(english / italiano / deutsch)

Memoria 2011 / 7

Il Vaticano, la svastica e gli ustascia

1) OPERAZIONE ODESSA. Mi manda il Cupolone (G. De Luna, 2003)
Sulla fuga dei criminali nazisti e ustascia verso l'Argentina di Peron
2) Il Führer e il prelato, cattolici con la svastica (M. Patti, 2006)
Sull'apertura degli archivi del vescovo nazista Alois Hudal
3) Silence Implies Approval (G. Wilensky, 2011)
You’d think the Catholic Church would (...) repudiate the actions of the Ustasha and its leader Pavelić, but you’d be wrong.


--- LINKS: ---

Über die Netzwerke des Bundesnachrichtendienstes
von Klaus Eichner und Gotthold Schramm, Tageszeitung junge Welt

Teil I: Braunes Sammelbecken (03.02.2011 / Thema / Seite 10)
http://www.jungewelt.de/2011/02-03/015.php

Teil II und Schluß: »Im Dienste alter Kameraden« (04.02.2011 / Thema / Seite 10)

---

“Far more than shameless.” A Survivor Talks About Croatia’s ‘Museum’ at Jasenovac

Interview with Smilja Tišma (Belgrade), President, Organization of Survivors
Interviewer and translator: Jovan Skendžic [5 February 2007]


---

LA NOSTRA PAGINA DEDICATA A RATLINES E ODESSA
https://www.cnj.it/documentazione/ratlines2.htm

Ratlines. La guerra della Chiesa contro il comunismo: le reti di fuga dei criminali di guerra nazisti e ustascia nel secondo dopoguerra, con la copertura del Vaticano (sintesi dal libro di Mark Aarons e John Loftus)
https://www.cnj.it/documentazione/ratlines.htm

La nostra pagina sui crimini degli ustascia nella Croazia "indipendente" (1941-1945)

La nostra pagina sui crimini degli ustascia, al servizio della NATO nel corso della Guerra Fredda


=== 1 ===

LA STAMPA, 3/11/2003
Sezione: Cultura Pag. 16

LA FUGA DEI CRIMINALI NAZISTI VERSO L'ARGENTINA DI PERÓN:
UNA METICOLOSA E DOCUMENTATA RICOSTRUZIONE DELLO STORICO UKI GOÑI 

