Un viaggio in Kosovo 

1) Viaggio di solidarietà nel "Kosovo liberato" - Novembre 2009 (Enrico Vigna)
2) SoS Kosovo! (Alessandro Di Meo)


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www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 09-12-09 - n. 298

Viaggio di solidarietà nel "Kosovo liberato" - Novembre 2009
 
Dopo molto tempo, avendo finalmente riavuto l'assegnazione della scorta militare il 23 ed il 24 novembre, sono potuto tornare nel Kosovo Meohija per continuare i Progetti di solidarietà, che la nostra Associazione "SOS Yugoslavia - SOS Kosovo Metohija" ha nella provincia serba da molti anni, provincia autoproclamatasi indipendente dallo scorso anno, sotto la protezione della NATO.
 
Nello specifico il viaggio doveva proseguire e rafforzare il Progetto con l'Associazione "Sclerosi Multipla del Kosovo", il Progetto "Decani Enclavi Metohija" ed un incontro all'enclave di Gorazdevac per riprendere una possibilità di solidarietà del Progetto "Gorazdevac"; oltre ad una visita ad una famiglia del Progetto "Figli dei rapiti".
 
Non tutto è andato come si era programmato e ne illustro i motivi, che sono strettamente legati alla situazione sul campo, di una realtà tra l'assurdo e l'incredibile, ma nella sostanza terribile per la minoranza serba che là vive e resiste, giorno per giorno, ma non si sa ancora per quanto.
 
Il viaggio era organizzato insieme all'Associazione Sclerosi Multipla del Kosmet, la delegazione era formata da Ilija Spiric, Presidente della stessa e nostro referente, da Jasmina, Presidente dell'Associazione per la Sumadia, da Rajka nostra referente dei Progetti in Serbia, oltre ad altri membri dell'Associazione di SM e KG, a cui si è aggiunto Alessandro di Roma.
 
Quanto successo è significativo della situazione e della vita dei serbi nel "nuovo Kosovo democratico".
 
La possibilità della scorta (che, per informazione, è decisa e stabilita dalle Forze Internazionali KFOR/EULEX), ci era stata data per i giorni 23 e 24 novembre, con orari e percorsi fissi e prestabiliti, come sempre forniti in anticipo e per iscritto. La novità delle ultime settimane è che le scorte sono ora affidate alla KPS (Kosovo Police Service, Forze Polizia del Kosovo), cioè a poliziotti albanesi kosovari, TUTTI ex guerriglieri dell'UCK, cioè come se ad un rapinatore fosse affidata la sicurezza di una banca e della gente all'interno. Questa nuova situazione è legata ai motivi di sganciamento dei vari paesi dell'UE dalla "missione Kosovo", a causa dei pesanti ed ormai decennali costi ed all'evidenza del suo sostanziale fallimento, seppur non ammissibile ufficialmente. Per poter perseguire questo, viene detto e sbandierato che ormai la situazione è normalizzata, gli "standard" democratici raggiunti e la coesistenza etnica, sia pure con qualche problema (!) è raggiunta.
 
In questo modo soprattutto Francia, Germania, Inghilterra, Italia, stanno man mano smobilitando e lasciando il campo totale agli uomini dell'ex UCK, come braccio armato e politico degli USA, che al contrario non ha nessuna intenzione di smobilitare, non per niente Camp Bondsteel, la base USA più grande dai tempi del Vietnam è stata concepita per 99 anni!
 
La mattina del 23/11 arriviamo a Mitrovica nord, dove inizia la protezione delle scorte e formiamo con gli amici di lì, la delegazione per il viaggio; neanche scesi dal furgone ci viene comunicato dalla scorta del KPS che abbiamo 5 minuti per fare benzina e ripartire, altrimenti loro se ne vanno.
 
Questo è un inizio che si replicherà per tutta la giornata; salta così l'incontro con i soci dell'ASM-KM e la consegna del sostegno economico per il Progetto Sclerosi Multipla Kosovo, che avevo con me, che decidiamo di rimandare al giorno dopo.
 
