(deutsch / italiano)
La dittatura razzista dell'Euro
0) FLASHBACK: Per chi ha dimenticato l'atto fondativo dell'Euro
1) La regina sul barile di aringhe di Bismarck (di Vittorio Stano)
2) Eurodittatura e nuova Resistenza (di Giorgio Cremaschi)
3) Non possiamo continuare ad investire sulla riformabilità dell'Europa (di Dino Greco)
Auch lesenswert:
Eine sehr deutsche Perspektive (Berlin will Entdemokratisierung der Eurozone – GFP 4/8/2015)
Mit neuen Vorstößen zur Formierung der Eurozone auf der Basis strikter Austeritätspolitik treibt Berlin die von Paris angestoßene EU-Reformdebatte voran. Der französische Präsident hat kürzlich eine alte Idee aus den frühen 1990er Jahren wieder aufgegriffen: Er macht sich für eine prinzipiell demokratisch kontrollierbare Wirtschaftsregierung für die Eurozone stark. Berlin hingegen setzt weiter auf seine Austeritätsdiktate und geht dabei immer offener dazu über, die Entdemokratisierung zentraler Teile staatlicher Wirtschaftspolitik zu fordern...
Si vedano anche:
Nessuna Europa senza la Jugoslavia (di Andrea Martocchia – articolo apparso su Marx21 / L'Ernesto n.3-4/2011)
L'egemonia tedesca
1) Oskar Lafontaine: La supremazia tedesca in Europa. Jean-Luc Mélanchon ha scritto un pamphlet intitolato «Le hareng de Bismarck» (L’aringa di Bismarck)...
2) “Kernel Europa”. Un nucleo centrale franco-tedesco per una Ue a due velocità (di Sergio Cararo)
1) Oskar Lafontaine: La supremazia tedesca in Europa. Jean-Luc Mélanchon ha scritto un pamphlet intitolato «Le hareng de Bismarck» (L’aringa di Bismarck)...
2) “Kernel Europa”. Un nucleo centrale franco-tedesco per una Ue a due velocità (di Sergio Cararo)
La Grecia di oggi rivela il carattere dell'Unione Europea di sempre (di José R. Carvalho, 14 Luglio 2015)
... L'Unione Europea e il sistema imperialista si sono messi a nudo nel caso greco. Ha rivelato, con il loro volto nudo e crudo, il proprio carattere retrogrado e parassitario...
Tragedia greca (di Spartaco A. Puttini per Marx21.it, 16 Luglio 2015)
Un'altra Unione europea non è possibile. L’uscita della Grecia prossima ventura
http://www.marx21.it/internazionale/europa/25876-tragedia-greca.html
http://www.marx21.it/internazionale/europa/25876-tragedia-greca.html
Le lezioni dell’esperienza greca (di João Ferreira, parlamentare europeo del Partito Comunista Portoghese, 1 Agosto 2015)
... Ogni paese che abbia sottoscritto il Trattato di Bilancio, come [l'Italia o] il Portogallo, il quale si trovi in una situazione di inadempimento degli obiettivi in esso contemplati, è, secondo le disposizioni dello stesso Trattato di Bilancio, soggetto agli stessi meccanismi automatici, alla stessa vigilanza dell’UE, alla stessa ingerenza che oggi si prevede per la Grecia... le misure previste per la Grecia potrebbero essere applicate anche in [Italia o] Portogallo o in qualsiasi altro paese con un governo che si sottometta ai dettami del direttorio che comanda nell’UE; che si sottometta alla dittatura dell’euro...
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FLASHBACK
Per chi ha dimenticato l'atto fondativo dell'Euro:
"L’accordo di Maastricht viene siglato pochi giorni prima che la Germania, violando le regole del gioco, imponga ai suoi partner il riconoscimento accelerato di Slovenia e Croazia. (...) La riunione decisiva si svolge a Bruxelles nella notte del 13 dicembre 1991, cioè due giorni dopo la firma del Trattato. Genscher annuncia che la Germania riconoscerà in ogni caso entro Natale Slovenia e Croazia, come annunciato pubblicamente da Kohl qualche giorno prima. Avendo partecipato a quella riunione, ricordo che la mia impressione è che francesi e tedeschi siano d’accordo a essere in disaccordo. Genscher e Dumas fanno il gioco delle parti, ma in realtà i francesi non hanno nessuna intenzione di bloccare i tedeschi. Devono mantenere una posizione di facciata. (...) Che cosa sarebbe successo infatti, in caso di disaccordo? (...) Maastricht sarebbe morto a due giorni dalla nascita..."
Gianni De Michelis
da: La vera storia di Maastricht, in Limes n.3/1996.
Il documento UE numero 1342, seconda parte, del 6/11/1992 indica al di là di ogni dubbio che a Maastricht l'unità europea era stata raggiunta proprio a scapito della Jugoslavia.
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LA REGINA SUL BARILE DI ARINGHE DI BISMARCK
Agli egemoni contabili e maestri di disciplina della diplomazia tedesca è bastata una notte di consultazioni ad oltranza a Bruxelles sul Grexit, per distruggere tutto il capitale che una „Germania migliore“ aveva maturato in decenni.
A causa loro su tutti i media del mondo è ritornato il tedesco cattivo, arrogante e odioso. Ha il viso del ministro delle finanze Schäuble, un tecnico in carrozzella, neppure membro del Parlamento europeo, che al posto del taglio del debito lancia un ultimatum ai greci, alla maniera dei nazisti.
La Germania vuole la capitolazione della Grecia e anche il cambio di regime. Schäuble-Merkel & Gabriel hanno nostalgia dei vecchi e corrotti leader greci di Nea Demokratia e del Pasok. Vogliono la testa di Tsipras.
I mass media tedeschi mainstream fanno finta di meravigliarsi. Si chiedono come mai sempre più cittadini nel mondo ritengono i tedeschi spietati. Gli stessi hanno plasmato nel tempo , la solida maggioranza silenziosa che approva le misure draconiane ispirate dal ministro delle finanze.
Il popolo della rete, invece, chiede le dimissioni di Schäuble (utenti di Twitter: Hashtag #This/sACoup). Sale la marea di cittadini che non accettano il prussianesimo di ritorno della classe politica attuale, espresso dal governo di coalizione CDU-CSU-SPD, che rischia di fare a pezzi l´Europa per la terza volta. Il diktat alla Grecia ha fatto assurgere la Germania ad arrogante potenza dominatrice dalla quale bisogna ben guardarsi e, in ultima istanza, iniziare una rivolta pacifica ma ferma, contro questa dominazione.
È dalla caduta del muro di Berlino che si avverte un cambiamento nella strategia politica della classe dominante. Questa ha plasmato man mano un´opinione pubblica che ritiene il progetto europeo dei padri costituenti superato dai fatti. Una maggioranza silenziosa trasversale ritiene che la Germania si è lasciata trascinare nell´euro e nell´unità europea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale. Iniziarono Kohl e Genscher annettendo a tambur battente la DDR, proseguirono giocando un ruolo importante nello smembramento della Jugoslavia, rallentarono l´impegno verso l´integrazione progressiva dei Paesi EU e mostrarono eccessivo impegno nel cooptare nuovi adepti: i paesi dell´est europeo. Anche se la Merkel lo dissimula, nei fatti è il ritorno della „questione tedesca“. Dopo 25 anni di camuffamenti la classe politica attuale si fa riconoscere come discendente in linea diretta dagli Junker prussiani. Come questi, Merkel-Gabriel & co. accompagnano le spinte espansionistiche della loro Volkswirtschaft a una violenta svolta conservatrice. In Europa la Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la Prussia nell´unificazione della Germania. L´amore dei tedeschi per Bismarck viene adeguatamente nutrito e alimentato dai mass-media.
L´ex cancelliere Schröder in una intervista allo Spiegel di alcune settimane fa magnificava il talento politico del cancelliere di ferro assertore di una autorità statale che portò ai limiti della dittatura. Usò la forza determinante dell´esercito nelle relazioni internazionali, represse senza molto successo cattolici e socialisti e rese inevitabile il conflitto con la Francia. Con la vittoria sulla Francia realizzò l´unità spirituale e politica della Germania sotto la guida della Prussia e ottenne il conferimento trionfale a Guglielmo I della corona del nuovo impero germanico proclamato a Versailles nel gennaio del 1871. I francesi rabbrividiscono solo a ricordarsi di tutto questo. Oggi la Germania tenta di giocare la carta della prussianizzazione dell´Europa.
