(hrvatskosrpski / english / italiano)

La fine dell'inganno europeista

1) SRP: ULAZAK HRVATSKE U EU JE NELEGITIMAN
2) La fine dell’ “Europa sociale” (da “Socialist Voice”)
3) L'apocalisse della democrazia, dal debito sovrano allo stato d'emergenza (di Domenico Moro, da Marx XXI)
4) Lettonia: riabilitate e commemorate le SS e discriminata la minoranza russa
5) An Imperial System (GFP)


LINKS:

L'Unione Europea è una dittatura
JUGOINFO, 12 novembre 2011
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7200

L'Unione Europea al servizio dei monopoli
di Mauricio Miguel (dicembre 2011)
http://www.resistenze.org/sito/os/ep/osepbn12-010148.htm

Il Titanic-Europa e la manovra Monti: ingiusta, inutile e insostenibile
di Vladimiro Giacché (dicembre 2011)
http://www.marx21.it/internazionale/europa/622-il-titanic-europa-e-la-manovra-monti-ingiusta-inutile-e-insostenibile.html

EU-Referendum u Hrvatskoj
JUGOINFO, 22 gennaio 2012
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7245

Il nuovo Patto Fiscale europeo: fine della democrazia
di Franco Russo (febbraio 2012)
http://www.retedeicomunisti.org/it/documenti/item/4014-il-nuovo-patto-fiscale-europeo-fine-della-democrazia


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(l'entrata della Croazia nella UE è illegittima - comunicato della SRP)

http://www.srp.hr/?p=976

ULAZAK HRVATSKE U EU JE NELEGITIMAN

Socijalistička radnička partija, jasno je iznijela svoj stav, da ulazak Hrvatske u EU nije interes njenih ljudi, već diktat europskog multinacionalnog kapitala i nove domaće klase, a pošto je riječ o asocijaciji kapitala, a ne naroda, nije ni demokratska. Prepuštajući skorom vremenu da potvrdi ili demantira i ostale naše tvrdnje, koje su prije svega znanstveno utemeljene, a to su da se Hrvatska u EU neće optimalno, a kamoli ubrzano razvijati (jer je sadašnja recesija uvjetovana upravo prodorom stranoga kapitala, koji domaću privredu dezartikulira, a što će se ulaskom u EU samo ubrzati), već sam čin referenduma, potvrdio je naše uvodne tvrdnje. Ako je na glasanje izašlo samo 43% upisanih birača, a 57% nije imalo za taj događaj interesa, zar to nije potvrda da EU nije zahtjev naroda. Samo slijepac, u činjenici da je za prolaz referenduma bilo dovoljan izlaz manje od 50% upisanih birača, za što je prethodila izmjena Ustava, a ne nadpolovična većina, kao što je to prethodno stajalo u Ustavu, ne prepoznaje bjesomučni diktat eurobirokrata i domaćih kolaboracionista. Ne potvrđuje to i činjenica da Hrvatska (kao ni druge tzv. tranzicijske zemlje) nisu ispunile glavne kriterije iz Maastrichta, a to je visina BDP-a (1/3 od prosjeka zemalja EU). Samo naivni i neobavješteni ne razumiju o kakvoj je to ljubavi eurobirokrata riječ. Mi u Socijalističkoj radničkoj partiji, naravno nismo ni naivni ni neobavješteni, i dobro znamo da je tu riječ o isključivom interesu krupnog kapitala.

Činjenica da je za ulazak u EU bilo dovoljno 28,8% glasova upisanih birača (a riječ je o procesu njenog nastajanja) govori da ona nije ni demokratska. U ostalom ona je ugovorna i nema legitimitet naroda svojih članica.

