(seconda ed ultima parte)
 
 
AGENTE SEGRETO VELTRONI
 
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GLI ANNI OTTANTA
 
Mentre nel 1980 Massimo D’Alema viene spedito da Enrico Berlinguer in Puglia, a farsi le ossa tra le mille difficoltà del partito al sud, Veltroni nella tranquillità del suo ufficio alle Botteghe Oscure può dedicare il tempo libero alla scrittura.
Infatti, ad appena venticinque anni è stato nominato viceresponsabile nazionale della “Stampa e propaganda”. Il salto è compiuto: dalla federazione romana alla sede nazionale del partito.
Da allora abbandona per qualche tempo il generico presenzialismo politico e veleggia verso l’impegno soprattutto nel campo dell’industria culturale e delle comunicazioni di massa. È in questo settore che maturerà un approccio alla politica in cui i contenuti non sono più importanti, ma vale solo la ricerca di consenso da parte delle industrie culturali e del “pubblico” di massa.
Dal suo osservatorio massmediologico, Veltroni ha percepito che si sta delineando un revival degli anni ’60, e allora eccolo pubblicare un libro scritto con il suo collaboratore di allora Gregorio Paolini (oggi dirigente televisivo). Il sogno degli anni ’60 raccoglie i ricordi di svariati personaggi, da Gianni Morandi che rievoca il Cantagiro, a Giuliano Zincone e Giuliano Ferrara, fino ad Alessandro Curzi e Renato Nicolini. Una ghiotta occasione per intrecciare ulteriori legami con personalità della politica e dello spettacolo, oltre che per avere risalto sui media.
Il libro suscita le sferzanti ironie di Goffredo Fofi, ma Veltroni ha già pronta la seconda cartuccia: un altro libro con le stesse caratteristiche, dedicato questa volta al calcio. 
La scalata non si arresta: è eletto per la prima volta nel Comitato Centrale, a ventisette anni, al XVI congresso del PCI, che si svolge a Milano nel marzo 1983. È ancora il partito di Enrico Berlinguer, e con il beneplacito del segretario, Veltroni diventa il più giovane membro del CC (ma deve scontare una votazione tormentata, in cui riceve 26 voti contrari e 45 astensioni). Al congresso, però, non prende la parola, forse per non rivelare il suo disappunto e il suo orrore per la presenza, tra le delegazioni dei partiti esteri al congresso, non solo del Partito comunista dell’Unione Sovietica e del Partito comunista cinese (alla guida delle due grandi dittature comuniste nel mondo di allora), ma anche di innumerevoli organizzazioni dei vari regimi oppressivi dell’est europeo, dal Partito comunista bulgaro al Partito comunista cecoslovacco (per colpa del quale si immolò Ian Palach, l’eroe di Veltroni), del Partito operaio unificato di Polonia persecutore di Wojtyla, persino della terribile SED della Germania orientale (i cui vertici finiranno in prigione dopo la caduta del Muro), del Partito comunista romeno del boia Nicolae Ceausescu, del Partito del lavoro di Corea guidato dal tiranno Kim-Il-Sung. E di quei paesi erano state invitate, ed erano presenti, persino rappresentanze delle ambasciate! La coscienza anticomunista di Veltroni, evidentemente, ribolliva, soffriva: ma la sua missione (scalare i vertici del PCI) gli imponeva il mascheramento delle sue vere opinioni.
Come premio per il suo ossequioso silenzio, Veltroni ottiene anche la carica di responsabile della sezione “comunicazione di massa”: non è più un “vice”, finalmente.
Assolutamente allineato sulla linea di Enrico Berlinguer, il nostro si allineerà altrettanto tranquillamente ai suoi successori.
Dopo l’improvvisa morte di Berlinguer, infatti, il partito vive una duplice contraddizione. Ha perso il suo leader più carismatico e amato, e deve fare i conti con una crisi pluriennale della propria politica, segnalata anche da altalenanti risultati elettorali: se le elezioni europee a pochi giorni dalla scomparsa di Berlinguer sono un trionfo, il trend del PCI nelle elezioni nazionali e locali è in costante discesa. E il nuovo segretario del partito, Alessandro Natta, stenta a trovare un orientamento capace di invertire la tendenza e soprattutto di tenere in equilibrio le varie anime del PCI.
In tanta tempesta, però, Veltroni riesce a non prendere mai una posizione autonoma. Per lui, chi comanda il partito ha sempre ragione. E ora il nuovo capo del PCI è Alessandro Natta, un comunista senza pentimenti, che rimarrà tale anche dopo il futuro scioglimento del partito.
All’importante Comitato Centrale del maggio 1985, naturalmente il compagno Veltroni dichiara di condividere la relazione di Natta (il rito del consenso al leader non deve essere infranto). Certo, riappare l’ossessione veltroniana per gli USA, ma in chiave critica, come accadeva al Veltroni pre-DS. Questa volta l’obiettivo polemico sono i democratici americani, che presto diventeranno invece il suo faro-guida: «Vedo il rischio che la sinistra italiana compia lo stesso errore di Mondale e dei democratici americani: l’idea di un blocco sociale tradizionale, di un partito locomotiva al quale agganciare tutti i vagoni delle minoranze, senza sintesi, in pura giustapposizione». 
