(Ovak tekst na srpskohrvatskom:
Implikacije i teške posljedice kako simbolične tako i praktične incijative koja je institucionalizirala takozvani «Dan sjećanja» su svima pred očima. Manje su poznati materijalni interesi koji konkretno motiviraju tu operaciju...

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L'articolo che segue è stato scritto quasi un anno fa. Doveva essere pubblicato su di una rivista che invece, dopo aver richiesto "per ragioni di spazio" che fossero fornite versioni sempre più ridotte, non lo ha mai pubblicato. 
Certo, alcune cose sono cambiate da allora - il governo Berlusconi, ad esempio, non c'è più - ma la sostanza dei problemi rimane la stessa. Anzi, a dire la verità, alcuni problemi appaiono più evidenti e più gravi ancora. 

Mi riferisco innanzitutto al lavaggio del cervello sui "crimini slavocomunisti", che quest'anno è cominciato con almeno una settimana di anticipo sulla data "canonica" (10 Febbraio). Ogni anno, la propaganda nazionalista italiana alza la voce ed il "tiro". Stavolta, tutti i media di Stato hanno messo in palinsesto una programmazione speciale, per dare più spazio possibile alle voci del revanscismo, e solo a quelle.
La RAI-TV da giorni manda in onda un breve spot nel quale compare una grande scritta: FOIBE. Seguono immagini d'epoca, tra cui quella di un gruppo di antifascisti che sventolano una bandiera della Jugoslavia socialista, ed un'altra grande scritta: PULIZIA ETNICA. Tecniche di guerra psicologica, insomma, come nemmeno durante la Guerra Fredda; come se la "soglia di Gorizia" fosse ancora lì, come se fossimo tuttora con i mitra puntati.

Mi riferisco anche, però, all'atteggiamento della "sinistra" italiana, che - come cercavo di spiegare già nell'articolo "Terre irredente"- è pienamente, coscientemente partecipe di queste operazioni, che non sono solo operazioni di revisionismo storico, bensì anche manovre geopolitiche molto precise e pericolose.
La mattina del 10/2/07 alla Stazione Centrale di Bologna viene installata una lapide, che pare reciti: "Nel corso del 1947 da questa stazione passarono i convogli che portavano in Italia esuli istriani, fiumani e dalmati costretti ad abbandonare i loro luoghi dalla violenza del regime nazional-comunista jugoslavo" (fonte: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.). Non è un caso che proprio una città come Bologna, la sua Stazione Centrale, diventi il teatro, il "centro" di questi accostamenti aberranti: l'accostamento tra il terrorismo fascista (la bomba del 2 Agosto 1980) ed un presunto "terrore comunista"; l'accostamento tra "comunismo jugoslavo" e "nazionalismo", aberrante poichè la Jugoslavia fu anti-nazionalista, ovvero internazionalista, intrinsecamente (direbbero i matematici: "per costruzione"); e l'accostamento, di fatto, tra comunismo e nazismo, in virtù della evocazione di "convogli" di gente apparentemente "deportata"... 

AM



Le implicazioni e le pesanti conseguenze, simboliche e pratiche, della iniziativa di legge che ha istituito il cosiddetto "Giorno del Ricordo" sono sotto agli occhi di tutti. Meno noti sono gli interessi materiali che motivano concretamente queste operazioni...

TERRE IRREDENTE

di A. Martocchia
(responsabile politico del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia)


La propaganda italiana sulle "foibe" e l'"esodo", sempre affiorante nel corso della Guerra Fredda e poi pesantemente scatenata a livello di massa dalla metà degli anni Novanta, è basata su molte menzogne e sull’uso di lenti di ingrandimento ad hoc che fanno apparire come abnormi fatti sostanzialmente assimilabili a quelli accaduti ovunque durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Questa propaganda ha due scopi: da una parte, è la vendetta morale di chi ha perso la guerra ma vorrebbe vincerla adesso dal punto di vista del giudizio storico; contemporaneamente, c’è un interesse geo-strategico molto concreto ad agitare queste questioni per esercitare pressioni ai danni dei nuovi piccoli Stati balcanici, sorti dallo squartamento della Jugoslavia. Essi non possono infatti efficacemente difendersi né dalle campagne propagandistiche né tantomeno dalle mire neocoloniali dei paesi limitrofi. 

