L'articolo di Fausto Sorini qui riprodotto appare sull'ultimo numero de "l'ernesto" (5/2007) assieme al reportage
"Breve viaggio nel lavoro e nell’economia della Cina costiera" di Bruno Casati, leggibile alle pagine
Note sul 17° congresso del Partito comunista cinese
di Fausto Sorini
su L'ERNESTO del 25/10/2007
Si è concluso nei giorni scorsi il 17° congresso nazionale del Partito comunista cinese (PCC), alla presenza 2.217 delegati in rappresentanza di 73 milioni di iscritti, organizzati in 3,5 milioni di organizzazioni di base disseminate in tutto il Paese.
Il congresso ha approvato la relazione del segretario Hu Jintao (a nome del Comitato centrale uscente), una risoluzione finale e una di modifica di alcuni articoli dello Statuto del partito. Ed ha eletto i nuovi organismi dirigenti.
Il nuovo CC (rinnovato per la metà dei suoi membri) ha confermato Hu Jintao alla guida del partito per i prossimi 5 anni ed ha eletto gli organismi più ristretti (Ufficio Politico, Segreteria, Comitato permanente dell’Ufficio politico). Da questi risulterebbe - sia pure in un contesto di sintesi e di enfatizzazione della direzione collegiale, volte ad evitare ogni personalizzazione o frattura interna – un sostanziale rafforzamento (non scontato) delle posizioni di Hu Jintao. Ciò nell’ambito di una dialettica che, schematizzando, si è sviluppata tra chi pone l’accento sulla necessità di proseguire la linea dello sviluppo accelerato anche pagando alti costi sociali; e chi invece, come Hu Jintao, sottolinea gli elementi qualitativi della nozione di “sviluppo” e pone l’accento su esigenze di riequilibrio, equità sociale, compatibilità ambientali, sviluppo della democrazia socialista, innovazione della teoria marxista.
Bilancio politico e sintesi storica e teorica
Il rapporto introduttivo è suddiviso in 12 capitoli, che rappresentano altrettanti capisaldi della linea e delle priorità del PCC.
1. Nel primo capitolo, si tira un bilancio dell’attività degli ultimi 5 anni. Si evidenziano i punti di avanzamento realizzati in termini di sviluppo economico (con una crescita media annua del PIL superiore al 10%); la sostanziale stabilità dei prezzi; l’aumento complessivo dei redditi reali della popolazione e la diminuzione dei livelli di povertà; la maggiore attenzione dedicata ai problemi dell’ambiente, della democrazia, dell’innovazione teorica, della lotta contro la corruzione e per il rafforzamento della “natura di avanguardia” del partito nelle nuove contraddizioni della società cinese, in coerenza con le propria finalità socialiste; la crescita considerevole del ruolo internazionale della Cina.
Ma, nondimeno, si sottolinea che nonostante tali risultati, si è ancora”lontani dalle aspettative della popolazione” e che restano aperti molti problemi e difficoltà, come quelli relativi ad una “crescita realizzata con eccessivi costi sociali e ambientali”; “squilibri nello sviluppo tra città e campagna, tra regioni, tra sviluppo economico e avanzamento sociale”; problemi di “occupazione, sicurezza sociale, distribuzione del reddito, educazione e salute pubblica, alloggi, sicurezza del lavoro, povertà, corruzione, burocratismo...”.
2. Nel secondo capitolo, assai impegnativo nella definizione del profilo politico-ideologico del PCC e del suo bilancio storico, emerge la volontà di ricercare una sintesi storica e teorica di tutto il percorso della Cina popolare, evitando rotture o scomuniche di vario genere (diversamente da quella che fu, in proposito, l’esperienza del partito sovietico). Ovvero, di “sintetizzare l’insieme della saggezza e dei contributi di diverse generazioni di comunisti cinesi”.
Si ricorda che la trentennale politica di riforma e di apertura ispirata dalla seconda generazione (Deng Xiaoping), “una autentica nuova rivoluzione” a cui il PCC continua ad ispirarsi, “è stata condotta sulle fondamenta costruite dalla prima generazione di dirigenti del partito sotto la guida di Mao Zedong”, i cui meriti storici non vengono ripudiati, ma sussunti dentro una sintesi storica e teorica che pure comprende una valutazione critica della “rivoluzione culturale” e della teoria del “primato della lotta di classe” rispetto alla centralità dello sviluppo delle forze produttive, nella “fase primaria di costruzione del socialismo” e in un paese ancora in via di sviluppo come la Cina.
Nel solco della ispirazione di Deng, si afferma il valore della teoria delle “Tre rappresentanze”, che ha caratterizzato la politica della terza generazione e della leadership di Yang Zemin, che ha dato nuovo impulso allo sviluppo del “socialismo di mercato” in un contesto internazionale assai complesso, riconoscendo il ruolo progressivo e il valore di differenti strati sociali (operai, contadini, tecnici, intellettuali, strati intermedi produttivi e imprenditoriali) in questa fase “primordiale” della costruzione del socialismo. Una fase, sottolinea la relazione, destinata comunque a “durare per una lunga fase storica”, in cui “la contraddizione principale continuerà ad essere quella tra necessità materiali e culturali crescenti della popolazione e inadeguatezza della produzione materiale volta a soddisfarle”.
