Italiani, il mito di brava gente

1) Recensione del libro di Davide Conti "L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della brava gente (1940-1943)"

2) Recensione del romanzo di Boris Pahor "Qui è proibito parlare"


=== 1 ===


Italiani, il mito di brava gente. Falso storico!

di Margherita Amatruda 
Da Odradek: quando l’Italia
occupava e massacrava:
i Balcani negli anni 1940-43


Un paese che non conosce la propria storia è destinato a ripetere gli stessi errori.
La nostra editoria è piena di saggi che ricostruiscono gli eventi della Seconda guerra mondiale. Quelle che spesso mancano sono le opere di descrizione degli accadimenti storici che indeboliscano le certezze consolidate e che permettano al lettore di rivedere le proprie convinzioni per capire e conoscere i momenti che, nel corso del Secondo conflitto mondiale,videro la partecipazione dell’Italia nel ruolo di aggressore e di occupante.
Il saggio di Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della brava gente (1940-1943), pubblicato da Odradek (pp. 278, € 18,00), offre una ricostruzione storica molto dettagliata di quella che durante  la Seconda  guerra mondiale, e ancor prima, fu l’invasione italiana dei Balcani, la conseguente opera di “snazionalizzazione” effettuata dal regio esercito e dalle milizie fasciste, la repressione nei confronti dei partigiani e della popolazione e il successivo atteggiamento di generale rimozione dei fatti accaduti e dei crimini commessi nella perpetua e autoassolutoria riproposizione del mito degli “italiani brava gente”.
Gli italiani si distinsero, come sempre accade nelle guerre di conquista, per ferocia e sopraffazione. L’autore mira ad evidenziare le atrocità perpetrate contro la popolazione civile delle zone conquistate e contro i partigiani che operavano sul territorio. Si tenga presente come: «il mito del “buon italiano” non solo abbia nel passato assolto [...] il suo compito di rimozione e autoassoluzione degli italiani rispetto alle responsabilità della Seconda guerra mondiale e della guerra di aggressione coloniale, ma anche come mantenga ancora nel presente [...] una funzione di organizzazione del consenso rispetto alle politiche militari».
I dati e le citazioni che spesso l’autore propone come inciso nel corpo del testo, la ricchezza di note e la presenza di accurati indici fanno di questo saggio un’opera interessante e completa, destinata a un pubblico di lettori esperti e appassionati di storia.
 
«Palikuća»
Proprio l’intervista a un partigiano italiano, Rosario Bentivegna, apre e contemporaneamente racchiude il senso di questa opera. Bentivegna, unitosi come combattente alle brigate partigiane che operavano in Montenegro durante  la Seconda  guerra mondiale, racconta, nelle prime pagine, della diffidenza che, comunque, i montenegrini nutrivano nei confronti degli italiani: «Tanto da portare la popolazione civile a ribattezzare il soldato italiano palikuća cioè incendiario, bruciatetti».
Basta questo incipit crudo a far cogliere al lettore quella che è stata la vera natura dell’occupazione italiana dei Balcani, simile a quella di tutte le guerre di conquista. Tale occupazione si caratterizza per la medesima ferocia dimostrata dai nazisti in tutta Europa. L’unica cosa che differenziava i due eserciti era la migliore organizzazione della milizia tedesca nelle operazioni belliche e nella sistematica opera di “snazionalizzazione” e repressione che seguiva alla conquista dei territori.
 