Il contenzioso sul confine orientale dell'Italia, pur presentandosi a prima vista nella forma oscena del revisionismo storico, è insomma ben altro che non un semplice dibattito storiografico. Lo scopo che ci prefiggiamo con questo scritto è quello di fare luce anche sugli aspetti concreti, materiali della complessa querelle


Ritorneremo?

8 novembre 1992. Gianfranco Fini viene ritratto al fianco di Roberto Menia, all'epoca segretario della federazione MSI-DN di Trieste, mentre, in barca al largo dell'Istria, lanciano in mare bottigliette tricolori recanti il seguente testo: 

<< Istria, Fiume, Dalmazia: Italia!... Un ingiusto confine separa l'Italia dall'Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Yugoslavia [con la Y, sic] muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975 oggi non valgono più... E' anche il nostro giuramento: "Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!" >>.(1)

Roberto Menia, oggi parlamentare della Repubblica, già all'epoca doveva la sua notorietà in particolare a certe spedizioni in Carso, insieme ad altri suoi camerati per demolire a colpi di piccozza le targhe bilingui dedicate alla liberazione dal nazifascismo, ed agli insulti razzisti rivolti a suoi noti concittadini di lingua slovena, per i quali si era beccato qualche denuncia penale. Egli si vanta tuttora del fatto che ogni anno, a ottobre, usa festeggiare l'anniversario della Marcia su Roma. Tra le "frasi celebri" di Roberto Menia, cresciuto in quegli ambienti triestini tra i cui slogan spicca "Bilinguismo mai!", ricordiamo ad esempio: "L'Istria diventi pure un'euroregione. Purché torni all'Italia", ed anche: "Abolire il Trattato di Osimo, restituire a Trieste la Zona B, annullare il Trattato di pace in base al quale abbiamo perso l'Istria, Fiume e Zara, e finalmente chiedere la restituzione della Dalmazia".(2)

Saltiamo al 30 marzo 2004, giorno in cui il Parlamento della Repubblica Italiana proclama la data del 10 febbraio "Giorno del ricordo". Per l'occasione, i deputati delle destre, e primi tra tutti i governativi di Forza Italia (sic) ed Alleanza Nazionale (sic), inclusi i suddetti Fini e Menia, festeggiano la votazione della legge tra brindisi e lacrime di gioia.
Che cosa hanno da festeggiare o da commuoversi, quei deputati? Il 10 febbraio è l'anniversario del trattato di pace di Parigi (1947) con cui si pose formalmente termine alle ostilità della Seconda Guerra Mondiale tra Italia e Jugoslavia. Secondo il testo ufficiale, «la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe». Di fatto dunque il 10 febbraio è stato assunto come data simbolica dell'inizio del cosiddetto "esodo degli italiani da Istria e Dalmazia". Come nelle tesi tradizionalmente sostenute dalla pubblicistica di estrema destra, inoltre, per questo "esodo" viene addotta come causa la presunta persecuzione, o "pulizia etnica", attuata in quelle terre dagli slavi contro gli italiani "in quanto tali". Tale persecuzione sarebbe esemplificata da orrendi crimini di guerra quali, appunto, le "foibe". 


Crimini di guerra sul "confine orientale" ed "esodo degli italiani"

Le foibe sono fenditure profonde provocate dall'erosione millenaria delle acque nelle rocce calcaree. Esse sono sempre state usate dagli abitanti delle zone carsiche per far sparire ciò di cui intendevano disfarsi: oggetti, carcasse di animali, ma anche vittime di tragedie private o delle violenze della storia. La storiografia di destra ha offerto versioni contraddittorie, ma sempre truculente, su presunte uccisioni di massa di "molte migliaia di italiani", gettati (vivi? morti?) in fondo alle "foibe" da parte dei "comunisti slavi" nel corso della Guerra di Liberazione. Tuttavia, del contenuto di queste presunte fosse comuni in termini di cadaveri poco si riesce a capire, nella ridda delle versioni propagandistiche. È noto inoltre che le foibe, il cui utilizzo viene correntemente attribuito solo ai partigiani di Tito, furono utilizzate per le frettolose sepolture delle vittime degli scontri armati da tutti quelli che combatterono in quei luoghi. 