OPERAZIONE ODESSA
Mi manda il Cupolone

Giovanni De Luna

Lo chiamavano il «Mengele danese», Carl Vaernet era un medico delle SS che sosteneva di aver scoperto una «cura» per l'omosessualità; nel 1944 Himmler mise a disposizione delle sue folli ricerche la popolazione del «triangolo rosa», gli omosessuali internati a Buchenwald. I malcapitati furono castrati e gli fu impiantato un «glande sessuale artificiale», un tubo metallico che rilasciava testosterone nell'inguine. Secondo i racconti dei sopravvissuti, i medici delle SS a Buchenwald raccontavano barzellette raccapriccianti su quel tipo di esperimenti. Vaernet era un pazzo sadico; inserito nella lista dei criminali di guerra, alla fine del conflitto riuscì a scappare sano e salvo in Argentina. E come lui migliaia di aguzzini nazisti tedeschi, fascisti italiani, ustascia croati, rexisti belgi, collaborazionisti francesi ecc.; tutti se la cavarono grazie a una rete di complicità mostruosamente efficiente e all'aperta connivenza del governo di Juan Domingo Perón. Un romanzo (Dossier Odessa) di Frederick Forsyth, raccontava di un gruppo di membri delle SS che dopo la sconfitta si erano raccolti in un'organizzazione segreta (Odessa, acronimo di Organisation der Ehemaligen SS-Angehorigen) che aveva il duplice scopo di salvare i commilitoni dalle forche degli Alleati e creare un Quarto Reich che completasse l'opera di Hitler. Per quanto romanzesca fosse la trama «inventata» da Forsyth, il suo racconto si avvicinava in modo inquietante alla realtà. Odessa esisteva davvero. Solo era difficilissimo ricostruirne la storia: i fascicoli del suo archivio erano stati distrutti in gran parte nel 1955, nel marasma degli ultimi giorni del governo di Perón; quelli che rimasero furono definitivamente buttati via nel 1996. Ma le tracce della sua attività erano troppo evidenti per essere cancellate del tutto. Così ora, finalmente, grazie alla pazienza e all'abilità dello storico e giornalista argentino Uki Goñi (Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina di Perón, Garzanti, pp. 480, e.24) e lunghe ricerche in Belgio, Svizzera, Londra, Stati Uniti, Argentina, disponiamo di una storia completa della più incredibile operazione di salvataggio di migliaia di criminali mai progettata e mai realizzata in tutto il Novecento.
Diciamolo subito. Se l'Argentina di Perón era la «terra promessa», l'asilo già generosamente predisposto ancor prima che la guerra finisse, il cuore e il cervello dell'intera operazione Odessa era a Roma (dove Perón soggiornò dal 1939 al 1941), nel cuore del Vaticano. In quel turbinoso dopoguerra italiano era veramente difficile distinguere tra vincitori e vinti. Nazisti e fascisti avevano perso la guerra; eppure mai ai vinti mancò il soccorso dei vincitori, il sostegno di quelle istituzioni che sarebbero dovute nascere all'insegna dell'antifascismo e della democrazia e che invece erano ricostruite nel segno della più rigorosa continuità con i vecchi apparati del regime fascista. Fu l'anticomunismo, furono le prime avvisaglie della «guerra fredda» a spingere i vincitori a salvare i vinti.
Il Vaticano fu il motore di questa scelta. Ma veramente monsignor Montini fu il protagonista di questo intervento che garantì l'incolumità a criminali come Erich Priebke, Josef Mengele, Adolf Eichmann ecc.? E veramente il Vaticano fu il crocevia di tutta una serie di iniziative che puntavano a rimettere in piedi il movimento ustascia di Ante Pavelic per organizzare una guerriglia anticomunista contro la Jugoslavia di Tito? Sì, veramente. Già nel 1947 i servizi segreti americani avevano stabilito che «una disamina dei registri di Ginevra inerenti tutti i passaporti concessi dalla Croce Rossa internazionale rivelerebbe fatti sorprendenti e incredibili». Oggi la disamina di quei registri è possibile e Goñi l'ha fatta. E le sue conclusioni sono nette: la Chiesa cattolica non fu solo un complice dell'«operazione Odessa» ma la sua protagonista indiscussa: oltre a monsignor Montini i suoi vertici furono i cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano (quest'ultimo, argentino, nel 1960 espresse pubblicamente - «bisogna perdonarlo» -, il suo rincrescimento per la cattura di Eichmann da parte degli israeliani), mentre la dimensione operativa fu curata da una pattuglia di alti prelati, il futuro cardinale genovese Siri, il vescovo austriaco Alois Hudal, parroco della chiesa di Santa Maria dell'Anima in via della Pace a Roma e guida spirituale della comunità tedesca in Italia, il sacerdote croato Krunoslav Draganovic, il vescovo argentino Augustín Barrère. 
