"Liberazione" prova a parlare di Mostar


Matteo Tacconi su "Liberazione" rompe parzialmente con il vezzo
squallido dei commentatori italiani di non parlare (magari
seppellendola sotto a quintali di puzzolente sarcasmo) della
nostalgia degli jugoslavi per la Jugoslavia. Lo fa concentrandosi
sulla Bosnia. Il discorso si sposta via via sullo sciovinismo croato,
che esplode segnatamente in occasione delle partite di calcio
(ricordiamo anche la "svastica umana" approntata dagli ultras
ustascia a Livorno lo scorso 16/8, si veda ad es.: http://www.
24sata.hr/articles/view/31583/ ). L'Erzegovina è d'altronde il centro
del nazionalismo ustascia.

Nel ragionamento di Tacconi non mancano tuttavia alcune inaccettabili
sciocchezze: quella su Tito che avrebbe avuto "migliaia di donne";
l'affermazione lapidaria secondo cui l'esperienza jugoslava sarebbe
"irripetibile"; l'idea per cui quello socialdemocratico (di
Lagumdzija, filooccidentale) sarebbe l’unico partito bosniaco
autenticamente multietnico (per inciso: "Liberazione", visto che ti
occupi di Tito, lo sai che in Bosnia ci sono anche i comunisti?); o
la bugia secondo cui "i serbi assediarono la città" di Mostar, una
bugia degna di Predrag Matvejevic. In realtà, i serbi furono i primi
a subire la pulizia etnica della città, dovendo scappare tutti, circa
ventimila, sulle colline attorno a Mostar subito allo scoppio della
guerra fratricida, e solo in questo senso "assediandola".

In generale, anche i migliori articoli dei commentatori italiani
sulla Bosnia tradiscono una incomprensione di fondo: e cioè il non
voler prendere atto che non esiste e non può esistere alcuna Bosnia-
Erzegovina multinazionale se non all'interno di una Jugoslavia
multinazionale. (Italo Slavo)


Liberazione
22 agosto 2006

Nel paese balcanico tagliato a fette dalla guerra etnica cresce il
rimpianto verso vecchio modello jugoslavo

Quando c’era Tito...
La Bosnia ha nostalgia del Maresciallo

Matteo Tacconi

Sarajevo - La rivoluzione toponomastica degli anni Novanta ha
risparmiato il buon vecchio Tito. La Marsala Tita ha conservato
l’antica e prestigiosa collocazione, tanto a Sarajevo, quanto a
Mostar. La via intitolata al padre della “Seconda Jugoslavia”, quella
successiva alla parentesi monarchica e precedente all’era di Slobodan
Milosevic, percorre le due città più famose della Bosnia e dai
rispettivi centri storici fila via verso le periferie, dilatandosi
fino a diventare un’arteria.

Contrariamente a quanto accaduto nei vecchi paesi d’oltrecortina,
dove il crollo dei regimi socialisti ha avuto come corollario la
tenuta a battesimo di nuove vie, prima intitolate ai volti noti della
falce e del martello, finiti presto nel dimenticatoio e cestinati in
tutta fretta, la Bosnia ha lasciato le cose così com’erano: Josip
Broz è rimasto nel cuore delle città e della gente.

Il maresciallo è il simbolo di un’epoca irripetibile durante la quale
la gente aveva casa, lavoro e pace. Era così anche negli altri paesi
d’oltrecortina, ma il modello socialista jugoslavo era quello
dell’autogestione, ibrido, collettivista ma aperto anche
all’iniziativa privata. Liberale e senza tracce di cupezza. E poi
c’era l’ideale della Jugoslavia, la terra degli slavi del sud, un
grande coacervo di religioni e popoli, un esempio di convivenza
pacifica e fruttuosa tra tre religioni (cattolica, musulmana e
ortodossa), cinque popoli (croati, sloveni, serbi, bosniaci,
albanesi) e un unico partito, centralista e strutturato intorno alla
figura di Tito, ma pronto a elasticizzare l’apparato per comporre
contrasti e fratture.