Durante la Guerra Fredda, sui media italiani la campagna sulle “foibe” emergeva occasionalmente, legandosi alle operazioni di propaganda psicologica dei servizi segreti - nella zona giuliana strutturati e cresciuti attorno alla Decima Mas, poi trasformatasi in Gladio: chi ricorda il "nasco" di Aurisina/Nabrezina, in Carso? La campagna sulle "foibe" era stata però iniziata dalla stampa nazista dell’Adriatisches Küstenland (Cernigoi 2002, 2005). Essa ha ripreso particolare enfasi dopo il 1991 come forma di pressione su Slovenia e Croazia, e si avvale oggi del contributo in senso revisionista di storici “democratici”, fino a lambire i libri di testo delle scuole dell’obbligo.(3)

Per compiere l'operazione istituzionale denominata "Giorno del Ricordo", le autorità italiane si sono avvalse di consulenze storiche parziali, faziose, o di nessuna consulenza storica. Non è stato tenuto in alcun conto il lavoro degli studiosi non revanscisti: in particolare, è stato censurato il lavoro realizzato dalla Commissione mista italo-slovena.(4) Nel corso di dieci anni di studi e ricerche, questa commissione aveva elaborato un rapporto finale che, pur nei limiti che ciascuno può rilevare a seconda della propria personale prospettiva politico-ideologica, rappresenta comunque un punto d'incontro di diversi punti di vista su quelle vicende. 

Niente da fare. Il Presidente Ciampi quest'anno, nell'ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, ha attribuito una medaglia d'oro a Norma Cossetto, uccisa da antifascisti in Istria. La motivazione recita: «Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in un foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio». Nel suo recente libro "Dossier Foibe" Giacomo Scotti ha documentato come Norma Cossetto, figlia del podestà di Visinada, fosse la responsabile locale della Gioventù Universitaria Fascista (GUF). Norma Cossetto figura insieme ad altri fascisti e collaborazionisti nell'elenco dei 26 nominativi cui è stata attribuita l'onoreficenza per la Giornata del Ricordo 2006. Questa "luminosa testimonianza di amor patrio" rivendicò sempre il suo fascismo, tanto da inneggiare a Mussolini davanti a chi la catturò ed uccise. Dal verbale del capo dei Vigili del Fuoco di Pola non emerge nessuno dei particolari efferati che sono generalmente riferiti riguardo alla sua uccisione: Scotti elenca le contraddizioni; Ciampi invece, evidentemente, non se ne cura proprio.  

Neanche l'allora presidente Scalfaro si curò di verificare che cosa effettivamente era o non era stato trovato in fondo alla "foiba di Basovizza" quando, una decina di anni fa, firmò il decreto con cui questa veniva proclamata monumento di interesse nazionale. È stato mostrato (Cernigoi 2005) che non esiste alcun elemento concreto che possa far ritenere che in fondo alla foiba si trovino o siano stati trovati cumuli di cadaveri di italiani sterminati; al contrario, la foiba, svuotata nel primissimo dopoguerra da carcasse di animali e cadaveri di soldati morti in combattimento, fu destinata a discarica comunale (sic) dal sindaco democristiano di Trieste dell'epoca, Gianni Bartoli - il quale era, per inciso, anche il compilatore del primo elenco di "infoibati".

A proposito di elenchi: non ce n'è uno che sia affidabile. Un trucco spesso usato è quello di definire "infoibati" tutte le persone scomparse, ma non si disdegnano le falsificazioni grossolane. All'inizio di marzo 2006 è stato reso noto un elenco di 1048 nominativi di persone deportate dalla provincia di Gorizia ad opera del IX Korpus nel maggio 1945. L'ANSA e molti quotidiani italiani ne hanno subito approfittato: "Quei 1048 nomi riemersi dalle foibe", titolava la velina di Paolo Rumiz su Repubblica del 10/3/2006. Eppure, tra i nomi contenuti nell'elenco ci sono 110 persone che sono ritornate vive e vegete; la stragrande maggioranza dei nominativi riguarda militari, nazifascisti o collaborazionisti - persino domobrani, cioè sloveni filo-fascisti - internati in Slovenia ed in parte, evidentemente, giustiziati, in parte morti per malattie. Manca l'ubicazione dei cadaveri. Secondo lo storico sloveno Boris Gombac, "gli architetti della tensione sul confine hanno usato questi elenchi a fini propagandistici".(5) 