I documenti citati da Goñi sono molti e molto convincenti, da una lettera del 31 agosto 1946 del vescovo Hudal a Perón che chiedeva di consentire l'ingresso in Argentina a «5 mila combattenti anticomunisti» (la richiesta numericamente più imponente emersa dagli archivi) all'intervento di Montini per esprimere all'ambasciatore argentino presso la Santa Sede l'interesse di Pio XII all'emigrazione «non solo di italiani» (giugno 1946). Non si tratta di iniziative estemporanee e certamente la loro rilevanza storiografica non può esaurirsi in una lettura puramente «spionistica».
Un versante della seconda guerra mondiale trascurato dagli storici è quello che vede gli Stati latini, cattolici e neutrali, europei e sudamericani, protagonisti di vicende diplomatiche segnate però da un particolare contesto culturale e ideologico: nella cattolicissima Argentina (la Vergine Maria fu nominata generale dell'esercito nel 1943, dopo il golpe dei militari) ci si cullò nell'illusione di poter formare insieme con la Spagna e il Vaticano una sorta di «triangolo della pace», per preservare «i valori spirituali della civiltà» fino a quando la guerra in Europa continuava. Un progetto più ambizioso puntava a unire, con la leadership del Vaticano, i paesi dell'Europa cattolica, Ungheria, Romania, Slovenia, Italia, Spagna, Portogallo e Francia di Vichy per integrarli nel «nuovo ordine europeo» voluto dai nazisti; in quel periodo (1942-1943), in Sud America governi filonazisti esistevano già in Argentina, Cile, Bolivia e Paraguay: il disegno era di conquistare a un'alleanza in chiave antiamericana anche il piccolo e democratico Uruguay e il grande e cattolico Brasile. Questi disegni naufragarono tutti sotto il peso delle rovinose sconfitte militari dell'Asse ma furono l'humus ideologica da cui nacque nel dopoguerra la rete di «Odessa».
La centrale italiana operò soprattutto per il salvataggio degli ustascia di Ante Pavelic. Alla fine della guerra ce n'erano migliaia, sparsi nei vari campi a Jesi, Fermo, Eboli, Salerno, Trani, Barletta, Riccione, Rimini ecc. Una poderosa ricerca ora avviata dal giovane storico Costantino Di Sante sta facendo luce su una delle pagine più oscure di quel periodo. Si trattava di criminali macchiatisi di delitti che avevano suscitato orrore perfino nei loro alleati nazisti (che biasimarono «gli istinti animaleschi» dei croati): fucilazioni di massa, bastonature a morte, decapitazioni, per conseguire il risultato di uno Stato (la Croazia) razzialmente puro e cattolico al 100%. Alla fine della guerra circa 700 mila persone erano morte nei campi di sterminio ustascia a Jasenovac e altrove: le vittime appartenevano soprattutto alla popolazione serba ortodossa ma nell'elenco figuravano anche moltissimi ebrei e zingari. Il principale teorico del regime croato, Ivo Gubernina, era un sacerdote cattolico romano che coniugava le nozioni di «purificazione» religiosa e «igiene razziale» con un appello affinché la Croazia «fosse ripulita da elementi estranei».
Gran parte di questi criminali si salvò passando da Roma verso l'Argentina: la via di fuga portava a San Girolamo, un monastero croato sito in via Tomacelli 132. Parlando del loro capo, Ante Pavelic, un rapporto dei servizi segreti americani concludeva: «Oggi, agli occhi del Vaticano, Pavelic è un cattolico militante, un uomo che ha sbagliato, ma che ha sbagliato lottando per il cattolicesimo. È per questo motivo che il Soggetto gode ora della protezione del Vaticano». Alla fine, tra il 1947 e il 1951, secondo i dati raccolti da Di Sante, furono 13 mila gli ustascia che riuscirono a salvarsi usando il canale italoargentino.