Nel maggio 2014 a Stralsund, durante la consultazione Germania-Francia, la cancelliera mandava un perfido messaggio a un esterrefatto Hollande, attraverso un regalo spiritualmente limitato: un barile di aringhe di marchio Bismarck. Il messaggio subliminale era: come ai tempi di Bismarck, la Francia lotta contro la sua inferiorità di fronte al suo vicino dell´est. E, come all´epoca, è un cancelliere „di bronzo“ che governa a Berlino. Quindi francesi!, accettate la nostra superiorità senza fare tante storie. Solo una mente gretta può sacrificare con tanta perfidia, per solo tornaconto economico tedesco, i valori europei che furono i fondamentali della Rivoluzione Francese: Liberté-Egalité-Fraternité. La Merkel non sa che farsene del progetto europeo dei padri fondatori, figuriamoci che se ne fa della politica e della cultura francese. Le sono proprio estranee.
L´imperialismo pedagogico della Merkel, ha i suoi principi, le sue regole educative che vengono somministrate agli „scolaretti europei“ (1). Al momento opportuno, per la Germania, queste vengono imposte con rigore e disciplina prussiani. Compiti a casa lei li chiama, ma la riforma del mercato del lavoro e le privatizzazioni selvagge sono un vero cappio al collo per i popoli della zona euro dell´area mediterranea.
La richiesta/ordine di realizzare la riforma del mercato del lavoro (in Italia chiamata col concetto italianissimo di Jobs Act) sul modello Hartz IV in Germania, nei fatti ovunque significa cancellazione di diritti conquistati dai lavoratori europei con decenni di dure lotte e colpire duramente i loro organi di rappresentanza: i sindacati. Viene spontaneo chiedersi: ma cosa hanno fatto di male i lavoratori europei e i loro sindacati alla Merkel e alla Germania, per dover espiare colpe commesse da politici corrotti e creditori (speculatori!) cinici e senza scrupoli?
Le privatizzazioni selvagge verranno realizzate per volere della Troika, dice la regina d´Europa troneggiante su un barile di aringhe-Bismarck di Stralsund. Saranno gli investitori (alias: i pescecani della finanza e delle imprese multinazionali) che andranno a sequestrare nei paesi indebitati, non le imprese decotte e fuori mercato, ma quello che resta di pignorabile, compresi i pochi gioielli di famiglia, se non sono stati già venduti.
La Germania della Merkel è pronta a „proteggere“, nel senso di dichiarare questi Paesi loro Protettorati. Noi europei siamo „fortunati“ ad avere una regina ben intenzionata nei nostri confronti. Da brava pedagogista della „Gestalt“, vuole plasmare con le sue mani il continente. Per fare questo ha bisogno di più tempo, per questo nel 2017 vuole candidarsi per la quarta volta. Se fallisce l´euro, fallisce l´Europa!, continua a ripetere come un mantra la cancelliera. È chiaro come il sole che l´euro non deve fallire perché è questo che ha garantito l´esportazione dei prodotti tedeschi nell´eurozona. Un ritorno al marco e la conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nel mondo. E se prendesse piede l´appello lanciato dal popolo della rete di boicottare i prodotti tedeschi? (Hashtag #BoykottGermany).
L`Europa ha bisogno di un nuovo contratto sociale. Tocca alla Germania farsi promotrice di consenso tra i 28 membri dell´Unione, esercitando con saggezza e lungimiranza l´egemonia mite che le competerebbe, evitando di dare ordini perentori che offendono la dignità dei popoli. Il paese più ricco dovrebbe impegnarsi per quelli che soffrono la crisi. Ottantadue milioni di cittadini dovrebbero pretendere dalla classe politica di assumersi la responsabilità di salvare l´Europa dopo averla affondata due volte nel passato. Ma la classe politica attuale, sembra non voglia essere legittimata a svolgere questo ruolo di potenza mite. È prigioniera di un´opinione pubblica reazionaria che minaccia di votare contro nelle elezioni. Ma questa opinione pubblica l´hanno forgiata loro, giorno dopo giorno, coi loro discorsi, prese di posizione, in parlamento, in TV e nei giornali, per nascondere che l´euro (ritenuto inutile e controproducente per la Germania dall´ex socialdemocratico ed ex membro del Direttorio della Deutsche Bundesbank Thilo Sarrazin e dai milioni di suoi „adoratori“ e lettori dei suoi libri!) si è rivelato in realtà il più importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione per la Germania. È l´euro che ha permesso la metamorfosi del progetto europeo, passato dal perseguimento di una Germania europea voluto dai padri costituenti e da alcune centinaia di milioni di cittadini europei, in una aborrita Europa tedesca. Manca, fino ad oggi, un´alternativa alla politica ordoliberale della Merkel e di Schäuble. Il partito che fu di Willy Brandt dovrebbe uscire dall´angolo nel quale si cacciò approvando l´Agenda 2010. La sinistra tedesca, tutta-anche i Linke, dovrebbe entrare nell´ordine delle idee che il nazionalismo delle esportazioni grava sulle spalle die vicini e che non deve cercare il consenso degli elettori su questo tema. Steinmeier e Gabriel non sembrano intenzionati a inaugurare una nuova stagione politica in Europa. Sono attualmente succubi del programma del padronato che nei fatti crea spazio per il ritorno dell´imperialismo tedesco in Europa e nel mondo. Dovrebbero rifiutare la dominazione tedesca in Europa, voluta dagli americani. Finché i tedeschi saranno vassalli degli Statunitensi, l´Europa sarà serva di interessi economici che si sovrappongono o sono in contrasto con i propri. Basta pensare allo scandalo NSA e all´approvazione in sordina del TTIP. È come essere diventati sordi e muti di fronte a un pericolo che sta distruggendo il processo unitario europeo e che allontana le classi politiche dai popoli.
Già ora la regina d´Europa siede sul cumulo di rovine del progetto europeo perseguito da 70 anni. Perseverando, i cocci non saranno più riparabili.
VITTORIO STANO, Hannover
Note:
(1) Scolaretti europei. Il più diligente di questi è Renzi. Con la Merkel esordí regalandole la maglietta di Gomez, attaccante della Fiorentina. Il semestre europeo lo condusse in maniera scialba. La Merkel lo apprezza perché è innocuo. Anche Renzi si atteggia ad educatore. È esilarante la sua uscita in televisione davanti a una lavagnetta antidiluviana, munito di bacchetta e gessetto bianco. Voleva spiegare agli italiani la ricchezza culturale del Belpaese e l´attualità della Cultura Umanistica. Alla lavagna aveva scritto: Cultura Umanista. Nella sua retorica ampollosa e vuota ripeteva diverse volte Cultura Umanista...Qualcuno gli ha spiegato, in seguito, che si dice Cultura Umanistica. Quindi lo scolaretto che si atteggia a maestrino, impari l´italiano! Per questo presidente del consiglio i problemi del Paese sono più grandi di lui. Renzi è a digiuno di politica monetaria. Con la sua strategia improvvisata, in questa fase storica, è una minaccia nazionale. Fino a poco tempo fa si occupava di sensi unici e zone pedonali in quella di Firenze. Non è adatto a governare un Paese di 60 milioni di cittadini in un periodo in cui tremano i polsi , nel governare la crisi, ai pesi massimi della politica mondiale. Ciò che oggi vale per Tsipras, domani varrà per Renzi. Dovrebbe dimettersi e fare posto a chi ha più esperienza di lui.
Agli egemoni contabili e maestri di disciplina della diplomazia tedesca è bastata una notte di consultazioni ad oltranza a Bruxelles sul Grexit, per distruggere tutto il capitale che una „Germania migliore“ aveva maturato in decenni.
A causa loro su tutti i media del mondo è ritornato il tedesco cattivo, arrogante e odioso. Ha il viso del ministro delle finanze Schäuble, un tecnico in carrozzella, neppure membro del Parlamento europeo, che al posto del taglio del debito lancia un ultimatum ai greci, alla maniera dei nazisti.