Antefatto
Premessa per le invasioni militari dei Balcani della Seconda guerra mondiale fu la medesima opera di progressiva “snazionalizzazione” anche di Istria e Slovenia per mezzo del governo fascista a partire dagli anni Venti: «Nell’ottobre del 1925 un decreto legge vietò definitivamente l’uso della lingua slovena [...] mentre nel 1927 fu imposta l’italianizzazione di tutti i cognomi».
Si pensi poi all’appoggio, neanche tanto velato, fornito da Mussolini e dal regime fascista agli Ustascia croati [da ustaš, “insorto”, o “ribelle”, Ndr] fuoriusciti che risiedevano, si riorganizzavano e operavano in Italia o dall’Italia: «i contatti tra Ante Paveliç [leader nazionalista degli Ustascia, criminale di guerra, Ndr] e il regime fascista sono ormai accertati [...]. Paveliç venne sostenuto [...] in tutte le sue attività da Mussolini che vedeva nella sua azione uno strumento di disgregazione e indebolimento dello Stato jugoslavo funzionale alla politica di espansione italiana dei Balcani [...]. Lo Stato croato diverrà, una volta occupata  la Jugoslavia  [...] una spietata macchina di repressione antipartigiana e di pulizia etnica».
Perfino i tedeschi ebbero a lamentarsi della violenza delle truppe croate: «I massacri che le milizie croate operarono in danno della popolazione [...] furono tanto frequenti e feroci da spingere diplomatici, politici e militari nazisti presenti in loco a inviare in Germania resoconti di biasimo della condotta degli Ustascia», se questo non sembra paradossale.
 
La notte dei Balcani
Successivamente all’invasione italotedesca del Regno di Jugoslavia (supportata anche da divisioni ungheresi e bulgare) del 6 aprile 1941, all’Italia viene assegnata  la Slovenia  meridionale. È da questo punto che l’opera di Davide Conti diventa, nella ricostruzione storica degli eventi, un susseguirsi di dati relativi ai crimini commessi dall’esercito italiano di occupazione. Scrive l’autore: «la repressione del movimento partigiano divenne, dunque, il fattore centrale della politica d’occupazione italiana, in quanto coniugava in sé due elementi fondamentali della strategia fascista: da un lato il completo controllo economico della regione [...], dall’altro il programma di snazionalizzazione delle terre slave occupate, attraverso eliminazioni fisiche e deportazioni di civili fiancheggiatori o meno con i partigiani – e ancora – per colpire la resistenza jugoslava, le autorità italiane puntarono sulla deportazione di intere zone popolate da civili».
Tale logica di “fare terra bruciata” attorno ai resistenti jugoslavi che operavano nelle zone occupate dagli italiani, unita alla logica di “snazionalizzare” i territori sostituendo slavi con italiani, comportò la necessità di realizzare campi di concentramento in Italia. Al termine della guerra, gli internati raggiunsero la stima complessiva di circa centomila persone, tra militari e civili. Il campo più grande venne costruito in Toscana, a Renicci d’Anghiari, e poteva ospitare fino a novemila reclusi.
L’idea che campi di concentramento così vasti siano stati presenti sul nostro territorio è un dato, non molto noto, che sconcerta il lettore.
Le ricostruzioni relative a fucilazioni, “soppressioni” di prigionieri ammalati, rappresaglie e uccisioni varie misurano quella che è stata l’occupazione e sono un pugno nello stomaco di chi, degli eventi accaduti e che qui vengono ricostruiti, non sapeva nulla: «la favola del bono italiano deve cessare [...] per ogni camerata caduto paghino con la vita dieci ribelli». Erano questi i toni dei proclami.
Tale condotta ci rese, successivamente alla caduta del regime fascista e ancora per lunghi anni, invisi alle popolazioni locali: «Durante e dopo la guerra in Jugoslavia la parola italiano divenne sinonimo di fascista».
 
Al termine della guerra si prova a presentare il conto
I crimini di guerra, commessi in Jugoslavia, furono oggetto di inchiesta da parte italiana alla fine della guerra.
Il piano di “snazionalizzazione” che il regime di allora tentò di realizzare nei territori occupati divenne il primo capo d’accusa denunciato, davanti alla Commissione delle Nazioni Unite, dalla Commissione di Stato per l’accertamento dei crimini degli occupanti e dei collaborazionisti, voluta da Tito nella Jugoslavia “liberata”.
La strategia difensiva – riproposta anche per i misfatti commessi in Grecia, Montenegro, Albania e Africa – fu quella di addossare l’intera responsabilità al passato regime, dissociando da questo l’Italia postbellica e cercando di giustificare il comportamento dei militari nel senso del “dovere di obbedire agli ordini impartiti” e circoscrivendo ai singoli la responsabilità delle violenze: «una dissociazione politica e morale», insomma. A Norimberga o nel processo intentato al criminale nazista Adolf Eichmann nel 1961, l’atteggiamento degli imputati fu sostanzialmente simile.
 