Non è questa la sede per una disamina completa del lavaggio del cervello compiuto ogni anno a latere della "Giornata del Ricordo". Ci limitiamo qui a richiamare alcuni aspetti della disinformazione corrente, rinviando per l'approfondimento agli ottimi studi e materiali prodotti negli ultimi anni, frutto essenzialmente - in un contesto ufficiale ed accademico purtroppo tutto piegato alle opportunità politiche - del lavoro volontario di pochi intellettuali indignati.(6)

Facciamo di nuovo qualche passo indietro. Dopo la fase "tardo-risorgimentale" - la Prima Guerra Mondiale, la italianizzazione forzata e l'irredentismo (si pensi all'"impresa di Fiume" di Gabriele D'Annunzio) - sotto il Fascismo l'occupazione coloniale di vasti territori, da Lubiana a Pristina (1941-1943), era stata particolarmente violenta. Vi erano campi di concentramento italiani in territorio slavo, ad esempio a Rab/Arbe, ma anche campi per prigionieri jugoslavi in territorio attualmente italiano, come a Gonars in Friuli.(7) Il tasso di mortalità in questi luoghi era molto alto. I crimini di guerra commessi dall'esercito d'occupazione italiano - villaggi bruciati, fucilazioni di massa, eccetera - sono regolarmente omessi dalle narrazioni ufficiali e "pubbliche". Essi non fanno, in effetti, parte della memoria collettiva degli italiani; ed i responsabili di quei crimini furono protetti e si riciclarono nell'Italia del dopoguerra.(8)

Dopo l’8 settembre 1943, Trieste ed il suo entroterra divennero parte della regione del Terzo Reich denominata Adriatisches Küstenland. In questa regione i collaborazionisti di ogni “etnia” - fascisti italiani di Salò ma anche domobrani, ustascia e cetnici - si resero responsabili di crimini difficilmente riassumibili in questa sede... La risposta dei partigiani fu quella necessaria e giusta, e ben raramente sconfinò nelle vendette personali. Di fatto, queste ultime, regolarmente sottoposte a giudizio dai tribunali jugoslavi nel dopoguerra, causarono assai meno lutti (parliamo di cifre con uno o due zeri di meno) nella regione giuliana di quanto nello stesso periodo non successe, ad esempio, in Piemonte o in Emilia-Romagna - tanto per citare un dato: furono circa 20.000 i collaborazionisti passati per le armi solo a Milano e provincia. 

In un contesto italiano quale quello attuale, segnato da un revisionismo dilagante di segno nazionalista e revanscista, cadono nel vuoto le proposte, reiterate sia da parte slovena che da parte croata, di incontri ed atti simbolici per una definitiva riconciliazione delle tre parti: a Ciampi, o al suo successore, si chiede di rendere omaggio alle vittime slave dei campi di concentramento di Gonars o Rab/Arbe, o magari andare anche sui luoghi dove le truppe di occupazione italiane bruciarono villaggi e commisero eccidi di massa. Le controparti slovena e croata, dal canto loro, renderebbero omaggio alle "vittime delle foibe". Ciampi però non si degna nemmeno di replicare a Drnovsek e Mesic su queste ipotesi: d'altronde, anche lui fu soldatino dell'esercito di occupazione italiano nei Balcani, all'epoca - in Kosovo, per la precisione.