Questa linea ha consentito, tra l’altro, di “ridurre da 250 a 20 milioni l’area di povertà nelle zone rurali”. Si sottolinea però che - nel contesto delle nuove contraddizioni create dallo sviluppo accelerato in Cina - è necessario porre oggi l’accento su politiche di riequilibrio e di equità sociale, di sviluppo sostenibile ed eco-compatibile: concetti che vengono riassunti nelle nozioni di “concezione scientifica dello sviluppo” ed “armonia sociale” (quest’ultima, di chiara derivazione confuciana) che caratterizzano la linea della nuova direzione cinese.
“Assumendo un profilo ideologico marxista - cito dalla relazione - il PCC ha ricercato costantemente le risposte alle maggiori questioni teoriche e pratiche incontrate : cos’è il socialismo e come costruirlo, quale tipo di partito costruire e come, quale tipo di sviluppo per la Cina e come conseguirlo. Il Partito ha cercato di adattare costantemente il marxismo alle condizioni concrete della Cina, per arricchire così la propria base teorica, politica e programmatica. Il socialismo e il marxismo hanno mostrato grande vitalità in terra cinese...Solo il socialismo può salvare la Cina e solo una politica di riforme e di apertura può garantire lo sviluppo della Cina, del socialismo e del marxismo...Nel corso storico della politica di riforma e di apertura, il PCC ha cercato di coniugare i suoi quattro principi cardinali (la prospettiva socialista, la dittatura democratica del popolo, la funzione dirigente del Partito comunista, il marxismo-leninismo e il pensiero di Mao Zedong) alle condizioni concrete e peculiari della Cina”.
“La concezione del socialismo con peculiarità cinesi costituisce un insieme di teorie scientifiche che includono la teoria di Deng Xiaoping, la concezione delle Tre rappresentanze, l’idea di uno sviluppo scientifico (sostenibile) ed altre importanti acquisizioni strategiche. Questo sistema esprime l’assunzione del Partito – e lo sviluppo – del marxismo-leninismo e del pensiero di Mao Zedong e incarna l’elaborazione e il duro lavoro di diverse generazioni di comunisti cinesi...Non c’è fine alla pratica e all’innovazione, che noi dobbiamo costantemente sviluppare per emancipare le nostre menti, bandendo rigidità e stagnazione...Il nostro è un sistema di pensiero dinamico, completamente aperto e in costante evoluzione”.
Un approccio qualitativo alla nozione di sviluppo
3. Nel terzo capitolo si articola l’idea cardine della nuova direzione cinese per una “concezione scientifica dello sviluppo”, ovvero quella che nella nostra cultura abbiamo assunto come sviluppo socialmente ed ecologicamente compatibile, e che – dice il rapporto - deve essere parte integrante di una concezione socialista dello sviluppo. Una concezione cioè non meramente quantitativa, ma qualitativa dei parametri dello sviluppo e della crescita economica, che la nuova direzione del PCC assume come “principio guida”, assieme a quello di una “società socialista fondata sull’armonia sociale”, fino a farne oggetto di apposite integrazioni nello Statuto del partito.
Si rileva che “la crescita economica è stata pagata troppo cara in termini di risorse, squilibri e compatibilità ambientali...Il trend del divario crescente nella distribuzione del reddito non è stato ancora adeguatamente rovesciato, abbiamo ancora un numero rilevante di persone povere o a basso reddito sia nelle città che nelle campagne, ed è diventato sempre più difficile conciliare gli interesse di tutte le parti sociali”. Pertanto, “la concezione di uno sviluppo scientifico, nella sua essenza, pone al centro gli interessi della grande maggioranza del popolo, per uno sviluppo equilibrato e sostenibile” e si propone “in modo energico la costruzione di una società socialista armoniosa”, posto che “l’armonia, l’equità sociale, la giustizia devono essere peculiarità essenziali del socialismo”.
4. Nel quinto capitolo si propone l’obbiettivo di costruire, entro il 2020, una “società di media prosperità...quadruplicando il PIL annuo pro-capite rispetto al dato del 2.000” (da 856 dollari a 3.500). La qual cosa (ma la relazione non lo dice) potrebbe portare il PIL complessivo della Cina, calcolato a parità di potere d’acquisto, ad un livello superiore a quello degli Stati Uniti, al primo posto nella classifica mondiale. Dunque, una “media prosperità” corroborata da una “espansione della democrazia socialista”, da una crescente “equità e giustizia sociale”, da una “prevalenza dei valori di una cultura e di un’etica socialista nella popolazione”, con un diffuso “sistema di sicurezza sociale”, oggi ancora largamente deficitario; “l’eliminazione della povertà” ed un forte “incremento dell’incidenza relativa delle fonti rinnovabili e non inquinanti di energia”.