Mugdim rimpiange i vecchi tempi. La sua casa sorge nella Jelica
Ulica, un vicolo che congiunge la Ferhadija e Mula Moustafa
Beseskije, le due vie che racchiudono il quartiere turco prima e
quello asburgico poi e che confluiscono nello slargo dove sorge il
monumento ai partigiani jugoslavi, che marca l’inizio della Marsala
Tita. Mugdim, ingegnere in pensione, ha combattuto nell’esercito
bosniaco e difeso Sarajevo dall’assedio dei serbi. Un cecchino lo ha
colpito e gli ha traforato il fianco, dov’è rimasta una grande
cicatrice. La piccola feritoia del bagno della sua abitazione si
affaccia su un rudere di guerra; sembra che la mattanza degli anni
Novanta non voglia lasciare in pace questo modesto e umile cittadino
della capitale, che affitta una stanza ai viaggiatori, senza
sciacallare: 12 euro a notte, compresa un’abbondante colazione.

Mugdim rifiuta di essere chiamato bosgnacco, l’aggettivo che segna
l’appartenenza alla “nazione” musulmana. «Io sono bosniaco e lo sono
anche i croati dell’Erzegovina e i serbi della repubblica Srpska. La
guerra ha tagliato a fette questo paese e la classe politica non fa
altro che alimentare i rancori per guadagnarne in termini di voti».
Sfoglia il giornale, Mugdim e scuote la testa quando intercetta con
lo sguardo i titoli delle pagine politiche, grondanti di
chiacchiericcio nazionalista e accuse reciproche, un continuo botta e
risposta tra i boss della Srpska e della Federazione, le due entità
che formano la Bosnia. «Quando c’era Tito vivevamo tutti sotto lo
stesso tetto», afferma.

Il figlio di Mugdim, Ervin, è un dinamico ventenne che lavora alla
commissione elettorale e sfida coraggiosamente la cortina etnica. Si
è fidanzato con una ragazza serba, contravvenendo all’ideologia
corrente, secondo la quale fidanzamenti e matrimoni misti sono quanto
di più squallido possa esserci, in un paese in cui l’ideologia della
divisione etnica, portato della guerra, appesta ancora l’aria. Quando
c’era Tito non era così. I musulmani si sposavano con gli ortodossi,
gli ortodossi con i cattolici, i cattolici con i musulmani. Le storie
di sposi e spose appartenenti a religioni diverse sono state cantate
con acume da Ivo Andric, romanziere nato a Travnik, nella Bosnia
centrale, insignito nel 1961 nel premio Nobel. «Prima c’era grande
tolleranza e rispetto per la fede altrui», afferma Dragan,
disoccupato di Brcko, mentre sorseggia stancamente rakija, la grappa
locale. Anche Dragan, serbo, è figlio della guerra. «Uno schifo»,
dice senza pensarci su troppo. Anche lui conferma che con Tito le
cose andavano diversamente. «La Jugoslavia era un paese rispettato,
equidistante dai blocchi, non allineato». Proprio questa è stata la
forza del maresciallo, che ha sfruttato al meglio la collocazione
geopolitica della Jugoslavia e flirtato con gli uni e con gli altri
(oltre che con migliaia di donne, data la sua proverbiale vocazione
da playboy), chiedendo prestiti a destra e manca.

Gli storici affermano che non è stato solamente il venire meno della
figura unitaria di Tito a spingere la Jugoslavia verso il baratro e
scatenare la carneficina in Bosnia. La morte, nel 1980, del patriarca
della seconda Jugoslavia è stato un duro colpo all’unità degli slavi
del sud. Ma, sostiene la storiografia, Tito ha le sue responsabilità:
ha accentrato in maniera eccessiva il potere senza mai porsi il
problema di individuare un degno successore e ha lasciato al paese
una mastodontica quantità di debiti, accumulati senza sosta durante
il periodo d’oro della Jugoslavia, la cui curva ha iniziato a
scendere dopo la morte del maresciallo, portando prima crisi
economica e inflazione e poi bombe, eccidi, stupri, morte.

