GIULIETTO CHIESA: Kostunica come Gorbaciov, o come Jeltzin? (della
serie: quelli con il vezzo di attaccare i parlamenti).

ENZO BETTIZA: Meno male che li abbiamo bombardati, e meno male che
c'e' Kostunica: adesso possiamo finalmente staccare il Kosovo! Il
tripudio del commentatore piu' antijugoslavo ed anticomunista
d'Italia.

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LETTERA
Gorbaciov e Kostunica
GIULIETTO CHIESA
(da "Il Manifesto")


Osservando l'evolversi della situazione jugoslava (ma ormai di
Jugoslavia non è più il caso di parlare), colgo un parallelo molto
netto tra la parabola, conclusa da tempo, di Mikhail Gorbaciov e
quella, appena iniziata, di Vojislav Kostunica. Lui stesso ha
indicato, qualche giorno fa - prima del suo primo viaggio
all'estero, a Biarritz, per incontrare gli europei - i pericoli
principali ai quali è sottoposto in questa delicatissima
transizione: "i problemi maggiori me li stanno creando i miei
alleati democratici"; e: "mi auguro che dall'esterno ci lascino
tranquilli". Su entrambi i pericoli c'è l'analogia con Gorbaciov.
Dieci anni fa, l'allora presidente sovietico stava combattendo su
due fronti, esattamente come Kostunica sta facendo ora (e temo
dovrà fare sempre di più nei prossimi mesi): il primo fronte era
rappresentato dall'apparato del partito, recalcitrante a ogni
cambiamento, democratico ed economico. Il secondo fronte era
rappresentato dagli "impazienti". Un fronte largo, disorganizzato
ma influente, prevalentemente composto da intellettuali ex
comunisti. Gorbaciov fu sconfitto perché la pressione dei secondi,
affinché egli realizzasse la transizione verso l'Occidente, in
fretta, a tutti i costi, lo espose sul fianco opposto
all'offensiva degli apparati di partito. Ricordiamo che i due
fronti vennero sinteticamente definiti, dalla stampa dell'epoca,
rispettivamente come "riformatori" e "conservatori", sebbene, come
poi si vide, i primi fossero più avidi di potere e di ricchezze
che genuini riformatori. Varrà la pena di ricordare anche, ai
lettori più giovani, che Gorbaciov fu scalzato dal potere da un
colpo di stato organizzato dai "conservatori" il 18 agosto del
1991. Ma anche che - come rivelò uno dei leader "democratici"
dell'epoca, Gavrijl Popov, se non ci fosse stato il golpe di
agosto, Gorbaciov lo avrebbero gettato a mare loro, in settembre o
in ottobre. Anche Kostunica deve ora fronteggiare gli impazienti
interni. I quali sono addirittura più esigenti di quanto non lo
fossero i "democratici" russi, poiché essi ritengono - solo in
parte a ragione - di essere stati gli artefici della vittoria di
Kostunica, e chiedono di essere riconosciuti come tali. Cioè
chiedono posti, influenza, potere. E anche risarcimenti, morali e
materiali. E vogliono che Kostunica faccia i conti, in fretta e
definitivamente, con gli sconfitti, con Milosevic in primo luogo.
E' probabile che Kostunica - come a suo tempo Gorbaciov - voglia
fare molte di queste cose. Ma non tutte e, soprattutto, non in
fretta. Egli sa che la vittoria elettorale c'è stata, e grande, ma
che una parte cospicua del paese ha votato per Milosevic e non può
essere ignorata (proprio in base a considerazioni democratiche).
Egli sa bene di avere vinto le elezioni anche perché nella sua
piattaforma programmatica c'era la condanna dei bombardamenti
della Nato, c'era la difesa dell'integrità territoriale dello
Stato, c'era il rifiuto di consegnare Milosevic al tribunale
internazionale dell'Aja. Non ci fossero stati questi tre punti,
con ogni probabilità Kostunica non avrebbe vinto le elezioni.
Spingerlo a bruciare le tappe, e a smentirsi, non sarà un
suggerimento salutare: né per lui, né per la gente serba, poiché
esaspererà una transizione già di per sé molto difficile e
dolorosa. Eppure è questo che sta avvenendo. Molti interrogativi
restano dunque aperti, anche sul destino di Kostunica. L'altro
pericolo viene dall'esterno. Pochi, in Occidente, hanno fatto
autocritica sulla Russia, sebbene sia ormai evidente a tutti
(coloro che hanno un minimo di onestà intellettuale) che la
ricetta occidentale (leggi, essenzialmente, americana) per la
transizione russa verso il mercato e lo stato di diritto si sia
rivelata un terrificante fallimento. Questo spiega perché si sta
ripetendo, con Kostunica, lo stesso "errore" che si fece con
Gorbaciov, quando si pretese da lui che facesse ciò che non poteva
(e non voleva) e, visto che non seguiva i consigli dell'Occidente,
lo si scaricò e si scelse Eltsin, più corrivo, cedevole e
subalterno, ma anche più corrotto e assai meno democratico. In
base al principio: sia quello che vuole, purché faccia i nostri
interessi. Che poi quelli che Eltsin fece fossero gli interessi
dell'Occidente è ancora tutta da vedere, ma questo è un altro
discorso. Il fatto è che non si vede grande saggezza, per ora, nei
comportamenti dell'Occidente. Gli europei hanno abbracciato
Kostunica, a Biarritz, e hanno fatto bene. Ma non hanno allentato
la pressione su di lui perché concluda senza indugi l'opera di
smantellamento della Jugoslavia. Inespresso, ma tangibile, aleggia
nell'aria un ricatto: aiuti, investimenti, in cambio della resa
finale della Jugoslavia di Milosevic e, s'intende, della consegna
di Milosevic in persona. Una politica europea non c'era e continua
a non esserci dove si tratta di sapere quale sarà il destino della
Bosnia, del Kosovo, del Montenegro. E sarà cosa altamente
rischiosa, per tutti, esigere da Kostunica, semplicemente, di
comunicare ai suoi elettori che quei pezzi di terra e della loro
storia (e con essi i serbi che vi si trovano) debbono andare con
Dio.

