L'arte della guerra. In arrivo la Swift Response, «la più grande esercitazione Nato di forze aviotrasportate dalla fine della guerra fredda»
di Manlio Dinucci
ilmanifesto.info 25 agosto 2015 / Global Research, August 28, 2015
Coperti dal blackout politico/mediatico, stanno scendendo in Europa nugoli di paracadutisti in pieno assetto di guerra. È la «Swift Response» (Risposta rapida), «la più grande esercitazione Nato di forze aviotrasportate, circa 5mila uomini, dalla fine della guerra fredda». Si svolge dal 17 agosto al 13 settembre in Italia, Germania, Bulgaria e Romania, con la partecipazione anche di truppe statunitensi, britanniche, francesi, greche, olandesi, polacche, spagnole e portoghesi. Naturalmente, conferma un comunicato ufficiale, sotto «la direzione dello U.S. Army».
Per la «Risposta rapida» lo U.S. Army impiega, per la prima volta in Europa dopo la guerra contro la Jugoslavia nel 1999, la 82a Divisione aviotrasportata, compresa la 173a Brigata di stanza a Vicenza. Quella che addestra da aprile, in Ucraina, i battaglioni della Guardia nazionale di chiara composizione neonazista, dipendenti dal Ministero degli interni, e che ora, dopo una esercitazone a fuoco effettuata sempre in Ucraina il 6 agosto, inizia ad addestrare anche le forze armate «regolari» di Kiev.
La «Swift Response» è stata preceduta in agosto dall’esercitazione bilaterale Usa/Lituania «Uhlan Fury», accompagnata da una analoga in Polonia, e dalla «Allied Spirit» svoltasi in Germania, sempre sotto comando Usa, con la partecipazione di truppe italiane, georgiane e perfino serbe. E, poco dopo la «Swift Response», si svolgerà dal 3 ottobre al 6 novembre una delle più grandi esercitazioni Nato, la «Trident Juncture 2015», che vedrà impegnate soprattutto in Italia, Spagna e Portogallo forze armate di oltre 30 paesi alleati e partner, con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 140 aerei.
Quale sia lo scopo di queste esercitazioni Nato sotto comando Usa, che si svolgono ormai senza interruzione in Europa, lo spiega il nuovo capo di stato maggiore dello U.S. Army, il generale Mark Milley. Dopo aver definito la Russia «una minaccia esistenziale poiché è l’unico paese al mondo con una capacità nucleare in grado di distruggere gli Stati uniti» (audizione al Senato, 21 luglio), nel suo discorso di insediamento (14 agosto) dichiara: «La guerra, l’atto di politica con cui una parte tenta di imporre la sua volontà all’altra, si decide sul terreno dove vive la gente. Ed è sul terreno che l’esercito degli Stati uniti, il meglio armato e addestrato del mondo, non deve mai fallire». Il «terreno» da cui vengono lanciate le operazioni Usa/Nato verso Est e verso Sud, ancora una volta, è quello europeo. In senso non solo militare, ma politico.
Emblematico il fatto che alla «Trident Juncture 2015» partecipa (nel silenzio politico generale) l’Unione europea in quanto tale. Non c’è da stupirsene, dato che 22 dei 28 paesi della Ue sono membri della Nato e l’art. 42 del Trattato sull’Unione europea riconosce il loro diritto a realizzare «la difesa comune tramite l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico», che (sottolinea il protocollo n. 10) «resta il fondamento della difesa collettiva della Ue».
La Nato — in cui il Comandante supremo alleato in Europa è sempre nominato dal presidente degli Stati uniti e sono in mano agli Usa gli altri comandi chiave — serve a mantenere la Ue nella sfera d’influenza statunitense. Se ne avvantaggiano le oligarchie europee, che in cambio della «fedeltà atlantica» dei loro paesi partecipano alla spartizione di profitti e aree di influenza con quelle statunitensi. Mentre i popoli europei sono trascinati in una pericolosa e costosa nuova guerra fredda contro la Russia e in situazioni critiche, come quella del drammatico esodo di profughi provocato dalle guerre Usa/Nato in Libia e Siria.
