare internazionale.
La dottrina del peace keeping ha raggruppato le operazioni di pace -
a seconda del contesto e del periodo storico - in tre categorie:
operazioni di prima, di seconda e di terza generazione (4).
1) Nelle prime vengono comprese tutte le operazioni poste in
essere nel periodo della guerra fredda e portate a compimento prima
del crollo del muro di Berlino. Esse vengono giustificate in base al
capo VI della Carta delle Nazioni Unite che si occupa della soluzione
pacifica delle controversie. Queste operazioni prevedono l'impiego di
militari con compiti di interposizione previo consenso dello Stato
ospite e le forze militari devono mantenersi neutrali tra le parti in
conflitto. E' previsto l'uso delle armi solo per legittima difesa.
2) Le operazioni di "seconda generazione" hanno visto crescere i
compiti di natura civile e attenuarsi la presenza militare (rimpatrio
dei rifugiati, controllo della regolarità di elezioni o referendum,
assistenza umanitaria). Permangono le caratteristiche di neutralità
delle forze impiegate e del consenso degli Stati che ospitano i
contingenti delle missioni;
3) Le operazioni di "terza generazione" si differenziano
sostanzialmente dalle prime due. Le forze militari sono legittimate
all'uso della violenza con il fine non più di mantenere la pace ma di
imporla (peace-enforcement). Dunque rispetto alle prime due
generazioni, i contingenti militari non sono più neutrali e possono
operare anche in assenza del consenso degli Stati in cui intervengono
i contingenti militari delle missioni internazionali. Questo
meccanismo sarebbe consentito dal capo VII della Carta delle Nazioni
Unite che autorizza l'intervento in caso di minaccia alla pace, ma
questo concetto è stato esteso a dismisura andando oltre la minaccia
alla pace ed inserendovi le "catastrofi umanitarie". La guerra
umanitaria nasce dentro questa ambiguità.
Già con il Trattato Europeo di Amsterdam era emersa un'ampia delega
all'Unione Europea per la costituzione e gestione di operazioni
militari di mantenimento della pace che spaziano dal peace keeping di
prima generazione a quelle più "intrusive" che prevedono l'uso della
forza (peace enforcement). Il recente Trattato Costituzionale europeo
va ben oltre.
Il crescente ruolo delle ONG nelle missioni militari
Se fino ad oggi il peace-keeping ha rassicurato gli animi e
consentito alle forze progressiste di nascondere dietro un dito le
proprie ambiguità su missioni militari neocoloniali o sulle ingerenze
militari umanitarie, nel movimento per la pace sarà bene sbarazzarsi
di ogni benevolenza verso questa categoria.
Il crescente coinvolgimento delle ONG nelle operazioni militari di
ingerenza umanitaria, non deve consertire alcuna forma di complicità.
Anche perché i pianificatori militari del Pentagono, della NATO e
dell'Unione Europea condividono ormai il modello di vero e proprio
"outsorcing della guerra" che affida ad agenzie "civili" sia numero
sia ambiti della sicurezza sia la cooptazione delle missioni
umanitarie dentro le operazioni militari vere e proprie.
Questo connubio immorale tra forze armate e organizzazioni civili, ha
fatto che oggi il peace-keeping sia diventato addirittura materia di
insegnamento nelle università italiane. E' il caso delle università
di Bologna, Roma, Firenze, Pisa, Ferrara, Milano,Torino per citarne
alcune.
In un master di "Peace-keeping and security studies" dell'Università
di Roma Tre è prevista la partecipazione di 30 civili e 26 ufficiali
e dirigenti della Difesa. In un master della facoltà di Scienze
Politiche dell'Università di Milano, su 9 docenti, cinque sono civili
e quattro sono ufficiali delle forze armate. La presentazione di
questo master afferma esplicitamente che "Il master si propone di
favorire la condivisione di una base di conoscenza e di linguaggio
comune tra militari e civili, tanto più necessaria quanto frequente
diviene il loro impiego coordinato".
Un analista militare italiano, Giuseppe Romeo, ci toglie da ogni
imbarazzo: "Le missioni di peace-keeping si sono rivelate la nuova
frontiera delle Forze Armate.Le missioni di peace-keeping non possono
esaurire se stesse soltanto nel concepire l'impiego delle Forze
Armate esclusivamente in missioni umanitarie.In Iraq non si gioca una
partita di peace-keeping ma una partita di vera e propria peace-
enforcing" (5)
Questo salto di qualità è stato incubato e sperimentato proprio nella
ex Jugoslavia e con l'aggressione NATO del 1999 contro la Serbia.
I suoi teorici spaziano da Bernard Kouchner (esponente dei MSF/
Francia ed oggi deputato del PSF) alle teste d'uovo di Soros
riunitesi in quell'International Crisis Group (da adesso ICG) che
porta enormi responsabilità nella dissoluzione della Jugoslavia,
nella campagna serbofobica che l'ha accompagnata finanche alla
privatizzazione e annessione delle miniere di Trepca in Kosovo ed
oggi nella crisi dell'Ucraina.
Alla guida dell'ICG c'è il sig. Gareth Evans, ex ministro degli
esteri laburista australiano e candidato al premio Nobel per la Pace
nel 1994 (che invece fu poi assegnato a Yasser Arafat ed a Shimon
Peres) (6).