Da quel momento comincia per la nostra delegazione un itinerario non certo turistico per le strade del Kosovo Metohija, per fare 60 Km ci abbiamo messo 6 ore! Con continue discussioni, fermate lungo le strade, inversioni di marcia, richiami, cambi delle scorte, tensioni, velate minacce e sbeffeggiamenti (..."lasciamoli qui e chi se ne frega...", " decidiamo noi se ci sono o no problemi...", "...cosa avete da ridere, volete che vi facciamo ridere veramente...", e così via i toni). Il tutto con intorno un ambiente ostile e pericoloso se si fosse verificata una qualche situazione particolare.
 
Alle 17 arriviamo al Patriarcato di Pec, controllato dai militari italiani con check point ed autoblindo. Alle 18 arriviamo al Monastero di Decani (anch'esso protetto da militari italiani: check point, barriere protettive, autoblindo, ecc.), dove avremmo dovuto discutere del Progetto "Decani Enclavi Metohija" con il nostro referente Padre Petar. In realtà, appena arrivati ci danno 7 minuti e poi intendono andarsene. Vojkan dell'Associazione di Mitrovica cerca una mediazione ma i poliziotti non accettano discussioni; mi si chiede di far intervenire i Padri ortodossi o qualche ufficiale italiano. Corro a cercare i Padri con cui da anni abbiamo forti e fraterni legami nell'impegno per le genti abbandonate del Kosmet, i militari italiani con cortesia mi dicono che non possono far nulla... in 7 minuti, e soprattutto non hanno possibilità di darci una loro scorta e ancor più di notte, nel nuovo Kosovo per i non albanesi, non è consigliabile aggirarsi. Grazie alla mediazione dei Padri ed un lavoro prezioso "diplomatico" di Vojkan con i poliziotti albanesi, otteniamo 50 minuti e poi se andranno. Questo ci fa saltare tutti i programmi, infatti avremmo dovuto restare con la scorta fino al 24 sera, invece dobbiamo tagliare gli impegni che erano in programma e dopo avere frettolosamente consegnato il sostegno economico per la famiglia Milatovic all'interno del Progetto Figli dei rapiti (una madre con una figlia di 12 anni, due anziani genitori, il padre rapito ed assassinato nel 1999), che vivono in una stalla, senza acqua e possibilità di uscire, isolati in una zona abitata solo da albanesi, dobbiamo ripartire.
 
Avremmo dovuto andare a visitarli il giorno dopo e documentare la loro situazione, ma sarà Padre Petar, che li visita periodicamente e che è nostro referente del Progetto, a consegnarlo.
 
Alle 19 ripartiamo dopo una sosta all'interno del Monastero, un oasi di pace, spiritualità e profondità di emozioni, unici.
 
Rinunciamo con amarezza e rabbia al programma del 24/11, siamo nelle loro mani e... non sono mani amiche o fraterne... Arrivati alle 20 a cinque Km da Mitrovica nord, la scorta si ferma nella parte albanese e ci dice che loro hanno finito il servizio e che dobbiamo proseguire da soli; alle nostre rimostranze ridono e ci dicono di stare tranquilli che tutto andrà bene e se ne vanno. Quei 5 Km nel buio di Mitrovica sud, non sono stati del tutto rilassanti e sereni.
 
Il 24/11 nella stanza di un caseggiato dismesso, dove ha sede l'ASM-KM, senza acqua nè riscaldamento, c'è stata la consegna dei 5.000 euro ed il dono di una stampante; poi una visita al Monastero di Sokolica (anche questo bellissimo), che ha una storia particolare. Infatti è situato in una zona di montagna sopra Mitrovica, abitata interamente da albanesi, ma è uno dei pochissimi luoghi ortodossi non attaccato o distrutto dal terrorismo UCK. Il motivo è che da centinaia di anni le donne albanesi della zona e non solo, si recano lì a chiedere la grazia per la fertilità ad una statua di una Madonna che si trova nel Monastero; l'unica statua che c'è in un luogo di culto ortodosso di tutti i Balcani, in quanto la religione ortodossa non contempla la presenza di statue nei luoghi di preghiera.
 
