L'INFORMAZIONE AI TEMPI DELLA GUERRA
E' stata perfetta e senza alcuna smagliatura la censura operata dai
principali mass-media italiani sulla partecipatissima manifestazione
che si è tenuta sabato 15 dicembre 2007 a Vicenza.
I telegiornali RAI e Mediaset e tutti i principali mezzi di
informazione sono riusciti a nascondere completamente almeno 40mila
persone che hanno marciato contro la costruzione di una nuova,
ennesima base militare statunitense sul nostro territorio.
Può certamente dirsi ormai compiuta la militarizzazione di quello che
era un tempo il giornalismo italiano, di cui rimane oggi solo una
ripugnante poltiglia di "embedded", convinti servi del potere
politico-militare o precarizzati e ricattati senza speranze.
Ad infrangere questa ferrea dittatura che vige in Italia, segnaliamo:
- il sito http://www.nodalmolin.it/ con immagini e testi relativi
alla manifestazione;
- la cronaca del "Manifesto" (eccezione che conferma la regola tra i
quotidiani italiani), che riproduciamo di seguito.
(a cura di Italo Slavo)
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/16-Dicembre-2007/
art18.html
Centomila No al Dal Molin
Malgrado le parole del presidente Napolitano, malgrado il freddo, la
neve e Trenitalia, la manifestazione di ieri a Vicenza è andata oltre
ogni aspettativa. Pochi i politici presenti e molti fischi anche per
i partiti «amici». Per fermare il raddoppio della base Usa
BENEDETTO VECCHI
Inviato a Vicenza
La voce sale di tono ed alla fine è quasi un urlo liberatorio: «Siamo
più di ottantamila persone, forse centomila. La cosa del corteo è
ancora chilometri indietro». La risposta sono fischietti impazziti,
battimani a ripetizione, bandiere bianche con la scritta «No Dal
Molin». «NoTav», «No Mose», «No F35» sbandierate con forza. Ogni
dubbio, ogni timore si è sciolto come la neve che aveva imbiancato la
città durante la notte. Sin dalla mattina i volti scrutavano la
stazione di Vicenza per vedere se i treni portavano manifestanti. A
Milano arrivano voci di piccoli tafferugli perché la polizia non
voleva far partire i manifestanti, mentre molti pullman erano in
ritardo per le nevicate della notte e del primo mattino.
Ma i timori più forti erano dovuti a quella dichiarazione del
presidente della repubblica Giorgio Napoletano che, in visita negli
Stati Uniti, aveva mandato a dire che la decisione era presa, che i
contrari potevano scrivere lettere o fare altro, tanto nulla avrebbe
portato il governo a cambiare la sua scelta. Era dunque inutile anche
manifestare in piazza il dissenso e che era per questo meglio restare
a casa. Invece la manifestazione di Vicenza contro il raddoppio della
base militare statunitense è andata al di là delle più ottimistiche
previsioni degli organizzatori. Non ci sono state neanche le
contestazioni a ministri o esponenti di partito presenti nel governo
Prodi. Anche perché quelli che sono venuti nella città veneta erano
davvero pochi. Giovanni Russo Spena, Francesco Caruso, Lalla Tropia
di Rifondazione comunista. Franco Turigliatto, eletto nelle file di
Rifondazione comunista e ora all'interno dell'avventura di Sinistra
critica dopo essere uscito dal partito di Franco Giordano. E se
Francesco Caruso faceva avanti e indietro per poi fermarsi nei pressi
del camion dei Giovani comunisti, gli altri parlamentari erano
invisibili, come fantasmatico era lo striscione firmato da «Sinistra
arcobaleno», schiacciato tra i militanti del partito comunista dei
lavoratori di Ferrando e la galassia dei gruppi anarchici presenti
nel corteo.