Ma i nostalgici di Tito non si soffermano sulle discussioni
d’accademia. Rimangono ancorati all’idea di Jugoslavia, al benessere
di una volta, alla convivenza costruttiva tra i popoli dei Balcani. E
il movimento titino esce allo scoperto. Il caffé Marshall di Mostar è
un locale pieno di busti e foto del Maresciallo. C’è anche una copia,
chiaramente non originale, della taglia messa su di lui dai nazisti,
all’epoca della resistenza. Il posto è frequentato dai giovani di
Mostar, la cui parte musulmana (l’altra è quella croata) si distingue
per una certa indole progressista e per la volontà di riscoprire il
patrimonio politico della Jugoslavia titina. Nani, uno dei fondatori
del centro sociale Abrasevic di Mostar, palazzina diroccata in Ulica
Aleste Santica, la strada che segna la vecchia linea del fronte e che
è stata simbolicamente scelta dai giovani di Mostar per fondare il
centro, che si propone di favorire la riconciliazione tra le comunità
bosgnacca e croata, racconta: «Ero piccolo per ricordarmi della
Jugoslavia e celebrarla. Noi giovani respingiamo i nazionalismi
serbo, croato e bosgnacco e vediamo in Tito un simbolo di pace».
Maria, croata, altra animatrice dell’Abrasevic e candidata alle
parlamentari del primo ottobre, nelle fila dei socialdemocratici,
l’unico partito bosniaco autenticamente multietnico, non ha dubbi.
«La riscoperta di Tito va di pari passo con la voglia, avvertita
dalla gente comune, di riconciliazione e serenità». Fosse facile. La
Bosnia è un puzzle incandescente di nazionalismi, i politici
cavalcano lo sciovinismo per tirare acqua al proprio mulino. Il
titoismo è lontano. Ma crederci non fa mica male.


Liberazione
23 agosto 2006

Nel dualismo tra Zrinjski e Velez, le due squadre della città della
Bosnia-Erzegovina, entrano politica e tensioni mai superate tra
croati e musulmani

La guerra dei Balcani non è mai finita per chi gioca il derby di Mostar

Matteo Tacconi

Mostar - Difficile che il dualismo tra Zrinjski e Velez Mostar, le
due squadre della principale città dell’Erzegovina, la fascia
meridionale della Bosnia, possa suscitare l’interesse con cui si
segue il derby tra Roma e Lazio o le sfida tra Real e Barcellona. Ma,
pur lontano dalla vetrina della mondovisione, la sfida cittadina di
Mostar travalica abbondantemente il perimetro di gioco e sfocia
nell’aperta contesa politica. I croati (di destra) da una parte, i
musulmani (di sinistra) dall’altra. Il rischio è quello di
generalizzare, di etichettare con troppa precipitazione i primi e
attribuire ai bosgnacchi (i musulmani bosniaci) una qualità che non
hanno. Ma sconfinare nella porzione croata di Mostar fa un certo
effetto, per la notevole quantità di scritte murali inneggianti al
generale Ante Gotovina e le numerose croci celtiche che affiancano
gli slogan pro-Zrinjski. E allo stesso modo impressiona la zona
islamica della città, dove la musica cambia e balzano agli occhi
centinaia di “Red Army” pennellati sui muri e altrettante stelle
rosse (che è pure il simbolo del Velez).

Mostar è una mela spaccata. Durante la prima fase della guerra,
quando i serbi assediarono la città, croati e musulmani unirono le
forze. Poi, all’improvviso, i primi attaccarono i secondi, li
espulsero dalla parte occidentale della città e imposero loro di
spostarsi a est. A più di dieci anni dalla guerra, le due rive della
Neretva, il fiume verde smeraldo che scorre nella città, sono due
mondi impermeabili, i reciproci rancori sono qualcosa di più
significativo di una semplice intolleranza e in pochi hanno avuto il
coraggio di tornarsene a vivere nelle case in cui abitavano prima
della guerra, dall’altra parte del fiume.

Quest’anno ci sarà il derby cittadino. Il Velez, relegato negli
ultimi anni nel purgatorio della seconda serie, è stato promosso e
sfiderà i più blasonati cugini. Nello stadio dello Zrinjski
sventolano decine di bandiere croate. Chiedo al custode quali sono i
giocatori più bravi dello Zrinjski e lui cita praticamente a memoria
la formazione, talmente rapidamente che terminata la filastrocca è
impossibile memorizzare anche un solo cognome dell’undici titolare,
che, dice con orgoglio l’interlocutore, è arrivato secondo in
campionato «davanti al Sarajevo», la squadra della capitale che
schiera solamente calciatori musulmani. Gli domando cosa ne pensa del
prossimo derby. La risposta è netta e induce a riflettere. «Non è una
sfida cittadina. È piuttosto nazionale». Il fatto è che i croati
della Bosnia si sentono come stranieri e tendono a costruire un
legame forte con Zagabria, la terra dei loro padri, la madrepatria.
Si definiscono croati a tutti gli effetti, vedono la Bosnia come un
qualcosa di posticcio e ricordano ancora gloriosamente la Herceg-
Bosna, il parastato croato nella Bosnia meridionale, riflesso delle
velleità espansioniste di Franjo Tudjman. È, quello di sentirsi non-
bosniaci, un portato della guerra, che si ripercuote anche nella
comunità serba, portando loro a vivere in malo modo la propria
presenza all’interno dei confini bosniaci.