5. Nel sesto capitolo, si entra più nel dettaglio dei caratteri di uno “sviluppo sano e rapido” dell’economia nazionale”, tra cui segnaliamo (per titoli) :
-un’”autonoma capacità”, sempre meno dipendente dall’estero, “di sviluppo dell’innovazione scientifica, tecnologica, manageriale”;
-l’estensione e la crescita di “grandi imprese multinazionali, pubbliche o a prevalente controllo pubblico, sempre più competitive sul mercato mondiale”.
(Si consideri che già nel 2006 l’84% del PIL cinese è stato prodotto dalle 500 maggiori imprese cinesi. E che tra queste, ben 349 – che hanno espresso l’85% della ricchezza prodotte tra tutte le 500 – sono imprese statali o controllate dallo Stato. Mentre solo 89 sono quelle private, che hanno espresso una ricchezza pari all’8,4% delle 500);
-il “riequilibrio nello sviluppo città-campagna”, con la “modernizzazione di una nuova agricoltura su basi socialiste”, e il “tra regioni a diverso grado di sviluppo”;
-uno “sviluppo ecologicamente sostenibile”;
-una “ristrutturazione profonda ed equa del sistema fiscale e di regolazione macro-economica”;
-il sostegno a diverse forme di proprietà e di imprenditorialità, nel quadro di una “prevalenza strategica del settore pubblico”.
Democrazia e cultura socialista
6. Un intero capitolo (il sesto) viene dedicato alla necessità di “operare con fermezza nello sviluppo di una democrazia socialista”, e la cosa è in sé comunque indicativa di una prospettiva e di una riflessione in corso, quali che siano i limiti in questo campo tuttora persistenti nel contesto cinese, e che certamente non possono rappresentare un “modello” per le società capitalistiche più sviluppate.
Tale sviluppo democratico viene collocato entro parametri che non sono certamente quelli di una imitazione dei modelli di democrazia liberale che caratterizzano le società capitalistiche dell’Occidente (su ciò, almeno per ora, la linea di demarcazione è netta, anche se esistono nel PCC tendenze che spingono in questo senso). Per cui, dentro un contesto in cui si riconferma la “leadership del partito comunista”, si intende operare per un “approfondimento della democrazia interna di partito”, per rendere vitale “il sistema della cooperazione multipartitica” (in Cina esistono otto piccoli partiti, oltre il PCC, espressione di settori sociali, religiosi, culturali, la cui attivizzazione può rappresentare un’inizio primordiale di sperimentazione di nuove forme di pluralismo controllato); il “rispetto dei diritti umani; la definizione di procedure democratiche di elezione; la promozione a livelli alti di responsabilità di personalità non iscritte al partito (recente la nomina, per la prima volta, di due ministri-ndr); la fine di ogni arbitrio leaderistico, ad ogni livello, e la piena attuazione di un primato della legalità in cui cominci gradualmente ad operare un sistema di articolazione e divisione dei poteri tra le diverse istituzioni sociali e statali (governo, parlamento, enti locali, magistratura, sindacati, associazioni di categoria, associazioni religiose, gruppi etnici, giornali, riviste...). In nome dell’unità nazionale si prospetta cioè “una crescente armonia tra i diversi partiti politici, le diverse etnie e religioni, i diversi strati sociali e i nostri compatrioti che vivono all’estero”.
Si prospetta inoltre “un sistema di autogoverno per i livelli primari della società” (enti e comunità locali...), quasi a voler avviare - con la prudenza e la gradualità che caratterizza l’approccio della direzione cinese sui temi più delicati e controversi - una fase di sperimentazione di forme più avanzate di democrazia e partecipazione popolare, partendo dal basso, evitando gli scossoni e i rischi che ciò determinò nell’improvvida e avventuristica perestroika gorbacioviana (lo stesso criterio che del resto fu seguito da Deng e dai suoi successori nella riforma economica, iniziata a piccoli passi e con estrema gradualità ben 30 anni fa, prima di pervenire a svolte più radicali). Un approccio che, in materia di riforma del sistema politico, potremmo definire di tipo “andropoviano” e che nell’esperienza sovietica non riuscì purtroppo ad affermarsi.
7. Nel settimo capitolo si pone il tema dello “sviluppo intenso di una cultura socialista” di massa, a riprova che il gruppo dirigente cinese è ben consapevole, marxianamente, che l’emergere strutturale, nella società cinese, di forti spinte ad una cultura di mercato, individualistica, di tipo borghese, soprattutto nelle nuove generazioni, se non adeguatamente contrastata e governata – sul piano sociale, materiale, ma anche su quello culturale e dei valori - potrebbe compromettere nel tempo le basi stesse della prospettiva socialista, nella società e nel partito. (L’esperienza storica del PCUS e dello stesso PCI rappresentano in proposito esempi emblematici, ancorché negativi...). Ciò richiede – si dice – “un forte sforzo innovativo della teoria marxista”, senza il quale le capacità propulsive e di attrazione del marxismo e di una cultura finalizzata al socialismo possono essere messe fortemente a rischio nella vita presente e futura della Cina. Ciò richiede un “complesso lavoro sul piano ideologico, che sappia anche rispettare le divergenze e consentire una diversità di approcci”.