La giustizia si piega alle ragioni politiche e volge lo sguardo altrove
Le mutate condizioni politiche in Europa, il gravitare della nostra nazione nell’orbita di quella che sarà poi l’Alleanza Atlantica, il clima di sostanziale “Preguerra fredda” che già si viveva, aiutò non poco le autorità italiane della rinnovata democrazia a respingere le pretese jugoslave sull’estradizione dei militari accusati di reati e dei criminali e collaborazionisti jugoslavi rifugiati sul nostro territorio.
La ragione politica prevalse, dunque, sulla giustizia.
La necessità e la strategia di non indebolire il nascente blocco anticomunista, in cui l’Italia rappresentava una pedina preziosa, agevolò il nuovo mondo libero a girare la testa verso un’altra direzione. I partiti “antifascisti” si opposero con forza alle estradizioni (eccezion fatta per il Pci), gli organi di stampa sostennero questa linea (eccetto l’Unità prima e l’Avanti poi). La cesura tra il nostro paese e il Fascismo doveva essere netta e l’eventuale giudizio sarebbe stato (e così non fu) della giustizia italiana. Nessuno dei nostri militari – secondo i dossier dell’Onu – venne mai processato dai tribunali internazionali che si occuparono di crimini di guerra e tantomeno da quelli locali dei paesi che subirono le occupazioni. Resta l’amaro.
Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, quella italiana, uscita perdente ma paradossalmente anche vincente dalla Seconda guerra mondiale, risulta evidentemente scritta da più mani che, come spesso accade, mentre scrivevano volgevano gli occhi e il pensiero altrove.
Qualcuno scrisse o sostenne “l’opera civilizzatrice” del nostro esercito nelle colonie, molti difesero la differenza con la brutalità nazista, altri, infine, si spinsero a: «Controaccusare l’esercito di Tito di ferocia e spietatezza». Unici responsabili dei reati eventualmente commessi sarebbero stati Benito Mussolini e i fascisti; regio esercito e popolo italiano erano da considerarsi vittime anch’essi. Sembra veramente troppo.
Poi sui fatti calò il silenzio. Interrotto negli anni da qualche spirito libero – si pensi al documentario della Bbc «Fascist Legacy» [«L’eredità fascista», di cui si torna a parlare in questi giorni, Ndr], o agli studi di Angelo Del Boca e alla querelle che lo contrappose, negli anni passati, a Indro Montanelli – che al mito della “brava gente ad ogni costo” proprio non si adegua.
 
Margherita Amatruda
 
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 21, maggio 2009)


