Parla molto di noi la questione «zingara»
di Alberto Burgio
su Il Manifesto del 17/08/2007
Ciclicamente, come le polemiche sui morti della strada o i roghi estivi (esempio non casuale), riesplode la questione dei campi nomadi. Che ci sia di mezzo il morto (i morti, come i bimbi arsi vivi a Livorno in quello che pare un ennesimo atto criminale) o le gesta squadriste dei padani (come l'anno scorso a Opera), cambia poco. Sta di fatto che di questa questione è impossibile liberarsi. Per nostra fortuna.
Perché? Perché la questione degli «zingari» parla di noi. Qualche giorno fa sul manifesto Enzo Mazzi diceva degli intrecci tra la loro e la nostra cultura. Si potrebbe scavare ancora e scoprire che c'è un legame profondo tra l'esperienza (e il disagio) della stanzialità e l'esperienza (lo stereotipo) del nomadismo. Che diventa un'icona del rimosso e catalizza (qui c'è una convergenza con l'antisemitismo) i furori razzisti della civitas christiana.
Ma non parla di noi solo per questo, la questione «zingara». È parte integrante della nostra storia politica. Di noi italiani (italiani come e non più delle decine di migliaia di rom e sinti cittadini di questa Repubblica), di noi europei (come altre decine di migliaia di rom e sinti e camminanti che vivono nelle nostre città). Faremmo bene a ricordarcene, e invece ce ne dimentichiamo. Perché si tratta di pagine cupe e pesanti come pietre.
La prima riguarda le guerre «umanitarie» nei Balcani. I rom di origine jugoslava (bosniaca e kosovara) sono profughi di quelle guerre di cui l'Italia fu sciagurata protagonista. Sono sfuggiti a vendette e «pulizie etniche» che hanno via via assunto le proporzioni di un pogrom. Si imporrebbe quindi, per cominciare, un bilancio serio dei conflitti che insanguinarono la Jugoslavia lungo gli anni Novanta. Un bilancio che non rimuova la destabilizzazione che li preparò con l'intervento di formazioni terroristiche sotto copertura occidentale.
La seconda pagina del nostro album riguarda le sistematiche persecuzioni inflitte a sinti e rom dopo l'89 in tutte le loro terre d'origine, dalla Slovacchia alla Boemia, dalla Moldavia alla Cechia, all'Ungheria, alla Romania. Nell'indifferenza generale della civile Europa.
La terza (sfondo alle altre) concerne lo sterminio nazista, cui il nostro paese partecipò con leggi e deportazioni. Si diceva delle convergenze con l'antisemitismo. Nel 1936 il Reich equiparò gli «zingari» - emblema di «asocialità» - agli ebrei. Lo sfondamento della Wehrmacht a est fu l'inizio di un calvario che mise capo allo sterminio di mezzo milione di sinti e rom. Ma anche l'Italia fece la sua parte. La persecuzione dei rom prese avvio qui, nei primi anni del fascismo. E le leggi del '38 riguardarono anche gli «zingari», non solo gli israeliti.
Storia? Non soltanto. Alla base di queste nefandezze operarono stereotipi che ancora impregnano le nostre discussioni. Di questo popolo si dipinge un ritratto che non è il suo. I rom jugoslavi avevano le loro case prima che esse venissero sottratte loro a forza. E all'est vivevano sì in condizioni disagiate, ma con un grado di integrazione che noi neppure immaginiamo.
Ma a chi interessa capire se urge giudicare? Si dice del degrado dei campi nelle nostre periferie. Quei campi che tanto spiacciono al cattolico onorevole Casini, ansioso per il decoro delle nostre «grandi città». Quei campi per i quali il democratico sindaco di Torino (come tanti altri dell'Unione, da Roma a Pavia) invoca «poteri straordinari» per i prefetti e interventi «anche oltre le regole pubbliche», pur di «ridurre il numero di rom». Allora bisogna dirlo chiaro: i campi come li conosciamo in Italia non si trovano in altri paesi europei perché altrove i rom vivono in comuni abitazioni grazie a un efficace sistema di sostegno, nel pieno rispetto delle regole.
Dopodiché siamo d'accordo: le prediche non bastano e nemmeno basta la memoria (che pure è un dovere politico, oltre che morale). Dunque che fare? Non si può scantonare da alcuni punti fermi. I rom rumeni non sono extracomunitari, sono europei come tutti gli altri. I rom italiani (70 mila) sono cittadini italiani, come tutti gli altri. A qualcuno potrà spiacere, ma è così. Quindi nessun diritto speciale, nessun trattamento ad hoc. Quanto agli apolidi, essi sono profughi, protetti dalla Costituzione, che riconosce loro (ancora) il diritto d'asilo. Piuttosto chiediamoci: quale risarcimento pensiamo debba ai rom immigrati nel nostro paese l'Italia, oggi accusata dalla Ue di non applicare la direttiva «contro la discriminazione basata sulla razza e le origini etniche», ieri in prima linea nelle guerre balcaniche?
Veniamo al Kosovo. In questi anni, pur controllando militarmente parte del territorio, l'Italia non è stata in grado (per responsabilità bipartisan) di tutelare la presenza dei rom nella regione. Nel Kosovo di oggi, protettorato militare e luogo di loschi incontrastati traffici, le minoranze (i rom, ma anche la piccola comunità ebraica) non hanno possibilità di sopravvivenza e sono costrette a esodi di massa, che riversano centinaia di migliaia di persone nel resto dell'Europa e in particolare in Italia. Domanda: dopo aver bombardato case, ospedali e infrastrutture civili, dopo aver consegnato il territorio alla mafia kosovara (per tacere dello scandalo degli aiuti umanitari, delle tonnellate di beni di vario genere destinati alle popolazioni balcaniche e rimasti a Bari, dei legami con la malavita meridionale), quali programmi sociali ci impegniamo a sostenere? Quale tutela dei tesori storici e artistici, quale difesa delle minoranze, della vita e della cultura di ognuno?
Le forze di occupazione in Kosovo (di questo ormai si tratta) preferiscono assecondare l'irredentismo schipetaro-albanese e gli appetiti degli americani (che intanto hanno installato, in funzione antirussa, la più grande base militare della regione). In questo quadro si gioca la partita dell'indipendenza formale del Kosovo albanesizzato, per la quale anche il nostro governo pare propendere.
Non si finga di non sapere che, ove venisse concessa, l'«indipendenza» cancellerebbe qualsiasi possibilità di convivenza democratica e paritaria tra le popolazioni della regione. E negherebbe ai rom ogni speranza di fare ritorno nella propria terra.
Non si faccia il solito doppio gioco di causare disastri e poi lanciare accuse per le loro conseguenze.