*** sul NO al rifinanziamento delle missioni di guerra si vedano
anche gli appelli a sostegno dei senatori "ribelli", al sito:
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=392 ***
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=10165
Partito Rifondazione Comunista:
CPN del 17 giugno - Intervento di ANDREA CATONE
La scadenza di fine giugno pone il PRC – per la prima volta
organicamente in un governo di coalizione - di fronte alla questione
del rifinanziamento delle missioni italiane all’estero nei principali
teatri di guerra. Queste sono parte di un problema più ampio: quello
della definizione delle linee fondamentali della politica estera del
governo italiano, in particolare nei suoi rapporti con la
superpotenza USA, la quale, nella fase attuale di crisi e
rimodulazione degli assetti mondiali, è, per ragioni economiche (a
causa dell’enorme indebitamento USA, il dollaro si sostiene come
valuta mondiale solo grazie alla proiezione politico-militare
statunitense, mirante a contenere la concorrenza della altre aree
valutarie, in particolare l’euro) e ideologiche (la “missione
americana” nel mondo) il fattore principale dello scatenamento di
guerre imperialistiche.
La valutazione dell’impiego delle missioni militari italiane nel
mondo va fatta anche alla luce di questo particolare ruolo aggressivo
della più imponente superpotenza militare di tutti i tempi, che
produce guerra nel duplice senso che la spesa pubblica militare è uno
dei principali volani dell’economia USA e che questi possono
mantenere il primato del dollaro solo grazie alle guerre.
Per quanto riguarda la più recente di queste guerre, quella contro
l’Iraq, cominciata nel 2003 e non ancora terminata - grazie alla
tenace resistenza, politica e militare, degli “insurgents” (come lo
stesso Bush li chiama) contro l’occupazione anglo-americana e i suoi
governi-fantoccio - va salutato come un successo significativo dei
movimenti contro la guerra, della sinistra di alternativa e del PRC
l’annunciato ritiro dell’intero contingente militare italiano entro
tempi brevi (anche se meno brevi di quelli che avremmo auspicato e
con un percorso meno lineare e diretto di quello della Spagna di
Zapatero) e definiti (sulla cui effettiva attuazione occorrerà però
mantenere un alto livello di attenzione e mobilitazione per
scongiurare qualsiasi manovra dilatoria).
Il successo ottenuto col ritiro dall’avventura irachena è stato anche
favorito e reso possibile - oltre che dalle mobilitazioni di massa e
dalla grande attenzione che i media sono stati costretti a
concentrare sul teatro iracheno dall’attività crescente della
guerriglia che ha colpito pesantemente gli eserciti occupanti, in
primis gli USA, ma anche inglesi e italiani - dal contrasto, per la
prima volta apparso in modo palese ed esplicito, tra le principali
potenze dell’area UE (Francia e Germania) e gli USA. È stato più
facile presentare all’interno dell’Unione la guerra irachena come
estranea – se non contrapposta - agli interessi europei e il ritiro
da essa come un ritorno dell’Italia nel seno dell’Europa, da cui la
politica filo-Bush del governo Berlusconi l’aveva allontanata.
Infatti, al centro della politica estera italiana tracciata nel
programma dell’Unione viene posto, con grande enfasi e
sottolineature, il rapporto organico con la UE e il rilancio di
quest’ultima.