Veniamo al cosiddetto "esodo da Istria e Dalmazia". Le ragioni di esso furono molteplici, ma non si può proprio dire, come fa certa storiografia neofascista/postcomunista, che esso fu dovuto ad una ostilità di carattere nazionale. Da una parte, il moto migratorio dalle campagne alle città in quell’epoca era generalizzato, e comportò ad esempio anche la emigrazione di triestini ed istriani verso città industriali più grandi, ed anche verso l’estero. Dall'altra, interagirono fattori di carattere politico-ideologico. Tra chi abbandonava la Jugoslavia c'erano: persone semplici, soggette alla propaganda anticomunista violentissima veicolata soprattutto dal clero; anticomunisti convinti; persone accusate o timorose di essere sotto inchiesta per collaborazionismo; ed anche veri e propri criminali fascisti. Non a caso in quel periodo Trieste pullulava - letteralmente - di esuli sloveni, croati e serbi legati ai movimenti fascisti e nazisti delle loro terre, che avevano anch’essi perso la guerra. Non solo: tra gli esuli di lingua italiana vanno annoverati i tanti "regnicoli", vale a dire quegli italiani della penisola trapiantati in Istria e Dalmazia solo da pochissimi anni, essenzialmente nel periodo tra le due guerre mondiali. Sparsi tra questi, anche fanatici irredentisti italiani, dei quali possiamo facilmente immaginare la posizione politica rispetto alla nascita di una Jugoslavia plurinazionale e socialista. Insomma, ad andarsene erano sia italiani che slavi, povera gente in cerca di fortuna e ricchi possidenti in fuga, persone che non nutrivano fiducia nella costruzione del socialismo o anche persone nient'affatto politicizzate, insieme a fascisti e - dal luglio 1948 in poi - anche comunisti filosovietici: dopo la Risoluzione del Cominform se ne andarono infatti tanti lavoratori, rappresentanti della classe operaia delle città e dei porti costieri, come ad esempio i portuali di Pola. Va detto poi che, in seguito al trattato di pace di Parigi, agli abitanti di Fiume, Istria e Dalmazia fu accordata la facoltà di scegliere in tutta onestà se accettavano la nuova sovranità jugoslava, o se preferivano andar via: per questo chi sceglieva di andarsene veniva tecnicamente definito optante, e non esule

L'afflusso di decine e decine di migliaia di persone a Trieste è durato molti anni, concentrandosi soprattutto tra il 1947 ed il 1954. In un certo senso esso non è mai smesso, per ragioni economiche come anche, oggigiorno, per gli effetti della distruzione della Jugoslavia. Tale afflusso ha pesantemente aggravato la crisi di una città che sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale fatica a ritrovare un proprio ruolo ed una propria identità. Da grande porto della Mitteleuropa qual era, Trieste diventa infatti, nel 1918, un centro periferico e tutto sommato marginale del giovane Regno d'Italia; "importante" solo simbolicamente e come base di lancio delle "epiche imprese" degli irredentisti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, che l'ha vista teatro di gravissimi eventi bellici, essendo collocata in una posizione geopolitica assai scomoda, Trieste sembra soffrire di una crisi esiziale. La popolazione, già scissa per ideali, culture e condizioni economiche differenti ed instabili, assiste con comprensibile diffidenza e risentimento all'afflusso di tanta gente da Istria e Dalmazia; gente per la quale bisognerà trovare alloggio e lavoro. In molti, in effetti, proseguiranno il loro viaggio ben oltre Trieste, fino alle Americhe ed in Australia talvolta, o almeno verso tante diverse regioni d'Italia. In tutto si parla di solito di circa 350mila persone.(9)

Degli italiani rimasti in Jugoslavia, invece, o di quelli che addirittura ci si sono intenzionalmente trasferiti per convinzioni ideologiche, per decenni si è preferito non parlare. D'altronde, un aspetto piuttosto evidente, a tutt'oggi, nella problematica relativa agli istrodalmati, è quello della polarizzazione tra "esuli" e "rimasti". La comunità italofona, oggi stimata in circa 30mila persone, è in una posizione effettivamente difficile, con l'aria che tira dal 1989 in poi. Qualcuno di loro si ricicla e prova a spacciarsi per super-italiano, mettendosi in vario modo al servizio degli interessi di "oltrefrontiera"; qualcun altro prova, con fatica, a costruire relazioni di buona vicinanza con tutti, salvaguardando e valorizzando da una parte la propria radice culturale italiana, ma usando questa specificità soprattutto per il bene della sua terra - vale a dire, anche per la democratizzazione della Croazia e della Slovenia e per la integrazione in un contesto europeo nel quale, si presume, tutte le frontiere sarebbero destinate a cadere. È d'altronde innegabile che proprio queste fasce di popolazione, abitanti "a cavallo" dei confini e di etnia "altra", abbiano sofferto particolarmente per la situazione venutasi a determinare con le secessioni jugoslave, ovvero con la creazione di ulteriori frontiere in un'area nella quale nessuna frontiera può avere alcuna legittimità culturale o sociale.(10)