Manlio Dinucci
Die Bundeswehr übernimmt eine Führungsrolle bei dem für Ende September anberaumten NATO-Großmanöver "Trident Juncture". Die Leitung der Kriegsübung, an der sich mehr als 36.000 Soldaten beteiligen werden, liegt bei dem deutschen NATO-General Hans-Lothar Domröse; für die Koordination ist das im baden-württembergischen Ulm stationierte "Multinationale Kommando Operative Führung" der deutschen Streitkräfte maßgeblich verantwortlich. Geprobt wird eine Militärintervention in einem fiktiven Staat am Horn von Afrika unter Einsatz der vorrangig aus Bundeswehrangehörigen bestehenden "Speerspitze" der NATO-Eingreiftruppe. Dem Manöverszenario zufolge sehen sich die westlichen Einheiten dabei sowohl mit regulären Truppen als auch mit einer Guerillaarmee konfrontiert und haben außerdem mit "mangelnder Ernährungssicherheit", "Massenvertreibungen", "Cyberattacken", "chemischer Kriegsführung" und "Informationskrieg" zu kämpfen. Wie der Befehlshaber des "Multinationalen Kommandos Operative Führung", Generalleutnant Richard Roßmanith, erklärt, geht von "Trident Juncture" eine nicht zuletzt an Russland gerichtete "Botschaft" aus: "Jeder sollte sich gut überlegen, wie er mit uns umgeht" - schließlich sei die NATO das "stärkste Militärbündnis der Welt" und verfüge über einen Aktionsradius von "360 Grad"...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59189
La riunione indetta dal Comitato napoletano “Pace e disarmo” e dalla Rete Napoli No War, ha visto la partecipazione di molte realtà, napoletane e non, impegnate contro la guerra e la militarizzazione del territorio. A partire dagli interventi introduttivi, tutti hanno evidenziato il significato aggressivo di questa esercitazione che non solo è la più
grande esercitazione militare del dopoguerra ma esplicita i tre fronti verso cui la NATO ritiene legittimo un suo dispiegamento “preventivo”. Meglio e più di quelle che si stanno susseguendo ininterrottamente ai confini russi, questa esercitazione, quindi, si presenta come la prova generale della terza guerra mondiale. Da qui la condivisa necessità di costruire una opposizione nazionale a questa esercitazione con iniziative diffuse ed una grande manifestazione a Napoli. Per consentire la massima partecipazione e l’adesione di realtà di base, comitati o singoli - a partire dai No Muos, No F35 o i comitati sardi contro l'occupazione e le attività militari – è stata condivisa la proposta fatta dal Comitato napoletano “Pace e disarmo” e dalla Rete Napoli No War di lanciare un appello nazionale con cui chiamare ad una RIUNIONE nazionale IN DATA DA DEFINIRSI ed alla manifestazione da tenersi il 24 ottobre (la fase “dal vivo” dell’esercitazione partirà dal 21/10 per finire il 6/11) entrambe a Napoli.
Su questa scelta si è voluto precisare che alcune preoccupazioni di altri comitati riportate nella riunione, non trovano ragione d’essere. La scelta di Napoli come sede della riunione nazionale e della manifestazione è legata esclusivamente al fatto che il Jfc Naples è al comando della Trident Juncture 2015 e, insieme a Brunssum (Olanda), comanderà la forza di rapido intervento (Nato Response Force) della Nato.
Quasi tutti nei loro interventi hanno sottolineato la necessità di legare il tema dell’esercitazione Nato e della guerra alla questione degli immigrati. Questo non solo perché la cosiddetta lotta contro i trafficanti di esseri umani viene ormai puntualmente usata come pretesto per legittimare la militarizzazione del Mediterraneo e le nuove aggressioni ai paesi da cui gli immigrati partono, come la Libia; ma anche per denunciare l’ignobile trattamento riservato dai paesi europei, nessuno escluso, a chi scappa da guerre e fame di cui i governi occidentali sono i primi responsabili. Più di un intervento ha chiesto di esplicitare la condanna a quanti (v. la Lega) alimentano campagne razziste e xenofobe e rivendicare la libera circolazione per i migranti. Questo anche nella direzione di segnalare uno spartiacque con una destra che, come già è capitato, prova ad insinuarsi in queste battaglie esprimendo un antimperialismo nazionalista e razzista.