La Germania vuole la capitolazione della Grecia e anche il cambio di regime. Schäuble-Merkel & Gabriel hanno nostalgia dei vecchi e corrotti leader greci di Nea Demokratia e del Pasok. Vogliono la testa di Tsipras.
I mass media tedeschi mainstream fanno finta di meravigliarsi. Si chiedono come mai sempre più cittadini nel mondo ritengono i tedeschi spietati. Gli stessi hanno plasmato nel tempo , la solida maggioranza silenziosa che approva le misure draconiane ispirate dal ministro delle finanze.
Il popolo della rete, invece, chiede le dimissioni di Schäuble (utenti di Twitter: Hashtag #This/sACoup). Sale la marea di cittadini che non accettano il prussianesimo di ritorno della classe politica attuale, espresso dal governo di coalizione CDU-CSU-SPD, che rischia di fare a pezzi l´Europa per la terza volta. Il diktat alla Grecia ha fatto assurgere la Germania ad arrogante potenza dominatrice dalla quale bisogna ben guardarsi e, in ultima istanza, iniziare una rivolta pacifica ma ferma, contro questa dominazione.
È dalla caduta del muro di Berlino che si avverte un cambiamento nella strategia politica della classe dominante. Questa ha plasmato man mano un´opinione pubblica che ritiene il progetto europeo dei padri costituenti superato dai fatti. Una maggioranza silenziosa trasversale ritiene che la Germania si è lasciata trascinare nell´euro e nell´unità europea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale. Iniziarono Kohl e Genscher annettendo a tambur battente la DDR, proseguirono giocando un ruolo importante nello smembramento della Jugoslavia, rallentarono l´impegno verso l´integrazione progressiva dei Paesi EU e mostrarono eccessivo impegno nel cooptare nuovi adepti: i paesi dell´est europeo. Anche se la Merkel lo dissimula, nei fatti è il ritorno della „questione tedesca“. Dopo 25 anni di camuffamenti la classe politica attuale si fa riconoscere come discendente in linea diretta dagli Junker prussiani. Come questi, Merkel-Gabriel & co. accompagnano le spinte espansionistiche della loro Volkswirtschaft a una violenta svolta conservatrice. In Europa la Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la Prussia nell´unificazione della Germania. L´amore dei tedeschi per Bismarck viene adeguatamente nutrito e alimentato dai mass-media.
L´ex cancelliere Schröder in una intervista allo Spiegel di alcune settimane fa magnificava il talento politico del cancelliere di ferro assertore di una autorità statale che portò ai limiti della dittatura. Usò la forza determinante dell´esercito nelle relazioni internazionali, represse senza molto successo cattolici e socialisti e rese inevitabile il conflitto con la Francia. Con la vittoria sulla Francia realizzò l´unità spirituale e politica della Germania sotto la guida della Prussia e ottenne il conferimento trionfale a Guglielmo I della corona del nuovo impero germanico proclamato a Versailles nel gennaio del 1871. I francesi rabbrividiscono solo a ricordarsi di tutto questo. Oggi la Germania tenta di giocare la carta della prussianizzazione dell´Europa.
Nel maggio 2014 a Stralsund, durante la consultazione Germania-Francia, la cancelliera mandava un perfido messaggio a un esterrefatto Hollande, attraverso un regalo spiritualmente limitato: un barile di aringhe di marchio Bismarck. Il messaggio subliminale era: come ai tempi di Bismarck, la Francia lotta contro la sua inferiorità di fronte al suo vicino dell´est. E, come all´epoca, è un cancelliere „di bronzo“ che governa a Berlino. Quindi francesi!, accettate la nostra superiorità senza fare tante storie. Solo una mente gretta può sacrificare con tanta perfidia, per solo tornaconto economico tedesco, i valori europei che furono i fondamentali della Rivoluzione Francese: Liberté-Egalité-Fraternité. La Merkel non sa che farsene del progetto europeo dei padri fondatori, figuriamoci che se ne fa della politica e della cultura francese. Le sono proprio estranee.
L´imperialismo pedagogico della Merkel, ha i suoi principi, le sue regole educative che vengono somministrate agli „scolaretti europei“ (1). Al momento opportuno, per la Germania, queste vengono imposte con rigore e disciplina prussiani. Compiti a casa lei li chiama, ma la riforma del mercato del lavoro e le privatizzazioni selvagge sono un vero cappio al collo per i popoli della zona euro dell´area mediterranea.
La richiesta/ordine di realizzare la riforma del mercato del lavoro (in Italia chiamata col concetto italianissimo di Jobs Act) sul modello Hartz IV in Germania, nei fatti ovunque significa cancellazione di diritti conquistati dai lavoratori europei con decenni di dure lotte e colpire duramente i loro organi di rappresentanza: i sindacati. Viene spontaneo chiedersi: ma cosa hanno fatto di male i lavoratori europei e i loro sindacati alla Merkel e alla Germania, per dover espiare colpe commesse da politici corrotti e creditori (speculatori!) cinici e senza scrupoli?
Le privatizzazioni selvagge verranno realizzate per volere della Troika, dice la regina d´Europa troneggiante su un barile di aringhe-Bismarck di Stralsund. Saranno gli investitori (alias: i pescecani della finanza e delle imprese multinazionali) che andranno a sequestrare nei paesi indebitati, non le imprese decotte e fuori mercato, ma quello che resta di pignorabile, compresi i pochi gioielli di famiglia, se non sono stati già venduti.
La Germania della Merkel è pronta a „proteggere“, nel senso di dichiarare questi Paesi loro Protettorati. Noi europei siamo „fortunati“ ad avere una regina ben intenzionata nei nostri confronti. Da brava pedagogista della „Gestalt“, vuole plasmare con le sue mani il continente. Per fare questo ha bisogno di più tempo, per questo nel 2017 vuole candidarsi per la quarta volta. Se fallisce l´euro, fallisce l´Europa!, continua a ripetere come un mantra la cancelliera. È chiaro come il sole che l´euro non deve fallire perché è questo che ha garantito l´esportazione dei prodotti tedeschi nell´eurozona. Un ritorno al marco e la conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nel mondo. E se prendesse piede l´appello lanciato dal popolo della rete di boicottare i prodotti tedeschi? (Hashtag #BoykottGermany).
L`Europa ha bisogno di un nuovo contratto sociale. Tocca alla Germania farsi promotrice di consenso tra i 28 membri dell´Unione, esercitando con saggezza e lungimiranza l´egemonia mite che le competerebbe, evitando di dare ordini perentori che offendono la dignità dei popoli. Il paese più ricco dovrebbe impegnarsi per quelli che soffrono la crisi. Ottantadue milioni di cittadini dovrebbero pretendere dalla classe politica di assumersi la responsabilità di salvare l´Europa dopo averla affondata due volte nel passato. Ma la classe politica attuale, sembra non voglia essere legittimata a svolgere questo ruolo di potenza mite. È prigioniera di un´opinione pubblica reazionaria che minaccia di votare contro nelle elezioni. Ma questa opinione pubblica l´hanno forgiata loro, giorno dopo giorno, coi loro discorsi, prese di posizione, in parlamento, in TV e nei giornali, per nascondere che l´euro (ritenuto inutile e controproducente per la Germania dall´ex socialdemocratico ed ex membro del Direttorio della Deutsche Bundesbank Thilo Sarrazin e dai milioni di suoi „adoratori“ e lettori dei suoi libri!) si è rivelato in realtà il più importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione per la Germania. È l´euro che ha permesso la metamorfosi del progetto europeo, passato dal perseguimento di una Germania europea voluto dai padri costituenti e da alcune centinaia di milioni di cittadini europei, in una aborrita Europa tedesca. Manca, fino ad oggi, un´alternativa alla politica ordoliberale della Merkel e di Schäuble. Il partito che fu di Willy Brandt dovrebbe uscire dall´angolo nel quale si cacciò approvando l´Agenda 2010. La sinistra tedesca, tutta-anche i Linke, dovrebbe entrare nell´ordine delle idee che il nazionalismo delle esportazioni grava sulle spalle die vicini e che non deve cercare il consenso degli elettori su questo tema. Steinmeier e Gabriel non sembrano intenzionati a inaugurare una nuova stagione politica in Europa. Sono attualmente succubi del programma del padronato che nei fatti crea spazio per il ritorno dell´imperialismo tedesco in Europa e nel mondo. Dovrebbero rifiutare la dominazione tedesca in Europa, voluta dagli americani. Finché i tedeschi saranno vassalli degli Statunitensi, l´Europa sarà serva di interessi economici che si sovrappongono o sono in contrasto con i propri. Basta pensare allo scandalo NSA e all´approvazione in sordina del TTIP. È come essere diventati sordi e muti di fronte a un pericolo che sta distruggendo il processo unitario europeo e che allontana le classi politiche dai popoli.