Mi rendo conto in queste poche righe ed attraverso una sintetica cronaca di quarantott’ore, quanto sia difficile far comprendere la realtà di fatto di questo stato fantoccio, creatura ad uso di esclusivi interessi geostrategici degli USA.
 
Ma soprattutto è difficile dare l'idea di quale è la realtà della vita quotidiana della minoranza serbo kosovara, rimasta a cercare di sopravvivere, resistere e difendere la propria terra, le proprie case, la propria vita, i propri luoghi sacri, non solo espressione religiosa, ma anche storica, culturale ed identitaria di un popolo intero, non solo credente. Ed in ultima istanza il proprio diritto ad "esistere" in quanto popolo, in un Europa ed un occidente che blaterano, sproloquiano, filosofeggiano e vanno per il mondo a fare guerre "umanitarie", guerre "intelligenti", guerre "terapeutiche"; che "esportano" democrazie, progresso, presunte civiltà superiori; dalla Jugoslavia all'Iraq, dalla Somalia al Sudan, dalla Palestina all'Afghanistan.
 
Ma che soprattutto lasciano un infinita scia di sangue dei popoli, di morte, violenze, dolore, devastazioni umane e sociali; e seminano odio, rancori, sentimenti di ira reconditi.
 
Come nel caso di questo "Kosovo liberato" dove, con la presenza, la supervisione, il controllo, in questi 10 anni, di decine di migliaia di militari di 32 paesi, in una sempre più decadente, prona e corrotta Europa, una minoranza di un popolo, quello serbo kosovaro, vive una quotidianità di apartheid, senza i più elementari diritti umani sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite (di cui il popolo serbo, come popolo costituente della Jugoslavia, fu paese fondatore... tanto per ricordare agli smemorati).
 
Oggi nel 2009, qualsiasi persona onesta, indipendente, non asservita a qualche interesse politico, economico o personale, deve sapere che vi è un popolo, quello serbo kosovaro (... le altre minoranze sono tutte già scappate), che, in uno stato creato, finanziato, sostenuto dalle potenze occidentali, sta vivendo da dieci anni un agonia quotidiana. Umiliato, offeso, vessato, violentato in tutti i suoi aspetti: umani, politici, economici, sociali, culturali, religiosi e morali.
 
Ma questo, se non si vede, è sempre più difficile spiegarlo qui.
 
Eppure è ancora lì: piegato ma non ancora vinto, senza ormai più voce... e forse senza futuro, ma dignitoso e con animo e sguardi ancora fieri.
 
E noi, come SOS Kosovo Metohija, con i nostri modesti e piccoli Progetti di solidarietà, tenacemente e caparbiamente, gli siamo ancora al fianco da molti anni ormai; nutrendo così, grazie ad essi, le nostre coscienze e le nostre dignità di uomini e donne, che hanno scelto di non essere assoggettati alle politiche imperialiste e di profitti, costruite sull’oppressione e sullo sfruttamento dei popoli.
 
Con un' angoscia sempre più dolorosa e intensa, che ulula fortemente nell’anima e nella coscienza, ogni volta che si viene via e si lascia dietro di sé questo scenario reale di tristezza e desolazione, si ha la consapevolezza di un debito e di un profondo rispetto che si ha e si deve avere per questi... "dannati del Kosovo", rimossi, dimenticati, silenziati ma che resistono nonostante tutto e tutti, e ci danno una lezione di dignità, coraggio, di radici e di identità forgiate nella propria storia di popolo... ed anche di speranza e lotta per un futuro diverso e migliore... lungi da venire ma necessario per i popoli e gli uomini onesti ed operosi.
 