Copyright © La Stampa


=== 2 ===

Il Führer e il prelato, cattolici con la svastica

di Martino Patti

su Il Manifesto del 06/10/2006 - http://www.ilmanifesto.it

L'apertura degli archivi del vescovo filonazista Alois Hudal, rettore per decenni del Collegio pangermanico di Santa Maria dell'Anima a Roma ripropone la necessità di una analisi in profondità dei rapporti tra la gerarchia cattolica tedesca e l'ideologia hitleriana


Da tempo, ormai, il dibattito storiografico sui rapporti tra chiesa cattolica e Germania nazista sembra essersi impantanato sull'enigmatica figura di Pio XII. Ben sapendo che una porzione consistente delle carte resta ancora sotto chiave negli archivi vaticani (ognuno ha i suoi tempi, per carità) si continuano a costruire le ipotesi più fantasiose sui presunti silenzi del pontefice, sul suo presunto antisemitismo, sulle sue presunte responsabilità nelle vicende legate al secondo conflitto mondiale e all'Olocausto, quasi fosse questa la sola cosa essenziale. Certo il reality - vero o falso che sia - vende discretamente bene e a molti, in fondo, imbastire polemiche conviene.
Ma sul serio non c'è dell'altro? Sul serio, per comprendere in che modo - tanto per iniziare - il cattolicesimo tedesco reagì alla virulenta ondata hitleriana e alla demolizione definitiva della Repubblica, non possiamo prescindere dal povero Pacelli, e provare a ritagliare un numero esauriente di casi empirici, da cui dedurre - come richiederebbero le leggi più elementari della storiografia - situazioni, convergenze ricorrenti e eventualmente una prima interpretazione? «Guré, guré behet kalaja» recita un antico proverbio albanese: pietra su pietra, si fa il castello.

Un prelato arrivista

Gli spazi di lavoro, del resto, sono ampi e variegati. Talvolta, persino al di qua del Brennero: come ci dimostra il Collegio Pangermanico di Santa Maria dell'Anima in Roma, che con un doveroso gesto di coraggio (tardivo anch'esso, ma comunque ammirevole) inaugura oggi l'apertura agli studiosi degli archivi personali di monsignor Alois Hudal. Il passaggio è di notevole importanza, anche se forse sull'infame Netzwerk Odessa saranno poche le sorprese. I novantasei faldoni hudaliani, infatti, oltre a gettare luce sulla personalità (contorta e arrivista) dell'autorevole prelato austriaco, a confermare in maniera non più discutibile le tristi immagini affrescate da Ernst Klee nei suoi brillanti reportage (tradotti in italiano in Chiesa e nazismo, Einaudi 1993) e a suggerire nuove piste di ricerca, mettono bene in risalto l'ingombranza fastidiosa dell'enorme piattaforma mentale e culturale offerta da ampi settori del cattolicesimo di ambientazione germanica alla presunta «rivoluzione nazionale» ventilata dal Führer e dal suo movimento.
Le simpatie di monsignor Hudal per il nazismo non sono una novità per nessuno né si dimentica che, ancora nei primi anni '60, fu lo stesso rettore emerito del prestigioso istituto pontificio a ribadire con superbia, dall'esilio forzato di Grottaferrata, tra le righe dei Römische Tagebücher (i «Diari romani»), la sua tesi ributtante: sempre meglio Hitler che la paccottiglia giudeo-bolscevica, la democrazia socialdemocratica o per contro il capitalismo americano. E ai forni polacchi neanche un accenno, una allusione di pietà.
Trent'anni addietro, inoltre - al chiaro scopo di convincere le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici più «illuminati», e tuttavia ancora timorosi, circa l'intrinseca bontà o recuperabilità in chiave cristiana del nazismo - Hudal aveva dato alle stampe il ponderoso trattato Die Grundlagen des Nationalsozialismus («I fondamenti spirituali del nazionalsocialismo», Lipsia-Vienna, 1936).