Già ora la regina d´Europa siede sul cumulo di rovine del progetto europeo perseguito da 70 anni. Perseverando, i cocci non saranno più riparabili.
VITTORIO STANO, Hannover
Note:
(1) Scolaretti europei. Il più diligente di questi è Renzi. Con la Merkel esordí regalandole la maglietta di Gomez, attaccante della Fiorentina. Il semestre europeo lo condusse in maniera scialba. La Merkel lo apprezza perché è innocuo. Anche Renzi si atteggia ad educatore. È esilarante la sua uscita in televisione davanti a una lavagnetta antidiluviana, munito di bacchetta e gessetto bianco. Voleva spiegare agli italiani la ricchezza culturale del Belpaese e l´attualità della Cultura Umanistica. Alla lavagna aveva scritto: Cultura Umanista. Nella sua retorica ampollosa e vuota ripeteva diverse volte Cultura Umanista...Qualcuno gli ha spiegato, in seguito, che si dice Cultura Umanistica. Quindi lo scolaretto che si atteggia a maestrino, impari l´italiano! Per questo presidente del consiglio i problemi del Paese sono più grandi di lui. Renzi è a digiuno di politica monetaria. Con la sua strategia improvvisata, in questa fase storica, è una minaccia nazionale. Fino a poco tempo fa si occupava di sensi unici e zone pedonali in quella di Firenze. Non è adatto a governare un Paese di 60 milioni di cittadini in un periodo in cui tremano i polsi , nel governare la crisi, ai pesi massimi della politica mondiale. Ciò che oggi vale per Tsipras, domani varrà per Renzi. Dovrebbe dimettersi e fare posto a chi ha più esperienza di lui.
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Eurodittatura e nuova Resistenza
di Giorgio Cremaschi, 31 Luglio 2015
Un sondaggio commissionato dalla CGIL delinea il porto delle nebbie ove si è incagliata la democrazia italiana. Una maggioranza schiacciante della popolazione esprime un giudizio senza appello sulla Unione Europea e sull'Euro. Essi ci hanno danneggiato economicamente e ci impongono regole che distruggono le nostre libertà. L'80% degli intervistati la pensa in questo modo e la vicenda greca ne ha rafforzato le convinzioni. Nello stesso tempo però si è anche rafforzata la maggioranza di chi non vuole cambiare nulla e teme il salto nel buio di ogni rottura con le istituzioni europee e con la moneta unica. Stiamo perdendo e continueremo a perdere sia sul piano delle condizioni di vita che della stessa democrazia, ma non abbiamo alternative alla resa. La rassegnazione alla inevitabilità del peggioramento delle proprie condizioni di vita e di libertà, assieme al timore a reagire, sono il brodo di coltura di ogni operazione autoritaria. Operazione a cui il sistema economico politico che chiamiamo Europa è perfettamente funzionale.
Oramai è evidente che nella Unione Europea un solo parlamento è sovrano, cioè può decidere sulla base dei mandati ricevuti da chi lo ha eletto, ed è ovviamente quello della Germania. Tutte le altre assemblee dei rappresentanti, seppure in diversa misura, sono sottoposte al vincolo della compatibilità delle proprie decisioni con quelle delle istituzioni europee.
Spesso gli europeisti ingenui spiegano che il male dell'Europa sarebbe l'unione monetaria in assenza di una unione politica. È una sciocchezza. L'attuale sistema europeo è prima di tutto un sistema politico ove si prendono decisioni politiche. La scelta di affamare e poi sottomettere la Grecia ad un memorandum devastatore e anche antieconomico, come ricorda l'insospettabile Fondo Monetario Internazionale, è stata squisitamente politica. Il sistema di potere europeo doveva punire il governo che aveva osato contrastarlo e ancora di più il popolo, che con oltre il 60% aveva detto no ai suoi diktat.
Giusto quindi il paragone con il trattato di Versailles, che per ragioni politiche nel 1919 impose alla Germania dei vincoli insostenibili sul piano economico. Non è dunque vero che l'Europa politica non esista e che bisognerebbe costruirla per contrastare lo strapotere dei mercati. L'Europa politica esiste, è quella che ha schiacciato la Grecia e che le ha imposto un governo coloniale. L'Europa politica esiste: è un protettorato della Germania che adotta le politiche di austerità prima di tutto perché esse servono all'interno del paese guida. I salari dei lavoratori tedeschi sono compressi da anni, se c' è un paese dove ingiustizie sociali e corruzione son cresciuti a dismisura questo è proprio la Germania. Le classi dirigenti tedesche han bisogno come il pane dell'austerità, prima di tutto per controllare il proprio popolo e per questo devono poi imporla a tutta l'Europa.
Le istituzioni, i trattati, la gestione concreta del potere europeo sono la costituzionalizzazione delle politiche liberiste di austerità in tutto il continente. La moneta unica a sua volta è il veicolo materiale delle politiche di austerità, non è separabile da esse, come ci ha ricordato il ministro tedesco Schauble.
Ma la moneta unica ha anche una enorme funzione ideologica. Se nel sistema autoritario europeo vediamo delinearsi il più pericoloso attacco alla democrazia dal 1945 ad oggi, nell'ideologia della moneta unica vediamo risorgere i mostri dell'identità razziale.
L'euro è sempre più venduto come una moneta razzista. Chi la possiede o, anche senza possederne, sta in uno stato che l'adotta, vive nella parte giusta del mondo. L'euro è la moneta dei ricchi e austeri popoli del Nord, non vorranno i fannulloni e corrotti meridionali abbandonarla per finire in Africa? Questo il messaggio subliminale della minaccia di Grexit rivolta al governo Tsipras, che di fronte ad essa, invece che raccogliere la sfida, si è arreso.
L'Euro è la moneta dei popoli superiori e quelli inferiori devono perciò meritarla. Come stupirci che di fronte a questo eurorazzismo distillato dalle élites e dai mass media, poi ci siano coloro che fanno i pogrom contro i migranti? Tutto si tiene. Il ricatto contro i popoli, o euro e austerità o l'Africa, finora ha funzionato anche perché le principali correnti politiche di governo se ne sono fatte portatrici. Le grandi famiglie democristiana e socialdemocratica sono al governo in tutta Europa e l'unico governo estraneo ad esse, quello di Syriza, è stato per l'appunto umiliato.
D'altra parte le borghesie nazionali non esistono più, in particolare nei paesi debitori come Italia, Spagna Grecia. I resti dei vertici delle classi imprenditoriali di questi paesi sono oramai parti e appendici del sistema finanziario multinazionale.
Si delinea così la vera Troika che governa l'Europa, che si regge su tre gambe. Quella della Germania, quella delle borghesie europee transnazionali, quella del sistema di potere dei partiti popolare e socialdemocratico. È un potere ed un progetto politico europeo quello che ha massacrato e usato come cavia la Grecia. Un potere che vuol governare l'Europa con austerità e liberismo e per questo è disposto a cancellare molto della democrazia.
Non tutto? Certo sino ad ora, ma come insegna la storia quando si imbocca la via autoritaria non si sa mai dove ci sia il punto di arresto. Un fascismo bianco liberaleggiante e tecnocratico, o uno brutale e apertamente razzista? Nella Germania del 1930 non si poteva prevedere cosa sarebbe successo. Ma i mostri son già tutti in campo e la loro fabbrica sta nell'umiliazione della democrazia contenuta in ogni atto del sistema politico europeo
La vicenda greca ci consegna un lezione chiarissima. Questa Europa non è riformabile, o la si accetta così come è sperando che non esageri in dittatura. Oppure si organizza la resistenza per rompere la moneta unica e tutto il sistema politico UE e ricostruire su nuove basi la democrazia e lo stato sociale. Tertium non datur.