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Il voto nel Kosovo

I frutti di pace della guerra
"La Stampa", 1 novembre 2000

di Enzo Bettiza

Più passa il tempo, tanto più ci si rende conto che l'intervento
Nato contro la Serbia di Milosevic continua a produrre una
sequenza di risultati sempre più positivi ed efficaci. Ci si
accorge insomma che avevano torto sia i pacifisti ideologici, che
condannarono quell'intervento come un sopruso imperialistico, sia
i pacifisti conservatori che, in nome di un sofisticato realismo,
lo condannarono come un errore. Quel "sopruso" e quell'"errore"
non solo bloccarono l'ultimo tentativo di genocidio totale del
ventesimo secolo. Hanno provocato in seguito la caduta dell'ultimo
tiranno comunista europeo, hanno portato al potere a Belgrado un
nuovo presidente che sta ricucendo i legami interrotti con
l'Europa, hanno preparato il terreno per le prime elezioni
democratiche a cielo aperto in Kosovo, infine hanno assicurato la
vittoria del partito moderato di Ibrahim Rugova contro quello
estremista e militarista di Hashim Thaci. Il paventato "effetto
domino" non c'è stato. Ci sarebbe stato se l'Occidente, anziché
impegnarsi, avesse consentito ai serbi di svuotare il Kosovo e di
far esplodere la Macedonia e l'Albania con l'alluvione dei
profughi. Anche i governanti autonomisti di Podgorica stanno
traendo un sospiro, in attesa che Kostunica si decida a cambiare
la forma e la sostanza della "Federazione jugoslava"
trasformandola in una confederazione paritaria serbo-montenegrina.
C'è ancora chi continua a tracciare scenari catastrofici lasciando
immaginare che, da un'eventuale secessione kosovara, potrebbero
dipartirsi a raggiera una serie di cataclismi regionali. Non si
capisce se qui prevalga l'ignoranza o la malafede. La graduale
normalizzazione nella Serbia, nel Montenegro e nel Kosovo avviene
in un quadro generale completamente nuovo, dopo le quattro guerre
scatenate con centinaia di migliaia di morti da Milosevic e dalle
sue bande. La Slovenia è oramai un pezzo della Mitteleuropa in
procinto di superare gli esami di Maastricht. La Croazia, dopo la
scomparsa di Franjo Tudjman, non è più una "democratura" ma una
democrazia avviata a integrarsi anch'essa all'Europa. La
Bosnia-Erzegovina, dopo l'autopensionamento del presidente Alija
Izetbegovic, sta cercando un'uscita di sicurezza da un groviglio
istituzionale che di fatto vede quello Stato posticcio lacerato
tra una componente croata erzegovese, una "etnia" slavo-musulmana,
infine una confusa Repubblica serba che non si sa bene da chi sia
oggi guidata. Quanto alla Macedonia, dopo il ritiro del saggio
presidente Gligorov, essa non rappresenta affatto quel permanente
pericolo di disgregazione agitato dagli sceneggiatori del peggio:
il terzo albanese macedone è lealmente integrato nelle istituzioni
governative, amministrative ed economiche del Paese e dello Stato.
Resta, ovviamente, la questione delle questioni: l'indipendenza di
Pristina. Anche qui l'ottica prevalente è falsa. Non si tratta di
far "convivere" cinquantamila serbi spaventati con una nazione di
due milioni di albanesi la cui potenza demografica è peraltro la
più elevata in Europa. Si tratta di negoziare i ritmi di una
secessione progressiva quanto inevitabile. I balcanici, quando
sono moderati, sono anche maestri in operazioni omeopatiche del
genere. Kostunica e Rugova saranno all'altezza del compito?



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Bollettino di controinformazione del
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