Ma i militari italiani sono impegnati altresì in buon numero in
Afghanistan. Questa missione militare NON è, come si vuol far
credere, sotto l’egida dell’ONU, ma è una missione NATO sotto il
comando diretto degli USA. Infatti (cfr. il recente articolo di
Manlio Dinucci sul Manifesto del 13 giugno 2006), «l'11 agosto 2003,
la Nato annuncia di aver “assunto il ruolo di leadership dell'Isaf,
forza con mandato Onu”. E' un vero e proprio colpo di mano: nessuna
risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere
il comando dell'Isaf. Nella risoluzione del 13 ottobre 2003, che
autorizza l'Isaf a operare “in aree esterne a Kabul e dintorni”, e
nelle successive, la Nato non viene mai nominata. Eppure a guidare la
missione, da questo momento, non è più l'Onu ma la Nato: il quartier
generale Isaf viene inserito nella catena di comando della Nato, che
sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell'Isaf. E
poiché il “comandante supremo alleato” è (per diritto ereditario)
sempre un generale Usa, la missione Isaf viene di fatto inserita
nella catena di comando del Pentagono». NON è dunque una missione di
pacificazione o di interposizione tra fazioni in lotta, ma si tratta
dell’occupazione militare dell’Afghanistan operata da USA e Gran
Bretagna alla fine del 2001 e preparata ben prima del fatidico
attentato dell’11 settembre alle “2 torri”, che è servito da ottima
giustificazione per l’invasione di un paese collocato strategicamente
nel cuore dell’Eurasia, tra Russia, India e Cina, Iran, dove non
erano mai giunte truppe USA e che ora pullula di basi americane che
minacciano da vicino il paese che Samuel Huntington indicava già 10
anni fa nel suo “Scontro di civiltà” come il nemico strategico: la Cina.
La presenza di militari italiani sotto comando USA in un teatro di
guerra per sostenere militarmente un governo filoUSA è un’azione di
guerra contraria alla costituzione italiana. Sostanzialmente non è
diversa dalla presenza militare italiana in Iraq: funge da supporto
alla politica aggressiva degli USA (che usano il terrorismo come
passepartout per le loro guerre) ed è un presupposto per nuove
avventure militari.
Qui, tuttavia, a differenza che in Iraq, USA ed UE agiscono
apparentemente di comune accordo e anche Zapatero invia le sue
truppe. Ma, anche qui, gli interessi delle potenze europee in
Afghanistan e in Eurasia sono concorrenti con quelli degli USA: gli
europei cercano di ritagliarsi, con la presenza militare e gli
investimenti per la “ricostruzione civile”, un loro spazio di
penetrazione. È del tutto evidente, perciò, che all’interno
dell’Unione, che ha nel suo leader Prodi uno dei maggiori esponenti
della borghesia europeista, la battaglia per il ritiro
dall’Afghanistan sarà molto più dura.
Ma qui la posta in gioco è altissima. Infatti, la questione della
pace e della guerra, a differenza di altre di carattere economico-
sociale, su cui si può trattare sulla base dei rapporti di forza (ad
es. entità e modalità della manovra economica, tempi e modi di
attuazione di una nuova scala mobile), inerisce alla natura stessa,
all’identità di un partito comunista. Il comunismo novecentesco nasce
nel 1914 rompendo con le socialdemocrazie che votarono i crediti
della guerra imperialista: tra i primi atti del governo bolscevico
nato dalla rivoluzione di ottobre 1917 è la stipula immediata della
pace con la Germania. Questa grande eredità del comunismo
novecentesco rimane - mi auguro - patrimonio condiviso di tutto il
partito, della “sinistra alternativa”, dei movimenti contro la
guerra. E ciò è ancora più rilevante oggi, nell’epoca del capitale
globale. La lotta contro la guerra imperialista è strategica,
fondamentale, imprescindibile.
Su questa questione il partito tutto deve riprendere con forza la
mobilitazione e i compagni che sono nel parlamento e nelle
istituzioni devono battersi per il ritiro dall’Afghanistan agendo
conseguentemente in tutte le sedi istituzionali e politiche. Il
messaggio che va mandato agli alleati della coalizione è che su
questa questione non sono possibili escamotage, tatticismi o
aggiustamenti di facciata, ma solo un effettivo e radicale mutamento
della politica estera italiana, che va riportata alla sostanza
dell’articolo 11 della Costituzione. Solo su questa base si può
trattare, costruendo lo schieramento più ampio di forze contrarie
all’avventura militare in Afghanistan (e che in parlamento votarono,
come del resto il PRC, contro il suo finanziamento), per definire
modalità e tempi certi e brevi del completo ritiro delle truppe
italiane.