Secondo Evans, i conflitti e le catastrofi umanitarie vanno
prevenute. Come? "Le strategie di prevenzione strutturale implicano
la consueta miscela di tecniche - strategie di sostegno diplomatico,
economico, politico, mezzi militari - associate alla minaccia di un
intervento militare e perfino al preventivo dispiegamento di truppe
come è successo in Macedonia nel 1998". Quello indicato da Evans è un
contesto molto significativo perché è esattamente lo stesso in cui il
generale inglese Jackson confessava in una famosa intervista, che i
militari inglesi e americani erano in Macedonia per restarvi a
protezione dei corridoi strategici e degli oleodotti che sarebbero
transitati in quel territorio(7)
L'idea di peace-keeping di Evans e dell'ICG è anch'essa emblematica:
"Esistono diversi livelli di utilizzo della forza militare. Uno di
questi è la minaccia in contesto di prevenzione, finalizzata a
mettere i cattivi sull'avviso che in caso di superamento del limite
si troveranno a fronteggiare una reazione militare. Un altro,
corollario della democrazia preventiva, consiste nella spiegamento
preventivo di forze sul campo, finalizzato a dare un segnale
immediato di impegno simbolico. Il terzo è costituito dal
tradizionale sistema previsto dalla Carta delle Nazioni Unite
consistente nel sostegno della resistenza contro le aggressioni
esterne. Il quarto livello è quello propriamente peace-keeping cioè
di tutela di quelle situazioni in cui si è stabilita una qualche
forma di pace e la presenza militare ha scopi di supervisione,
monitoraggio e verifica della tregua" (8). Dunque il peace-keeping
non è la prima ma l'ultima opzione ad esser presa in considerazione
dei teorici dell'ingerenza umanitaria.
La conclusione che possiamo trarne è che il peace-keeping di terza
generazione e nelle condizioni del XXI° Secolo è ormai una dottrina
politico-militare di ingerenza di un altro paese da parte delle
principali potenze in seno all'ONU, alla NATO o all'Unione Europea.
Quest'ultima, con il Trattato Costituzionale Europeo e con il
documento elaborato da Javier Solana, ha avviato un processo assai
rapido per dotarsi dell'hard power militare, tecnologico e politico
che le consenta - come sostiene Solana - di affrontare le nuove
minacce. "In un'era di globalizzazione, le minacce lontane possono
rappresentare una preoccupazione così come quelle che sono più a
portata di mano" afferma Javier Solana "Il concetto di autodifesa
fino alla guerra fredda si basava sulla minaccia di invasione, ma con
le nuove minacce la prima linea di difesa si trova spesso all'estero.
Le nuove minacce sono dinamiche e se abbandonate, diventeranno sempre
più pericolose. Ciò comporta che dobbiamo essere pronti ad agire
prima che si verifichi la crisi" (9).
I signori della guerra a Washington o Bruxelles parlano la stessa lingua
E' quasi incredibile la connessione tra i concetti strategici
espressi da persone dell'establishment diverse tra loro. Bush e i
neocons teorizzano la guerra preventiva; un laburista come Gareth
Evans teorizza l'intervento militare preventivo sul terreno ; il
rappresentante della politica estera e di sicurezza europea Javier
Solana afferma che occorre essere pronti ad agire preventivamente
anche al di fuori dei confini dell'Unione Europea. Ma non ci avevano
detto che il soft power dell'Europa e il modello del peace-keeping
erano diversi e alternativi all'hard power e alla guerra preventiva
di Bush dei cattivi americani? Ha le idee chiare su questo il prof.
Arturo Colombo che, intervistato dal Manifesto sulla espansione a sud
della missione militare in Afganistan ha sottolineato come "si
tratterà di una missione estremamente pericolosa, anche se continuerà
a operare nella finzione di un'operazione di peace keeping. Questo
secondo elemento, se rappresenta un vantaggio dal momento che
fornisce all'ISAF legittimazione ufficiale, d'altro lato - quando
inizieranno ad arrivare le prime vittime - svelerà l'ipocrisia di
fondo di un'operazione che è anche di guerra mascherata da missione
di pace" (10).
Il ricorso agli anglismi nel linguaggio politico rischia di
confondere non solo le parole e le categorie ma rischia di fare
confusione nelle idee e nelle posizioni politiche della sinistra
italiana e dei movimenti per la pace. Quel "NO alla guerra senza se e
senza ma" ci risulta ancora la bussola giusta per orientare l'azione
politica dei movimenti e della sinistra nei prossimi mesi.
* direttore di Contropiano per la rete dei comunisti
Note:
(1) Guy Verhofstadt "Plaidoyer pour un nouvelle atlantisme", l'Aja,
19 Febbraio 2002
(2) Romano Prodi : « L'Europa, il sogno, le scelte », novembre 2003
(3) Report di www.equilibri.net. Aprile 2004
(4) Luisa Lerda, Vincenzo Di Ferdinando: "Le operazioni di peace-
keeping" nel sistema comunitario", in "Diritto e Diritti", rivista
giuridica ondine
(5) Giuseppe Romeo: "Sicurezza industriale" in Pagine Difesa, 2004
(6) L'ICG è stato costituito nel 1995 con le donazioni di George
Soros. Tra i fondatori ci sono l'ex ambasciatore USA in Jugoslavia
Morton Abramovitz, il giornalista de L'Economist Marc Malloch
Brown,lo scrittore Mario Vargas Llosa, l'ex primo ministro francese
Michel Rocard. Nell'attuale consiglio ci sono Emma Bonino, Jaques
Delors, il generale americano Wesley Clark, Shimon Peres e l'ex
ministro degli esteri polacco Geremek.
(7) Intervista del gen. Jackson ad Alberto Negri su Sole 24 Ore del
24 aprile 1999
(8) Intervista di Moises Naim a Gareth Evans, in "Global" aprile 2001.
(9) Tobias Pfuger in Informationsstelle Militarisierung, novembre
2003/Indymedia
(10) Intervista sul Manifesto del 16 maggio 2006