Tuttavia in questo periodo lo spirito filo-americano di Veltroni può ormai riaffiorare senza troppi freni. Aprendo un fascicolo speciale sui mass media del bimestrale Critica Marxista (testata che doveva apparirgli quantomai odiosa per il suo titolo retrò), Veltroni scrive che anche in Italia i giovani talenti devono trovare l’opportunità di esprimersi: «I sogni non si devono realizzare solo negli USA. Kevin Reynolds, un giovane studente americano, inviò un giorno una sua sceneggiatura a Steven Spielberg che la lesse e gli fece assegnare un budget di 7.000 dollari. Reynolds realizzò così il primo film della sua vita, Fandango». 
Un’America dei sogni, dove i giovani grazie al libero mercato possono diventare d’incanto ricchi e famosi.
Ma Veltroni paga ancora un pegno al vecchio PCI, tessendo le lodi, nello stesso saggio su Critica Marxista, di Enrico Berlinguer e «di quello straordinario manifesto di “modernità” rappresentato dalla sua intervista sul 1984». 
Forse Veltroni non aveva letto bene il testo di Berlinguer. L’allora segretario del PCI, infatti, in quell’intervista del 1993:
a) stigmatizzava l’uso che era stato fatto negli anni ’50 del 1984 di George Orwell («la reazione che ebbi allora fu probabilmente molto influenzata dall’utilizzazione che del libro si fece durante la guerra fredda: antisovietica e anticomunista»); 
b) negava che si fosse realizzata nel mondo una società simile a quella paventata da Orwell (grazie «ai nuovi traguardi raggiunti nel riscatto delle masse proletarie»);
c) contrapponeva a Orwell il Jack London del Tallone di ferro e se la prendeva con la presenza nel pensiero e nell’azione del movimento socialista in Italia «di una visione che non era propria di Marx»;
d) attaccava il presidente americano Ronald Reagan per avere usato, nei confronti dell’URSS, «un’espressione medioevale come “Impero del Male”»;
e) usava ripetutamente per descrivere le politiche dell’occidente la categoria di “imperialismo” e rivendicava «il coraggio di una Utopia che lavori sui “tempi lunghi”»;
f) si preoccupava di una guerra nucleare globale, «davvero possibile», e proponeva il «disarmo totale»;
g) negava che l’irruzione dell’elettronica nei nuovi processi industriali mettesse in discussione le teorie classiche dei comunisti: «Mi pare che sia assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare»;
h) riteneva ancora attuale il concetto di “sol dell’avvenire” della cultura socialista e comunista («se guardiamo alla realtà del mondo d’oggi chi potrebbe dire che quegli obiettivi non siano più validi?»).
All’epoca, per il Veltroni pubblico (perché in privato aveva di certo ben altre opinioni) non solo Togliatti, ma anche Berlinguer fa parte dell’empireo dei “buoni”, dei leader comunisti da citare con ammirazione.
Alla metà degli anni ’80 la sua attività, però, non gli offre molte chance per le riflessioni ideologico-politiche sulla storia del partito e del comunismo. Continua infatti ad essere concentrata sui mass media, dalle stanze dell’ufficio stampa del PCI, e in particolare si occupa del servizio pubblico radiotelevisivo, il luogo del “potere” nel settore delle comunicazioni e dell’informazione. Ed ecco che nel 1987 si rivela artefice della nuova spartizione delle reti televisive pubbliche tra le forze politiche. In base a quell’accordo la terza rete viene assegnata al PCI. Secondo Nello Ajello, «la terza rete nasce da un incontro fra Biagio Agnes, direttore generale, ed Enrico Manca, presidente dell’ente di viale Mazzini, con Walter Veltroni, plenipotenziario delle Botteghe Oscure per l’informazione». E sempre Ajello definisce Veltroni «autore dell’operazione per conto del PCI». 
Con questa manovra Veltroni cattura il consenso di Angelo Guglielmi, nominato direttore della rete, intellettuale dell’ex Gruppo ’63, da allora sempre più potente nelle scelte culturali non solo della televisione, ma anche dell’editoria italiana, e di Sandro Curzi, scelto per dirigere il Tg3 e legato all’anima continuista del vecchio PCI.
Il 1987 è un altro anno di successi nella gerarchia interna del partito. Al Comitato Centrale del luglio 1987 Veltroni è promosso all’unanimità capo della sezione “Stampa e propaganda”. E soprattutto è diventato deputato della X legislatura, e subito nominato componente della commissione speciale per il “Riordino del settore radiotelevisivo” (in seguito sarà membro anche della commissione Istruzione e di quella dei Trasporti).