Se vogliamo effettivamente ritornare alla sostanza dell’articolo 11
della Costituzione bisogna sviluppare anche un’azione culturale di
critica della guerra in netta contrapposizione con le posizioni
predominanti nel futuro “partito democratico”, sostenitore della tesi
che la guerra contro l’Iraq del 2003 è sbagliata perché decisa
unilateralmente dagli USA, mentre, come si può leggere tra le righe
del programma dell’Unione (cfr. pp. 97-102), gli interventi militari
multilaterali avallati da organismi sopranazionali – tra cui si
elenca non solo l’ONU, ma anche la UE e la NATO -, sarebbero
legittimi, di “polizia internazionale” (cfr. p. 98), cui il programma
auspica che l’Italia dia un consistente apporto. È con questo tipo di
discorso che si giustifica il mantenimento e l’ampliamento della
missione in Afghanistan.
È sulla base di questo discorso, sostenuto dalla più complessa
costruzione ideologica della “guerra umanitaria”, che si promosse
l’aggressione militare della primavera 1999 contro la Jugoslavia,
rispetto alla quale né il presidente del consiglio Prodi, né
l’attuale ministro degli esteri, e nel ’99 presidente del consiglio,
Massimo d’Alema, hanno manifestato la sia pur minima autocritica,
rivendicando anzi con pervicacia la giustezza di quella devastante
guerra.
Sulle cui conseguenze vi è un colpevole silenzio e disattenzione
anche da parte della sinistra alternativa. In particolare – salvo
qualche eccezione - sulla situazione in Kosovo si tace: eppure si
tratta della vita di centinaia di migliaia di persone che subiscono
oggi condizioni infami. Alla presenza delle forze militari della KFOR
(prevalentemente paesi NATO) e dell’UNMIK, il Kosovo sotto
protettorato ONU si è trasformato in una gabbia a cielo aperto per le
poche decine di migliaia di serbi e rom rimasti. Oltre 300.000 hanno
dovuto abbandonare, sotto la violenza del nazionalismo estremista
albanese espresso dall’UCK, la terra che abitavano. I serbi sono
costretti a vivere in condizioni di estrema insicurezza, sono
continuamente oggetto di attacchi e violenze, sono discriminati
nell’accesso al lavoro e alle cure mediche, sono privati dell’uso
della propria lingua negli uffici pubblici, nei tribunali, nelle
istituzioni. Il pogrom antiserbo del marzo 2004 ha provocato decine
di morti e migliaia di feriti, costretto alla fuga altre migliaia di
serbi, bruciato e saccheggiato le loro case e i luoghi della memoria
e della cultura come i preziosi monasteri medievali. Dove sono finiti
i difensori dei “diritti umani”?
In violazione della risoluzione 1244/99 dell’ONU, le potenze che nel
1999 scatenarono la guerra contro la Jugoslavia (e tra esse ebbe un
ruolo decisivo il nostro paese allora guidato dal governo D’Alema),
si apprestano a dare origine ad un nuovo microstato etnicamente puro.
La formalizzazione internazionale dell’indipendenza del Kosovo
significherà con ogni probabilità l’espulsione massiccia di tutti i
serbi rimasti: l’Onu, in previsione di ciò che potrebbe accadere non
appena tagliato definitivamente il cordone ombelicale che lega il
Kosovo alla Serbia ha già preparato un piano di evacuazione per
70.000 persone. L’ulteriore spezzettamento di quella che fu la
Jugoslavia – con la recentissima secessione del Montenegro e
l’annunciata formazione di uno stato monoetnico del Kosovo - non
favorisce i processi di pace.
Il PRC che – unico sulla scena italiana – si oppose alla “guerra
umanitaria” del 1999, non può oggi chiudere gli occhi sulla
drammatica situazione dei Balcani. Vanno avviate campagne di
sensibilizzazione di massa sul silenzioso etnocidio in corso in
Kosovo e, attraverso i nostri rappresentanti nelle istituzioni – in
particolare nel parlamento e governo nazionali e nelle regioni – va
sviluppata una politica che contrasti ulteriori processi di
frantumazione della ex Jugoslavia e tuteli i diritti delle minoranze
del Kosovo a ritornare nella loro terra e a vivere una vita dignitosa
e sicura in una regione effettivamente multietnica.