Proprio di questa sua irriformabilità il sistema di potere europeo a trazione tedesca ha finora fatto largo uso per vincere tante battaglie. O mangi sta minestra o salti dalla finestra sta oramai scritto nella bandiera azzurra stellata che sventola nei pubblici edifici. Ma se, come sempre è avvenuto nel passato, fosse proprio l'irriformabilità del potere la causa della sua sconfitta finale? Su questo devono contare le resistenze alla Troika che si stanno organizzando in ogni paese.
Giorgio Cremaschi
Oramai è evidente che nella Unione Europea un solo parlamento è sovrano, cioè può decidere sulla base dei mandati ricevuti da chi lo ha eletto, ed è ovviamente quello della Germania. Tutte le altre assemblee dei rappresentanti, seppure in diversa misura, sono sottoposte al vincolo della compatibilità delle proprie decisioni con quelle delle istituzioni europee.
Spesso gli europeisti ingenui spiegano che il male dell'Europa sarebbe l'unione monetaria in assenza di una unione politica. È una sciocchezza. L'attuale sistema europeo è prima di tutto un sistema politico ove si prendono decisioni politiche. La scelta di affamare e poi sottomettere la Grecia ad un memorandum devastatore e anche antieconomico, come ricorda l'insospettabile Fondo Monetario Internazionale, è stata squisitamente politica. Il sistema di potere europeo doveva punire il governo che aveva osato contrastarlo e ancora di più il popolo, che con oltre il 60% aveva detto no ai suoi diktat.
Giusto quindi il paragone con il trattato di Versailles, che per ragioni politiche nel 1919 impose alla Germania dei vincoli insostenibili sul piano economico. Non è dunque vero che l'Europa politica non esista e che bisognerebbe costruirla per contrastare lo strapotere dei mercati. L'Europa politica esiste, è quella che ha schiacciato la Grecia e che le ha imposto un governo coloniale. L'Europa politica esiste: è un protettorato della Germania che adotta le politiche di austerità prima di tutto perché esse servono all'interno del paese guida. I salari dei lavoratori tedeschi sono compressi da anni, se c' è un paese dove ingiustizie sociali e corruzione son cresciuti a dismisura questo è proprio la Germania. Le classi dirigenti tedesche han bisogno come il pane dell'austerità, prima di tutto per controllare il proprio popolo e per questo devono poi imporla a tutta l'Europa.
Le istituzioni, i trattati, la gestione concreta del potere europeo sono la costituzionalizzazione delle politiche liberiste di austerità in tutto il continente. La moneta unica a sua volta è il veicolo materiale delle politiche di austerità, non è separabile da esse, come ci ha ricordato il ministro tedesco Schauble.
Ma la moneta unica ha anche una enorme funzione ideologica. Se nel sistema autoritario europeo vediamo delinearsi il più pericoloso attacco alla democrazia dal 1945 ad oggi, nell'ideologia della moneta unica vediamo risorgere i mostri dell'identità razziale.
L'euro è sempre più venduto come una moneta razzista. Chi la possiede o, anche senza possederne, sta in uno stato che l'adotta, vive nella parte giusta del mondo. L'euro è la moneta dei ricchi e austeri popoli del Nord, non vorranno i fannulloni e corrotti meridionali abbandonarla per finire in Africa? Questo il messaggio subliminale della minaccia di Grexit rivolta al governo Tsipras, che di fronte ad essa, invece che raccogliere la sfida, si è arreso.
L'Euro è la moneta dei popoli superiori e quelli inferiori devono perciò meritarla. Come stupirci che di fronte a questo eurorazzismo distillato dalle élites e dai mass media, poi ci siano coloro che fanno i pogrom contro i migranti? Tutto si tiene. Il ricatto contro i popoli, o euro e austerità o l'Africa, finora ha funzionato anche perché le principali correnti politiche di governo se ne sono fatte portatrici. Le grandi famiglie democristiana e socialdemocratica sono al governo in tutta Europa e l'unico governo estraneo ad esse, quello di Syriza, è stato per l'appunto umiliato.
D'altra parte le borghesie nazionali non esistono più, in particolare nei paesi debitori come Italia, Spagna Grecia. I resti dei vertici delle classi imprenditoriali di questi paesi sono oramai parti e appendici del sistema finanziario multinazionale.
Si delinea così la vera Troika che governa l'Europa, che si regge su tre gambe. Quella della Germania, quella delle borghesie europee transnazionali, quella del sistema di potere dei partiti popolare e socialdemocratico. È un potere ed un progetto politico europeo quello che ha massacrato e usato come cavia la Grecia. Un potere che vuol governare l'Europa con austerità e liberismo e per questo è disposto a cancellare molto della democrazia.
Non tutto? Certo sino ad ora, ma come insegna la storia quando si imbocca la via autoritaria non si sa mai dove ci sia il punto di arresto. Un fascismo bianco liberaleggiante e tecnocratico, o uno brutale e apertamente razzista? Nella Germania del 1930 non si poteva prevedere cosa sarebbe successo. Ma i mostri son già tutti in campo e la loro fabbrica sta nell'umiliazione della democrazia contenuta in ogni atto del sistema politico europeo
La vicenda greca ci consegna un lezione chiarissima. Questa Europa non è riformabile, o la si accetta così come è sperando che non esageri in dittatura. Oppure si organizza la resistenza per rompere la moneta unica e tutto il sistema politico UE e ricostruire su nuove basi la democrazia e lo stato sociale. Tertium non datur.
Proprio di questa sua irriformabilità il sistema di potere europeo a trazione tedesca ha finora fatto largo uso per vincere tante battaglie. O mangi sta minestra o salti dalla finestra sta oramai scritto nella bandiera azzurra stellata che sventola nei pubblici edifici. Ma se, come sempre è avvenuto nel passato, fosse proprio l'irriformabilità del potere la causa della sua sconfitta finale? Su questo devono contare le resistenze alla Troika che si stanno organizzando in ogni paese.
Giorgio Cremaschi
=== 3 ===
Non possiamo continuare ad investire sulla riformabilità dell'Europa
di Dino Greco, 2 Agosto 2015
I fatti hanno la testa dura. Il vecchio proverbio inglese era stato fin qui ignorato dall'ambiente storicamente riconducibile a Rifondazione Comunista. La difese d'ufficio della "capriola" di Tsipras, dopo la resa senza condizioni firmata nella notte tra il 12 e il 13 luglio, sono state quanto di meno intelligente - e di meno comunista - si sia potuto leggere sull'argomento. Il ritornello "non c'era alternativa" è stato ripetuto fino alla raucedine, nel disperato tentativo di trasformare una dura sconfitta in un mezzo pareggio, se non addirittura in una quasi vittoria.
Ma i fatti hanno la testa dura. Questo intervento di Dino Greco, ultimo direttore di Liberazione, apparsa su http://www.controlacrisi.org, segna una prima presa d'atto che l'Unione Europea non è riformabile e che vada superata con una rottura. Un passo non fa un cammino, certamente. Com'è noto, a noi la strada del "nazionalismo democratico" sembra decisamente troppo stretta e costellata di possibili equivoci; ed è altrettanto noto che ci sembra decisamente più realistica quella di una libera comunità di Stati sul modello dell'Alba latino-americana.
Ma un passo nella direzione giusta è sempre da salutare con rispetto e attenzione. Perché, quantomeno, non aggiunge un altro metro sulla strada che porta al suicidio.
*****
La cosa più semplice, diretta e, purtroppo, definitiva l’ha detta Lucio Carracciolo (direttore di Limes), quando ha scritto che dopo l’accordo della capitolazione “la Grecia cessa di esistere come Stato indipendente”.
Non ancora nella forma, ma certo nella sostanza. “Restano i Greci”, ma espropriati di tutto: della giurisdizione politica, economica, sociale.
Ciò perché l’intesa ha il carattere, neppure dissimulato, di una resa senza condizioni.
E’ davvero come se il board dell’Ue fosse entrato ad Atene alla guida dei tanks col mandato di non fare prigionieri e il signor Schauble avesse infine messo il suo sigillo sull’occupazione sbattendo sulla bilancia la “spada di Brenno”.
Il congegno del diktat è concepito per prefigurare una colonizzazione stabile del paese, la sua trasformazione in un protettorato su cui veglia la resuscitata troika, i cui funzionari, prima ripudiati dal governo greco, torneranno come cani da guardia a controllare l’attuazione di ogni singolo punto dell’accordo, prima ancora che su di esso si pronunci (pletoricamente) il parlamento preso in ostaggio insieme al popolo di Grecia.