“...ora viviamo come in gabbia, prigionieri, ma gli stranieri dicono che siamo liberi...”
(Jovan R., 10 anni, bambino dell’enclave di Orahovac, Kosovo Metohija)
 
2 Dicembre
 
Mentre terminavo questa relazione del viaggio, mi veniva comunicata dall’Ambasciatrice della Serbia in Italia, Signora Sanda Ivic Raskovic, la notizia ufficiosa ma che sarà ufficiale a giorni, del ritiro nei prossimi mesi del contingente italiano della KFOR dal Kosovo per spostarlo sul fronte dell’Afghanistan, lasciando qualche decina di militari con compiti speciali. Dato che gli ultimi Monasteri ortodossi della provincia sono presidiati dai militari italiani e, come ho avuto più volte modo di riportare in questi anni, con un rigore e rispetto del compito affidatogli altamente riconosciuti da tutti, questa notizia, che è una conseguenza della richiesta USA di aumentare lo sforzo bellico e militare in Afghanistan, se confermata rappresenterebbe per le ultime enclavi serbe (comprensive dei Monasteri rimasti, tra cui Decani e Pec, di cui scrivevo sopra ) una prospettiva
tragica e drammatica: restare alla mercè della leadership albanese kosovara, che è la stessa ad aver guidato e diretto la pulizia etnica del Kosmet dal 1999 ad oggi.
 
Con le campagne di rapimenti ed assassinii (1300 rapiti e scomparsi, ed oltre 3000 assassinati... dall’UCK), con i 148 monasteri e luoghi sacri distrutti e attaccati, le decine di migliaia di case serbe, rom e delle altre minoranze incendiate e distrutte, questa leadership è stata pianificatrice e responsabile della situazione in cui versano le minoranze non albanesi (comprese molte migliaia di famiglie albanesi kosovare, profughe in Serbia perché considerate lealiste e jugoslaviste), confinate nelle enclavi.
 
Penso che la descrizione fatta nella relazione sopra sia la fotografia di quale potrà essere il destino inesorabile a cui andrà incontro quella parte di popolo serbo kosovaro che, nelle condizioni quasi subumane di apartheid e oppressione, ancora resiste a sud del fiume Ibar.
 
Chi conosce la situazione sul campo direttamente, a qualsiasi livello, non può che prevedere ed immaginare un nuovo esodo, pena il rischio della vita, nel caso di restare soli; nelle telefonate di questi giorni, in cui mi è stato richiesto di fare un lavoro di pressione ai livelli più alti, politici istituzionali e culturali del nostro paese, anche le personalità contattate hanno confermato il timore concreto che questa prospettiva possa riaprire scenari di nuove violenze, se non proprio materiale (sarebbe stupido da parte loro) ma di sicuro psicologiche, fatte di minacce velate e pressioni dirette ed anonime, per terrorizzare ulteriormente i civili e indurli a scegliere la via dell’esodo finale. In una situazione di questo tipo, la stessa esistenza di questi patrimoni culturali dell’umanità che sono i Monasteri ortodossi, si troverebbe esposta a rischi di distruzione; tanto per dare un idea della situazione, il sindaco della cittadina di Decani (dove oltre al Monastero non vive neanche più un solo serbo) ed il capo della Polizia del KPS sono due ex comandanti guerriglieri secessionisti, che ripetutamente in pubbliche occasioni hanno ribadito l’impegno a cancellare la presenza dei luoghi sacri ortodossi come compimento della cosiddetta “liberazione” finale del Kosovo.
 
Dopo la “pulizia etnica” della gente, l’obiettivo sarà quello dell’epurazione della memoria storica. Cancellare le simbologie concernenti il passato. Via ciò che testimonia, soprattutto quello che è più profondo: chiese, monasteri, luoghi sacri, il resto è stato già distrutto, compresi i cimiteri non albanesi ed i monumenti jugoslavi. Fare piazza pulita per violentarne l’identità come popolo e togliere ogni pretesto di ritorno per i serbi.
 
Penso che tornino di estrema attualità le parole del sindaco di Venezia e professore universitario M. Cacciari, dette a marzo 2003:
 
“ Ma se i militari italiani si ritirano dai presidi, il rischio è elevatissimo:
 
M.C.: Sarebbe come se facessero saltare in aria San Marco a Venezia. E' una follia, bisogna tenere lì i militari, bisogna assolutamente impedire che un'eventualità del genere accada...
 