Da je za EU čvrsto opredijeljena tek eurobirokracija i domaća nova klasa i da jedino oni jasno vide svoje interese (veći dio koji je glasao tek vjeruje), govori i potpuna ravnodušnost naroda nakon tobože pobjedonosnog prolaza referenduma. Svi slavljenici toga uspjeha, stali su na jedan od omanjih zagrebačkih trgova (Cvjetni), pri čemu je brižna Vana nakon usiljenih govora zvaničnika, zamolila prisutne da se ne razilaze, jer ona još mora pjevati.

No sa pjesmom su sutradan nastavili i ona još traje, eurobirokrati, domaći zvaničnici i zaduženi kolumnisti. eurobirokrati nisu nam propustili čestitati na razboritosti i velikoj pobijedi naroda. Zvaničnici ushićeno tvrde, da smo prvi puta odlučili sami (28,8% građana) i odmah dispergirali i odgovornost svih nas. U sjeni je ostao čak i ZAVNOH i AVNOJ, kao tek sumnjive povijesne epizode. Kolumnisti, stručnjaci za javno mnijenje, nastavljaju prebrojavati skeptike, svodeći ih na šaku nerazumnih (71,2% upisanih birača), uvjeravajući sebe i druge u nemoguće, da je 28,8 od sto više od polovice. Pošto narod u cjelini (većinu), ne vole koriti ni kolumnisti, za nerazumno ponašanje okomili su se na ekstremnu desnicu i nekakvu ekstremnu ljevicu. Nerazumnost te iste desnice, nisu primjećivali 90-ih kada je ona još opakije udarala u ratne bubnjeve. Vjerojatno zato što je ona tada imala revolucionarnu ulogu u rušenju socijalizma. Nije im tobože jasno ni zašto politička provenijencija (istinska ljevica, a ne ekstremna) koja ne prihvaća kapitalizam uopće, ne prihvaća ni kapitalističke imperijalne asocijacije.

Imaju kolumnisti i krupnih etičkih problema. Ne razumiju oni ni to da građanska demokracija kojom su opčinjeni, nije demokracija svih građana, nego samo onih koji u obrani svojih društvenih i ekonomskih prednosti stvarno izlaze na izbore. Oni koji su u tobožnjoj demokraciji izgubili svaku vjeru, pa i nadu, ne ubrajaju se nigdje i gotovo da ne predstavljaju ljude.

Nisu naši kolumnisti čuli ni za pojam legitimnosti. A možda i jesu, ali misle zašto bi Hrvatska u EU ušla legitimno kada legitimitet nema ni sama EU.

 

(Ivan Plješa, predsjednik Socijalističke radničke partije Hrvatske)

SOCIJALISTIČKA RADNIČKA PARTIJA HRVATSKE za ekonomsku, socijalnu i političku demokraciju
POSTED BY SRP ON OŽUJAK - 4 - 2012



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La fine dell’ “Europa sociale”

06 Febbraio 2012


“Socialist Voice”, organo del Partito Comunista di Irlanda | da www.solidnet.org

Traduzione di Massimo Marcori per Marx21.it

Sono anni che il buonsenso, in seno al movimento sindacale europeo dominante e ai partiti socialdemocratici, consiste nell'affermare che stiamo facendo rotta verso un’ “Europa sociale”, un’Europa che darà lavoro a tutti e offrirà sicurezza ai lavoratori, ai disoccupati e a tutti quelli che, per una ragione o per l’altra, non potranno lavorare, ai giovani che entrano nella vita attiva, alle madri che hanno poca esperienza nel mondo del lavoro al di fuori della famiglia, e ai pensionati.

 

Fino a quando l’Europa dell’occidente capitalista ha dovuto competere col modello sociale ed economico dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati per ottenere l’adesione dei lavoratori, la destra non trovava argomenti. Fondata nel 1973, la Confederazione europea dei sindacati (CES) rappresentò il risultato della presa di coscienza che il sindacato doveva coordinare le sue forze per giocare un ruolo su scala sopranazionale. La posizione della CES appare in modo evidente nel suo slogan “Più Europa, un’Europa sociale”. La sua principale attività consiste nel discutere con le istituzioni della UE e le associazioni padronali europee, nel Comitato economico e sociale della UE e altrove.