Evito di riassumere qui l’impressionante incalzare del diktat, i contenuti scolpiti nelle 7 pagine del nuovo memorandum. Alla condizione però che essi siano tenuti ben presenti. Perché c’è un antico vizio, nella sinistra, ed è la tendenza a rimuovere le sconfitte (in questo caso la drammatica materialità di quell’intesa) per “buttarla in politica” e assolversi dall’urgenza di una rielaborazione critica delle proprie tesi.
Di questa pessima abitudine ha in questi giorni libero corso una versione ancor più paradossale, quella secondo cui l’accordo è una tagliola talmente pesante da non potere essere applicata: dunque - sento dire - è come se non esistesse!
Invece l’accordo esiste eccome, come esistono i pretoriani (gli euroburocrati di Bruxelles e Berlino) che vegliano al minuto su ciascun atto legislativo al fine di garantirne la meticolosa applicazione.
Vorrei essere chiaro su un punto preliminare: la questione non si pone in termini di “tradimento”, scorciatoia fuorviante di ogni querelle che annega il dibattito a sinistra in un mare di inutili e autolesionistici insulti.
Tsipras non è Vidkun Quisling. Semmai è una figura tragica che i fatti rischiano di trasformare nell’esecutore testamentario del referendum.
Alla radice dell’esito del lungo braccio di ferro c’è un errore (fatale) di comprensione teorica della realtà dell’Unione europea, errore del quale la stessa sinistra radicale italiana divide la paternità.
L’errore è consistito (consiste?) nel ritenere che con la Commissione europea, con la Bce, con il Fmi sia possibile negoziare la fine (o almeno l’attenuazione) dell’austerity.
Un po’ come se una vittima dei “cravattari” si illudesse di potere concordare con i propri aguzzini la fine dell’usura.
Ricordo, per inciso, che quasi tutta la sinistra italiana aveva creduto che le dimissioni di Varoufakis, intervenute dopo la vittoria nel referendum e prima che se ne conoscessero le reali ragioni, potessero essere un viatico positivo per l’accordo, quasi che ad impedirlo fosse ormai soltanto un conflitto di caratteri fra i ministri delle finanze greco e tedesco!
Il fatto che non si dovrebbe mai dimenticare è che l’austerity non è altro che la principale missione politica delle classi dominanti europee (privatizzazione integrale, abolizione del welfare, deflazione salariale, concentrazione di potere e ricchezza, mercatismo assoluto, ecc.). E che l’architettura congegnata per rendere inespugnabile questo modo dell’accumulazione, dell’appropriazione privata, dell’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro non può essere incrinata con il consenso dei suoi artefici che in quel caso vedrebbero messa in discussione la propria ragione di esistenza.
Non avere compreso l’irriducibilità del proprio antagonista ha fatto ritenere che la ragionevolezza delle proprie posizioni, il carattere manifestamente ingiusto e per giunta inefficace delle misure imposte sino ad allora alla Grecia potesse dischiudere la porta ad un’intesa positiva. Nulla di più illusorio.
La trattativa si è svolta su un binario a senso unico, con la dichiarazione condivisa che i trattati europei, a partire dalla moneta, non erano in discussione, e che l’accordo si sarebbe potuto raggiungere solo entro e non al di fuori del perimetro dato.
Poi, una volta scoperto che davanti c’era un muro invalicabile si è detto che la sproporzione nei rapporti di forza era talmente grande da non consentire un esito diverso e che la firma era obbligata.
Ma che i rapporti di forza fossero questi e non altri era ben noto a tutti sin dall’inizio, anche quando si davano per certe la fine dell’austerity e la sconfitta della troika.
E allora? Il fatto è che ad una ipotesi alternativa, ad un’altra via d’uscita, che mettesse in conto di non firmare la capitolazione anche a prezzo di subire l’uscita dall’euro non si è mai pensato, se non in chiave di tattica negoziale (Varoufakis), anch’essa rigettata dalla maggioranza della segreteria di Syriza.
La convinzione che non esistesse una via d’uscita ha fatto sì che la straripante vittoria dell’oki sia stata paradossalmente usata non per sfidare la troika, ma per rendere le armi, senza nulla più negoziare, sotto il ricatto della “grexit” brandito dalla Germania come una clava.
L’accordo (per usare le stesse parole con cui Tsipras commentò le proposte dell’Ue appena prima della resa) è “umiliazione e disastro”, un taglieggiamento dai contenuti violentemente recessivi, un percorso che conduce esattamente là dove la Grecia è stata portata dagli altri memorandum.
Un accordo che distrugge Syriza (o ne muta in radice la natura) perché il vulnus democratico inferto al partito è fortissimo e alquanto difficile da riassorbire.
E’ questo un fatto incontrovertibile che nessuna acrobazia dialettica può relativizzare: mentre la maggioranza del comitato centrale del partito (e non solo la sinistra) respingeva l’accordo il suo segretario andava da un’altra parte, costruendo una nuova maggioranza parlamentare necessaria per approvare l’intesa col voto decisivo degli oligarchi di Potami, dei corrotti del Pasok e della destra di Nuova democrazia.
Ma c’è di più: ora si sta spiegando che l’accordo fotocopia dei precedenti, contro i quali Syriza è nata, ha combattuto e vinto, lascia dischiusa una strada: quello che fino ad un giorno prima era considerato un obbrobrio indifendibile e una taglia insopportabile sul popolo greco diventa una “non sconfitta” che può rilanciare la lotta interna.
Il governo greco oggi simula un’autonomia che in realtà non gli è concessa.
Ecco, io credo che c’è una cosa peggiore del disfattismo ed è la capacità (di cui la sinistra italiana ha credenziali da master universitario) di trasformare le sconfitte in vittorie, il che equivale a non elaborarne e a non apprenderne la lezione, rimanendo prigionieri di una sorta di coazione a ripetere, a percorrere le strade di sempre anche se senza via d’uscita.
E allora?
Nei confronti di Syriza, di Tsipras, del popolo greco tutta la sinistra italiana ha un enorme debito di riconoscenza. Da soli, contro il moloch europeo, hanno saputo ribellarsi e mettere a nudo la violenza cieca del potere incardinato nelle istituzioni continentali, hanno disvelato la natura degli interessi che esso rappresenta mostrandone sino in fondo il carattere predatorio, hanno strappato le lenti deformanti con le quali certo progressismo aveva educato a guardare all’Europa.
Ma hanno anche dimostrato, a loro spese e a memoria di tutti, che quella immensa prova di coraggio e di generosità non basta, perché il meccanismo infernale che hanno combattuto pensando di piegarlo non è emendabile, non è riformabile dall’interno.
La questione di cui occorre prendere finalmente atto è che l’Ue, i trattati che ne formano l’ossatura e la moneta sono esattamente la stessa cosa, per concatenazione logica e simbolizzazione reciproca; e che l’euro è l’instrumentum regni, la tecnicalità monetaria di una politica socialmente reazionaria, di una inaudita oppressione di classe che trascina con sé una drammatica fuoriuscita dalla democrazia.
L’epilogo della vicenda greca dimostra che l’intera configurazione della formazione economico-sociale europea è una “gabbia d’acciaio” dalle cui maglie non si esce se non rompendola.
Vedo che cominciano a capirlo in molti: da Paul Krugman (che da quando se n’è convinto non scrive più su Repubblica) a Oskar Lafontaine, da James Galbraith a Stefano Fassina (che da quando si è affrancato dalla morsa del Pd dice persino cose sensate).
Ebbene, ho l’impressione che l’analisi materialistica della reale essenza dell’Ue noi fatichiamo ancora a compierla, per affidarci, nella pratica (che gramscianamente rivela il nostro reale ambito teorico) a pur generose illusioni volontaristiche.
E’ come se fossimo prigionieri di una sorta di blocco del pensiero, di conformistica adesione all’idea che fuori dall’euro non c’è che il disastro, la degenerazione nazionalistica, la caduta in un buco nero e un’inevitabile deriva reazionaria: anche noi, in certo qual modo, siamo succubi di un nostro “there is no alternative”.