...Allora io dico: se nell'ambito delle operazioni che l'Italia deve fare, non tutela un patrimonio di questo genere che non ha confronti al mondo, si fa corresponsabile della distruzione. Siamo da fucilare. Non ho altre parole: siamo da fucilare. Saremmo noi i liberatori, quelli che sono andati a portare la pace, che hanno scelto la civiltà contro la barbarie? Sono cose dell'altro mondo...
 
...Finché non siamo assolutamente certi che nessuno può mettere in pericolo queste chiese, non bisogna assolutamente sguarnire i presidi militari. Questo patrimonio artistico è unico, non esistono altri esempi. E' come San Marco, ripeto: chiese uguali in Europa non ce ne sono, non perché San Marco sia la più bella, ma perché quel linguaggio artistico non esiste altrove. Purtroppo nessuno ne parla...”.  Da: "La Nuova di Venezia e Mestre", “La Tribuna di Treviso”, 4 marzo, 2003 (*)
 
Il problema è comunque intricato: negli accordi di ritiro dell’esercito e della polizia serbi, interni alla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, sia l’UNMIK che la KFOR (anche se in realtà come tutti sanno, era la NATO a guidare l’operazione “Kosovo liberato”) avevano sottoscritto l’impegno alla preservazione dei siti storici e religiosi della provincia e a non lasciare questi punti finché non fossero state ristabilite le condizioni per una vita normale e sicura per tutti i cittadini del Kosovo, senza discriminazioni di nazionalità, etnia o di religione. Questa solfa viene ripetuta da oltre 10 anni, ma purtroppo finora è rimasta solo una promessa o, al peggio, una filastrocca. A giudicare dalle sofferenze e violenze a cui è stata esposta la minoranza serba, anche in presenza della Kfor e dell'Umnik, meglio non pensare a cosa succederebbe se andassero via, prima che sia stata raggiunta una soluzione che configuri un Kosovo multietnico e democratico realmente, che era l’obiettivo, RICORDIAMOLO, della cosiddetta guerra “umanitaria” o meglio dell’aggressione del 1999! Ma così era il Kosovo prima del giugno ’99!
 
Com’è oggi, dopo 10 anni di occupazione NATO, il “nuovo Kosovo” libero e democratico?
 
A cosa e a chi è servita questa guerra “umanitaria” ?!
 
Coscienti che, per chi conosce la realtà del Kosovo Metohija e del popolo serbo, la difesa di quei luoghi sacri è una battaglia che va la di là dell’aspetto religioso: è una battaglia di giustizia e di diritti sanciti ovunque, tranne che in questo protettorato creatura della NATO.
 
Significa difendere il diritto storico, in questo caso del popolo serbo kosovaro, di vivere, esistere, abitare dove, da centinaia di anni è stato, come dato e fatto storico. Significa denunciare il carattere arrogante, violento, prevaricante di questa entità fantoccio, creata ed edificata, tramite bombardieri che per 78 giorni, da diecimila metri, hanno sganciato decine di migliaia di bombe (comprese quelle all’uranio “impoverito”), devastando e distruggendo un paese per sottometterlo e strappargli, ad uso criminale, questo pezzo di terra.
 
Significa ancora una volta, per l’ennesima volta, stare dalla parte dei popoli e della gente comune, prevaricata e sopraffatta dai potenti della terra, costi quel che costi.
 
Significa stare dalla parte della verità e della giustizia, che giorno dopo giorno, come semi indistruttibili, faticosamente, stoicamente, emergono dall’oscurità e dalle catacombe in cui sono relegate dai “disinformatori strategici” e dai “servi stupidi”.
 
Significa stare dalle parte di chi non ha più voce o televisioni, ma ha la ragione della dignità della propria storia.
 
La nostra piccola Associazione in tutti questi anni ha fatto la sua modesta parte, si è schierata ed ha operato una Solidarietà che definimmo “concreta e consapevole”, senza timori e spesso in amara solitudine, insieme a poche altre realtà.
 
Ed è con profonda dignità e serietà legate agli eventi, che ribadiamo la nostra scelta di campo ed il nostro impegno, caparbiamente, a testa alta dalla parte dei... "dannati del Kosovo Metohija".
 
