CI CONSENTA, DOTTOR PANSA…

... dietro il milite delle brigate nere
più onesto, più in buona fede, più idealista,
c\'erano i rastrellamenti
le operazioni di sterminio
le camere di tortura
le deportazioni
l\'olocausto

Mentre dietro il partigiano
più ladro, più spietato
c\'era la lotta per
una società più pacifica
più democratica e
ragionevolmente più giusta ...

(Italo Calvino)


Onore al merito, Giampaolo Pansa è riuscito, in età piuttosto avanzata dopo una decennale carriera giornalistica, ad ideare una linea editoriale che può essere paragonata ad un una gallina dalle uova d’oro. 
Una volta visto dove tirava il mercato, si è impegnato a fondo nello scrivere di quello che va di moda da qualche anno a questa parte, cioè che la Resistenza, dato che non va angelicata (tesi sostenuta a suo tempo anche da Fausto Bertinotti) di conseguenza può essere demonizzata: e una volta demonizzati i partigiani, poi viene naturale santificare i fascisti. E dato che questo modo di scrivere ha scatenato (giustamente) una serie di polemiche tra chi concorda e chi no con il Pansa-pensiero, ne consegue che da queste polemiche Pansa riesce a comporre un altro libro, e così di seguito, stampando e ristampando.
Dopo avere letto tutte queste raccolte di storie di uccisioni di fascisti, ciò che colpisce è che Pansa ha fatto una scoperta sensazionale: in guerra ci si ammazza. Nel senso che ad ammazzare non sono solo gli aggressori, perché ad un certo punto anche gli aggrediti cominciano a difendersi e magari (e qui sta il crimine secondo Pansa) anche a vendicarsi. 
È ben vero che siamo tutti esseri umani, e che erano esseri umani sia i partigiani sia i fascisti. Detto un tanto, tagliamo la testa al toro. Chi ha preso il potere con violenza, ammazzando e torturando gli oppositori politici: il fascismo o gli antifascisti? Chi ha iniziato una guerra d’aggressione assieme alla Germania nazista contro il resto dell’Europa e del mondo: il governo fascista o gli antifascisti? La guerra e le dittature non sono un gioco, dove si vince o si perde ma si resta amici: dopo vent’anni di dittatura e cinque di guerra, il meno che possa accadere è che vi siano vendette e rese dei conti. Non è una cosa bella, ma è una cosa umana. 
E del resto, chi siamo noi, che oggi viviamo sereni nelle nostre tiepide case, che non sappiamo cosa sia l’olio di ricino, le bastonate e le torture, che non conosciamo l’impossibilità di parlare nella nostra lingua e di dire ciò che pensiamo, noi che non abbiamo vissuto i rastrellamenti, gli incendi delle nostre case, le deportazioni ed i campi di sterminio, la fame e le esecuzioni, i genocidi, chi siamo noi per giudicare oggi chi si fece giustizia da sé, signor Pansa?