Già, perché la lettura politica della manifestazione di ieri è
abbastanza chiara. Le ottanta, centomila persone che hanno percorso
in lungo e largo la città veneta hanno espresso una distanza siderale
da quanto avviene a Montecitorio o nelle segreterie dei partiti,
nessuno escluso, anche se le critiche più feroci erano indirizzate
contro il governo Prodi e la sua ala sinistra, colpevoli secondo i
manifesti di aver disatteso le promesse elettorale e gli impegni
presi da parte di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi
di porre all'ordine del giorno un ripensamento sulla decisione di
raddoppiare la base statunitense. Come reagirà il centrosinistra al
successo della manifestazione è però argomento del giorno dopo. Più
importante è cercare di capire come continueranno la mobilitazioni
contro l'inizio dei lavori. Perché i protagonisti della
manifestazione sono le donne e gli uomini che hanno reagito alla
«strategia del silenzio» e hanno pacificamente occupato Vicenza.
Gran parte dei manifestanti hanno scelto di mettersi dietro il camion
del presidio permanente. Sono scout, over-quaranta con un
significativo curriculum di pacifismo «radicale» alle spalle,
attivisti dei centri sociali di ogni dove, militanti dei sindacati di
base, abitanti della Val di Susa, agit prop dei comitati contro gli
inceneritori della Campania. Tanti, tantissimi i vicentini, che hanno
ritmato per tutto il corteo la loro opposizione alla base militare
delle loro città, sostenendo con gli striscioni e i - pochi - slogan
che il rifiuto dei lavori non è dovuto certo alla convinzione di
mantenere lo status quo vicentino. Con un linguaggio avvertito si
potrebbe dire che sono l'altra città, quella che non ama il «modello
di sviluppo del nord-est». In un melange di generazioni, culture
politiche diverse.
I «No Tav» si sentono quasi a casa loro. E quando dal palco un loro
portavoce invita a «resistere per esistere» e che tra Vicenza e la
Val di Susa non ci sono molte differenze, allude a una tessitura di
una rete - sociale e politica - che pensa di poter far valere le
proprie ragioni attraverso la costruzione di un consenso che guardi
tuttavia criticamente alle realtà locali da cui prendono avvio le
mobilitazioni. In fondo, sono stati proprio i valsusini ad affermare
che il rifiuto della Tav non era teso a mantenere la realtà così come
è, ma per affermare il diritto a prendere il destino nelle proprie
mani. La posta in gioco è proprio questa. Che dalle polis greche in
poi è problema di democrazia, cioè di chi prende la parola perché non
ha mai avuto il potere di farlo.
Il corteo ha attraversato in lungo e largo la città. Ha attraversato
quartieri dove la «strategia della tensione» ha portato a chiudere
negozi e a sprangare le finestre. Ma quando poi il corteo ha toccato
lateralmente il centro cittadino, i negozi erano invece aperti.
Infine, i comizi finali con delegati da tutta Europa e dagli Stati
Uniti (molti i gruppi di statunitensi, da quelli contro la guerra in
Iraq a quelli dei veterani del Golfo a quelli che chiedono
l'impeachment di George W. Bush). Hanno preso la parola Dario Fo, che
ha definito pazzi gli esponenti del centrosinistra che si schierano
contro i loro elettori, mentre parole al vetriolo sono state
pronunciate contro il presidente della repubblica («è andato negli
Stati Uniti dove ha fatto la first lady di George Bush»). Don Gallo
ha infine preso la parola per definire «figli di puttana» chi ha
deciso il raddoppio della base. Espressione per cui valgono le parole
della scrittrice Arundhati Roy: «Avrà forse ragione, ma non mi
piacciono le persone che insultano le donne».
Poi il corteo si è nuovamente messo in marcia per raggiungere l'area
dove è previsto il raddoppio della base militare. A guastare la festa
ci ha provato Trenitalia che non voleva far partire i manifestanti
venuti da fuori perché non avevano pagato il biglietto. Momenti di
tensione, ma poi è intervenuto Gino Sperandio, altro deputato di
Rifondazione comunista presente al corteo, che ha pagato il prezzo
imposto da Trenitalia.
