NEGAZIONISMO: LA PROPAGANDA MILITANTE
Nel corso di un'affollata conferenza stampa in data odierna, il presidente dell'Unione degli Istriani Massimiliano Lacotaha presentato al pubblico ed ai giornalisti presenti in sala una copsicua documentazione sull'attività negazionista e sulla propaganda militante diffusa in occasione dello scorso 10 Febbraio.
Nell'allegato PDF una sintetica fotocronaca con la riproduzione delle principali evidenze documentali.
http://www.unioneistriani.it/3t-data/files/1298.pdf
(13/2/2010)
Giornata del Ricordo: 10 febbraio. Poco prima, Giornata della Memoria: 27 gennaio. Innanzi tutto, mi si lasci dire che appare davvero difficile da accettare il paragone tra un fatto storico come la Shoa, che ha una sua unicità terribile nella vicenda dell’umanità, e una serie di eventi che certamente tragici, rientrano tra le “normali”, per quanto variamente efferate, vicissitudini dei conflitti bellici. In secondo luogo, posso aggiungere che questo proliferare di memorie obbligate e “condivise” (altre proposte di leggi e leggine si annunciano o si richiedono per istituirne, finché avremo un calendario senza più un giorno libero) sta rendendo stucchevole ogni ricordo? E lo sta mercificando e banalizzando?
Ma vengo alle foibe. Ieri un giornalista di Radio Rai mi telefona e mi chiede se oggi sarei stato disponibile a partecipare a un programma sulla Giornata del Ricordo; rispondo di sì. E allora lui comincia a farmi una “preintervista”; mi vuole sondare. E mi domanda se non ritenga che oggi questa data sia finalmente davvero condivisa, e che ormai anche chi la respingeva la accoglie, e che gli errori del passato sono stati riconosciuti, e così via. Cercando di frenare il fastidio naturale davanti a domande che pretendono di indirizzare l’interrogato, facendogli fornire la risposta attesa dall’interrogante, esprimo il mio disaccordo. E davanti al suo stupore, gli spiego che sulle foibe da anni si sono condotti studi attendibili, e misconosciuti, da parte di gruppi di studiosi, collocati in particolare nelle zone di confine tra Italia e ex Jugoslavia, dentro o comunque vicino agli Istituti storici della Resistenza. E che su questa vicenda si sono fornite cifre del tutto fasulle, che sono variate a seconda dello spirare dei venti politici; con un vergognoso cedimento persino degli autori dei manuali di storia, che hanno ampliato a dismisura nel corso degli ultimi quindici-vent’anni, il totale degli infoibati.
Si è arrivato a parlare (nei giorni scorsi persino una pubblicità televisiva ci ha martellato: la storia che diventa spot è una new entry degli ultimi anni) di “decine di migliaia di morti”. Di “migliaia e migliaia” di italiani infoibati vivi, solo perché italiani, o non comunisti, o cattolici. O sacerdoti. E quant’altro, per denunciare la mostruosa crudeltà del comunismo e lo spirito disumano di vendetta che animò i “titoini” – i partigiani di Tito, con i loro complici italiani militanti sotto le bandiere del Pci togliattiano – nella loro resa dei conti a danno dei “vinti” di cui – ah, Pansa! – sparsero il sangue: ovviamente innocente.
Ebbene, che cosa non quadra in questa “ricostruzione”? C’è che, come appunto si fa nel cicaleccio pseudostorico imperante a proposito del post-XXV Aprile in Italia, si dimentica il contesto in cui i fatti avvennero e si devono necessariamente collocare. E quel contesto ci parla sì di efferatezze e brutalità, ma commesse da chi? Dai nostri soldati. Dai fascisti ai danni degli jugoslavi. Gli italiani fascisti, come dimostrano molti studi degli ultimi anni, si fecero odiare in quelle terre persino più dei tedeschi nazisti. Istituirono campi di concentramento. Commisero ogni sorta di nefandezze, ai danni di popolazioni inermi. E come ci si può stupire poi che si sia giunto a una resa dei conti, a guerra finita? Ovviamente, non si giustificano così efferatezze dell’altra parte, i delitti restano delitti, quali che sia la loro fattispecie: ma i contesti in cui avvengono li rendono assai diversi, gli uni dagli altri. E comunque sono i contesti che aiutano a spiegare tutti i singoli fatti, individuali e collettivi.