8. Nell’ottavo capitolo vengono dettagliate una serie di indicazioni relative alla costruzione di una “società socialista fondata sull’armonia sociale”, riconducibili alla citata prospettiva di costruzione di uno Stato sociale che garantisca giustizia, equità, riequilibrio nella distribuzione della ricchezza. E dove si allude, tra l’altro, alla necessità di introdurre “meccanismi automatici di incremento e rivalutazione” dei redditi da lavoro dipendente.
La Cina e il mondo
9. Il nono capitolo affronta il tema della “modernizzazione della difesa nazionale e delle Forze armate”, che debbono essere “più rivoluzionarie, più moderne e più conformi agli standard internazionali, con una integrazione ed un progresso non sbilanciato tra questi tre fattori”.
10. Il decimo capitolo tratta la questione di Taiwan e della “riunificazione nazionale pacifica della madre patria, sulla base del principio Un Paese, due sistemi, tramite negoziati formali e pacifici”, come già si è fatto con successo nel caso di Hong Kong e Macao. E viene nel contempo avvertita la classe dirigente di Taiwan ( e i suoi amici nel mondo) che “la Cina non tollererà mai alcuna secessione”.
11. L’undicesimo capitolo è dedicato alla politica estera, in modo assolutamente sintetico e senza entrare nell’analisi di singoli scenari (come è tradizione della direzione cinese da diversi congressi). Su questo tema si tende a diplomatizzare tutta una serie di divergenze con altri Paesi, a partire dagli USA, in nome di una realpolitik finalizzata a non inasprire alcun tipo di contenzioso, oppure si parla per allusioni.
Ci si limita a richiamare alcuni principi guida - certo non asettici o fuori dal tempo - quali :
-la priorità alla “pace, alla cooperazione pacifica per lo sviluppo, alla difesa della natura e del Pianeta come unica casa comune di tutta l’umanità”;
-il sostegno alle dinamiche di “un mondo multipolare e sempre più interdipendente”: un processo considerato “irreversibile”;
-una valutazione per cui “i rapporti di forza internazionali stanno cambiando a favore delle forze che vogliono il mantenimento della pace e della stabilità internazionale”; benché “il contesto mondiale siano lungi dall’essere tranquillo”, dove “continuano a manifestarsi forme di egemonismo e di politica di potenza, conflitti locali e zone calde, squilibri crescenti nell’economia mondiale, con un divario crescente tra Nord e Sud, nonché vecchie e nuove minacce alla sicurezza”;
-l’imperativo che tutti “rispettino regole e principi della Carta delle Nazioni Unite” e del “diritto internazionale” e si impegnino alla “risoluzione pacifica di tutte le controversie internazionali, respingendo il ricorso alla guerra”;
-la “difesa ferma della sovranità della Cina e della sua integrità territoriale”;
-il “rispetto pieno del diritto di ogni popolo e Paese alla scelta sovrana delle proprie vie di sviluppo, senza interferenze da parte di alcuno”;
-il “sostegno agli sforzi dei Paesi in via di sviluppo a superare il divario Nord-Sud”;
-lo “sviluppo di relazioni di amicizia e cooperazione con tutti i Paesi sulla base dei cinque principi della Coesistenza pacifica”.
Partito marxista
12. Il dodicesimo ed ultimo capitolo è dedicato al tema della “costruzione del Partito, in uno spirito di riforma e innovazione”. E qui si evidenziano :
-la necessità di rafforzare “le capacità di governo del partito, la qualità dei quadri, il loro stretto legame fiduciario con la popolazione, la loro estraneità a fenomeni di corruzione” : condizioni necessarie, tra le altre, per salvaguardare e rilanciare “la natura di avanguardia del partito e il suo carattere di partito marxista”;
-“lo sviluppo ideologico e teorico del Partito” che presuppone anche in questo ambito un approccio “innovativo del proprio patrimonio teorico” ed una “ferma adesione agli ideali del comunismo e del socialismo alla cinese”;
-l’ ”espansione della democrazia interna di partito, il rispetto delle opinioni dei suoi membri, l’incremento della trasparenza nei processi decisionali, la creazione di un clima favorevole per discussioni democratiche,...una attuazione del centralismo democratico che impedisca e prevenga decisioni arbitrarie da parte di singoli o gruppi minoritari di persone”. Ciò richiede anche “l’introduzione di nuovi sistemi di voto e procedure elettorali interne, che comprendano regole trasparenti di selezione dei quadri e forme di competizione tra una pluralità di punti di vista e di candidature”, con una “particolare attenzione ai quadri femminili”, e al rispetto delle “minoranze etniche” (un richiamo questo, al “nostro popolo multi-etnico”, che ricorre incessantemente nella relazione);
-la “promozione di non comunisti ai livelli più alti della direzione dello Stato” (come la recente nomina di due ministri esterni al PCC);
-“ridurre il numero di documenti e incontri ufficiali, bandendo ogni formalismo, burocratico”;
-“combattere la corruzione, nei suoi effetti e nelle sue cause originarie, sapendo che dal successo di questa lotta dipende in buona misura la credibilità del Partito agli occhi della popolazione, la sua stessa sopravvivenza”. Avendo piena consapevolezza del “principio basilare del materialismo storico per cui, in ultima analisi, sono i popoli che fanno la storia”.