Condanne in contumacia

Nessuno sgomento, dunque, nel ritrovare, tra i forzieri rinascimentali dell'Anima, obbrobri clamorosi quali la dedica del volume al dittatore tedesco («Al Führer del Risorgimento tedesco. Al novello Sigfriedo della grandezza e della speranza della Germania - Adolf Hitler») o la copia del telegramma datato 15 luglio 1937, con cui Hudal, ormai vescovo titolare di Ela, esprimeva alla dirigenza del Reich le proprie cordiali congratulazioni per la buona riuscita dell'Anschluß. Di fronte a simili sbottate lo sdegno è sacrosanto. E tuttavia, condannare in contumacia i monsignori - com'è d'uso da almeno mezzo secolo - basta davvero a far progredire la ricerca? Evidentemente no. Quel che serve, semmai, è afferrare le radici nel profondo, stabilire legami verosimili tra il presente e il passato - e poi, è ovvio, agire e contestare se necessario. È una questione anche di strategia: per poterlo sconfiggere, prima bisogna conoscerlo, il nemico. Ma da questo punto di vista è desolante constatare quanto superficiale sia stato finora, in generale, l'approccio analitico al fenomeno del consenso cattolico nei confronti dei regimi autoritari fioriti in mezza Europa tra le due guerre mondiali. Che non si sia compreso come il sostegno di Hudal al nazismo, lungi dal rappresentare il singolare esito patologico di una qualche deviazione individuale, riassuma in miniatura una intera stagione teologico-intellettuale, e forse persino magistrale, precisamente questo è grave.
Ma cosa dicono le fonti? In realtà, le più recenti acquisizioni documentarie, e segnatamente gli scritti di monsignor Hudal, suggeriscono la netta impressione che, specie nei primi ventiquattro mesi di dittatura - sullo sfondo della modernità illuminista e liberale, della secolarizzazione, del Kulturkampf «d'infausta memoria» e della minacciosa rivoluzione d'Ottobre - sia scattata una sciagurata interferenza tra la profezia ideologica divulgata, e in parte poi inverata, dalla Nsdap (il partito nazista) e le correnti teologiche più avanzate dell'epoca. Nella congiuntura di sofferta transizione scaturita da Versailles, contrassegnata dalla depressione economica e dal radicalizzarsi del conflitto sociale, la lezione aristotelico-tomista e agostiniana (mediata tra Otto e Novecento da pensatori neoscolastici del calibro di Josef Kleutgen, di Martin Grabmann, di Erich Przywara) sembra infatti aver fornito ai genî più volenterosi - tra cui Hudal in prima fila - il presupposto logico necessario per tradurre in certe istanze restaurative della condizione di Ordine la riproposizione del primato, tutto medievale, del dato oggettivo su quello soggettivo, dello stato (civitas) e dell'auctoritas sul contrattualismo illuminista, dell'unità responsabile sugli egoismi frammentari e particolaristici. In tal modo, la collaborazione con il nuovo stato avrebbe potuto concretizzarsi (e si concretizzò, sovente) intorno a quattro poli fondamentali.