 

Si tratta di un modello corporativo, che si basa sull’idea di interessi comuni tra lavoro e capitale, invece che sulla lotta tra le classi – un modello che affonda le sue radici nell’ideologia dello stato conservatore cattolico e in quella del fascismo italiano.

 

Il movimento sindacale non è l’unico ad avvicinarsi ad un’errata concezione di un’Unione Europea progressista. In numerose organizzazioni è radicata la convinzione che consegnare ancora nuove competenze nazionali nelle mani della UE sarebbe in sé sinonimo di miglior gestione. Tutti hanno fiducia nelle belle promesse del progetto europeo (CEE/UE), sebbene esse non si siano ancora concretizzate. L’Unione Europea mette il suo naso dappertutto, ma è lontana dal costituire una garanzia che le cose miglioreranno. Per ciò che riguarda le politiche sociali ciò è doppiamente vero.

 

Nel quadro dei rapporti di forza attuali, sarebbe illusorio attendersi l’armonizzazione delle legislazioni che amministrano i sussidi sociali, le pensioni, un salario minimo, gli orari di lavoro o la situazione delle persone inabili, per malattia o invalidità di lavoro, un livellamento in alto, un allineamento sulle condizioni del miglior stato membro.

 

In realtà, la tendenza non è per la realizzazione di un’ “Europa sociale” ma essa va completamente nella direzione opposta, ciò che è tanto più evidente oggi che il modello economico e sociale dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati non è più presente per opporre un’alternativa.

 

L’UE è all’origine di tutta una serie di documenti che riaffermano diritti che dovrebbero essere scontati, vale a dire:

 

Uguaglianza salariale tra uomini e donne;
Assenza di discriminazione razziale sul lavoro;
Ognuno dovrebbe avere una qualche forma di pensione;
I sindacati devono essere legali, e il loro ruolo in quanto interlocutori nei negoziati deve essere rispettato.

 

Questo genere di testi, tuttavia, non va mai oltre il limite del tollerabile. L’attuale crisi dell’euro ha accelerato un flagrante movimento di abbandono delle pretese di costruzione di un’ “Europa sociale”. Le priorità sociali dell’UE comprendono ormai la riduzione del costo del lavoro, la riduzione del numero di persone che hanno diritto ai sussidi di disoccupazione e un calo del numero dei pensionati.

 

I padroni non vogliono pagare la loro parte di quote per la Sicurezza sociale, come non vogliono che questi costi vengano assunti dallo stato, perché ciò vorrebbe dire che le imposte non potrebbero essere ridotte. Peraltro, vogliono vedere un mercato del lavoro più flessibile, in cui sarebbe più facile cacciare le persone e in cui i lavoratori avrebbero meno diritti mentre i loro impieghi sarebbero precari.

 

Quale sia l’esito dell’attuale crisi della zona euro, lo si comprende dal fatto che l’UE si è ormai avviata su una via neo-liberale. Ciò significa che la libera concorrenza regna, mentre le legislazioni nazionali che tutelano il lavoro e l’ambiente possono essere rimesse in discussione dalle direttive europee.

 

Il ruolo di organizzazioni come “la Tavola rotonda europea degli industriali” nell’elaborazione della politica della UE non è mai venuta completamente alla luce del sole. Questa organizzazione ha condotto la campagna per l’introduzione dell’euro. L’Europa del capitale esiste da lungo tempo, ma non c’è mai stata l’Europa sociale.