Destra-sinistra-destra-sinistra

In occasione del Giorno del Ricordo 2006, in pieno centro a Trieste si è svolto un corteo, animato da cori inneggianti al duce e saluti romani. Oltre un centinaio di persone, appartenenti al Gruppo Unione Difesa (GUD), hanno infatti voluto celebrare a modo loro, rivendicando la restituzione di tutti i territori della Venezia Giulia passati sotto la sovranità jugoslava dopo la guerra. In piazza Goldoni i manifestanti hanno acceso alcuni fumogeni per protestare sotto il consolato croato. Dopo un breve comizio tenuto dai due candidati della lista «Prima gli italiani» (sic), il corteo è tornato al punto di partenza. Tra le ragioni fondative del GUD c'è pure la volontà di contrastare la legge (38/2001) di tutela della minoranza slovena. 
Si dirà: i neofascisti ci sono sempre stati. La novità gravissima dal punto di vista politico, però, è il ruolo svolto dalla sinistra in queste vicende almeno a partire dalla metà degli anni Novanta.

Era il 21 agosto 1996 quando, con un articolo sull'Unità, l'allora segretario del PDS di Trieste, Stelio Spadaro, sollevò a livello nazionale il "problema" delle foibe, auspicando una «severa autocritica» della sinistra, da lui ritenuta «colpevole di aver rimosso la tragedia delle foibe e i crimini di Tito». L'anno successivo, le dichiarazioni di Luciano Violante - allora presidente della Camera - sui "ragazzi di Salò"  destarono ulteriori, più note polemiche. 

Il 18 marzo 1998 si svolse al Teatro Verdi di Trieste un incontro di Luciano Violante e Gianfranco Fini con gli studenti sulla storia della Venezia Giulia. In quella occasione Violante disse: "Ci sono state delle responsabilità gravi del movimento comunista e responsabilità gravi del movimento fascista: non si tratta di contrapporre una memoria all'altra, ma di capire e poi di misurarsi con l'altro sulla base della propria memoria". Anche per Fini era necessario "definire una memoria storica condivisa". Un netto dissenso sui contenuti del confronto fu espresso da 75 storici italiani, tra cui Angelo Del Boca, che in un documento denunciarono «l'infondatezza storica dell'argomentazione e l'inconsistenza delle richieste avanzate» da Violante e da Fini: «iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la verità storica e con i valori fondamentali della Costituzione».(11)

Il momento più grave di questo ri-orientamento delle "sinistre" nel senso del revisionismo storico e del revanscismo nazionale si è avuto proprio attorno alla istituzione del "Giorno del Ricordo". Piero Fassino, segretario dei DS, ha rilasciato ignobili dichiarazioni in una conferenza stampa pubblica a Trieste poche settimane prima della votazione del provvedimento, il 5 febbraio 2004. Egli ha affermato testualmente che l'aggressione fascista alla Jugoslavia non giustificava né "la perdita dei territori" né l'"esodo degli istriani". Si è trattato della prima proclamazione palesemente irredentista da parte di un leader della sinistra italiana. Nella lettera inviata alla federazione degli esuli, distribuita nel corso della conferenza stampa, si legge: "Il PCI sbagliò perché non avvertì le tragiche conseguenze dell'espansionismo slavo, che nel vivo della lotta antifascista si era manifestato in comportamenti e linguaggi propri delle contese territoriali e nazionalistiche presenti da decenni in quelle terre". Il PCI avrebbe sbagliato a vedere la vicenda del confine orientale come una lotta tra fascismo ed antifascismo; essa andrebbe letta piuttosto come "una delle manifestazioni di quel nazionalismo pericoloso che ha prodotto tante sofferenze in questa parte dell'Europa e che torna a risorgere ogni tanto come s'è visto nel decennio scorso nei Balcani". Un riferimento alla recente guerra fratricida ed imperialista in Jugoslavia, alla quale però - si badi bene - Fassino ha partecipato attivamente, come esponente del governo D'Alema nel 1999.

Dopo avere dato questo spettacolo senza precedenti a Trieste, gli esponenti del nazionalismo italiano di marca diessina ed ex-antifascista hanno coronato l'opera con il voto in Parlamento. 