Ciò detto, è un clamoroso falso storico parlare di migliaia o decine di migliaia di infoibati. Si trattò invece di qualche centinaio di persone. No. Va bene. “Non facciamo la conta dei morti”: sento già qualcuno che me lo urla. Non facciamola. Ma la differenza tra qualche centinaia e le decine di migliaia non è di poco conto. Ma al di là di questo il falso non concerne solo e tanto le cifre, quanto la sostanza. Chi furono gli infoibati? Ossia coloro che vennero gettati nelle foibe? Furono spesso i caduti in guerra, di ambo le parti: una sepoltura sbrigativa, certo, ma in tempi di guerra si può sottilizzare? Furono talora, invece, i condannati a morte in regolari processi: fucilati e poi gettati in quelle naturali cavità del terreno. Furono anche, in rari casi, persone vittime di agguati, catturate, e gettate, dopo essere state uccise, o, raramente, vive. Ma accadde agli uni e agli altri. E presentare la vicenda delle foibe come un’azione sistematica, di inaudita ferocia, messa in atto dai comunisti (jugoslavi, ma con la complicità degli italiani) ai danni degli italiani (non comunisti), significa falsificare o addirittura rovesciare la verità storica (a chi voglia saperne di più consiglio il recente volume a cura di Alessandra Kersevan, Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica, Kappa Vu editore).
Si dirà che il ricordo del 10 febbraio concerne anche le migliaia (questi sì, decine di migliaia) di nostri connazionali costretti dagli accordi italo-jugoslavi a lasciare le terre dov’erano nati, dove avevano casa, e avevano costruito un’esistenza. Premesso che si è stabilito un nesso tra i due eventi (quasi a dire che gli italiani fuggivano per evitare di essere infoibati!), bizzarramente, quel ricordo della tragedia degli italiani costretti all’esodo, viene oggi completamente obliterato dal mendace, quanto orientato, discorso sulle foibe. L’ìdeologia sconfigge la storia, e la moneta cattiva dell’uso politico di una storia ad usum delphini, scaccia quella buona della storia autentica il cui compito è l’accertamento della verità. E il ricordo dei dalmati e degli istriani che dovettero abbandonare le loro case e le loro corse, diventa un pretesto per una infinita “resa dei conti” con il “comunismo”: origine e fonte di ogni male della storia, in questo sedicente discorso “storico”.
Ma si può dire, tutto questo, alla radio? Pare di no… Imbarazzato, il mio gentile intervistatore (anzi: pre-intervistatore), borbotta frasi sconnesse: “sa…, capisce, questo è il servizio pubblico, non è che vogliamo togliere la libertà di parola, ma devo sentire i capi…”. Appunto. Il servizio pubblico, è oggi messo al servizio del mainstream politico. Si deve dire quello che il padrone del servizio pubblico (sostanzialmente lo stesso del servizio privato) decide, e che “i capi” fedelmente, puntualmente, interpretano. E la chiamano democrazia. E la chiamano libertà di espressione. E la chiamano ricerca della verità “nascosta” o “negata”.
Amaramente, non posso che constatare ancora una volta che alla crescente domanda di storia, nella pubblica opinione, corrisponde, paradossalmente, una totale emarginazione della figura professionale dello storico, sostituito da soubrettes dell’intrattenimento mediatico, che si piegano volentieri a dire ciò che si fa lascia loro dire. O ciò che ritengono che qualcuno voglia sentir dire. E va bene. Ciò che non va affatto bene è che codesta roba venga spacciata per “storia”.
Angelo d’Orsi
(10 febbraio 2010)