Con tanti trionfi, non ci si stupisce se l’onorevole Veltroni nel 1987 viene definito «l’enfant prodige romano». Il suo talento è pronto per essere messo al servizio del successore di Natta, Achille Occhetto. Veltroni fa subito parte dei luogotenenti di Occhetto, detti gli “achillei” da Giampaolo Pansa, e nel 1988 entra finalmente nella segreteria nazionale del PCI.
Si avvicina il momento della svolta occhettiana, sotto i mattoni del Muro di Berlino prossimo al crollo. Ma non deve rivelare alcuna fretta innovatrice, il cauto Veltroni, per non inimicarsi nessuna “anima” del partito. Al diciottesimo congresso del PCI, nel marzo 1989, delegato di Roma, prende la parola. Il clima nel partito è incandescente, ma Veltroni smentisce con forza che le intenzioni del gruppo dirigente occhettiano, di cui lui stesso fa parte, siano di sciogliere il PCI.
La sua affermazione è esplicita, ancor più di quanto lo siano gli interventi di altri leader occhettiani: «La direzione che abbiamo preso non è quella dello scioglimento del PCI, è quella della sua ripresa. Così costruiamo il nuovo corso, la nuova sintonia del PCI con i mutamenti della società». 
Di più: «Sbaglieremmo se scegliessimo la via della chiusura settaria ma anche se pensassimo che la soluzione sia arrotolare, come fossimo al tramonto, bandiere e striscioni».
Dunque la bandiera rossa del PCI, con falce martello e stella (esattamente uguale a quella sovietica, se non fosse per l’aggiunta del tricolore sullo sfondo), non va arrotolata.
E con lo scopo di attirarsi (all’epoca) il consenso dell’anima antiamericana del partito, Veltroni non esita a parlare delle società occidentali come di «una realtà che non si riesce più a controllare», e che si presenta «in una forma allucinata» proprio negli Stati Uniti: «Non alla periferia del mondo ma al suo centro, a Washington, dopo le 23 non si può uscire».
Il PCI e il dirsi comunisti è forse un ostacolo all’avvenire della sinistra? Niente affatto. Proprio Veltroni, che nel 1999 dichiarerà che comunismo e libertà sono incompatibili e che respinge la stessa dizione di “ex-comunisti” per i diessini, al diciottesimo congresso conclude il suo intervento esclamando: «Oggi noi siamo una forza autonoma e unitaria. È finito il tempo in cui ci si poteva dividere in filo-socialisti e filo-DC. Siamo tutti filo-comunisti».
Al termine del congresso viene rieletto nel Comitato Centrale con 12 no e 12 astensioni (e L’Unità, che enfatizza «gli otto voti contrari a Ingrao», sottolinea invece che su Veltroni ci sono stati «applausi per quei soli 12 no e 12 astenuti»). 
Poco dopo sarà eletto anche nella direzione e nella segreteria, sempre incaricato di seguire la propaganda e l’informazione. Ora è arrivato nella stanza dei bottoni, e può concedersi qualche vezzo conversando con i giornalisti. A La Repubblica dichiara candidamente di amare papa Giovanni XXIII e di essere intento a scrivere un libro sui Kennedy («dedicato soprattutto alla figura di Bob, che ritengo massima espressione del pensiero liberal-democratico negli Stati Uniti»): finalmente può cominciare a togliersi la maschera del comunista e rivelare quello che il nostro dossier conferma, e cioè la sua vera identità.
Nella stessa occasione si lascia andare a qualche commento politico: «La situazione è brutta, sembra d’essere tornati agli anni ’50, con Andreotti e Martelli che siedono nello stesso governo». 
Veltroni non prevedeva, forse, che un decennio dopo il governo Prodi di cui sarebbe stato numero due e poi il governo D’Alema avrebbero visto insieme, tra gli altri, proprio ex-comunisti, andreottiani e socialisti. 
Ma veniamo al Comitato Centrale della svolta di Occhetto (20-24 novembre 1989). Ancora una volta Veltroni si dimostra tutt’altro che coraggioso nel sostenere la linea del segretario. Il suo è anzi uno degli interventi più moderati, senza accelerazioni che evidentemente ritiene rischiose per la sua immagine. Fino al punto di dimostrarsi quasi conservatore del “bene inestimabile” del PCI. Afferma nel suo intervento che la svolta di Occhetto prospetta «non la liquidazione di valori, ma il loro inveramento, come affermazione nel tempo che viviamo. Per questo riterrei il concetto di omologazione antitetico a questa idea politica». 
E ancora: «Se la proposta dell’unità socialista è la sollecitazione alla reductio ad unum, magari in forme e tempi praticabili, ciò che sarebbe in discussione non è solo la rinuncia al nome e al simbolo ma la rinuncia ai programmi e alle ragioni del PCI. L’esatto opposto della proposta che abbiamo avanzato». 
Dunque la proposta occhettiana non prevederebbe per Veltroni la rinuncia alle ragioni del PCI. Parole ben distanti da quelle con cui egli stesso argomenterà la nascita del PDS e poi dei DS.