Gli anni passano veloci. Insieme al "Giorno del Ricordo", anche vie e piazze della penisola vengono dedicate ai "martiri delle foibe"; vengono poi prodotti e trasmessi dalla televisione di Stato telefilm e spot di ispirazione slavofoba ed antipartigiana. La fiction "Il Cuore nel Pozzo", commissionata dal Ministro delle telecomunicazioni Gasparri,(12) rappresenta i partigiani slavi come efferati stupratori che danno fuoco agli asili d'infanzia; il suo attore protagonista, un cabarettista "di sinistra", ritiene che "la fiction ha fatto sapere a 12 milioni di italiani che cosa sono state le foibe". Nel corso della cerimonia per il "Giorno del Ricordo" tenutasi nel 2006 a Roma, in Campidoglio, è il sindaco Veltroni - che nel frattempo pare essere diventato "foibologo" per vocazione, visti gli interventi profusi sul tema persino su riviste femminili come Vanity Fair - a teorizzare che si deve "riconoscere il sopruso e la violenza di cui furono vittime non solo fascisti, ma anche antifascisti, semplici civili privi di una particolare convinzione politica. Italiani colpevoli solo di essere tali"

Anche sul versante della "sinistra alternativa" le cose non sono proprio limpide. 
Nel settembre 2003, il prosindaco di Venezia Bettin, notoriamente vicino agli ambienti dell'ex Autonomia padovana ("Centri sociali del nordest"), ed il sindaco di Venezia Paolo Costa, con l'assenso, controfirmato, dell'assessore all'ambiente Paolo Cacciari (PRC), decretano il cambio di nome del Piazzale Tommaseo a Marghera, intitolato oggi ai "martiri delle Foibe". Parte del PRC locale, giustamente dissenziente, indice una manifestazione di protesta, ovviamente pacifica, contro il cambiamento revisionistico della toponomastica. Vi partecipano anche i Comunisti Italiani, I Verdi Colomba (Boato), i Cobas Scuola e la Rete Antirazzista. È il 28 settembre. I "Centri sociali del nordest" arrivano, prima minacciano e poi aggrediscono sia la rappresentanza di Rifondazione, sia un gruppo di AN, intervenuto ovviamente per motivi opposti, costituendo di fatto un servizio d'ordine di picchiatori alla cerimonia revisionistica. In cinque finiscono in ospedale. Una provocazione mirata, dunque, a rendere ingestibile la protesta di piazza, a difendere con la violenza la scelta di ribattezzare Piazzale Tommaseo, ad intimorire quei settori del PRC che caldeggiano coerentemente una rivalutazione dell'antifascismo e della memoria storica della Resistenza. 

L'azione degli squadristi dei centri sociali "Pedro" e "Rivolta" viene poi rivendicata dal loro capo, Luca Casarini: ''Noi personalmente approviamo la nuova intitolazione della piazza, perchè ci sembra importante non solo tornare in maniera critica su una delle pagine più tragiche della storia del '900 nel nostro paese, ma anche per togliere alla destra fascista qualsiasi alibi e vittimismo legato a questa vicenda... Risulta evidente che dentro Rifondazione si annidano alcuni personaggi nostalgici che hanno organizzato per il giorno della commemorazione una presenza in piazza per contestarla... Noi siamo contro lo stalinismo e il fascismo''.(12)

In seguito a questo episodio, la maggioranza della Federazione PRC di Venezia promuove un incontro pubblico sul tema delle "foibe", al quale interviene lo stesso Bertinotti, rilasciando dichiarazioni inequivocabili. Bertinotti afferma che in passato la Resistenza sarebbe stata "angelizzata", e presunti gravi crimini sarebbero stati nascosti. È il 13 dicembre 2003. Nei mesi successivi, l'input bertinottiano sortisce il suo perverso effetto: da una parte viene aperto sulle pagine di Liberazione uno scivoloso dibattito sulla "nonviolenza", assurta a nuovo valore ri-fondativo della Rifondazione; dall'altro, la maggioranza del PRC in tante realtà locali si presta ad operazioni di segno revisionista, quali le ulteriori re-intitolazioni di vie e piazze - ad esempio a Cesena.(13) L'operazione prosegue fin dentro il VI Congresso del Partito, quello della nuova Bad Godesberg.(14) L'attacco finale di Bertinotti contro la "angelizzazione della Resistenza" viene portato a termine proprio a Venezia, dove era stato avviato.(15)