E' stata perfetta e senza alcuna smagliatura la censura operata dai
principali mass-media italiani sulla partecipatissima manifestazione
che si è tenuta sabato 15 dicembre 2007 a Vicenza.
I telegiornali RAI e Mediaset e tutti i principali mezzi di
informazione sono riusciti a nascondere completamente almeno 40mila
persone che hanno marciato contro la costruzione di una nuova,
ennesima base militare statunitense sul nostro territorio.
Può certamente dirsi ormai compiuta la militarizzazione di quello che
era un tempo il giornalismo italiano, di cui rimane oggi solo una
ripugnante poltiglia di "embedded", convinti servi del potere
politico-militare o precarizzati e ricattati senza speranze.
Ad infrangere questa ferrea dittatura che vige in Italia, segnaliamo:
- il sito http://www.nodalmolin.it/ con immagini e testi relativi
alla manifestazione;
- la cronaca del "Manifesto" (eccezione che conferma la regola tra i
quotidiani italiani), che riproduciamo di seguito.
(a cura di Italo Slavo)
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/16-Dicembre-2007/
art18.html
Centomila No al Dal Molin
Malgrado le parole del presidente Napolitano, malgrado il freddo, la
neve e Trenitalia, la manifestazione di ieri a Vicenza è andata oltre
ogni aspettativa. Pochi i politici presenti e molti fischi anche per
i partiti «amici». Per fermare il raddoppio della base Usa
BENEDETTO VECCHI
Inviato a Vicenza
La voce sale di tono ed alla fine è quasi un urlo liberatorio: «Siamo
più di ottantamila persone, forse centomila. La cosa del corteo è
ancora chilometri indietro». La risposta sono fischietti impazziti,
battimani a ripetizione, bandiere bianche con la scritta «No Dal
Molin». «NoTav», «No Mose», «No F35» sbandierate con forza. Ogni
dubbio, ogni timore si è sciolto come la neve che aveva imbiancato la
città durante la notte. Sin dalla mattina i volti scrutavano la
stazione di Vicenza per vedere se i treni portavano manifestanti. A
Milano arrivano voci di piccoli tafferugli perché la polizia non
voleva far partire i manifestanti, mentre molti pullman erano in
ritardo per le nevicate della notte e del primo mattino.
Ma i timori più forti erano dovuti a quella dichiarazione del
presidente della repubblica Giorgio Napoletano che, in visita negli
Stati Uniti, aveva mandato a dire che la decisione era presa, che i
contrari potevano scrivere lettere o fare altro, tanto nulla avrebbe
portato il governo a cambiare la sua scelta. Era dunque inutile anche
manifestare in piazza il dissenso e che era per questo meglio restare
a casa. Invece la manifestazione di Vicenza contro il raddoppio della
base militare statunitense è andata al di là delle più ottimistiche
previsioni degli organizzatori. Non ci sono state neanche le
contestazioni a ministri o esponenti di partito presenti nel governo
Prodi. Anche perché quelli che sono venuti nella città veneta erano
davvero pochi. Giovanni Russo Spena, Francesco Caruso, Lalla Tropia
di Rifondazione comunista. Franco Turigliatto, eletto nelle file di
Rifondazione comunista e ora all'interno dell'avventura di Sinistra
critica dopo essere uscito dal partito di Franco Giordano. E se
Francesco Caruso faceva avanti e indietro per poi fermarsi nei pressi
del camion dei Giovani comunisti, gli altri parlamentari erano
invisibili, come fantasmatico era lo striscione firmato da «Sinistra
arcobaleno», schiacciato tra i militanti del partito comunista dei
lavoratori di Ferrando e la galassia dei gruppi anarchici presenti
nel corteo.