Così, infine, nella parte conclusiva: “Sarà necessario più di un decennio di duro e costante lavoro per raggiungere l’obbiettivo di una società mediamente prospera e altri decenni per pervenire al livello di una modernizzazione nei suoi tratti essenziali. E ci vorranno almeno una decina, forse più decine di generazioni, per consolidare e sviluppare un sistema socialista. Siamo consapevoli delle difficoltà e dei pericoli che ci attendono. Dobbiamo essere preparati alle avversità in tempo di pace, attenti a tutti i pericoli potenziali, mantenendo sempre ferma la nostra fiducia nel marxismo e nel socialismo con le peculiarità del nostro Paese”.
Ci sarà modo e tempo per ritornare sulle questioni poste da questo importante appuntamento dei comunisti cinesi. Credo sia utile affrontare la discussione sulla base di una pur minima e succinta informazione documentale, anche al fine di evitare stereotipi, luoghi comuni e approcci propagandistici di vario segno, che non aiutano a capire. Mentre abbiamo invece bisogno soprattutto di capire, se è vero, come ha scritto di recente Fidel Castro, che “ per tutti quelli che, come noi, credono nel socialismo, quello che la Cina sta facendo rappresenta una speranza. Non è azzardato affermare che il futuro del socialismo nei prossimi decenni dipenderà in larga misura da quello che la Cina saprà realizzare”.
Le vie inesplorate del “socialismo con caratteristiche cinesi”
La Cina e il 17° Congresso del Partito Comunista*
di Marcello Graziosi
Non è banale iniziare queste brevi – e forse disordinate - annotazioni ringraziando la newsletter de L’ernesto per l’opportunità che offre di proseguire e aggiornare la discussione sulla Cina, il più grande tra i paesi in prepotente via di sviluppo, il solo che – guidato dal più grande partito comunista del mondo – considera sé stesso in transizione verso il “socialismo con caratteristiche cinesi”. Intervengo stimolato da quanti mi hanno preceduto – dalle “note” di Fausto Sorini ai due articoli di Bruno Casati per la rivista “Gramsci oggi” – come dalla necessità di superare un approccio - assai diffuso all’interno della sinistra anche radicale italiana – che tende ad interpretare i processi in atto nel grande paese asiatico con la supponenza di chi ha solamente da insegnare e nulla da apprendere, evidenziando da subito un grande – e per certi versi clamoroso - paradosso: in questi ultimi anni nessuno ha fatto parlare direttamente i comunisti cinesi della loro esperienza, delle grandi contraddizioni come delle grandi potenzialità che essa ha determinato, dello stato di un partito che oggi conta 73 milioni di iscritti e 3.500 organizzazioni di base in uno sterminato paese, di come vivono i giovani nelle città e nelle campagne, delle loro speranze e aspettative, delle condizioni di lavoro e di vita in un paese che tra qualche anno faticherà a riconoscere sé stesso. Si ha un po’ l’impressione di parlare della Cina come se i cinesi – con la loro millenaria cultura, le loro tradizioni, le loro articolate esigenze e aspettative – non esistessero: l’ultima, grande inchiesta degna di menzione sulla Repubblica popolare è quella del grande giornalista e scrittore statunitense Edgar Snow – il cantore della Lunga Marcia del 1936 – e risale al 1966.
A parte qualche caso sporadico, poco o nulla è stato fatto in questa direzione: Deng Xiaoping, padre della Cina moderna, rimane una sorta di fantasma che ogni tanto aleggia nelle discussioni, mentre sarebbe forse il caso di raccoglierne gli scritti fondamentali, ormai introvabili, in una sorta di antologia, in grado di ricostruire anche quella che è stata la discussione interna al PCC fino all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso e anche oltre. Su Jiang Zemin e Hu Jintao – vale a dire su altri tre lustri di evoluzione nella vita del partito e del paese – è stato pubblicato ancora meno, nonostante sulla Cina si scrivano ormai fiumi di inchiostro. Non sarebbe interessante, soprattutto per chi intende tenere viva la discussione teorica e politica intorno alla “transizione al socialismo” dopo la caduta dell’URSS, conoscere di più quella che è stata ed è l’esperienza cinese a partire dalla voce dei protagonisti? La Cina continua ad essere, su questo terreno, lontana anche per noi.