=== 2 ===



Liberazione, 4 marzo 2009

Sloveni senza lingua
l'italianità forzata

Tonino Bucci


Ema non ci sta. Non ci sta a farsi risucchiare da una Trieste che ha perduto il fascino antico della città multiculturale. Non ci sta a seguire lo stesso destino, volgare e tragico, della sorella Fani, caduta nella seduzione della propaganda fascista. Non ci sta, per dirla tutta, alla rassegnazione. No, non si abituerà mai alla persecuzione di cui è fatta oggetto la sua gente, la comunità slovena, i renitenti all'italianizzazione forzata. In una Trieste monocorde sul finire degli anni Trenta, all'apice dell'impero coloniale fascista subito dopo l'impresa etiopica, si svolge Qui è proibito parlare (Fazi Editore, pp. 400, euro 19), il nuovo romanzo di Boris Pahor, classe 1913, triestino di nascita, bilingue, ex docente di lettere italiane e slovene, membro attivo della resistenza antifascista slovena e deportato nei campi di concentramento nazisti.
I fasti della città mitteleuropea d'una volta sono spariti, ormai imperversa il conformismo di regime. Sotto la politica dell'assimilazione forzata Trieste ha smesso d'essere il crocevia di culture che era, luogo d'incontro tra comunità diverse, italiani, sloveni, croati, tedeschi, ungheresi, greci, ebrei. Lo sperimenta sulla propria pelle, anzi sul proprio corpo, la protagonista del romanzo (titolo originale in sloveno Parnik trobi nji ), Ema, giovane ragazza disoccupata segnata dai drammi familiari. Attraverso le sue parole di donna prende corpo la storia sua privata e quella dell'intera comunità slovena costretta al silenzio. Vive dapprima il dramma individuale della solitudine. A Trieste è nata, ma ora si sente come straniera nella sua città. E' la prima volta che ci ritorna da quando il padre, ferroviere, era stato costretto con tutta la famiglia al seguito a trasferirsi altrove. Ci ritorna sola, disoccupata, in cerca di un impiego da dattilografa, costretta ad alloggiare in una stanza misera nel quartiere più degradato della città. Ema desidera ritrovare un legame, ´far parte di una comunità è una difesa importante, non si è soli. Non essere soli: è questo che ci dà un senso di sicurezza'. Ma non sopporta doversi ritrovare nelle messe clandestine in sloveno, in una chiesa catacombale degli armeni, con altre ragazze slovene dall'aria rassegnata, tutte domestiche a servizio nelle famiglie borghesi. E' ironica, sarcastica:´Distinte signore, vi offriamo manodopera femminile che si dedicherà anima e corpo alle esigenze delle vostre case, vivendo in castità come suore in convento, vale a dire che non sottrarrà al suo impegno nemmeno quella parte di energia che di solito richiedono i peccati della carne'. Ma poi Ema si accorgerà di giudicare con troppa severità quanti, fra i connazionali di lingua slovena, ricorrono a sotterfugi pur di mantenere in clandestinità il diritto a parlare. Non tollera che per praticare la propria lingua ci si debba ridurre a incontrarsi nella chiese, nelle sedi clandestine, nei raduni in montagna. ´Che ci sbattano tutti in prigione. Tutti. Ma prima scendiamo tutti in piazza. Tutti gli sloveni in piazza. tutti gli abitanti dei villaggi per le strade, con il bestiame, con gli attrezzi da lavoro. Bloccare il traffico. Gridare. Cantare. Innalzare barricate. Morire tutti, se è necessario, piuttosto che accettare, nel ventesimo secolo, l'umiliazione di dover riunire due dozzine di liceeali per insegnare loro la lingua madre di nascosto'. Ma si renderà conto che il suo intransigentismo per gli altri è, per molta parte, provocato dal suo bisogno individuale di riscattarsi dalla sconfitta del padre. Ma soprattutto di non fare la stessa fine di sua sorella Fani, diventata fascista, traviata, alla fine morta in un tragico incidente sotto il treno Oriente express. Ema punta il dito sulla debolezza altrui per timore di scorgervi la propria. Tutto cambia quando sul molo, per caso, conosce Danilo. Anche lui è sloveno, membro di una rete clandestina antifascista. Con lui Ema incontra la politica ed entra nell'organizzazione clandestina. Intanto in Europa scoppia la guerra e stavolta, se l'Italia di Mussolini entrerà nel conflitto, non sarà come in Etiopia. Il regime potrebbe avere il tempo contato.