Quasi tutti gli intervenuti hanno sottolineato le difficoltà che si frappongono alla riuscita della mobilitazione. La questione della guerra è un tema poco sentito così come non è scontata l’avversione della gente comune alla presenza di apparati militari sul proprio territorio. Significativa è l’assenza di qualsiasi opposizione alla base Nato di Lago Patria percepita localmente da molti come un volano di occupazione e di crescita del territorio. Un’assenza che segnala, però, anche la disattenzione se non l’indifferenza per queste questioni anche da parte degli attivisti, il cosiddetto movimento, che non vedono nelle aggressioni ad altri paesi, nelle spese militari, nella militarizzazione dei territori, l’altra faccia della medaglia delle politiche di austerity portate avanti dal nostro governo contro cui, invece, sono impegnanti.
Per questo da più parti si è auspicato di evidenziare i costi di questa esercitazione per l’Italia e delle spese militari in generale che rappresentano risorse sottratte alle spese sociali. Esattamente come si è fatto per gli F35, questo elemento deve entrare nella campagna mediatica che va costruita contro l’esercitazione e sulle nostre ragioni.
Insieme alla campagna, che deve sfruttare tutti i canali possibili, la manifestazione nazionale deve essere preparata da iniziative territoriali, a Napoli come altrove. Nei diversi interventi sono emerse alcune proposte:
- Una iniziativa da fare a Lago Patria a ridosso della festa di S. Francesco provando a coinvolgere l’aria di Giugliano
- Un’assemblea cittadina che potrebbe vedere la presentazione del libro di Dinucci (saranno presi i contatti con l’autore per verificarne la disponibilità)
- Una mobilitazione a favore degli immigrati e contro il razzismo
- Presidi e volantinaggi. Il primo potrebbe essere davanti al Duomo di Napoli in occasione del concerto della banda della Nato
- Un presidio sotto la RAI a ridosso della manifestazione
Poiché qualcuno, ricordando la dichiarazione di disponibilità del Sindaco de Magistris a deliberare per vietare l’ingresso nel porto di Napoli di navi e sommergibili a propulsione nucleare, ha proposto di risottoporre la questione al Sindaco, più di un intervento ha sottolineato quanto fosse vecchia tale promessa evidenziando che la sua riproposizione potrebbe legarsi alla già iniziata campagna elettorale. Si è concordato sul fatto che la sollecitazione al Sindaco a mantenere il suo impegno deve essere fatta pubblicamente (con modalità ancora da decidere) sfidandolo a prendere parola anche come Sindaco della città metropolitana in cui rientra la base di Lago Patria.
Dal momento che altre realtà in maniera del tutto autonoma hanno già messo in cantiere iniziative contro l’esercitazione Nato e la guerra (si veda, ad es., il campeggio antimilitarista del 9 – 10 – 11 Ottobre della “rete no basi né qui né altrove” in Sardegna) si è concordato sull’assunzione di tutte le iniziative che si daranno sul piano nazionale nell’ambito di un percorso quanto più coordinato possibile che rafforzi l’opposizione alla Nato ed alla guerra. Dai primi contatti sia i comitati sardi che quelli siciliani sembrano interessati. L’obiettivo espresso da tutti gli interventi è quello di creare un coordinamento di forze che, ben oltre l’appuntamento in occasione dell’esercitazione Nato, prosegua nel lavoro di sensibilizzazione e nella mobilitazione contro le aggressioni militari ed al fianco dei popoli colpiti. In questa direzione si proverà a contattare anche comitati di altri paesi a partire da quelli coinvolti nella Trident e che hanno già messo in cantiere iniziative contro la Nato (si vedano, ad es., gli antimilitaristi spagnoli di Zaragoza).
Uno degli interventi ha ribadito che sul tema della guerra è importante puntare alla crescita della mobilitazione dal basso e non contare o legittimare finte opposizioni sponsorizzate da pezzi istituzionali o antimilitaristi da campagna elettorale.
Proprio per l’enorme lavoro da fare per la riuscita della manifestazione e per preparare le iniziative proposte, si è convenuto di rivedersi giovedì 10. Nel frattempo oltre al report si farà girare una bozza di appello che sarà varato definitivamente nella prossima riunione.
Rimossa dall'orizzonte della quotidiana discussione teorica e politica – soltanto a sinistra, bisogna dire – la guerra è sempre al centro della riflessione, anche critica, dell'establishment di ogni paese.
Ma, appunto, è diventata una discussione fuori dalla comunicazione mainstream, condotta soprattutto tra addetti ai lavori o tra studiosi di varia competenza, che non si accontentano di pensare all'interno del parco giochi infantile allestito sui giornali.