Chiaramente, per la proprietà transitiva, tutto ciò si riflette nel
calcio. Milorad Dodik, primo ministro della repubblica Srpska, ha
dichiarato qualche tempo fa al settimanale Dani: «Purtroppo non ce la
faccio a tifare per la nazionale di calcio della Bosnia-Erzegovina,
se non quando gioca contro la Turchia». Ovvero: se non quando sfida
un’odiata squadra musulmana.

Torniamo a Mostar. Durante lo scorso mondiale è accaduto il
finimondo, il giorno della gara tra Croazia e Brasile, terminata uno
a zero per i carioca. «Vera e propria guerriglia urbana», racconta
Elena, una cooperante italiana. La cronaca dice che al termine della
gara, i croati di Mostar hanno scatenato la loro rabbia nella piazza
di Spagna della città, dove sorge l’unico liceo multietnico di
Mostar, a due passi dalla linea di demarcazione tra i due emisferi,
il croato e il musulmano. Dall’altra parte c’erano i bosgnacchi, che
simpatizzavano per il Brasile. Inutile dire che la rissa è stata
inevitabile, anche perché la polizia s’è fatta ancora una volta
trovare impreparata e ha peccato in quanto a tempestività. Il
bollettino relativo agli scontri è stato quello di una vera e propria
battaglia: una ventina di feriti, tra i quali alcuni agenti. Alcuni,
come ha raccontato Osservatorio sui Balcani, per colpi d’arma da fuoco.

Il giorno dopo i teppisti croati si sono diretti al liceo
multietnico, edificio, come tanti a Mostar, che porta ancora i segni
della guerra e il cui restauro è finanziato dall’ambasciata spagnola
di Sarajevo. I rivoltosi hanno aggredito verbalmente gli studenti
musulmani, insultandoli a più riprese. Stranamente, i croati non
erano a scuola, in quel giorno, “bloccati” a casa da una festività
religiosa.

Qui a Mostar, in molti giurano che il giorno del derby scoppierà
nuovamente una guerriglia urbana. La stampa locale aveva previsto che
ci sarebbero sicuramente stati disordini lo scorso 16 agosto, visto
che la Bosnia sfidava a Sarajevo la Francia e la Croazia incontrava
l’Italia. Guadare la città in quel giorno è stato davvero curioso. A
est tutti erano sintonizzati sulla sfida tra Bosnia e Francia,
dall’altra parte si guardava la Croazia. «Grazie al cielo era
solamente una amichevole», sostiene Goksi, fotografo di origine
croata, ancora scioccato dai disordini seguiti alla partita tra
Croazia e Brasile. «Il calcio divide in ogni parte del mondo, ma qui
ancora di più».

I vecchi cittadini della Jugoslavia lo sanno bene. Il prologo della
guerra, la triste introduzione al penoso decennio passato, arrivò
proprio con una gara, fra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado,
giocata nel maggio del 1990, quando a livello calcistico la
Jugoslavia era ancora unita. I tifosi si scatenarono, se le diedero
di santa ragione e alcuni calciatori si lanciarono nella mischia, a
colpire a destra e manca e pestare le forze dell’ordine. Zvonimir
Boban divenne per i croati un eroe nazionale, quando colpì
violentemente un poliziotto che cercava di impedire l’ingresso dei
teppisti in campo. Era la fine della Jugoslavia. Arriverà anche la
fine della Bosnia? Improbabile. Ma attraversandone i paesi e
percorrendone le strade, l’impressione che si ricava è che di certo
la riconciliazione tra le tre anime etniche del Paese arriverà nel
lungo termine. Sperando che arrivi davvero. E che Milorad Dodik e i
croati inizino a fare il tifo per la nazionale della Bosnia-Erzegovina.