Per altro, la firma di Veltroni appare sotto il documento Dare vita alla fase costituente di una nuova formazione politica. Un documento che compie lo strappo definitivo con il PCI, ma che conserva un continuismo presumibilmente incompatibile con le idee di Veltroni per come le conosciamo nel 2000. Si legge: «Il PCI non è stato una variante nazionale dello stalinismo. Non è per doppiezza o per calcolo strumentale che fummo tra i fondatori della democrazia parlamentare, attori principali del suo rinnovamento, difensori delle libertà continuamente minacciate dalle vecchie classi dirigenti, attori di grandi processi di emancipazione e promozione sociale che hanno caratterizzato questo mezzo secolo dell’Italia repubblicana. Ciò deve essere detto con chiarezza, e non per ragioni di patriottismo di partito ma perché non farlo significherebbe imbiancare le pagine più importanti scritte in questi decenni dalla cultura riformatrice italiana». 
 
 
AGENTE SEGRETO VELTRONI
 
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DAGLI ANNI NOVANTA AL DUEMILA
 
Agli esordi degli anni ’90, Veltroni continua a occuparsi soprattutto di radiotelevisione. Nel 1990, titola un suo libro sulla politica televisiva del PCI Io e Berlusconi. Poi lancia una grande campagna per proibire l’interruzione con spot pubblicitari dei film trasmessi in tv: «Non si interrompe un’emozione». Una campagna fallita e dimenticata, ma che serve come cassa di risonanza per Veltroni nel ceto intellettuale meno scaltro.
Lo stesso ceto intellettuale che Veltroni chiama a raccolta, il 10 febbraio 1990, al cinema Capranica di Roma. È la “Sinistra sommersa”, un’operazione di corto respiro (dalle sue ceneri nascerà l’effimera Alleanza Democratica di Ferdinando Adornato), ma che serve a Veltroni per schierare con sé e con Achille Occhetto molte “celebri firme”.
Si tratta di uno schieramento utilissimo, dato che si avvicina il diciannovesimo congresso del PCI, in un clima agitato e con una forte opposizione al progetto di scioglimento del partito. Per Veltroni, però, non è ancora giunto il tempo di prendere le distanze dalla storia del PCI. Tutt’altro. Per lui il PCI è una bandiera da difendere anche al congresso, che si tiene a Bologna nel marzo 1990. Veltroni enfatizza il fatto che «la svolta» ha un solo obiettivo: «Evitare il declino del PCI per costruire le condizioni perché le ragioni e gli ideali del nostro partito possano vivere e vincere nell’Italia degli anni ’90». 
Dunque l’obiettivo è evitare il declino del PCI, non sciogliere il partito. Del resto, nel gennaio del 1991, a Rimini, al ventesimo Congresso del PCI, quello in cui muore il PCI e nasce il PDS, Veltroni continua a rivendicare la sua appartenenza alla storia del PCI, distinguendo nettamente tra «i comunisti» (ai quali ancora sostiene di appartenere) e «gli esterni»: «Per tutti noi che portiamo la parte più viva della grande storia e della originalità politica dei comunisti italiani, per gli esterni che recano nuove culture e competenze è ora davvero un nuovo inizio». 
Veltroni al Congresso si schiera contro la Guerra del Golfo, richiamando Robert Kennedy e i suoi antichi dissensi per la guerra del Vietnam. Però non parla più di socialismo, non cita più Lenin e Togliatti, e riduce l’alternativa alla «riforma del sistema politico, dei meccanismi elettorali, degli strumenti di governo». Una logica, dunque, tutta istituzionale.
Tuttavia la sua firma appare in calce alla mozione presentata da Achille Occhetto per il Partito Democratico della Sinistra, dove i legami con la storia comunista sono ancora enfatizzati. Si legge nella mozione che il PDS si propone «il grande obiettivo del socialismo. La bandiera del nuovo partito sarà, pertanto, la bandiera rossa». 
E la mozione firmata da Veltroni aggiunge: «Non è il crollo del “socialismo reale” all’origine della nostra proposta. Da quando, abbattuto il fascismo, i comunisti italiani poterono sviluppare liberamente la loro azione non si sono mai proposti di imitare quei modelli. Hanno seguito, invece, una propria via, fondata sull’affermazione del legame inscindibile fra democrazia e socialismo. Noi, quindi, non dobbiamo rinnegare una storia e una tradizione per entrare a far parte di un’altra». 
E se Veltroni, nell’intervento al Congresso, mette «in primo luogo» i ritocchi istituzionali e la legge elettorale, nella mozione sotto cui appone la firma viene citato Marx e si parla (togliattianamente e con linguaggio cripto-marxista) di un «riformismo forte, capace di incidere non solo sui processi distributivi ma sulle strutture, di investire direttamente un meccanismo di accumulazione, la cui forza risiede oltre che nei rapporti economico-sociali nel modo di essere dello Stato». 