anche gli appelli a sostegno dei senatori "ribelli", al sito:
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=392 ***
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=10165
Partito Rifondazione Comunista:
CPN del 17 giugno - Intervento di ANDREA CATONE
La scadenza di fine giugno pone il PRC – per la prima volta
organicamente in un governo di coalizione - di fronte alla questione
del rifinanziamento delle missioni italiane all’estero nei principali
teatri di guerra. Queste sono parte di un problema più ampio: quello
della definizione delle linee fondamentali della politica estera del
governo italiano, in particolare nei suoi rapporti con la
superpotenza USA, la quale, nella fase attuale di crisi e
rimodulazione degli assetti mondiali, è, per ragioni economiche (a
causa dell’enorme indebitamento USA, il dollaro si sostiene come
valuta mondiale solo grazie alla proiezione politico-militare
statunitense, mirante a contenere la concorrenza della altre aree
valutarie, in particolare l’euro) e ideologiche (la “missione
americana” nel mondo) il fattore principale dello scatenamento di
guerre imperialistiche.
La valutazione dell’impiego delle missioni militari italiane nel
mondo va fatta anche alla luce di questo particolare ruolo aggressivo
della più imponente superpotenza militare di tutti i tempi, che
produce guerra nel duplice senso che la spesa pubblica militare è uno
dei principali volani dell’economia USA e che questi possono
mantenere il primato del dollaro solo grazie alle guerre.
Per quanto riguarda la più recente di queste guerre, quella contro
l’Iraq, cominciata nel 2003 e non ancora terminata - grazie alla
tenace resistenza, politica e militare, degli “insurgents” (come lo
stesso Bush li chiama) contro l’occupazione anglo-americana e i suoi
governi-fantoccio - va salutato come un successo significativo dei
movimenti contro la guerra, della sinistra di alternativa e del PRC
l’annunciato ritiro dell’intero contingente militare italiano entro
tempi brevi (anche se meno brevi di quelli che avremmo auspicato e
con un percorso meno lineare e diretto di quello della Spagna di
Zapatero) e definiti (sulla cui effettiva attuazione occorrerà però
mantenere un alto livello di attenzione e mobilitazione per
scongiurare qualsiasi manovra dilatoria).
Il successo ottenuto col ritiro dall’avventura irachena è stato anche
favorito e reso possibile - oltre che dalle mobilitazioni di massa e
dalla grande attenzione che i media sono stati costretti a
concentrare sul teatro iracheno dall’attività crescente della
guerriglia che ha colpito pesantemente gli eserciti occupanti, in
primis gli USA, ma anche inglesi e italiani - dal contrasto, per la
prima volta apparso in modo palese ed esplicito, tra le principali
potenze dell’area UE (Francia e Germania) e gli USA. È stato più
facile presentare all’interno dell’Unione la guerra irachena come
estranea – se non contrapposta - agli interessi europei e il ritiro
da essa come un ritorno dell’Italia nel seno dell’Europa, da cui la
politica filo-Bush del governo Berlusconi l’aveva allontanata.
Infatti, al centro della politica estera italiana tracciata nel
programma dell’Unione viene posto, con grande enfasi e
sottolineature, il rapporto organico con la UE e il rilancio di
quest’ultima.