La coscienza tedesca

Prima di tutto l'impero, perché l'unico schema politico-istituzionale in grado di salvaguardare l'ordine cristiano della creazione, l'ordine buono vero e giusto del reale (natürliche Weltordnung), era quello in cui l'autorità derivava da Dio e non dall'uomo, cioè dalla repubblica democratica: come del resto esigeva la migliore tradizione nazional-germanica che, a prescindere dalla volgare retorica hitleriana, contemplava già per conto suo il Führerprinzip autoritario. Al riguardo, basti pensare al caso paradigmatico di Otto von Bismarck. In secondo luogo l'unità, perché del Kulturkampf, almeno una conseguenza non potrà mai esser posta in discussione dagli storici: aver approfondito l'infausta spaccatura ereditata da Lutero, frantumando ulteriormente la coscienza nazionale dei tedeschi e generando, nei cattolici, la sgradevole sensazione di essere, in fondo, una minorità ingiustamente perseguitata dallo Stato. Ma cosa sventolava il buon Ottone redivivo, sotto il naso dei tedeschi, se non proprio la solenne immagine programmatica della Volksgemeinschaft, della Volkswerdung ossia dell'agognata riunificazione di tutti i Volksgenossen (termine che non si traduce in italiano con «cittadini», ma piuttosto con «membri» cioè «fratelli nel sangue, nella lingua e nella terra condivisa») nella ritrovata comunità nazionale ed ecclesiale? Terzo punto, la totalità: sin dai tempi di Pio IX, il magistero ufficiale aveva adottato l'antica visione teologica, anche questa di chiara matrice patristica e aristotelico-tomista, secondo la quale, nei limiti della Creazione divina, la sfera politico-civile si vedrebbe destinata, secondo natura, ad armonizzarsi alla dimensione religiosa e sovrannaturale, pur restando entrambe ermeticamente separate. Ed ecco, se da un lato la politica religiosa del regime in via di normalizzazione a nient'altro mirava che alla spoliticizzazione coatta delle chiese in quanto associazioni tra le tante, dall'altro lato larghi settori del cattolicesimo tedesco non disdegnarono affatto la formula del «cristianesimo positivo», che avrebbe permesso loro di affossare, insieme agli altri partiti d'epoca liberale, il Zentrum scellerato, riducendo la chiesa al suo più genuino ufficio spirituale. Infine, il corporativismo organicista: con rara fermezza, nell'enciclica Quadragesimo anno, Pio XI aveva preso posizione contro «la lotta di classe fratricida fomentata dal bolscevismo marxista», invitando i cristiani a ristrutturare il corpo sociale in direzione sia della definitiva redemptio proletariorum sia, soprattutto, della berufsständische Volksordung. Questa espressione - legata per definizione ai concetti di natura (Natur), di ordine cosmico naturale (natürliche Ordnung) e di ordine stabilito da Dio (gottgewollte Ordnung) - non gode di una traduzione immediata in italiano ma è densa di significato perché sottende una forte valenza non solo metafisica, ma anche etica. Stando alla lettera, infatti, essa raffigura per un verso quell'Ordine ideale, quell'articolazione «ontologica» che il Volk (che non vuol dire «popolo» quanto piuttosto «nazione», anch'essa creata nel sangue dalla mano paterna di Dio) tenderebbe ad assumere in ragione dell'attuazione da parte di ogni suo membro delle proprie doti naturali (natürliche Fahigkeiten) ma per un altro verso, anche, quella realtà comunitaria (Gemeinschaft, non Gesellschaft) che, strutturandosi per ceti o corporazioni professionali (Berufstände, berufsständische Körperschaften), esclude o congela la possibilità stessa della mobilità sociale: giacché, in quella prospettiva, «professione» significa né più né meno «risposta a una vocazione naturale» (si pensi a Max Weber). Ma, quantomeno sul piano delle similitudini formali, non è possibile rilevare una certa contiguità tra questa visione ideale e l'impianto classista della riforma giuslavorista varata dai ministeri Schmitt-Mansfeld il 20 gennaio 1934 nel quadro più o meno emergenziale della nuova economia di guerra? Inoltre, se è vero che il dottor Angelico aveva sentenziato «Bonum commune melius est et divinius bono unius», non è altrettanto vero che Hitler e i suoi scherani inneggiavano nei discorsi ufficiali e negli scritti programmatici al primato del bene comune sull'interesse privato («Gemeinnutz vor Eigennutz!»)?
Sebbene sia ancora troppo presto per lanciarsi in categoriche asserzioni positive, alla luce di queste osservazioni si è comunque tentati di stabilire un paio di conclusioni. In primo luogo, dal punto di vista metodologico (come amava insegnare Edward Hallett Carr), colui che vuol spiegare la storia in tutta la sua complessità materiale deve non solo introdurre una gerarchia tra diverse cause in inter-relazione, ma anche rivivere interiormente ciò che avvenne nelle menti delle sue dramatis personae, ascoltando prima di giudicare. Ma nel nostro caso specifico questo può significare una cosa soltanto: abbandonare quell'ottica forzatamente laicizzante che da decenni ormai ci impedisce di discutere in maniera adeguata questioni le cui radici affondano anche in un humus palesemente storico-religioso e teologico.