Che la continuità con il PCI (almeno di immagine) stesse a cuore al gruppo occhettiano di Veltroni lo dimostrava persino il simbolo scelto per la nuova formazione politica, dove il marchio del PCI (falce, martello e stella su bandiera rossa e tricolore) rimane ai piedi della quercia. Secondo Ajello, quel simbolo sarebbe proprio una creatura di Veltroni: «È stato Veltroni, “l’americano”, a curare, come responsabile della propaganda, la messa a punto del simbolo della quercia, disegnato dal grafico delle Botteghe Oscure, Bruno Magno». 
Con il nuovo partito, Veltroni ascende al trono di direttore dell’Unità, carica che mantiene dal maggio 1992 fino all’aprile 1996. La sua gestione si caratterizza per l’allontanamento o l’emarginazione dei giornalisti contrari alla svolta occhettiana, mentre acquistano spazio alcune vecchie conoscenze di Veltroni ai tempi della FGCI.
Ma quel che piace a Veltroni sono le “iniziative speciali” del suo giornale. Tra le più eclatanti, la sua trovata del 1994 di vendere gli album di figurine dei calciatori Panini allegate a L’Unità.
Accanto alle figurine, Veltroni sviluppa l’operazione delle videocassette. Un espediente che nasconde momentaneamente la drammatica crisi finanziaria del quotidiano: nei giorni in cui è allegata una cassetta di successo, le vendite risalgono, per poi precipitare di nuovo quando non c’è gadget. Con le videocassette Veltroni occulta il declino dell’Unità: il rialzo di vendite si rivela un’illusione ottica, si moltiplicano i consumatori che acquistano il giornale solo per avere la cassetta, senza maturare alcuna “fedeltà” al quotidiano.
Nel 1994 Veltroni decide di auto-candidarsi per la segreteria del PDS. Riesce a ottenere il consenso dei dirigenti locali del partito, nel corso di una sorta di referendum interno. Ma al Consiglio Nazionale del PDS perde il duello con D’Alema.
Ha inizio in quell’occasione una sfida tra Veltroni e D’Alema che non si è ancora conclusa. Obiettivo di Walter è quello di additare l’avversario come esponente di una vecchia sinistra tradizionalista, schematico, inviso ai moderati. Mentre lui si presenta come campione della «bella modernità» (una sua formula ricorrente) e del nuovo: «Noi vinceremo solo se saremo più moderni della destra», afferma al fatidico Consiglio Nazionale del giugno 1994.
L’appello al moderno non convince i suoi colleghi di partito, e Veltroni perde la corsa alla segreteria, pur avendo le redini del giornale del PDS.
Presto conierà le sue nuove definizioni della politica: dal «cammino delle persone» a «la bella politica», titolo del libro che scrive per Rizzoli nel 1995. Il suo La bella politica contiene una vibrante lettera alle sue due figlie, dove si legge: «Certe volte provo a immaginarlo, il loro futuro. Non so perché, quando chiudo gli occhi, penso a una notte di Natale. Penso che si incontreranno con le loro famiglie e ci saranno i loro bambini e la storia continuerà… ».
Nello stesso libro (aperto da un apologo del cardinal Martini, definito «biblista magnifico»), Veltroni afferma: «Ho dedicato tutta la mia vita politica a un obiettivo: far incontrare i democratici». Forse dimentica i suoi anni alla FGCI, quando, come abbiamo visto, aveva in mente soprattutto «l’egemonia» dei comunisti sulle altre forze politiche.
Ma Veltroni si vanta per la prima volta anche della sua passata ostilità verso i paesi del socialismo reale: un’ostilità che, abbiamo visto, a dire il vero non si è mai palesata. Dice nel suo libro: «Io non sono mai andato all’estero, nei paesi socialisti». Falso. Quantomeno, ha partecipato a meeting della gioventù comunista in Germania est.
Del resto, nel 1994 Veltroni comincia a rivelare le sue carte a lungo mascherate: «In questi giorni, da più parti, si è scritto del mio interesse per il kennedismo, o il clintonismo, o il rooseveltismo. Non ho detto, come di solito si fa, presunto. Perché il mio interesse è reale». 
Dunque, può liberarsi anche dell’ultima “copertura”. È uomo degli americani, e ora può dirlo: non deve più respingere le insinuazioni con un «presunto».
Abbiamo visto che Veltroni mai, neppure per un momento, si è distanziato pubblicamente dalle posizioni dominanti nel PCI. Non c’è la seppur minima traccia di “dissenso” nelle sue dichiarazioni, nei suoi comportamenti e nei suoi scritti. Eppure, a partire dalla metà degli anni ’90, ha iniziato un’opera di permanente manipolazione riguardo alla sua biografia politica. Ora deve accreditarsi come l’uomo che non ha mai condiviso le «pagine tragiche» del PCI o le contraddizioni del «più grande partito comunista d’occidente», arrivando a ridipingere sé stesso come un tenace avversario della linea prevalente nel vecchio PCI. È rivelatore di questa manipolazione uno scambio di battute tra Veltroni e l’ex segretario democristiano Ciriaco De Mita nei corridoi di Montecitorio, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera. A un Veltroni che lo aveva pesantemente criticato per alcune sue affermazioni, De Mita dice: «La verità è che siete solo degli opportunisti, non guardate in faccia a niente e a nessuno… ». E Walter replica: «Che cosa vuoi dire, che sono comunista? Io sono sempre andato controcorrente, anche nel mio partito». De Mita: «Ma fammi il piacere… ». 