Ma i militari italiani sono impegnati altresì in buon numero in
Afghanistan. Questa missione militare NON è, come si vuol far
credere, sotto l’egida dell’ONU, ma è una missione NATO sotto il
comando diretto degli USA. Infatti (cfr. il recente articolo di
Manlio Dinucci sul Manifesto del 13 giugno 2006), «l'11 agosto 2003,
la Nato annuncia di aver “assunto il ruolo di leadership dell'Isaf,
forza con mandato Onu”. E' un vero e proprio colpo di mano: nessuna
risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere
il comando dell'Isaf. Nella risoluzione del 13 ottobre 2003, che
autorizza l'Isaf a operare “in aree esterne a Kabul e dintorni”, e
nelle successive, la Nato non viene mai nominata. Eppure a guidare la
missione, da questo momento, non è più l'Onu ma la Nato: il quartier
generale Isaf viene inserito nella catena di comando della Nato, che
sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell'Isaf. E
poiché il “comandante supremo alleato” è (per diritto ereditario)
sempre un generale Usa, la missione Isaf viene di fatto inserita
nella catena di comando del Pentagono». NON è dunque una missione di
pacificazione o di interposizione tra fazioni in lotta, ma si tratta
dell’occupazione militare dell’Afghanistan operata da USA e Gran
Bretagna alla fine del 2001 e preparata ben prima del fatidico
attentato dell’11 settembre alle “2 torri”, che è servito da ottima
giustificazione per l’invasione di un paese collocato strategicamente
nel cuore dell’Eurasia, tra Russia, India e Cina, Iran, dove non
erano mai giunte truppe USA e che ora pullula di basi americane che
minacciano da vicino il paese che Samuel Huntington indicava già 10
anni fa nel suo “Scontro di civiltà” come il nemico strategico: la Cina.
La presenza di militari italiani sotto comando USA in un teatro di
guerra per sostenere militarmente un governo filoUSA è un’azione di
guerra contraria alla costituzione italiana. Sostanzialmente non è
diversa dalla presenza militare italiana in Iraq: funge da supporto
alla politica aggressiva degli USA (che usano il terrorismo come
passepartout per le loro guerre) ed è un presupposto per nuove
avventure militari.
Qui, tuttavia, a differenza che in Iraq, USA ed UE agiscono
apparentemente di comune accordo e anche Zapatero invia le sue
truppe. Ma, anche qui, gli interessi delle potenze europee in
Afghanistan e in Eurasia sono concorrenti con quelli degli USA: gli
europei cercano di ritagliarsi, con la presenza militare e gli
investimenti per la “ricostruzione civile”, un loro spazio di
penetrazione. È del tutto evidente, perciò, che all’interno
dell’Unione, che ha nel suo leader Prodi uno dei maggiori esponenti
della borghesia europeista, la battaglia per il ritiro
dall’Afghanistan sarà molto più dura.
Ma qui la posta in gioco è altissima. Infatti, la questione della
pace e della guerra, a differenza di altre di carattere economico-
sociale, su cui si può trattare sulla base dei rapporti di forza (ad
es. entità e modalità della manovra economica, tempi e modi di
attuazione di una nuova scala mobile), inerisce alla natura stessa,
all’identità di un partito comunista. Il comunismo novecentesco nasce
nel 1914 rompendo con le socialdemocrazie che votarono i crediti
della guerra imperialista: tra i primi atti del governo bolscevico
nato dalla rivoluzione di ottobre 1917 è la stipula immediata della
pace con la Germania. Questa grande eredità del comunismo
novecentesco rimane - mi auguro - patrimonio condiviso di tutto il
partito, della “sinistra alternativa”, dei movimenti contro la
guerra. E ciò è ancora più rilevante oggi, nell’epoca del capitale
globale. La lotta contro la guerra imperialista è strategica,
fondamentale, imprescindibile.
Su questa questione il partito tutto deve riprendere con forza la
mobilitazione e i compagni che sono nel parlamento e nelle
istituzioni devono battersi per il ritiro dall’Afghanistan agendo
conseguentemente in tutte le sedi istituzionali e politiche. Il
messaggio che va mandato agli alleati della coalizione è che su
questa questione non sono possibili escamotage, tatticismi o
aggiustamenti di facciata, ma solo un effettivo e radicale mutamento
della politica estera italiana, che va riportata alla sostanza
dell’articolo 11 della Costituzione. Solo su questa base si può
trattare, costruendo lo schieramento più ampio di forze contrarie
all’avventura militare in Afghanistan (e che in parlamento votarono,
come del resto il PRC, contro il suo finanziamento), per definire
modalità e tempi certi e brevi del completo ritiro delle truppe
italiane.