Il romanzo non si esaurisce alla sua cifra letteraria. Trascina il lettore nel clima storico di un'Europa che sperimenta il fallimento dei trattati di pace risalenti alla fine della Prima guerra mondiale. E' il principio dello Stato mononazionale, affermato sulla carta dopo il 1918, che non ha retto alla prova dei fatti. Le frontiere dei nuovi Stati che nascono dopo la Grande guerra non vengono affatto a coincidere con quelle delle popolazioni. Saranno quest'ultime, piuttosto, a doversi adattare ai confini politici. Da qui nasce il dramma di sloveni e croati che dopo la disgregazione del vecchio impero austriaco, si ritrovano in territorio italiano. ´Il problema della popolazione "allogena" - le parole sono di Sandi Volk, storico contemporaneo della Venezia-Giulia e autore di Esuli a Trieste (edizioni Kappa Vu) - venne affrontato con l'assimilazione, l'espulsione, ovvero lo scambio di popolazione, e con la colonizzazione dei territori nazionalmente misti o "allogeni" con popolazione appartenente alla nazione "statale". Questi tre approcci furono generalmente sincroni, paralleli e strettamente correlati tra di loro'. Il nazionalismo delle classi dirigenti italiane - di cui il fascismo rappresenterà la versione esasperata - individua il suo nemico nello Stato unitario di sloveni, croati e serbi che sta nascendo a ridosso dei suoi confini. L'occupazione e l'annessione della Venezia-Giulia si compie all'insegna del sacro egoismo nazionale, di un'Italia "proletaria" che cerca spazi vitali e di una brutale politica di italianizzazione forzata delle cosiddette popolazioni allogene.
Cosa nasconde la maschera d'italianità imposta a Trieste lo si scopre nel viaggio d'iniziazione della protagonista del romanzo di Pahor. Con ripetuti flash back il lettore viene a conoscenza di una sequenza storica. Delle atrocità commesse a Fiume e sulle isole ai tempi dell'impresa dei legionari di D'Annunzio, dei primi atti del fascismo, dello scioglimento di tutte le istituzioni slovene e croate, cinquecento associazioni culturali e sportive, e oltre trecento cooperative. Chiusi giornali e riviste, soppresse le scuole, allontanati professori e insegnanti, discriminati vescovi di lingua slovena. Violenze e massacre come l'incendio appiccato nel '20 dai fascisti al Narodni Dom, il centro culturale sloveno della città, dopo aver sbarrato le porte e impedito ogni via di fuga alla gente chiusa all'interno. ´Gli austriaci ai tempi in cui occupavano l'Italia settentrionale non avevano mai commesso atti paragonabili all'incendio del Narodni Dom'. Per non parlare dell'operazione sistematica di italianizzazione dei toponimi e dei nomi di battesimo, dei cognomi dei vivi e di quelli dei morti sulle lapidi nei cimiteri.
Non c'è altra via che resistere in clandestinità, Ema se ne convince sempre più, a costo di cadere nelle mani della polizia e di affrontare l'onta degli interrogatori. E come ogni altra resistenza anche quella raccontata da Pahor deve affrontare il nodo dei mezzi. ´Era successo dopo che gli sloveni sottoposti alla giurisdizione italiana, resisi conto che per vie legali non si cavava un ragno dal buco, avevano cominciato a opporsi alla violenza con la violenza'. Quale possibilità di difenderti ti rimane - si chiede Ema - se dappertutto, dove sorgono case di cultura slovene, s'innalzano roghi? E se addirittura non ti è permesso esistere pubblicamente come sloveno? Qui il romanzo s'intreccia con la storia e lungo il racconto s'incontra la vicenda dell'attentato di matrice slovena al giornale fascista Il popolo di Trieste , principale organo della campagna antislava. Inizia il tempo degli attacchi. ´No, non me ne pento - dice Danilo, l'amante di Ema - ma per certi versi mi vergogno di aver adottato simili metodi, sebbene sia stato il più forte a insegnarci come si cosparge la benzina e si appicca il fuoco'.
Boris Pahor accompagna Ema in questo viaggio della ribellione, non solo nelle sue scoperte politiche ma persino nella scoperta della dimensione erotica nel rapporto con Danilo. Un viaggio portato avanti con coraggio in tutte le sue conseguenze.


04/03/2009