L’allineamento totale di Veltroni alle tesi predominanti nel PCI è raccontato anche da un suo ex compagno di partito, Paolo Franchi, che lo conosce bene. Franchi anni fa ha scritto che la caratteristica di Veltroni, fin da ragazzo, è stata «la fedeltà assoluta ai gruppi dirigenti in carica», e ne delineava questo ritratto: «Scarso gusto per la lotta politica interna, modesto tasso di passione ideologica, attenzione estrema alle modificazioni anche minute dei rapporti di forza nel partito, sforzo costante di miscelare nelle giuste dosi modernità e attaccamento al “patrimonio storico del PCI”». 
E nel 1989 La Repubblica informava che Veltroni era soprannominato nel PCI “compagno Perfettini”, per la sua «miscela di fantasia e diligenza»: un vero modello, persino imbarazzante, di fedeltà ai vertici.
Ma torniamo agli anni ’90. La lotta con D’Alema, nel frattempo, ha relegato Veltroni a cercare la scalata di potere momentaneamente fuori dalle strettoie di partito, per navigare verso l’alleanza di centrosinistra. Non che gli manchino le cariche: è direttore dell’Unità, deputato, numero due del PDS e finanche critico cinematografico per il Venerdì di Repubblica. Ma la mancata nomina a segretario del partito gli brucia.
Le elezioni regionali del 1995, poi, abbastanza soddisfacenti per il PDS, fanno sfumare i suoi sogni di rivalsa su D’Alema. Dopo aver criticato la scelta di Romano Prodi come candidato del centrosinistra, perché sarebbe stata una concessione di D’Alema al PPI, ecco che diventa il numero due proprio dell’ex DC Prodi nella corsa per Palazzo Chigi. 
Certo, gli pesa il destino di eterno numero due (prima di D’Alema, ora di Prodi), ma se la coalizione di centrosinistra vincesse, per lui si aprirebbero finalmente le porte del Potere con la P maiuscola: il governo, vero oggetto del desiderio della covata di quarantenni dell’ex PCI.
Per raggiungere questo obiettivo, ora conta su appoggi a largo raggio. Con lui, da tempo, c’è La Repubblica. Ma anche “ceti sociali” molto, molto antichi. Non la classe operaia, però: l’aristocrazia.
Durante la campagna elettorale, infatti, Roma ospita una festa organizzata espressamente per lui dalla principessa Damietta Hercolani del Drago, a Palazzo del Drago, in via delle Quattro Fontane. È la nobiltà di Roma che si incontra con il leader ulivista, per celebrarlo. Una cena dell’aristocrazia, con alcune decine di invitati eccellenti. Piace ai nobili capitolini, il secondo di Prodi. Gente raffinata, che preferisce l’ex-leninista di buona famiglia Walter al parvenu Berlusconi. 
La campagna elettorale “a tutto campo” porta i suoi frutti, e il 21 aprile 1996 i risultati elettorali consentono a Veltroni di coronare il suo sogno governativista: è Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, e nel primo governo Prodi ricopre anche l’incarico di Ministro per i Beni Culturali. 
Incautamente, si lascia andare più volte ad affermazioni perentorie, dicendosi sicuro che il suo governo avrebbe superato la soglia del 2000. Invece Prodi deve capitolare molto presto, e Veltroni torna a impegnarsi nel suo partito. O meglio, nel terzo partito della sua vita. Dopo il PCI e il PDS, infatti, ora è il momento dei Democratici di Sinistra. Ma questa volta il comando è tutto suo. Mentre D’Alema assurge alla carica di Presidente del Consiglio, per Veltroni è pronto il passo conclusivo della sua antica missione segreta: conquistare il ruolo di segretario nazionale del partito. Dal 6 novembre 1998 è Segretario politico dei Democratici di Sinistra.
Ora che il suo compito è assolto, può rapidamente liberarsi di ogni infingimento, e scoprire le sue carte. Soprattutto può sostenere pubblicamente il suo odio per il comunismo.
Quando scoppia “l’affare Mitrokhin”, molti intellettuali, in particolare dalle colonne della Stampa, sollecitano Veltroni a dare una ulteriore dimostrazione di distacco dalla propria storia, recidendo l’ultimo filo. Dopo le bordate di Barbara Spinelli e Gianni Riotta, ecco che Veltroni coglie la palla al balzo: non ne può più di vedersi rimproverata la sua militanza ventennale nel PCI, è un ingombro che va tolto una volta per tutte.