E’ bene chiarire, a questo punto, un aspetto importante e di grande rilevanza politica e culturale per non ingenerare equivoci o fraintendimenti: i cinesi, pur avendo saputo modificare in profondità la struttura economica di un enorme paese senza abbandonare i riferimenti strategici e politici al socialismo e pur trovandosi ad agire in una realtà nazionale e internazionale – la globalizzazione e la violenta offensiva del capitalismo e dell’imperialismo dopo la disgregazione dell’URSS – assai complessa, non ambiscono ad emergere come “modello” per tutti. Questo è un aspetto importante anche per il futuro, soprattutto se letto alla luce di quelle che sono state le dinamiche interne al movimento operaio e comunista dello scorso secolo, a partire dal fallimento della rivoluzione nell’Occidente capitalistico e dal conseguente isolamento della rivoluzione d’Ottobre: la Cina potrebbe costituire – e in effetti costituisce – un esempio attrattivo per tanti paesi in via di sviluppo con governi che abbiano a cuore la crescita autonoma del proprio paese e il miglioramento delle condizioni di vita della propria gente, ma non per i paesi a capitalismo avanzato. Così come, d’altro canto, sarebbe ingiusto, abominevole e fuorviante continuare a interpretare e valutare l’esperienza cinese con la lente deformante della supposta superiorità dei sistemi democratici occidentali, in profonda crisi di identità, sempre più escludenti, autoritari e decadenti, non di rado ormai imposti al resto del mondo attraverso guerre di conquista e distruzioni. In Occidente i sistemi a democrazia liberale sono ormai ridotti a puro esercizio formale, essendo sganciati da ogni visione di riscatto sociale e politico delle masse popolari e rimanendo un fattore escludente rispetto ai nuovi cittadini stranieri, mentre in Cina potrebbero determinarsi le condizioni per coniugare democrazia e socialismo, esercizio delle libertà personali, diritti individuali e grande progetto collettivo e nazionale. Le riforme sono, su questo terreno, assai più lente e difficili rispetto alla sfera economica, ma il loro dispiegarsi inevitabile di fronte ad una società sempre più complessa e istruita e fattore determinante per la sopravvivenza della transizione. Se i cinesi non possono (e non intendono) essere un modello per noi, noi, altrettanto, non possiamo pretendere di essere il metro di paragone non solo per la Cina ma per il mondo intero.
La lotta alla corruzione all’interno del partito si inserisce precisamente all’interno di questo contesto: come potrebbe, il PCC, sopravvivere a lungo di fronte all’accelerazione delle riforme se dovessero prevalere al proprio interno – dal governo nazionale all’ultima e più sperduta delle municipalità - gli interessi individuali dei singoli funzionari o di gruppi di potere? L’esempio mostruoso del PCUS aleggia ancora nella memoria di tanti e sarebbe assolutamente sbagliato e inutile rimuoverlo. Il PCC si sta muovendo con molta più determinazione su questo terreno, dando un segnale incoraggiante di vitalità, soprattutto se consideriamo, di nuovo, quanto accaduto in URSS: l’istituzione che ha perseguito con più coerenza e autonomia la lotta contro la dilagante corruzione, arrivando ad inquisire la figlia di Breznev, - vale a dire il KGB allora diretto da Andropov – è stata la sola ad avere credito tra la gente e la sola sopravvissuta alle macerie.
Crescita economica, complessità sociale e partito unico
I numeri, le cifre della prepotente crescita economica cinese sono semplicemente da capogiro, tanto che il governo di Pechino è il solo a porsi il problema di come rallentare, o razionalizzare tale vorticoso sviluppo. Su questo terreno, la distanza dall’Unione Sovietica è abissale tanto sul piano quantitativo, quanto su quello qualitativo: nonostante un interessante e serrato dibattito sulle relazioni tra piano e mercato e sull’introduzione di elementi “capitalistici” all’interno dell’economia pianificata – dibattito iniziato all’epoca della NEP leniniana e ripreso con forza a partire dagli anni ’60 del secolo scorso - e nonostante l’introduzione di qualche più o meno timido tentativo di riforma, il sistema economico sovietico è rimasto di fatto impostato su quello che era il modello staliniano, fondamentale per un’intera fase storica (collettivizzazione dei rapporti agrari, mobilitazione delle forze produttive, sviluppo dell’industria pesante, rigido centralismo) ma non in grado di fornire risposte adeguate ai bisogni di una società che si faceva sempre più complessa in tempo di pace o relativa pace e stabilità. La lunga stagnazione degli anni ’70 – economica ma anche politica, sociale e culturale – ha colpito in profondità la credibilità dell’intero sistema agli occhi delle masse popolari e, soprattutto, delle giovani generazioni che sono cresciute – schematizzo brutalmente – cedendo al fascino di quelli che un’abile e articolata campagna di informazione presentava come i grandi “valori culturali” e le “libertà” del capitalismo occidentale. Falsi miti che sarebbero stati duramente pagati da un paese intero nel corso del decennio eltsiniano, quando la controrivoluzione ha mostrato il proprio vero volto. La stagione di profonde – pur se graduali – riforme inaugurata da Andropov è stata troppo breve per lasciare segni tangibili in un sistema ormai funzionante all’ombra di sé stesso e destinato, semplicemente, ad esaurirsi.