30 Novembre 2009
Enrico Vigna, Presidente di SOS Kosovo Metohija - SOS Yugoslavia
 
 
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VENERDÌ 27 NOVEMBRE 2009

SoS Kosovo!

Mancava questo tassello nella nostra presenza nella Serbia del dopoguerra.
Mancava, per provare a ristabilire verità storiche, attualità inconfutabili, certezza di dubbi.
Mancava, perché bisogna conoscere anche le altrui solidarietà, con un popolo che è stato vittima di ingiustizia. E lo è tuttora.
Così, dopo aver conosciuto e collaborato con Gilberto Vlaić e la sua associazione “Non bombe ma solo caramelle”, andiamo a conoscere una fra le voci più preparate della contro informazione sul tema ex Jugoslavia… Enrico Vigna, di “SoS Yugoslavia”.
Da Kragujevac, dove arriviamo in una serata che sembra annunciareproleče, primavera, e non žima, inverno, partiamo la mattina presto del 24 novembre alla volta di Kosovska Mitrovica.
Siamo in sette nel pulmino. Ci sono Rajka Veljović, storica interprete coordinatrice dell ufficio internazionale adozioni e rappresentante per anni, anche in Italia, del sindacato della “Zastava” di Kragujevac, la “Fiat dei Balcani”, testimone militante delle sue disgrazie, ultima in ordine cronologico “l’avvento” della Fiat di Marchionne (vedere i preziosi resoconti di Gilberto Vlaić )… c’è Jasmina Brajković, dell’associazione Malati di Sclerosi Multipla di Kragujevac… e ci sono Milija, Darko, figlio di Jasmina che guida il pulmino e Boris, figlio di Rajka. E poi ci siamo noi, Enrico Vigna, di “SoS Yugoslavia”, che porta a conclusione due iniziative a sostegno dell’associazione Malati di Sclerosi Multipla di Mitrovica e a sostegno di figli di scomparsi, attraverso i padri di Dečani, in Kosovo (SoS Kosovo). E ci sono io, Alessandro Di Meo, di “Un Ponte per…”, da dieci anni impegnato in iniziative di solidarietà con i profughi del Kosovo, quelli fuggiti “dalla parte sbagliata”, come dicevamo in un volantino del 1999, la parte dove non c’erano televisioni ad aspettare… che mi sono aggregato per capire come si muovono anche altre realtà nel Kosovo. Il Kosovo, però, dei serbi ghettizzati, criminalizzati, vilipesi, insultati, defraudati della loro terra, della loro memoria e delle proprie radici.
A Mitrovica salgono con noi anche Žarko, Ilija e Voikan, della locale associazione Malati di Sclerosi Multipla. Continuiamo in dieci, quindi, scortati da una pattuglia della polizia kosovara, alla volta del Kosovo. Passiamo il ponte sull’Ibar, non quello divenuto tristemente famoso,bensì un altro, parallelo, poche centinaia di metri distante.
Visiteremo il patriarcato di Peć dove, fra non molto, verrà insediato il nuovo patriarca che sostituirà il defunto Pavle. Non incontriamo madama Dobrila, che conosco, molto impegnata con i numerosi gruppi di visitatori. La ascolterò da lontano, descrivere le tre chiese che formano il patriarcato.
Fra molti imprevisti e problemi creati dalle pattuglie di scorta della polizia kosovara che si alterneranno (sono poliziotti albanesi, non so quanto felici di farci da scorta) che faranno perdere anche del tempo, arriviamo a Dečani che è già sera. Per le strade di Peć, imbottigliati nel traffico, la pattuglia aziona la sirena per passare prima attirando, in tal modo, la curiosità della gente che subito, in strada o da auto di passaggio, individuando targa serba, inizia l’opera di scherno e minacce, fatta di gestacci e urla.
Comunque, arriviamo a destinazione, non senza aver prima sventato il subdolo tentativo della pattuglia di riportarci indietro, verso Mitrovica, lamentando una mancanza di comunicazione in proposito, prontamente vanificata dalla consegna della corretta documentazione presentata in tempo utile alle “autorità” kosovare...
