Sulle iniziative svolte negli ultimi anni in Italia con e su Lordan Zafranović, alle quali ha contribuito il CNJ, si veda:
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L'autore di “Occupazione in 26 immagini” racconta la propria carriera, dai circoli amatoriali ad oggi, attraverso la storia del cinema croato recente. I successi e il periodo oscuro delle guerre jugoslave. Nostra intervista
Come è iniziata la sua carriera nel mondo del cinema?
All’università ho studiato pittura, ma parallelamente mi occupavo di cinema a livello amatoriale, in un Cine Club di Spalato. Questo periodo di attività amatoriale, durato dal 1961 al 1965 circa (quando ho cominciato a girare i miei primi cortometraggi da professionista per la Zagreb Film), mi è particolarmente caro, in quanto mi ha dato modo di lavorare con una grande varietà di materiali e fare diversi esperimenti, girando una sessantina di film, soprattutto cortometraggi. Proprio grazie al successo nella mia attività amatoriale ho poi ottenuto una borsa di studio del ministero della Cultura croato, che mi ha permesso di completare gli studi di regia all’Accademia di Cinema di Praga. Tutti gli stimoli e l’entusiasmo che avevo raccolto nel mio periodo amatoriale mi sono serviti come “materia prima” per la mia formazione accademica. A Praga ho avuto modo di studiare con degli ottimi docenti, dei veri giganti. Lì come tesi di laurea, nel 1969, ho realizzato il mio primo lungometraggio, La Domenica lavorando con la consapevolezza di girare un film per il pubblico. La totale libertà del periodo precedente tuttavia, quello amatoriale, è stata di fondamentale importanza per il nostro cinema, e non solo in Croazia. Infatti, mentre i corsi di studio professionali in ambito cinematografico sono nati solo negli anni sessanta, i Club del Cinema ed i circoli amatoriali hanno costituito un fertile humus da cui sono emersi autori straordinari come Pavlović in Croazia e Makavejev a Belgrado.
Come si finanziavano quei circoli amatoriali?
Nell’ex-Jugoslavia esisteva la Narodna Tehnika, una grande organizzazione con varie suddivisioni locali che assegnava dei finanziamenti statali ai circoli cinematografici, teatrali, sportivi e così via. Ad esempio, si stanziava un budget annuale che poteva essere destinato a viaggi o alla partecipazione a festival in Jugoslavia o in Europa.
Cosa ci può raccontare del suo lavoro negli anni settanta, dopo la sua formazione?
Dopo essermi laureato a Praga, dove ho anche insegnato, sono tornato a Zagabria. Purtroppo però la situazione politica era cambiata e il clima era molto sfavorevole, non c’era lavoro. Allora mi sono trasferito a Belgrado, dove ho lavorato in un programma televisivo e ho realizzato un film, sempre per la televisione. Poi sono tornato di nuovo a Zagabria. Nella seconda metà degli anni settanta, oltre a diversi cortometraggi, ho realizzato alcuni tra i miei film più significativi, con la Jadran Film. Nel 1975 ho girato il mio primo lungometraggio importante, Muke po Mati (La passione secondo Matteo), premiato a Pola con il premio della critica. È stato un film un po’ controverso, c’è chi ha detto che fosse un film religioso. In realtà si trattava di un film “sociale”, con elementi religiosi al suo interno, ma non era un film cattolico. Invece nel 1978 ho realizzato Okupacija u 26 slika, un racconto delle atrocità commesse dai collaborazionisti ustaša durante l’occupazione italiana e tedesca della città di Dubrovnik nel 1941. Il film vinse l’Arena d’oro a Pola e fu presentato in concorso a Cannes, tra l’altro in un anno dove la competizione comprendeva Apocalypse Now e Fellini. Fu anche un grande successo di pubblico, il film più visto in Jugoslavia di quella stagione.
Il cinema jugoslavo o croato degli anni settanta si ispirava a qualche modello in particolare, ad esempio quello a russo o francese?
All’interno della Jugoslavia ogni paese conservava una propria specificità individuale, sia nell’estetica di riferimento che nell’approccio. Ad esempio il cinema serbo aveva un approccio naturalistico, molto influenzato dal neorealismo italiano; quello croato si ispirava al modello tedesco; quello bosniaco all’estetica del documentario. La Slovenia privilegiava un certo estetismo, mentre la Bulgaria guardava al classico film sovietico. Il segmento più “classico” del cinema croato è rappresentato dai film d’autore prodotti dalla Jadran Film.