La Cina, oggi, sembra non correre il rischio di una deriva “sovietica”, anche se alcune delle contraddizioni determinate dal grande sviluppo quali e quantitativo dei fattori produttivi si impongono con un carattere sempre più “strutturale” – caratterizzante cioè una più o meno lunga fase - e non semplicemente congiunturale o facilmente reversibile. Non sono, cioè, solamente il rovescio della medaglia, un semplice prezzo da pagare, una subordinata o un corollario rispetto al processo di riforma, ma sono parte del processo stesso e, di conseguenza, dovrebbero rimanere al centro della riflessone del gruppo dirigente di Pechino.
Gli aspetti importanti e positivi della transizione cinese sono stati più volte ricordati ai tanti e prevenuti detrattori e oggetto di analisi e discussione anche all’interno della sinistra comunista non solo in Italia: tassi di crescita che consentono un’espansione sempre maggiore del mercato interno e il miglioramento complessivo delle condizioni di vita di milioni di esseri umani; la ricerca di investimenti stranieri non solamente finalizzata ad attirare capitali e valuta pregiata garantendo tassi di interesse vantaggiosi o facili guadagni (processo, questo, funzionale ai grandi centri del capitalismo finanziario internazionale a guida USA), ma volta a determinare un miglioramento qualitativo dei prodotti destinati non solamente all’export come anche a soddisfare le sempre maggiori esigenze del mercato interno; direzione collettiva del sistema economico e prevalenza del settore pubblico nella produzione della ricchezza, elemento che consente la possibilità di investire nuovamente gli utili nelle infrastrutture, nella ricerca, nella scuola o nell’università e nella formazione; utilizzo autonomo della valuta pregiata incamerata (la Cina è, nel bene e nel male, il primo finanziatore del debito USA e uno dei pochi paesi che non si lascia dettare da Washington la politica valutaria). Non sono stati, insomma, i cinesi a dettare le regole di funzionamento del capitalismo globale, ma dentro questo processo sono riusciti con intelligenza e pazienza a far valere i propri punti di forza, suscitando reazioni scomposte da parte dei paesi avanzati, che mai come ora vedono in bilico la propria superiorità e i propri privilegi.
Esistono anche, però, i costi della crescita e quelle che emergono come contraddizioni “strutturali”, i nodi che si troveranno ad affrontare i dirigenti cinesi già a partire dai prossimi anni: l’agricoltura cresce molto più lentamente dell’industria, elemento che allarga il divario tra città e campagna e finisce per innescare un colossale processo di migrazione interna dalle aree rurali alle periferie urbane, processo tipico di un paese in crescita ma assai difficile da governare sul piano della risposta sociale e culturale; cresce il divario tra le zone costiere e industriali – dove cioè si concentra la crescita – e il resto del paese; diritti del lavoro e forme di autorganizzazione dei lavoratori (nelle aziende pubbliche come anche in quelle private o straniere che sfruttano lavoratori cinesi); il sistema di protezione sociale (a partire dalla sanità: è bene ricordare che la Cina si interessa, ad esempio, all’esperienza di alcune regioni italiane in materia di costruzione di un sistema socio-sanitario pubblico) non è all’altezza e fatica a tenere il passo con le nuove esigenze poste dai bisogni di una società sempre più complessa; tale società, soprattutto nelle grandi città, comincia a porsi il problema non solo dei bisogni primari, ma anche della rappresentanza politica come della qualità della vita collettiva (l’aria che si respira, l’acqua che si beve o l’ambiente nel quale si vive) e individuale (tempo di vita e tempo libero, tecnologie ed elettrodomestici, mezzi di trasporto e molto altro ancora). Sbaglia, e di grosso, chi ritiene marginali questi ultimi aspetti: lo sviluppo economico è senza dubbio indispensabile, ma non sufficiente. Un recente sondaggio, ad esempio, rivela che i cittadini di Pechino sarebbero disposti anche a pagare una tassa per poter vivere in un ambiente migliore, meno inquinato e più confacente ai propri desideri. La soluzione non può essere certamente questa, ma l’episodio è sintomatico di una coscienza che cresce, di un bisogno – anche se non materiale – che si afferma come fenomeno di massa, collettivo. Come coniugare la crescita economica con la salvaguardia dell’ambiente nel senso più ampio del termine? Come garantire gli approvvigionamenti energetici, sempre più indispensabili, con le nuove energie rinnovabili, terreno sul quale la Cina potrebbe essere all’avanguardia anche rispetto all’Occidente, ridimensionando fortemente anche i disegni di aggressione USA e la “geopolitica del petrolio”? E’ possibile, su questo terreno, ipotizzare modelli di sviluppo differenti, che tengano conto del pessimo stato dell’ambiente nel suo complesso e del fatto che le risorse del pianeta sono finite, ma sarebbe curioso (e disonesto) chiederlo sempre agli altri, e soprattutto ai paesi in via di sviluppo. Come dire: i paesi a capitalismo avanzato hanno saccheggiato l’intero pianeta, mettendolo a ferro e fuoco per i profitti di pochi e il benessere di non molti milioni di esseri umani, mentre i restanti miliardi di individui, che per secoli hanno patito schiavitù e povertà, devono crescere con garbo e moderazione e rispettare i vincoli ambientali. Sarebbe questo un atteggiamento aristocratico, che si tradurrebbe inevitabilmente nella difesa dei privilegi dell’Occidente. Anche i cinesi, gli indiani, i brasiliani, i sudafricani hanno diritto ad utilizzare lavatrici, lavastoviglie, robot da cucina, automobili e telefonini. In questo contesto, il nodo ambientale si presenta in tutta la sua drammaticità di fronte a tutti: paradossalmente, i segnali più positivi vengono non a caso dai paesi in via di sviluppo, mentre i peggiori dagli Stati Uniti.