C’è molta gente, al monastero di Dečani, i tavoli per gli ospiti sono imbanditi, domani, 24 novembre, sarà la festa di Sveti Stefan Dečanski, re fondatore del monastero, venerato come santo. In pratica, la loro slava. Per questo non riusciremo a dormire al monastero. Circa duecento persone provenienti dalla Serbia, ma non solo, lo hanno preso letteralmente d’assalto, e la cosa fa veramente effetto. Assisteremo, comunque, alla funzione delle sei, ipnotica e magica nell’atmosfera serale, scoprendo che anche alcuni nostri militari impegnati a guardia del monastero sono da non molto divenuti ortodossi. Da una parte li capisco. Venuti in missione per continuare il “lavoro” iniziato dalla Nato e dalle sue bombe, si ritrovano nel mezzo di contraddizioni così evidenti da non poter evitare coinvolgimenti emotivi nei confronti di coloro che furono descritti come nemici. E per qualcuno, il coinvolgimento si è manifestato in questo modo. Effettivamente, qualcosa nell’aria c’è di affascinante, di ammaliante, di avvolgente.
Anche io accendo candele nel candeliere, parte bassa rigorosamente per i morti, parte alta per i vivi, dove intreccio fiammelle da mantenere accese. Ma i miei anticorpi, fondamentalmente atei, cercano strade per difendersi, anche se la sfida è alquanto impegnativa.
Riuscirò a incontrare rapidamente padre Andrej, che parla bene italiano e che sarà in Italia dal 30 novembre ad accompagnare padre Teodosije, figura primaria della chiesa ortodossa in Kosovo, col quale mi accordo per un appuntamento. C’è determinazione a spostare il nostro intervento a favore dei serbi rimasti, e in questo il ruolo dei padri di Dečani è davvero centrale.
A tarda sera, non senza aver gradito un piatto di zuppa calda di verdure, dell’aivar (peperoni cotti alla brace, macinati e messi sotto vuoto), del buon riso e del vino rosso, offertoci come rituale dei festeggiamenti, saremo costretti, nostro malgrado (la scorta ci attende fuori, puntuale), a fare ritorno a Mitrovica, dove dormiremo.
Il giorno dopo, 24 novembre, martedì, ci recheremo, sempre a Mitrovica, in una specie di mercatino fatto di piccoli negozi e qualche bancarella apparentemente improvvisata, fra le vie della parte nord che, però, è gestita da albanesi. I serbi ci vanno a fare “shopping”, perché si trovano cose a basso prezzo. Comprerò dei calzettoni, fatti a Prizren, mentre le donne del nostro gruppo, fatalmente, si perdono nei negozietti.
In questa parte, delimitata da bandiere rosse con l’aquila bicefala e dalle immancabili bandiere a stelle e strisce… forse in onore del padre della patria kosovara albanese, Bill Clinton… serbi e albanesi sembrano convivere ancora oggi. E le auto che passano, con targhe albanesi del nuovo Kosovo, con targhe serbe del vecchio Kosovo, con targhe serbe della Serbia o con targhe senza targa, perché immatricolate chissà dove e chissà come… oppure senza targa semplicemente perché sono taxi e, attraversando di continuo i ponti sull’Ibar, non vogliono rischiare troppo… le auto che passano ce lo confermano.
Verrebbe istintivo andare dall’altra parte, quella albanese, ma la cosa viene considerata rischiosa e da evitare. Strano, però, o forse no… che i serbi non possano andare dall’altra parte, attraversando ponti sull’Ibar, quando di qua, al contrario, gli albanesi ci vivono e fanno affari!
Ma tanto è, e ce lo conferma quanto avvenuto pochi giorni fa, quando un gruppo di serbi, per fare visita al cimitero serbo ortodosso situato nella parte sud, ha avuto bisogno della scorta armata che non ha evitato, però, di lasciarli insultare a distanza durante la visita al cimitero, in gran parte distrutto dalla violenza razzista kosovara albanese. Strano anche, o forse no… vedere nella parte nord di Mitrovica, il cimitero musulmano intatto e libero di ricevere visite.