Se vogliamo effettivamente ritornare alla sostanza dell’articolo 11
della Costituzione bisogna sviluppare anche un’azione culturale di
critica della guerra in netta contrapposizione con le posizioni
predominanti nel futuro “partito democratico”, sostenitore della tesi
che la guerra contro l’Iraq del 2003 è sbagliata perché decisa
unilateralmente dagli USA, mentre, come si può leggere tra le righe
del programma dell’Unione (cfr. pp. 97-102), gli interventi militari
multilaterali avallati da organismi sopranazionali – tra cui si
elenca non solo l’ONU, ma anche la UE e la NATO -, sarebbero
legittimi, di “polizia internazionale” (cfr. p. 98), cui il programma
auspica che l’Italia dia un consistente apporto. È con questo tipo di
discorso che si giustifica il mantenimento e l’ampliamento della
missione in Afghanistan.
È sulla base di questo discorso, sostenuto dalla più complessa
costruzione ideologica della “guerra umanitaria”, che si promosse
l’aggressione militare della primavera 1999 contro la Jugoslavia,
rispetto alla quale né il presidente del consiglio Prodi, né
l’attuale ministro degli esteri, e nel ’99 presidente del consiglio,
Massimo d’Alema, hanno manifestato la sia pur minima autocritica,
rivendicando anzi con pervicacia la giustezza di quella devastante
guerra.
Sulle cui conseguenze vi è un colpevole silenzio e disattenzione
anche da parte della sinistra alternativa. In particolare – salvo
qualche eccezione - sulla situazione in Kosovo si tace: eppure si
tratta della vita di centinaia di migliaia di persone che subiscono
oggi condizioni infami. Alla presenza delle forze militari della KFOR
(prevalentemente paesi NATO) e dell’UNMIK, il Kosovo sotto
protettorato ONU si è trasformato in una gabbia a cielo aperto per le
poche decine di migliaia di serbi e rom rimasti. Oltre 300.000 hanno
dovuto abbandonare, sotto la violenza del nazionalismo estremista
albanese espresso dall’UCK, la terra che abitavano. I serbi sono
costretti a vivere in condizioni di estrema insicurezza, sono
continuamente oggetto di attacchi e violenze, sono discriminati
nell’accesso al lavoro e alle cure mediche, sono privati dell’uso
della propria lingua negli uffici pubblici, nei tribunali, nelle
istituzioni. Il pogrom antiserbo del marzo 2004 ha provocato decine
di morti e migliaia di feriti, costretto alla fuga altre migliaia di
serbi, bruciato e saccheggiato le loro case e i luoghi della memoria
e della cultura come i preziosi monasteri medievali. Dove sono finiti
i difensori dei “diritti umani”?
In violazione della risoluzione 1244/99 dell’ONU, le potenze che nel
1999 scatenarono la guerra contro la Jugoslavia (e tra esse ebbe un
ruolo decisivo il nostro paese allora guidato dal governo D’Alema),
si apprestano a dare origine ad un nuovo microstato etnicamente puro.
La formalizzazione internazionale dell’indipendenza del Kosovo
significherà con ogni probabilità l’espulsione massiccia di tutti i
serbi rimasti: l’Onu, in previsione di ciò che potrebbe accadere non
appena tagliato definitivamente il cordone ombelicale che lega il
Kosovo alla Serbia ha già preparato un piano di evacuazione per
70.000 persone. L’ulteriore spezzettamento di quella che fu la
Jugoslavia – con la recentissima secessione del Montenegro e
l’annunciata formazione di uno stato monoetnico del Kosovo - non
favorisce i processi di pace.
Il PRC che – unico sulla scena italiana – si oppose alla “guerra
umanitaria” del 1999, non può oggi chiudere gli occhi sulla
drammatica situazione dei Balcani. Vanno avviate campagne di
sensibilizzazione di massa sul silenzioso etnocidio in corso in
Kosovo e, attraverso i nostri rappresentanti nelle istituzioni – in
particolare nel parlamento e governo nazionali e nelle regioni – va
sviluppata una politica che contrasti ulteriori processi di
frantumazione della ex Jugoslavia e tuteli i diritti delle minoranze
del Kosovo a ritornare nella loro terra e a vivere una vita dignitosa
e sicura in una regione effettivamente multietnica.