Per quanto riguarda invece la distribuzione, com’era organizzata? C’erano pressioni da parte della politica?
Ogni repubblica aveva una propria commissione di censura, incaricata di valutare ed approvare i film in uscita. La maggioranza dei film non incontrava problemi, ma lo spettro della censura rimaneva. Una volta ottenuta l’approvazione, ciascuna casa di produzione poteva distribuire il film nel paese di competenza. A differenza di quanto purtroppo accade oggi, esisteva un sindacato dei lavoratori di settore che negoziava le condizioni di impiego tra produttore e lavoratori. C’era un sistema di retribuzione interessante, ovvero ogni membro del team di lavoro aveva l’opportunità di partecipare finanziariamente, secondo le proprie possibilità, e di conseguenza partecipare ai guadagni nella stessa percentuale.
In che periodo è riuscito a lavorare con maggiore libertà, e quale invece è stato il periodo peggiore?
Credo che il periodo migliore siano stati gli anni settanta, mentre negli anni novanta, con il crollo della Jugoslavia e le guerre, è iniziato un periodo da incubo. La situazione era davvero durissima, sia per la mancanza di mezzi e infrastrutture sia per il clima politico. Nel 1994, dopo aver girato Testament, un film documentario ritenuto “pericoloso” che suscitò una grande discordia perché mostrava immagini di provenienza nazista e ustaša, mi sono trovato in una situazione a rischio. Vivevo come in un bunker e il mio nome figurava su una sorta di lista di proscrizione. Alla fine ho dovuto lasciare il paese e sono tornato a Praga, dove avevo studiato. Ancora oggi, questo film non è mai stato mostrato in televisione.
Al di là della mia storia personale, il periodo è stato catastrofico anche dal punto di vista della produzione cinematografica in generale. A parte alcune eccezioni di rilievo, come Vinko Brešan, il panorama filmico di quegli anni è desolante. Il crollo della Jugoslavia non ha portato niente di buono, e con l’inizio delle guerre i criteri artistici e qualitativi sono stati soppiantati dall’aderenza al credo nazionalista nel tentativo di produrre “puri film croati”. La conseguenza è stata un crollo della qualità e il formarsi di una sorta di “zona grigia” in cui tutti i film erano mediocri prodotti di propaganda bellica. In più, il legame tra mafia e potere politico ha creato un clima di tale depressione che mi fa male solo parlarne.
E oggi, dopo le guerre, la situazione può dirsi migliorata?
Diciamo che dopo Tudjman è iniziato un lungo processo di democratizzazione della società in generale, non solo del cinema. Ma il sistema cinematografico va cambiato radicalmente. Il ministero della Cultura mette a disposizione dei finanziamenti, ma sono insufficienti. Anche per questo le coproduzioni sono diventate così popolari, perché semplicemente fanno risparmiare. La televisione di Stato è un’altra potenziale fonte di supporto economico, ma è completamente sotto il controllo della politica. La privatizzazione ha distrutto le case di produzione come la Jadran Film, e non esiste più un sindacato per i lavoratori del settore, che sono lasciati a se stessi. Inoltre le possibilità di espansione del nostro mercato sono limitate: la Croazia è un paese molto piccolo, dal punto di vista linguistico gli spazi sono ristretti, inoltre mancano il denaro e le infrastrutture, a partire da quelle più basilari come le sale cinematografiche.
Quale futuro vede per il cinema croato nei prossimi anni?
Credo che il nostro unico futuro sia la partecipazione all’Unione Europea, sia dal punto di vista politico che cinematografico. Dovremmo aprirci sempre di più verso l’esterno, adeguarci ai criteri qualitativi europei e cercare nuovi sponsor. Sì, il legame con la tradizione europea è il nostro unico futuro, vista la carenza delle nostre istituzioni. E soprattutto, bisogna ricostruire ed educare un pubblico. Fino al crollo della Jugoslavia, il pubblico adorava il cinema locale. La guerra ha distrutto tutto, e la generazione cresciuta negli anni Novanta non conosce nemmeno la tradizione cinematografica del proprio paese.