E non si tratta solo di un piccolo complotto fomentato da forze politiche di destra. Se si risale al marzo 2000, un summit di capi di governo si era svolto a Lisbona per discutere delle misure che avrebbero potuto essere adottate per rispondere alla rivendicazione dei sindacati per un’ “Europa sociale”. Tuttavia, le conclusioni dei primi ministri, in maggioranza socialdemocratici, per dieci di loro, furono lontane dall’indirizzarsi verso la settimana di 35 ore, la riduzione delle disuguaglianze di reddito, con sicurezza sociale, salario minimo, sviluppo dei sussidi sociali, creazione di impieghi nei servizi pubblici o abbassamento dell’età di pensionamento. Invece, venne lanciato un appello per massicce privatizzazioni con il disimpegno dello stato dalle sue funzioni sociali, come pure per lo stimolo della crescita economica tramite una riduzione delle tasse e un taglio alle spese collettive.

 

Questa lotta per la “competitività” a cui essi hanno aderito doveva essere finanziata dai tagli nei servizi pubblici e perseguirsi con la svendita di quello che restava delle imprese pubbliche.

 

La privatizzazione generalizzata fu messa all’ordine del giorno. Un obiettivo fondamentale che stava dietro a questa privatizzazione fu di spezzare la forza dei sindacati e di spingere verso il basso i salari trasformando ogni impiego in impiego precario.

 

Se li si sollecita un po’, i sostenitori dell’ “Europa sociale” si ostinano a dire che essa può essere compiuta solo se si salva l’euro. E per salvare l’euro, bisogna abbassare i salari, le tasse, e rimettere in discussione i diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Questo tipo di crescita contribuisce meno a trovare una soluzione di quanto non possa fare una ripartizione più equa delle ricchezze che già possediamo. Dobbiamo esserne sorpresi? Gettiamo uno sguardo su qualcuno dei leaders di questa nuova “Europa sociale”.

 

Il nuovo presidente della Banca centrale europea (BCE) è Mario Draghi. Draghi è stato vicepresidente e direttore generale di Goldman Sachs International e membro del comitato direttivo di Goldman Sachs. E’ stato anche direttore esecutivo italiano della Banca Mondiale, governatore della Banca d’Italia, membro del comitato direttivo della BCE, membro del Consiglio d’ amministrazione della Banca dei regolamenti internazionali, membro del Consiglio d’amministrazione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo, presidente dell’Ufficio di stabilità finanziaria.

 

Il nuovo primo ministro italiano, Mario Monti – che è stato nominato e non eletto – era membro dell’Ufficio dei consiglieri internazionali di Goldman Sachs. E’ stato nominato alla Commissione europea, uno degli organi di governo dell’UE. Monti è presidente europeo della Commissione Trilaterale, un’organizzazione americana incaricata di difendere l’egemonia americana nel mondo. Egli è membro del gruppo Bilderberg e membro fondatore del gruppo Spinelli, un’organizzazione creata nel settembre 2010 per facilitare l’integrazione nella UE.

 

Così come un banchiere non eletto è stato installato come primo ministro in Italia, un banchiere non eletto è stato installato come primo ministro in Grecia. Il nuovo primo ministro nominato in Grecia, Lukas Papademos, era governatore della Banca di Grecia. Dal 2002 al 2010, è stato vicepresidente della BCE. Anche lui è membro della Commissione Trilaterale americana.

 

Il mito dell’ “Europa sociale” ha fornito uno slogan utile agli euro-fanatici di tutta Europa. Adesso che l’UE si mostra per quello che è, mentre impone una forma di asservimento economico a larghi strati della popolazione, è stato smascherato come la menzogna che non ha mai cessato di essere.


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http://www.marx21.it/italia/democrazia-e-stato/1005-lapocalisse-della-democrazia-dal-debito-sovrano-allo-stato-demergenza.html

L'apocalisse della democrazia, dal debito sovrano allo stato d'emergenza

12 Febbraio 2012

di Domenico Moro, responsabile Progetto per la formazione di Marx XXI

L'articolo, che pubblichiamo con l'autorizzazione dell'autore, appare nel numero di “Marx XXI” rivista in corso di distribuzione

 

La nomina del governo Monti e, più in generale, il modo in cui l’Europa sta affrontando la crisi del debito rappresenta un passo avanti nella conclusione del tipo di governo affermatosi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Più correttamente, si potrebbe dire che la crisi del debito solleva il velo sulla natura reale della democrazia borghese, attiva le potenzialità negative insite nel nostro sistema istituzionale, e conduce agli estremi quelle tendenze autoritarie che sono presenti da molto tempo in Italia, nel resto d’Europa e nel cosiddetto Occidente.