Già, perché la lettura politica della manifestazione di ieri è
abbastanza chiara. Le ottanta, centomila persone che hanno percorso
in lungo e largo la città veneta hanno espresso una distanza siderale
da quanto avviene a Montecitorio o nelle segreterie dei partiti,
nessuno escluso, anche se le critiche più feroci erano indirizzate
contro il governo Prodi e la sua ala sinistra, colpevoli secondo i
manifesti di aver disatteso le promesse elettorale e gli impegni
presi da parte di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi
di porre all'ordine del giorno un ripensamento sulla decisione di
raddoppiare la base statunitense. Come reagirà il centrosinistra al
successo della manifestazione è però argomento del giorno dopo. Più
importante è cercare di capire come continueranno la mobilitazioni
contro l'inizio dei lavori. Perché i protagonisti della
manifestazione sono le donne e gli uomini che hanno reagito alla
«strategia del silenzio» e hanno pacificamente occupato Vicenza.
Gran parte dei manifestanti hanno scelto di mettersi dietro il camion
del presidio permanente. Sono scout, over-quaranta con un
significativo curriculum di pacifismo «radicale» alle spalle,
attivisti dei centri sociali di ogni dove, militanti dei sindacati di
base, abitanti della Val di Susa, agit prop dei comitati contro gli
inceneritori della Campania. Tanti, tantissimi i vicentini, che hanno
ritmato per tutto il corteo la loro opposizione alla base militare
delle loro città, sostenendo con gli striscioni e i - pochi - slogan
che il rifiuto dei lavori non è dovuto certo alla convinzione di
mantenere lo status quo vicentino. Con un linguaggio avvertito si
potrebbe dire che sono l'altra città, quella che non ama il «modello
di sviluppo del nord-est». In un melange di generazioni, culture
politiche diverse.
I «No Tav» si sentono quasi a casa loro. E quando dal palco un loro
portavoce invita a «resistere per esistere» e che tra Vicenza e la
Val di Susa non ci sono molte differenze, allude a una tessitura di
una rete - sociale e politica - che pensa di poter far valere le
proprie ragioni attraverso la costruzione di un consenso che guardi
tuttavia criticamente alle realtà locali da cui prendono avvio le
mobilitazioni. In fondo, sono stati proprio i valsusini ad affermare
che il rifiuto della Tav non era teso a mantenere la realtà così come
è, ma per affermare il diritto a prendere il destino nelle proprie
mani. La posta in gioco è proprio questa. Che dalle polis greche in
poi è problema di democrazia, cioè di chi prende la parola perché non
ha mai avuto il potere di farlo.
Il corteo ha attraversato in lungo e largo la città. Ha attraversato
quartieri dove la «strategia della tensione» ha portato a chiudere
negozi e a sprangare le finestre. Ma quando poi il corteo ha toccato
lateralmente il centro cittadino, i negozi erano invece aperti.
Infine, i comizi finali con delegati da tutta Europa e dagli Stati
Uniti (molti i gruppi di statunitensi, da quelli contro la guerra in
Iraq a quelli dei veterani del Golfo a quelli che chiedono
l'impeachment di George W. Bush). Hanno preso la parola Dario Fo, che
ha definito pazzi gli esponenti del centrosinistra che si schierano
contro i loro elettori, mentre parole al vetriolo sono state
pronunciate contro il presidente della repubblica («è andato negli
Stati Uniti dove ha fatto la first lady di George Bush»). Don Gallo
ha infine preso la parola per definire «figli di puttana» chi ha
deciso il raddoppio della base. Espressione per cui valgono le parole
della scrittrice Arundhati Roy: «Avrà forse ragione, ma non mi
piacciono le persone che insultano le donne».
Poi il corteo si è nuovamente messo in marcia per raggiungere l'area
dove è previsto il raddoppio della base militare. A guastare la festa
ci ha provato Trenitalia che non voleva far partire i manifestanti
venuti da fuori perché non avevano pagato il biglietto. Momenti di
tensione, ma poi è intervenuto Gino Sperandio, altro deputato di
Rifondazione comunista presente al corteo, che ha pagato il prezzo
imposto da Trenitalia.