Una prima, importante risposta dei comunisti cinesi è stata l’introduzione del principio dello “sviluppo armonico”, concetto recuperato dal sistema filosofico confuciano che può trovare grandi riscontri anche nella nostra epoca. Molto dipenderà, ovviamente, da quali azioni concrete intraprenderà nei prossimi anni il governo cinese, ma l’introduzione di questo principio non può essere considerata né banale, né scontata. Forse, anzi probabilmente, non sarà sufficiente, ma a giudicarla tale non può essere chi fa ancora meno in questo senso.
La Cina nel mondo
Ovvero, la Cina e il contesto nel quale si trova e si troverà ad agire. Di fronte a un rapido deterioramento del quadro internazionale, il governo cinese ha scelto non senza ragione la via della prudenza, pur senza rinunciare a far sentire il proprio peso in determinate circostanze e senza rinunciare al disegno di costruire relazioni multipolari anche attraverso vaste alleanze regionali, impostando i propri rapporti economici – con riferimento particolare all’Africa e all’America Latina – sulla base dei principi di Bandung (non ingerenza e reciproco beneficio) e capovolgendo così letteralmente la logica brutale e militarista degli Stati Uniti e dei propri alleati. L’obiettivo, sacrosanto, di Pechino è quello di salvaguardare per quanto possibile la pace (pur se precaria e relativa), in modo da poter sviluppare la propria economia e le proprie relazioni sociali in un contesto di “distensione” e “convivenza pacifica”, per usare – non a caso – due termini di riferimento importanti per la politica estera sovietica a partire dagli anni ’60 del secolo scorso.
Il quesito è bruciante: fino a quando gli Stati Uniti consentiranno alla Cina di crescere e svilupparsi in un contesto più o meno pacifico e non decideranno di far valere (o minacciare pesantemente di far valere) la propria supremazia militare prima che sia troppo tardi? L’egemonia del PCC rimarrà salda anche di fronte a eventuali piani di disgregazione più o meno violenta del paese sponsorizzati da Washington e, con ogni probabilità, da Tokyo e Bruxelles? Più volte abbiamo ragionato di questo, ma la sensazione è che i tempi stringano e la minaccia di Bush di scatenare un terzo conflitto mondiale si colloca precisamente in questa direzione. Quando gli Stati Uniti si sono resi conto che la politica di “coesistenza pacifica” e “distensione” avrebbe finito per favorire l’URSS, o comunque dinamiche che avrebbero indebolito la propria supremazia sul piano globale, non hanno esitato a giocare la carta della corsa agli armamenti e della militarizzazione unilaterale dell’Europa e dello spazio, costringendo Mosca ad una frenetica rincorsa che ha finito per complicare ulteriormente la già difficile condizione economica sovietica. Ancora prima, al termine del secondo conflitto mondiale, gli USA non hanno esitato a sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki per sancire la propria superiorità sul piano internazionale, come primo atto di quel processo che sarebbe terminato con la Dottrina Truman e la Guerra Fredda.
Senza entrare nel merito dei singoli scenari (da Taiwan al Giappone, alla difficile situazione indiana, alla presenza delle forze Usa e Nato a ridosso dei propri confini, al braccio di ferro con gli USA in Africa), la Cina, insieme a diversi altri paesi (BRIC ma non solo), sta insidiando il primato economico e, di conseguenza, politico degli Stati Uniti e degli altri paesi a capitalismo avanzato. Questo processo potrebbe non affermarsi pacificamente e, di conseguenza, potrebbe avere pesanti ripercussioni sulla transizione al socialismo alla cinese.
Se i comunisti cinesi riusciranno a portare pace, sviluppo e prosperità al proprio popolo, potranno dire di aver vinto una scommessa con la storia lunga sicuramente più di un secolo. A dimostrazione che socialismo e diritti individuali, socialismo e democrazia non sono concetti opposti ma coniugabili. Un’esperienza, quella cinese, che ha tanti nodi irrisolti e scelte difficili davanti a sé, ma che non ha – giunta a questo punto - precedenti nella storia.
* L'articolo è stato scritto per la newsletter della rivista comunista "L'ernesto"