 

  1. Capitalismo finanziario, di stato e multinazionale

     

Lo stato non è mai neutrale, è sempre lo stato della classe economicamente dominante. Questo principio è solo un punto di partenza, non potendo prescindere dall’individuazione del modo in cui lo Stato esercita la sua funzione né dalla forma che assume in un certo periodo e in un certo luogo. Forma e modo di funzionamento sono strettamente collegati al tipo di rapporti - di scambio e di forza (a tutti i livelli) tra le classi. Non potremmo, però, capire molto né di questi né dell’evoluzione dello Stato se non capissimo l’evoluzione del modo di produzione capitalistico. Sebbene ci sia abbondanza di analisi ed interpretazioni della crisi in atto e soprattutto sulla crisi dell’euro, più rare sono le riflessioni sul collegamento tra questa crisi e le modificazioni di lungo periodo attraversate dal capitale. Di conseguenza, spesso le misure proposte – dall’acquisto diretto da parte della Bce di titoli statali europei, alla modifica del ruolo di quest’ultima in prestatore diretto di ultima istanza (sul modello Usa), alla definizione di bilanci e fiscalità veramente comuni fino al ripudio del debito – al di là della validità o meno di questa o quella per tamponare la crisi e stante la giustezza di far pagare il debito ai ricchi e al grande capitale, rimangono legate ad una prospettiva, seppure necessaria, però ancora limitata, difensivista. Soprattutto, sia rispetto all’imperialismo che allo Stato, a me sembra che, in linea di massima, continuiamo a ragionare e a comportarci sul piano politico come se fossimo sostanzialmente in fasi storiche precedenti a quella attuale.

 

Il modo di produzione capitalistico è arrivato, già tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, alla sua fase suprema, quella imperialista. Con suprema si è voluto intendere “ultima”, in realtà il significato più corretto è quello di fase o livello superiore, di maggiore sviluppo in senso capitalistico. Proprio per questo, sviluppo superiore non vuol dire che questo sviluppo non si evolva continuamente, come in effetti è accaduto. Giovanni Arrighi affrontò tale questione in The Geometry of Imperialim1, proprio partendo dal testo di Hobson sull’imperialismo, base anche per l’elaborazione leninista. Secondo Hobson, che scrive prima della Grande guerra, la forza dirigente dell’imperialismo era l’alta finanza, composta di gruppi capitalistici che investivano la liquidità in eccesso nelle colonie e nel debito statale. Caratteristica del capitalismo finanziario era la mobilità estrema dei capitali, determinata dalla forte mondializzazione raggiunta alla fine del XIX secolo, il periodo della belle époque. Con la Prima guerra mondiale la mondializzazione si interruppe e, al posto dell’alta finanza, presero il sopravvento le grandi imprese, favorite dalle enormi spese belliche. Nel trentennio tra la Prima e la Seconda guerra mondiale si sostituisce al capitalismo finanziario il capitalismo di Stato, che trova la sua forma più sviluppata in Germania ed in Italia. Il capitalismo monopolistico di Stato espresse un processo di integrazione tra capitale pubblico e privato, in cui è quest’ultimo il vero dominatore dell’economia nazionale2. Sia il capitalismo finanziario – l’alta finanza – che il capitalismo di Stato – basato sulle grandi imprese – si poggiavano sullo Stato-nazione, ma mentre il primo era per sua natura transnazionale il secondo era fondamentalmente nazionale. Anche in Usa, con il New Deal di Roosve

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