Impossibilitati ad andare ancora a Dečani, dove una funzione religiosa straordinaria avrebbe celebrato il santo fondatore, andiamo in visita a un vicino monastero, quello di Sokolica, situato al di qua del ponte, quindi, per intenderci, nella parte serba oltre Mitrovica.
Pochi chilometri percorsi in salita e ci ritroviamo accanto a un villaggio albanese, ben tenuto e ristrutturato che vede eretta, in una vecchia casa in pietra, una scuola frequentata dai ragazzini albanesi del villaggio. Pare fosse la casa natia di Isa Shala “Boletini”, eroe kosovaro albanese vissuto a cavallo fra fine 800 e inizio 900, precursore del Kosovo indipendente e nominato “eroe del Kosovo” da Ibrahim Rugova nel 2004.
Dubbi, nei racconti di parte serba, sull’eroismo di Boletini, nativo di Mitrovica, ne fanno uomo esperto nella “risoluzione” delle controversie fra clan albanesi. Si dice ci si rivolgesse a lui quando si intendeva, dopo uno sgarbo subito, fare “giustizia”, uccidendo uno di un altro clan.
Allora, trattasi di sicario, prezzolato assassino o di eroe fautore della Grande Albania dove far confluire il Kosovo etnicamente ripulito dai serbi? Nemmeno ai posteri, ormai…
Ma la cosa davvero stupefacente, o forse no… è che in questo piccolo monastero, tenuto da monache, una statua della Madonna col bambino (Sokolica è l’unico monastero ortodosso a esporre al suo interno una statua, anche se pare ve ne sia un altro dalle parti di Prizren, a Orahovac, sud del Kosovo, verso il confine fra Albania e Macedonia) viene adorata e venerata soprattutto dalle donne albanesi con problemi di sterilità, omaggiata di oggetti in argento e oro per ricevere grazia di gravidanza. Questo è uno dei motivi per cui fu risparmiata dalle violenze che hanno prodotto la distruzione di oltre 150 monasteri ortodossi, fra il giugno del 1999 e il 17 marzo del 2004.
Dopo aver constatato di persona le qualità artistiche di queste monache, che stanno affrescando gli interni della chiesa, le loro capacità nel coltivare orto e giardino, arriva l’ora di tornare.
Sulla strada incontriamo indicazioni per altri monasteri, Studenica e Gradac fra tutti. Sarà per un’altra volta. Ci fermiamo per un caffè sotto il fantastico castello di Maglić e ricordi tornano alla mente.
Lascio la bella compagnia a Kraljevo, che è di strada, dove devo assolvere ad alcuni impegni, non richiesti ma moralmente (e affettivamente….) irrinunciabili.
Il tempo è davvero poco, così visito solo alcune di quelle famiglie dove è istintivo, ormai, sentirsi a casa propria. Ricevo inviti per prossimi compleanni di ex fanciulle ormai diciottenni (Tanja Vuković, della quale assaggio deliziosi cornetti preparati nella scuola che frequenta), inviti da estendere ad amici, con scambi di promesse e accordi… fettuccine contro cancellazioni di lacrime da un quadro!
Si incontrano volti aperti e preda del futuro, ma pure volti stanchi e preda di angosce.
Figli con negli occhi speranze di crescita, università, lavoro e vita, padri e madri con sguardi rassegnati, sempre più incapaci e inadeguati ad affrontare realtà quotidiana, fatta di disillusioni, bocconi amari, umiliazioni, lavori dimezzati, malpagati, se e quando, pagati.
Resta la solita alternanza di energia e stanchezza, gioia e tristezza, sorriso e lacrima.
Unica certezza… il pullman dell’una e mezza di notte, dove proverò a dormire, da Kraljevo mi porterà a Belgrado, dove alle sei e quaranta mi attende l’aereo che mi riporterà a Roma e, quindi, al mio posto di lavoro. Poche ore dopo l’incanto di Dečani e Peć, le contraddizioni di Sokolica e Mitrovica, le atmosfere del castello di Maglić e… quelle di Kraljevo. Ma i giorni di ferie sono quasi finiti e non posso passarli tutti in Serbia. E questo è davvero un peccato.