IN DUE NON SEMPRE S’INDAGA MEGLIO.
Qualcuno potrebbe obiettare che noi ce l’abbiamo con Pansa perché non accettiamo le critiche alla Resistenza; ma che invece Pansa ha ragione, bisogna far conoscere gli errori e gli orrori commessi anche dai partigiani, e lui questo lavoro lo sta facendo egregiamente, ha raccolto un sacco di materiale e lo sta facendo conoscere a livello di divulgazione. 
In effetti il grosso problema è proprio questo: Pansa non è un buon divulgatore perché non si preoccupa di verificare che quanto narra corrisponda al vero: in altre parole non racconta le cose correttamente. Prendiamo in mano il suo best-seller del 2003 “Il sangue dei vinti”: avvalendosi di un immaginario alter ego (Livia, una bibliotecaria fan dello scrittore Pansa) l’autore fa una sorta di carrellata di persone uccise da partigiani durante la guerra ed alla fine di essa, in varie località del Nord Italia ma non sempre quanto scrive (fingendo di farselo narrare da Livia) corrisponde alla realtà dei fatti.
Per dimostrare la nostra tesi prendiamo ad esempio una vicenda riferita da Livia-Pansa, che abbiamo studiato (basandoci su varia documentazione che citeremo via via) perché riguarda la nostra storia locale e pertanto riteniamo di poter parlare con cognizione di causa. Si tratta dell’esecuzione del commissario Gaetano Collotti (il più famoso torturatore dell’Ispettorato Speciale di PS che operava nella Venezia Giulia), che fuggì da Trieste il 27 aprile 1945 (poco prima della liberazione della città) assieme alla convivente ed alcuni agenti, e fu ucciso presso Carbonera di Treviso da partigiani veneti, comandati da Gino Simionato, “Falco”.
Pansa (anzi Livia) ammette da buon principio a proposito di Falco: “le confesso che so poco di lui”, e che la sua “fonte principale” è Antonio Serena. (Si suppone quindi che dopo avere letto il testo di Serena né Livia né Pansa abbiano fatto altre ricerche).
Serena (deputato di AN che salì all’onore delle cronache quando fu espulso dal suo gruppo per avere diffuso nell’aula parlamentare il video e il libro con l’autodifesa di Erich Priebke, ed entrò poi nel gruppo di Alternativa Sociale) pubblicò nel 1990 il libro “I giorni di Caino”. Un capitolo di esso è dedicato alla “cartiera insanguinata”, cioè la Cartiera Burgo di Carbonera, dove aveva sede un comando di brigata e nei pressi della quale sarebbero stati riesumati diversi cadaveri, tra i quali anche quelli di Collotti e dei suoi accoliti. 
Pansa-Livia ci indica una targa apposta (non si sa da chi) sulla Cartiera: “nella primavera del 1945 in questo stabilimento centinaia di militari e civili italiani affrontarono innocenti la morte nel nome della Patria”. In questa Cartiera Pansa fa dire a Livia che aveva la base “una banda guidata da un partigiano chiamato Falco (…) certamente un comunista, forse aggregato a qualche formazione della zona, ma con la voglia di fare da solo, decidere da solo, e rapinare e uccidere da solo. Un altro dato sicuro è che Falco era un sadico”. Sicuro in base a cosa la Livia non lo dice, ma prosegue: “al 25 aprile Falco e i suoi () decisero di fare della cartiera un luogo infernale per i fascisti in fuga”; poi si sofferma nella descrizione delle sevizie cui venivano sottoposti i prigionieri ed infine parla anche dell’esecuzione di Collotti: dopo avere descritto brevemente l’operato dell’Ispettorato di PS, Livia conclude: “Insomma Collotti faceva molto più in grande e sull’altro fronte lo stesso lavoro sporco che Falco aveva iniziato alla cartiera”.
Dato che, come si dice, le parole sono pietre, il lettore qui viene indotto a pensare che l’operato di Collotti, ancorché “più in grande”, sia stato conseguente a quello di Falco, e non eventualmente viceversa.
In realtà, se Livia non si fosse basata solo su Serena e se Pansa non avesse semplicemente riportato le parole di Livia ma fosse andato a leggere qualcosa d’altro, avrebbe potuto trovare innanzitutto che Collotti ed i suoi accoliti furono bloccati sulla strada di Olmi da una pattuglia congiunta delle Brigate Garibaldi e Badini di Treviso (di ispirazione democristiana e del Partito d’Azione) e furono arrestati perché trovati in possesso di “armi portatili, oggetti di vestiario e di lusso, tappeti persiani, pellicce e altri oggetti di valore”. Questa la testimonianza resa dall’avvocato triestino Piero Slocovich, che fu uno dei partigiani che arrestarono Collotti e quello che lo riconobbe; fu pubblicata dal quotidiano del CLN triestino (anticomunista e antijugoslavo) “La Voce Libera” (8/10/45). L’articolo prosegue: “il commissario (…) che viaggiava con documenti falsi, messo alle strette ammetteva la propria identità. L’intera banda Collotti veniva allora inviata al Comando di brigata, sito alla Cartiera Burgo di Carbonera, dove veniva interrogata. Alle tre del mattino, il primo a essere interrogato fu il Collotti. Egli tentò di difendersi dicendo d’esser in relazione con l’alto Comando Alleato. Cercò di scusarsi per la accanita campagna condotta contro gli appartenenti al Partito d’Azione che lo portò a “scovare” a Padova e persino a Milano. Addosso aveva documenti del Comitato di Trieste (forse il CLN?, n.d.r.), ricevute per il Prestito della Liberazione, falsi, e nelle fodere dei vestiti, documenti delle SS. (…) Successivamente però in base all’ordinanza del CLN Alta Italia, diramato per radio, di fucilare i fascisti in possesso di armi e in considerazione della gravità dei delitti commessi dalla banda e della scoperta, tra gli oggetti trovatisi sul camion, di vari timbri falsi della Brigata Garibaldi e di numerosi orologi da polso usati (evidentemente rubati alle vittime), il Collotti ed i suoi furono giustiziati”. 
Pansa (o Livia) avrebbero forse potuto considerare questa ordinanza del CLNAI prima di decidere che ogni esecuzione alla fine della guerra è stata un atto criminale. Ed uno dei due (magari il giornalista) avrebbe anche potuto prendere visione del processo celebrato contro Falco (RG 487/45), accusato di avere “cagionato la morte” di 46 persone identificate, più altre 39 non identificate, dove la sentenza (emessa il 24/6/54) dichiarò non doversi procedere perché i reati rubricati erano estinti per amnistia, in quanto fu riconosciuto che aveva agito per fini politici e non di vendetta personale. 
Torniamo infine sull’attendibilità del libro di Serena. Egli scrive che alcuni identificati tra gli uccisi di Carbonera sarebbero “secondo un professore di Trieste (…) Paccosi Bruno, Giuffrida Salvatore, Alessandro Nicola, Padovan Mauro, Martorelli Pierina”. Il “professore” in questione è Samo Pahor, che in realtà scrisse all’Ufficio di Stato Civile del Comune di Carbonera chiedendo informazioni su diversi nominativi, dei quali il Comune confermò l’esistenza di atti di morte trascritti solo per due: Collotti e Rado Seliskar, aggiungendo che “delle altre persone cui Lei fa cenno sulla sua lettera non esiste alcuna traccia” (copia di questo carteggio in archivio IRSML Trieste n. 912bis). Dagli atti processuali invece risultano uccisi alla cartiera Collotti, Seliskar e Paccosi, mentre il nome di Alessandro Nicola non compare tra i nomi dei caduti di PS, e da altre fonti Giuffrida sarebbe stato fucilato a Lubiana e Padovan ucciso a Monfalcone (per la cronaca, Padovan faceva parte sia dell’Ispettorato che della Guardia civica, e si era distinto come infiltrato in gruppi partigiani ed agente provocatore che causò l’arresto e la morte di diversi antifascisti, come risulta da verbali dello stesso Ispettorato che furono sequestrati a Collotti al momento dell’arresto, furono acquisiti dalla Procura di Treviso e ne è conservata copia presso l’archivio dell’Anpi di Trieste).
Forse Livia avrebbe potuto informarsi meglio prima di parlare con Pansa… 

luglio 2009