Sicché nessun memorandum, neppure l’inevitabile avvitamento della crisi su se stessa, neppure la distruzione sempre più evidente di ogni aspetto della sovranità nazionale, sono riusciti a sciogliere in noi il timor panico per un’ipotesi che si configuri come vera rottura delle regole del gioco imposte dal capitale, per un salto di paradigma che non ci consegni sistematicamente alla sconfitta.
Eppure chi, se non i comunisti, dovrebbe essere capace di pensiero creativo, dunque “divergente”, tale da rompere continuamente gli schemi dell’esperienza e pensare il non già pensato.
L’elaborazione di una diversa proposta è oggi per noi (per l’esistenza stessa di una sinistra italiana) una necessità vitale. Altrimenti i già zoppicanti tentativi di rendere credibile e fare vivere l’Altra Europa e di immaginare “costituenti” della sinistra antiliberista nascono senza futuro, già con dentro inoculato il virus della dissoluzione.
L’Europa di cui abbiamo discusso sino a ieri e nelle cui coordinate si è mossa la nostra strategia è morta e sepolta. Continuare ad investire sulla sua riformabilità, alimentare questo equivoco significa condannarsi ad un suicidio politico che si compirebbe definitivamente con la firma del TTIP e con l’entrata in vigore del fiscal compact.
Diciamolo in questo modo: se la conclusione della partita greca viene considerata una “contingente necessità” siamo tutti in un cul de sac. Perché nessuno avrà la forza di provarci più.
Un’ultima considerazione su un tema che è spesso tornato nelle nostre discussioni.
Dovrebbe essere ormai chiaro (anche questo è un apprendimento da non buttare) che proprio questa Europa è la più feconda culla del peggior nazionalismo.
Come ha scritto recentemente Marco Bascetta, nella fase più dura dello scontro fra Grecia e Germania il giudizio ricorrente nella stampa tedesca era che il popolo greco è “naturalmente infido”, culturalmente “inquinante”, “moralmente riprovevole”, “parassita”, e – nei casi peggiori – “miscuglio bastardo di Slavi, Turchi e Albanesi”, “altro che età di Pericle”, dunque.
Siamo a pochi passi – ammoniva Bascetta – dal confine invalicabile della dottrina razziale.
Questa è l’altra non meno pericolosa faccia del nazionalismo: il revanscismo sciovinistico tedesco, il bozzolo reazionario coltivato nell’involucro dell’Ue, la costruzione stabile di una gerarchia inossidabile di Stati con in testa la Germania come dominus per vocazione da una parte e i subalterni per costrizione dall’altra.
C’è una strada stretta che noi dobbiamo percorrere. Quella che impone, ad ogni costo, il recupero di una sovranità nazionale da incardinare su una strategia di riunificazione e difesa del lavoro e su una nuova tessitura solidaristica capace di trascendere i confini nazionali per costruire, su una proposta finalmente chiara, una trama democratica che l’attuale assetto dei poteri europei impedisce in radice.
Si tratta, per dirla con le parole di Mimmo Porcaro, di elaborare un nazionalismo democratico, lavorista, solidarista e antirazzista, diametralmente opposto alle farneticazioni reazionarie di Salvini. Senza questo cimento temo che sarà il capataz leghista ad avere la meglio. L’uscita dall’euro prima o poi ci sarà comunque, per autocombustione, ma a quel punto non saremo certo noi a determinarne la direzione.
Ma i fatti hanno la testa dura. Questo intervento di Dino Greco, ultimo direttore di Liberazione, apparsa su http://www.controlacrisi.org, segna una prima presa d'atto che l'Unione Europea non è riformabile e che vada superata con una rottura. Un passo non fa un cammino, certamente. Com'è noto, a noi la strada del "nazionalismo democratico" sembra decisamente troppo stretta e costellata di possibili equivoci; ed è altrettanto noto che ci sembra decisamente più realistica quella di una libera comunità di Stati sul modello dell'Alba latino-americana.
Ma un passo nella direzione giusta è sempre da salutare con rispetto e attenzione. Perché, quantomeno, non aggiunge un altro metro sulla strada che porta al suicidio.
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La cosa più semplice, diretta e, purtroppo, definitiva l’ha detta Lucio Carracciolo (direttore di Limes), quando ha scritto che dopo l’accordo della capitolazione “la Grecia cessa di esistere come Stato indipendente”.
Non ancora nella forma, ma certo nella sostanza. “Restano i Greci”, ma espropriati di tutto: della giurisdizione politica, economica, sociale.
Ciò perché l’intesa ha il carattere, neppure dissimulato, di una resa senza condizioni.
E’ davvero come se il board dell’Ue fosse entrato ad Atene alla guida dei tanks col mandato di non fare prigionieri e il signor Schauble avesse infine messo il suo sigillo sull’occupazione sbattendo sulla bilancia la “spada di Brenno”.
Il congegno del diktat è concepito per prefigurare una colonizzazione stabile del paese, la sua trasformazione in un protettorato su cui veglia la resuscitata troika, i cui funzionari, prima ripudiati dal governo greco, torneranno come cani da guardia a controllare l’attuazione di ogni singolo punto dell’accordo, prima ancora che su di esso si pronunci (pletoricamente) il parlamento preso in ostaggio insieme al popolo di Grecia.
Evito di riassumere qui l’impressionante incalzare del diktat, i contenuti scolpiti nelle 7 pagine del nuovo memorandum. Alla condizione però che essi siano tenuti ben presenti. Perché c’è un antico vizio, nella sinistra, ed è la tendenza a rimuovere le sconfitte (in questo caso la drammatica materialità di quell’intesa) per “buttarla in politica” e assolversi dall’urgenza di una rielaborazione critica delle proprie tesi.
Di questa pessima abitudine ha in questi giorni libero corso una versione ancor più paradossale, quella secondo cui l’accordo è una tagliola talmente pesante da non potere essere applicata: dunque - sento dire - è come se non esistesse!
Invece l’accordo esiste eccome, come esistono i pretoriani (gli euroburocrati di Bruxelles e Berlino) che vegliano al minuto su ciascun atto legislativo al fine di garantirne la meticolosa applicazione.
Vorrei essere chiaro su un punto preliminare: la questione non si pone in termini di “tradimento”, scorciatoia fuorviante di ogni querelle che annega il dibattito a sinistra in un mare di inutili e autolesionistici insulti.
Tsipras non è Vidkun Quisling. Semmai è una figura tragica che i fatti rischiano di trasformare nell’esecutore testamentario del referendum.
Alla radice dell’esito del lungo braccio di ferro c’è un errore (fatale) di comprensione teorica della realtà dell’Unione europea, errore del quale la stessa sinistra radicale italiana divide la paternità.
L’errore è consistito (consiste?) nel ritenere che con la Commissione europea, con la Bce, con il Fmi sia possibile negoziare la fine (o almeno l’attenuazione) dell’austerity.
Un po’ come se una vittima dei “cravattari” si illudesse di potere concordare con i propri aguzzini la fine dell’usura.
Ricordo, per inciso, che quasi tutta la sinistra italiana aveva creduto che le dimissioni di Varoufakis, intervenute dopo la vittoria nel referendum e prima che se ne conoscessero le reali ragioni, potessero essere un viatico positivo per l’accordo, quasi che ad impedirlo fosse ormai soltanto un conflitto di caratteri fra i ministri delle finanze greco e tedesco!
Il fatto che non si dovrebbe mai dimenticare è che l’austerity non è altro che la principale missione politica delle classi dominanti europee (privatizzazione integrale, abolizione del welfare, deflazione salariale, concentrazione di potere e ricchezza, mercatismo assoluto, ecc.). E che l’architettura congegnata per rendere inespugnabile questo modo dell’accumulazione, dell’appropriazione privata, dell’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro non può essere incrinata con il consenso dei suoi artefici che in quel caso vedrebbero messa in discussione la propria ragione di esistenza.
Non avere compreso l’irriducibilità del proprio antagonista ha fatto ritenere che la ragionevolezza delle proprie posizioni, il carattere manifestamente ingiusto e per giunta inefficace delle misure imposte sino ad allora alla Grecia potesse dischiudere la porta ad un’intesa positiva. Nulla di più illusorio.
La trattativa si è svolta su un binario a senso unico, con la dichiarazione condivisa che i trattati europei, a partire dalla moneta, non erano in discussione, e che l’accordo si sarebbe potuto raggiungere solo entro e non al di fuori del perimetro dato.