Oltre le versioni ufficiali

In secondo luogo, premesso che in effetti sarebbe rischioso «anche solo supporre un atteggiamento univoco o unitario di tutta la Chiesa cattolica o di tutta la Curia romana nei confronti del nazionalsocialismo» (Hubert Wolf), e che certo vi è una differenza sostanziale tra la fase della Machtergreifung (30 gennaio 1933) e quella successiva - inaugurata il 30 giugno 1934 con la liquidazione del fronte conservativo: la cosidetta «notte dei lunghi coltelli» - viene da chiedersi se alla fine dei conti non sia ingenuo accettare la versione ufficiale dei fatti e credere che la «grande conciliazione» (Günter Lewy) dischiusa alle relazioni tra stato e chiesa cattolica in Germania dalla storica conferenza di Fulda (30 maggio-1 giugno 1933), con l'abolizione del divieto episcopale di adesione alla Nsdap ad esempio, sia stato il semplice risultato di una serie di circostanze accidentali e di eventi contingenti. Non è forse arrischiato ridurre il concordato, siglato con il Reich nel luglio '33, al provvidenziale strumento giuridico intessuto dall'astuta diplomazia pacelliana per attuare una improbabile opposizione al regime oppure per salvare il salvabile ed evitare il collasso letale - e niente più? Smettiamo di fare apologia, da una parte e dall'altra, e affrontiamo la realtà.
Molto probabilmente, nella misura in cui il nuovo Stato totale avesse conformato anche solo in via preliminare la propria politica interna a un modello rigido di tipo etico e organicista, lasciando intravedere la restaurazione, da operarsi anche manu militari, della Weltanschauung dell'Ordine naturale, il ripristino dell'Ordine della Creazione, la Chiesa avrebbe sostenuto senza troppo tergiversare e anzi con viva sollecitudine l'opera del Führer. E del resto, dato quel passato, dato quel presente, data quella mentalità, data quella sensibilità morale, non è verosimile pensare che, quantomeno a livello gerarchico e organizzativo, difficilmente sarebbe potuto accadere altrimenti?



=== 3 ===



Often, religious people cling to their religion because it provides them with solace and succor during times of despair or hardship. Many times religious people go to their priests, rabbis or imams for advice on matters related to morals and ethics. Given this background, anyone studying religion might conclude religion and its institutions are good things, and religion is a force for good in the world.

But, is that really so? Has religion in general been a force for good in the world? Has it made people more compassionate, more respectful of others, more tolerant of their beliefs? Has the advice given by the authorities of the various world religions been good and made people behave any better?

I would argue the opposite is true, and that any study of the effects of religion throughout human history would show for the most part a direct correlation between religiosity and intolerance, brutality, ignorance, discrimination, lack of compassion and immorality.

As one example out of many, we may look at the role religion played during what was likely the most horrific time in human history, the Second World War. At that time, we find man’s worst behavior toward man, at a level and scope unprecedented until that point. It will be interesting to see what role religion played during this cataclysmic event.

Unfortunately for religion, organized or otherwise, it doesn’t look very good. Clearly the Nazis went on their genocidal rampage motivated by secular reasons, but both the Germans and the vast numbers of helpers they easily recruited in the countries they occupied had all been brought up in the Christian tradition. What this meant is that when the Nazis began their anti-Jewish campaign they found that—like themselves—the population already felt deep antisemitism and already believed the Jews to be evil and enemies of everything that was good. Therefore the Nazis had very little to invent in their campaign against Jews and had no difficulty in persuading anyone to denounce, hunt down and murder their Jewish neighbors.

If the Nazis were not driven by religious zeal in the execution of the Holocaust, we must then ask the obvious question of what role religion played during that watershed event. Given that the perpetrators had been instructed by their Christian tradition to feel compassion and love for their neighbors, do we have any evidence the majority felt any moral qualms or refrained from murder when asked to kill Jews? Or did the perpetrators willingly and eagerly behave toward Jews in a way that was consistent with what they had been taught for almost two millennia, that is, with contempt and even hatred for them? The answer is also obvious.

For the sake of brevity, it will be interesting to focus on an aspect of the Holocaust that rarely gets the attention it deserves, and that is what happened in Croatia. In that country a puppet Nazi state was established in 1941, led by the terrorist group the Ustasha with its Poglavnik (leader) Ante Pavelić at its helm. From its inception until its demise in 1945 the Ustasha were responsible for the most barbaric acts of the war, making even the German SS pale in comparison. During the rule of the Ustasha regime, more than half a million innocent civilians were slaughtered, many of them using medieval methods: eyes were gouged out, limbs severed, intestines and other internal organs ripped from the bodies of the living. Some were slaughtered like beasts, their throats cut from ear to ear with special knives or saws. Others died from blows to their heads with sledgehammers. Many more were simply burned alive. Some Ustasha perpetrators wore necklaces made from the eyes or ears of their victims.