È venuto il momento di riscrivere la storia, la sua storia in particolare. Gli mancava, infatti, l’abiura e lo “strappo” dall’intera vicenda comunista, con l’equiparazione del comunismo al nazismo e l’affermazione che comunismo e libertà sono stati «incompatibili». Per avvalorare la sua differenza da questo ritratto a colori cupi dell’esperienza comunista, e che finalmente Veltroni può esplicitare dopo tanto e lungo silenzio, il nostro cerca di sbiancare tutta la sua biografia dal totalitarismo rosso. Fino ad arrivare al punto di suggerire ciò che apparentemente è incredibile: lui non ha colpe perché non è mai stato comunista, giacché «si poteva stare nel PCI senza essere comunisti. Era possibile, è stato così». 
È quanto afferma nello “storico” articolo per La Stampa, il 16 ottobre 1999, dal titolo “Incompatibili comunismo e libertà”. Tra i primi apprezzamenti, quelli del capo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini.
Una lode che sarà ricambiata, di lì a poco, da Veltroni. Il 17 febbraio 2000, infatti, Veltroni, a proposito delle valutazioni del cancelliere tedesco Schroeder, si affretta a spiegare che non si possono mettere sullo stesso piano AN e il partito austriaco di Joerg Haider.
Nell’articolo “Incompatibili comunismo e libertà” la demolizione del passato è globale, non risparmia nulla. C’è persino una frase che non compare nel testo pubblicato da La Stampa il 16 ottobre 1999, ma che lo stesso quotidiano torinese, due giorni dopo, riporta in un box riassuntivo: «Mi riconosco volentieri e sinceramente nell’affermazione secondo la quale la rivoluzione russa non fu un successo tradito ma lo stravolgimento di nobili ideali». 
Dunque anche il Lenin così positivamente citato dal giovane Veltroni, come leggevamo su Roma Giovani, ora è a sua volta relegato nel firmamento dei “cattivi”, giacché la rivoluzione d’Ottobre di per sé diventa «stravolgimento di nobili ideali» (mentre il PCI di Enrico Berlinguer condannava Stalin, ma salvava sempre Lenin).
Passano pochi giorni, e Veltroni ribadisce le sue tesi durante un dibattito al liceo classico Tasso di Roma, in occasione del convegno “L’ultimo Ottobre. Ragionamenti sul comunismo come problema irrisolto”.
Ancora una volta Veltroni critica duramente il PCI degli anni ’80, senza ricordare che, all’epoca, pur essendo un dirigente di quel partito lui stesso non osò mai esprimere pubblicamente un dissenso. Dice Veltroni che «occorre tagliare» quella che definisce «la parte tragica della storia del PCI», una parte che sarebbe durata «sino alla seconda metà degli anni ’80». Ebbene, come abbiamo visto, sono anni in cui Veltroni è di casa a Botteghe Oscure, ha incarichi di responsabilità, interviene a comitati centrali e congressi. Eppure mai, nemmeno una volta, il Veltroni di allora pensò di scoprire il suo vero pensiero, mai scrisse un articolo o dedicò un discorso a quella «parte tragica».
Adesso, invece, tutto ruota intorno all’ossessione del comunismo. Nel suo discorso alla Festa nazionale dell’Unità, così come nell’articolo su La Stampa, arriva a definire «il simbolo del migliore Novecento» quello di un individuo che si batte contro i carri armati di un regime comunista: «Se dovessi scegliere una immagine, una sola, della grandezza del Novecento, prenderei la foto di un ragazzo di cui nessuno sa il nome. È quel ragazzo cinese, con due buste di plastica in mano, che si parò da solo di fronte ad una colonna di carri armati che andavano a massacrare i suoi coetanei nella piazza Tien An Men. Sia quel ragazzo sconosciuto e coraggioso, sia la sua voglia di libertà il simbolo del migliore Novecento». 
Il Novecento è stato lungo, e di eroi e simboli forse ne ha avuti di più significativi. Ma l’individuo isolato che si erge contro il comunismo sembrava a Veltroni un’irresistibile metafora. Peccato che Veltroni, un tempo acuto conoscitore dei meccanismi massmediatici, abbia dimenticato i seri dubbi che esistono sulla genuinità di quell’episodio. Michele Tito, che non è certo un provocatore anti-liberale, scrive nel giugno 1999: «Dieci anni or sono la foto del ragazzo che va incontro ai carri armati e li immobilizza fece il giro del mondo e della protesta di Tien An Men fece un’epopea. Ma quel giovane era un agente degli organismi di sicurezza. Era un complice dei soldati dei carri armati e il suo improvviso sbucare dalla folla per attraversare l’immensa via della Lunga Pace e mettersi sull’attenti dinanzi alla colonna dei blindati era forse una messa in scena del potere. Il racconto, meticolosamente documentato da uno studioso americano di origine cinese ch’era in missione a Pechino e che si trovò ad assistere all’episodio, fu pubblicato da una rivista degli universitari vietnamiti di California nel ’93, porta la firma del professor Tung Jen, è stato ripreso da più parti e mai è stato smentito».