Poi, una volta scoperto che davanti c’era un muro invalicabile si è detto che la sproporzione nei rapporti di forza era talmente grande da non consentire un esito diverso e che la firma era obbligata.
Ma che i rapporti di forza fossero questi e non altri era ben noto a tutti sin dall’inizio, anche quando si davano per certe la fine dell’austerity e la sconfitta della troika.
E allora? Il fatto è che ad una ipotesi alternativa, ad un’altra via d’uscita, che mettesse in conto di non firmare la capitolazione anche a prezzo di subire l’uscita dall’euro non si è mai pensato, se non in chiave di tattica negoziale (Varoufakis), anch’essa rigettata dalla maggioranza della segreteria di Syriza.
La convinzione che non esistesse una via d’uscita ha fatto sì che la straripante vittoria dell’oki sia stata paradossalmente usata non per sfidare la troika, ma per rendere le armi, senza nulla più negoziare, sotto il ricatto della “grexit” brandito dalla Germania come una clava.
L’accordo (per usare le stesse parole con cui Tsipras commentò le proposte dell’Ue appena prima della resa) è “umiliazione e disastro”, un taglieggiamento dai contenuti violentemente recessivi, un percorso che conduce esattamente là dove la Grecia è stata portata dagli altri memorandum.
Un accordo che distrugge Syriza (o ne muta in radice la natura) perché il vulnus democratico inferto al partito è fortissimo e alquanto difficile da riassorbire.
E’ questo un fatto incontrovertibile che nessuna acrobazia dialettica può relativizzare: mentre la maggioranza del comitato centrale del partito (e non solo la sinistra) respingeva l’accordo il suo segretario andava da un’altra parte, costruendo una nuova maggioranza parlamentare necessaria per approvare l’intesa col voto decisivo degli oligarchi di Potami, dei corrotti del Pasok e della destra di Nuova democrazia.
Ma c’è di più: ora si sta spiegando che l’accordo fotocopia dei precedenti, contro i quali Syriza è nata, ha combattuto e vinto, lascia dischiusa una strada: quello che fino ad un giorno prima era considerato un obbrobrio indifendibile e una taglia insopportabile sul popolo greco diventa una “non sconfitta” che può rilanciare la lotta interna.
Il governo greco oggi simula un’autonomia che in realtà non gli è concessa.
Ecco, io credo che c’è una cosa peggiore del disfattismo ed è la capacità (di cui la sinistra italiana ha credenziali da master universitario) di trasformare le sconfitte in vittorie, il che equivale a non elaborarne e a non apprenderne la lezione, rimanendo prigionieri di una sorta di coazione a ripetere, a percorrere le strade di sempre anche se senza via d’uscita.
E allora?
Nei confronti di Syriza, di Tsipras, del popolo greco tutta la sinistra italiana ha un enorme debito di riconoscenza. Da soli, contro il moloch europeo, hanno saputo ribellarsi e mettere a nudo la violenza cieca del potere incardinato nelle istituzioni continentali, hanno disvelato la natura degli interessi che esso rappresenta mostrandone sino in fondo il carattere predatorio, hanno strappato le lenti deformanti con le quali certo progressismo aveva educato a guardare all’Europa.
Ma hanno anche dimostrato, a loro spese e a memoria di tutti, che quella immensa prova di coraggio e di generosità non basta, perché il meccanismo infernale che hanno combattuto pensando di piegarlo non è emendabile, non è riformabile dall’interno.
La questione di cui occorre prendere finalmente atto è che l’Ue, i trattati che ne formano l’ossatura e la moneta sono esattamente la stessa cosa, per concatenazione logica e simbolizzazione reciproca; e che l’euro è l’instrumentum regni, la tecnicalità monetaria di una politica socialmente reazionaria, di una inaudita oppressione di classe che trascina con sé una drammatica fuoriuscita dalla democrazia.
L’epilogo della vicenda greca dimostra che l’intera configurazione della formazione economico-sociale europea è una “gabbia d’acciaio” dalle cui maglie non si esce se non rompendola.
Vedo che cominciano a capirlo in molti: da Paul Krugman (che da quando se n’è convinto non scrive più su Repubblica) a Oskar Lafontaine, da James Galbraith a Stefano Fassina (che da quando si è affrancato dalla morsa del Pd dice persino cose sensate).
Ebbene, ho l’impressione che l’analisi materialistica della reale essenza dell’Ue noi fatichiamo ancora a compierla, per affidarci, nella pratica (che gramscianamente rivela il nostro reale ambito teorico) a pur generose illusioni volontaristiche.
E’ come se fossimo prigionieri di una sorta di blocco del pensiero, di conformistica adesione all’idea che fuori dall’euro non c’è che il disastro, la degenerazione nazionalistica, la caduta in un buco nero e un’inevitabile deriva reazionaria: anche noi, in certo qual modo, siamo succubi di un nostro “there is no alternative”.
Sicché nessun memorandum, neppure l’inevitabile avvitamento della crisi su se stessa, neppure la distruzione sempre più evidente di ogni aspetto della sovranità nazionale, sono riusciti a sciogliere in noi il timor panico per un’ipotesi che si configuri come vera rottura delle regole del gioco imposte dal capitale, per un salto di paradigma che non ci consegni sistematicamente alla sconfitta.
Eppure chi, se non i comunisti, dovrebbe essere capace di pensiero creativo, dunque “divergente”, tale da rompere continuamente gli schemi dell’esperienza e pensare il non già pensato.
L’elaborazione di una diversa proposta è oggi per noi (per l’esistenza stessa di una sinistra italiana) una necessità vitale. Altrimenti i già zoppicanti tentativi di rendere credibile e fare vivere l’Altra Europa e di immaginare “costituenti” della sinistra antiliberista nascono senza futuro, già con dentro inoculato il virus della dissoluzione.
L’Europa di cui abbiamo discusso sino a ieri e nelle cui coordinate si è mossa la nostra strategia è morta e sepolta. Continuare ad investire sulla sua riformabilità, alimentare questo equivoco significa condannarsi ad un suicidio politico che si compirebbe definitivamente con la firma del TTIP e con l’entrata in vigore del fiscal compact.
Diciamolo in questo modo: se la conclusione della partita greca viene considerata una “contingente necessità” siamo tutti in un cul de sac. Perché nessuno avrà la forza di provarci più.
Un’ultima considerazione su un tema che è spesso tornato nelle nostre discussioni.
Dovrebbe essere ormai chiaro (anche questo è un apprendimento da non buttare) che proprio questa Europa è la più feconda culla del peggior nazionalismo.
Come ha scritto recentemente Marco Bascetta, nella fase più dura dello scontro fra Grecia e Germania il giudizio ricorrente nella stampa tedesca era che il popolo greco è “naturalmente infido”, culturalmente “inquinante”, “moralmente riprovevole”, “parassita”, e – nei casi peggiori – “miscuglio bastardo di Slavi, Turchi e Albanesi”, “altro che età di Pericle”, dunque.
Siamo a pochi passi – ammoniva Bascetta – dal confine invalicabile della dottrina razziale.
Questa è l’altra non meno pericolosa faccia del nazionalismo: il revanscismo sciovinistico tedesco, il bozzolo reazionario coltivato nell’involucro dell’Ue, la costruzione stabile di una gerarchia inossidabile di Stati con in testa la Germania come dominus per vocazione da una parte e i subalterni per costrizione dall’altra.
C’è una strada stretta che noi dobbiamo percorrere. Quella che impone, ad ogni costo, il recupero di una sovranità nazionale da incardinare su una strategia di riunificazione e difesa del lavoro e su una nuova tessitura solidaristica capace di trascendere i confini nazionali per costruire, su una proposta finalmente chiara, una trama democratica che l’attuale assetto dei poteri europei impedisce in radice.
Si tratta, per dirla con le parole di Mimmo Porcaro, di elaborare un nazionalismo democratico, lavorista, solidarista e antirazzista, diametralmente opposto alle farneticazioni reazionarie di Salvini. Senza questo cimento temo che sarà il capataz leghista ad avere la meglio. L’uscita dall’euro prima o poi ci sarà comunque, per autocombustione, ma a quel punto non saremo certo noi a determinarne la direzione.