The actions of the Ustasha are important and relevant in this discussion because the Ustasha were ultra-Catholic and they killed in large part in an effort to rid Croatia of its non-Catholic elements, that is, the largely Orthodox Serbs, the Gypsies, and of course the Jews. Many of the perpetrators were actually Catholic priests. One of them was a Franciscan friar who continued to act as a member of his order as commandant of the notorious Croat concentration camp Jasenovac, where he committed the most heinous atrocities. Sometimes he even wore his Franciscan robes while perpetrating his crimes.

Did the perpetrators consult with their religious leaders before committing these crimes? Did their religious upbringing play any role in making them act the way they did? During the Croatian genocide the Vatican had compiled a list of Croatian priests who had participated in massacres of Orthodox Serbs and Jews with the intention of disciplining them after the war. They never did. Not only that, many perpetrators were protected and given passage to safe havens around the world by members of the Vatican who housed them in Vatican properties, clothed and fed them, and eventually helped them evade justice so they could regroup to fight Communism.

You’d think that during the war the Catholic Church would very publicly and loudly object to the genocide taking place in Croatia, given that the impetus behind the genocide was ultimately the propagation of Catholicism, but it didn’t. You’d think that the Catholic Church would attempt to stop the perpetrators, given that they were Catholics strongly loyal to the pope, but it didn’t. You’d think the Catholic Church would give advice and guidance to the Croatian Catholic faithful in an effort to rein them in, but it didn’t. You’d think the pope, Pius XII, would feel shame and embarrassment and distance himself from the Croat Catholics and their leader, but he didn’t.

Indeed, the leader of the Ustasha, Ante Pavelić was a mass murderer who revered Pope Pius XII, and was aware that Pius XII and his senior advisers thought highly of his militant Catholicism. In April 1941 Pavelić was received by the Pope, creating an uproar at the British Foreign Office who was dismayed that the Pope would even consider meeting with such a notorious mass murderer. They thus described the Pope as “the greatest moral coward of our age.” As the Foreign Office later told the British ambassador to the Holy See, the Pope’s reception of Pavelić “has done more to damage his reputation in this country than any other act since the war began.”

Maybe we should excuse the Pope and the Church for not acting during the war because of the fog of war, lack of communications, the desire to remain neutral, etcetera. But these are all hollow excuses. Moreover, even if we were willing to accept them, what could possibly explain the lack of acts of repudiation after the war for the genocide in Croatia?

In May 1945, after having learned of Hitler’s death, Cardinal Bertram of Breslau ordered that “a solemn requiem mass be held in commemoration of the Führer. . .” so that the Almighty’s son, Hitler, be admitted to paradise. A solemn requiem mass is celebrated only for a believing member of the Church and if it is in the public interest of the Church. Hitler was not a believing member of the Church and only a Church deeply steeped in their own anti-Jewish teachings and the grotesque twist to them that Hitler gave them could think that a solemn requiem for Hitler was a good, moral thing to do and that it was in the Church’s public interest. Did the Pope or the Catholic Church rebuke Cardinal Bertram, then or any time after that? No, it did not.

Given this background, we should not be too surprised to learn that just as the year 2010 was coming to a close a mass was celebrated in a Zagreb church honoring the 49th anniversary of the death of the Ustasha mass murderer Ante Pavelić. The mass was held by priests Vjekoslav Lasić and Stanislav Kos, who referred to Pavelić as a respectable man who made sacrifices for all of Croatia. You’d think the Catholic Church would take advantage of this opportunity to very loudly and publicly repudiate the actions of the Ustasha and its leader Pavelić, but you’d be wrong. What was the official reaction of the Catholic Church to this outrageous mass? So far their reaction is consistent with their reaction during the Holocaust: a deafening silence.


Gabriel Wilensky

-------------------------------------------------------------------------------------------------
Author
Six Million Crucifixions:
How Christian Teachings About Jews Paved the Road to the Holocaust
www.SixMillionCrucifixions.com
Follow me on Twitter at twitter.com/sixmillionbook
Become a Fan on Facebook at www.facebook.com/SixMillionCrucifixions
-------------------------------------------------------------------------------------------------