Ma quando Veltroni deve rimuovere «l’ombra del comunismo, che continuerà a pesare a lungo, come un’ipoteca, sulle sorti della sinistra italiana», la forza delle belle immagini non ha bisogno di riscontri reali. Del resto, nel mondo del Duemila, dov’è il confine tra fiction e reale, tra manipolazione e verità?
L’importante, ormai, è rendere indiscutibile l’assioma secondo cui il comunismo è «una delle più grandi tragedie del Novecento». Sicuro di avere riscritto la storia una volta per tutte, Veltroni può arrivare ad affermare in modo “totalitario”, nella relazione al Congresso dei DS, che gli argomenti da lui sostenuti nell’articolo su La Stampa sono «argomenti sui quali tra di noi non vi sono, non vi possono essere, non vi potrebbero essere differenze». Un vero capo, deciso e potente, che esclude qualsiasi differenziazione sulle proprie parole, proprio come avveniva ai leader dei partiti comunisti di un tempo. Del resto, sa che ormai la sinistra interna ed esterna ai DS è talmente anestetizzata e divisa da non avere nemmeno la forza di reagire. Della sua relazione al congresso parleranno tutti bene, dai Verdi (che non trovano niente da dire quando Veltroni mette le istanze ecologiste per la qualità non in contraddizione ma a «integrazione della cultura quantitativa dominante nella modernità») ai Comunisti Italiani, contenti di non aver subito attacchi diretti da parte del leader. Anche la sinistra democratica, laica e cattolica, ormai accetta il primato clintoniano di Veltroni. Tutto è relativo, anche la battaglia “politically correct” contro la pena di morte: se la pena di morte va contro i diritti umani, perché quando Veltroni dice che «nessun governante, nessuno Stato, in nessuna parte del mondo, può abusare dei diritti umani e rimanere impunito» non gli si ricorda che Bill Clinton è uno dei difensori più strenui della pena di morte?
E a segnalare con precisione la vuotezza del partito veltroniano, a parte gli avversari di sempre della sinistra, restano in pochi, come Il Sole-24 Ore, allarmato da un partito «sempre più gracile»: «Al venir meno del rigido ancoraggio ideologico non ha sopperito una forte elaborazione politica». 
Ma queste sono minuzie, sottigliezze, inutili chiose. Il punto importante è che la missione di Walter Veltroni, noto alla CIA con il nome in codice di “agente Icare”, si è conclusa con un trionfo. Gradino dopo gradino ha raggiunto la vetta del più grande partito comunista d’occidente, ha contribuito al suo scioglimento e, non pago, ha scalato anche le due formazioni politiche nate da quello scioglimento, prima il PDS e poi il partito dei DS, riuscendo a conquistarne la guida.
Ben fatto, agente Veltroni! Ora manca solo l’ultimo atto: riveli ufficialmente la sua identità di agente segreto e di infiltrato. Questa è la richiesta definitiva che le viene dall’opinione pubblica democratica, per cancellare ogni residuo dubbio sulla sua affidabilità, sulla sua coerenza, sulla sua limpida onestà intellettuale.


(fine)

tratto da: "Il compagno Veltroni, il più abile agente della Cia"
 
<< Dopo il dossier Mitrokhin, dagli archivi dello spionaggio internazionale arriva il dossier Kuriakhin, con una rivelazione sensazionale: Walter Veltroni fin da ragazzo è stato reclutato dalla CIA per infiltrarsi nel PCI e conquistarne la leadership. Secondo Kuriakhin solo così si spiegano le abissali differenze tra quanto afferma oggi e quanto sosteneva in passato. Il dossier analizza metodicamente i suoi scritti e i discorsi, dai primi passi nella FGCI a oggi. E scopre che mentre il Veltroni del 2000 dice di non essere mai stato comunista, di aver dissentito dalla linea del PCI e di aver sempre odiato l’URSS e amato gli USA, in precedenza affermava l’esatto contrario.
Tra il gioco della satira politica e il rigore del saggio documentato, il dossier Kuriakhin ci porta a una domanda cruciale: chi è il compagno Veltroni? Il suo è un fantastico caso di spionaggio oppure un esempio insuperabile di trasformismo?

Ovviamente, Ilya Kuriakhin non esiste, e il reclutamento di Walter Veltroni nella CIA è solo un espediente satirico. Ilya Kuriakhin, infatti, è il nome di un personaggio televisivo, un agente segreto che appariva nella celebre serie di telefilm The Man From U.N.C.L.E. (trasmessa dalla RAI anche in Italia), prodotta tra il 1964 e il 1967. Per Il compagno Veltroni sotto lo pseudonimo di Ilya Kuriakhin si nasconde in realtà un giornalista che ha militato a lungo nel PCI e che conosce bene, dall’interno, le vicende di quel partito. >>
 
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