Dalle divisioni tra comunisti alla distruzione della Jugoslavia

Tra le tante amarezze di questi anni, dobbiamo dunque constatare come l'apice di questo revisionismo sia stato toccato proprio al tornante del 60.esimo anniversario della Liberazione. È stato raramente ricordato, per questo anniversario, che Trieste fu liberata dal IX Korpus jugoslavo, e che la popolazione slava era e resta una grande percentuale degli abitanti, soprattutto nei quartieri popolari, nelle periferie operaie e nei sobborghi carsici, che sono tuttora di lingua slovena. Nell'autunno del 2004, per i 50 anni di "Trieste italiana" sono state organizzate svariate iniziative, sulle quali le voci critiche da sinistra sono state poche e flebili. Eppure, nell'occasione Trieste ha dovuto subire cerimonie iper-militarizzate, nelle quali la componente slovena della città era assente. Nota bene: nel marzo 2006, il decreto attuativo della Legge di tutela 38/2001 per la minoranza slovena è stato bloccato dal governo italiano.

Quella giocata da tale schieramento nazionalista bipartisan è una partita ambiziosa. Essa passa attraverso la demolizione della memoria della Resistenza, anzi attraverso la sua demonizzazione, per poter giungere alla cosiddetta "memoria condivisa": una lettura della storia nazionale che si vuole super partes, consistente nella archiviazione della dicotomia fascismo-antifascismo e nella equiparazione e scambio di ruolo tra vittime e carnefici. Lo scopo di tutto questo è la ri-costruzione di una coscienza nazionale, ricostruzione che passa attraverso la negazione di storia e valori dell'Italia democratica, dalla Resistenza ai rapporti con i paesi e popoli confinanti.

Diciamocelo francamente: alla demonizzazione del movimento di Liberazione partigiano sul “fronte orientale”, effettuata dalle destre e dai moderati con finalità di propaganda anticomunista e nazionalista per decenni, la sinistra italiana non ha mai ribattuto con la necessaria controinformazione neanche in passato. Viceversa, nel tempo si sono rafforzate concezioni assurde; e si è preferito rimuovere la memoria della Resistenza in quelle terre, che fu una lotta squisitamente internazionalista, e mai di “pulizia etnica". I partigiani inquadrati nelle formazioni jugoslave erano in effetti di tutte le nazionalità - anche in Istria ed a Trieste - e le loro vittime (quelle della guerra e quelle di eventuali vendette personali) idem, poichè la guerra era tra fascisti ed antifascisti, non fra italiani e slavi. Le “pulizie etniche” nella storia le hanno fatte, e continuano a farle, solo i nazifascisti ed i loro epigoni.

In Italia la sinistra porta delle responsabilità anche per non aver parlato abbastanza né del carattere colonialista ed imperialista del fascismo né dei crimini commessi da camicie nere ed ufficiali dell’esercito italiano all’estero, innanzitutto nei Balcani. Oggi essa preferisce evocare i “lager di Tito”: ecco allora che destra fascista e post-fascista e sinistra ex-comunista in queste campagne slavofobe si vanno alternando e sostenendo a vicenda, in un ping-pong alla ricerca di legittimazione e spazio in un sistema politico-istituzionale votato a nuove imprese coloniali, e ad un nuovo ruolo di media potenza regionale. La riscrittura della storia sul nostro “confine orientale” è strategica per la riconquista economica dei Balcani.

Gli eventuali appassionati di una ipotetica disciplina, che denomineremo dietro(ideo)logia, andranno magari alla ricerca delle radici "ideali" (meglio: ideologiche, nel senso della falsa coscienza) che possano spiegare la persistente distanza tra la sinistra italiana ed il mondo jugoslavo. Una distanza fatta di ignoranza, diffidenza, non-comprensione. 

Per analizzare tali pregresse attitudini, questi appassionati dietroideologi possono sbizarrirsi a ricostruire all'indietro, fino alla rottura tra Jugoslavia e Cominform, nel 1948, o magari anche prima. La tensione tra comunisti di diverso orientamento - non sempre coincidente con l'appartenenza nazionalitaria! - a partire dal 1948 fu effettivamente forte; essa durò, nella sua forma più acuta, fin verso il 1953, quando nel PCI si ritenne di poter trarre ulteriore legittimazione nazionale, istituzionale e sociale posizionandosi sulla questione di "Trieste italiana" (Galeazzi 2005). A partire dal 1948 furono in gran parte rescissi i naturali legami tra comunisti italiani e comunisti jugoslavi - compresi

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