A sinistra, dicevamo, il bertinottismo ha compiuto uno dei suoi molti crimini, facendo passare la scelta del pacifismo come una scelta valoriale assoluta e quindi condannando a prescindere, in via preventiva, persino qualsiasi ragionamento mirante a fare laicamente i conti con ciò che nel cerchietto magico della “pace perpetua” proprio non riesce ad entrare.
La conseguenza? Trattare la guerra come un oggetto “irrazionale”, un'incomprensibile deviazione dall'ordinato scorrere del mondo, uno strappo da condannare senza rifletterci sopra. Il che, anche per chi come noi odia la guerra, rende imbecilli, più che pacifisti.
Proponiamo perciò questa intervista assai poco letta con il generale Fabio Mini, uno dei pochi militari pensanti di questo paese – almeno a livello divulgativo – che fa i conti con l'attualizzazione di vecchie formulazioni che si pensava immutabili. A cominciare dalla “guerra, continuazione della politica con altri mezzi”, che appartiene all'era della modernità politica, dunque al confine logico-politico-ideale-sociale dello “stato nazione”.
Perché nello spazio imperialista attuale, quantomeno nella dimensione minima dell'Unione Europea, il centro decisionale è irrimediabilmente spostato dalla sfera della politica a quello dell'amministrazione contabile-finanziaria (come ampiamente dimostrato dalla disgraziata esperienza greca). Ma se non c'è possibilità di alternativa “politica”, perché non c'è politica rinnovata che possa mettere in discussione trattati e/o assetti istituzionali, quale senso assume la guerra guerreggiata che in ogni angolo della Terra è tornata ad essere pratica quotidiana?
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Generale di Corpo d’Armata, capo di Stato Maggiore della NATO, capo del Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo.
Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari, su CS parla delle crisi attuali ma non solo.
Gen. Mini, nel suo libro “La guerra spiegata a…” afferma che non esistono guerre limitate, o meglio che una potenza che si impegna in una guerra limitata ne prepara in realtà una totale. Nell’attuale situazione di conflittualità diffusa, che sembra seguire una specie di linea di faglia che va dall’Ucraina allo Yemen passando per Siria e Irak, dobbiamo quindi aspettarci lo scoppio di un conflitto totale?
R1. La categoria delle guerre limitate, trattata dallo stesso Clausewitz, intendeva comprendere i conflitti dagli scopi limitati e quindi dalla limitazione degli strumenti e delle risorse da impiegare. Doveva essere il minimo per conseguire con la guerra degli scopi politici. E la guerra era una prosecuzione della politica. Erano comunque evidenti i rischi che il conflitto potesse degenerare ed ampliarsi sia in relazione alle reazioni dell’avversario sia in relazione agli appetiti bellici, che vengono sempre mangiando. Con un’accorta gestione delle alleanze e delle neutralità, un conflitto poteva essere limitato nella parte operativa e comunque avere un significato politico più ampio. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla e chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali. Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità” tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il Pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla seconda guerra mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”. Dobbiamo quindi essere felici di questa “pace annunciata”. O no?
Un’altra sua interessante considerazione riguarda il fatto che la guerra porti sempre ad una politica diversa da quella che l’ha preceduta e preparata, dobbiamo dunque prepararci ad un mondo diverso da quello che sta generando i conflitti attuali? E se sì, ha idea della direzione in cui ci stiamo muovendo?
R2. Direi di si, ma non credo che ci si possano fare molte illusioni sui risultati. Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della seconda guerra mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile. Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo:“ ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no.”
Venendo alla situazione italiana, se è vero che una comunità che ospiti anche una sola base militare straniera è da considerarsi “sotto occupazione”, la presenza di basi USA sul territorio nazionale ci rende una nazione sotto occupazione o comunque non libera?
R3. I regolamenti dell’Aja del 1907, stabiliscono i criteri dell’occupazione militare non tanto sulla presenza militare in un paese ma nella sua funzione. Se una presenza militare anche minuscola si assume la responsabilità della sicurezza del territorio (non importa di quale estensione) in cui è stanziata, si ha l’occupazione “de facto”. Le basi degli Usa non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare. Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.
Nel suo libro ha mostrato come la guerra si sia evoluta nel corso dei secoli, adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo?
R4. Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo stato. Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: “è una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa”. Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.
Dal suo libro emerge anche il concetto di guerra come “strumento d’imposizione”, cioè uno strumento per obbligare una determinata parte a compiere azioni contro la propria volontà, nel recente caso della Grecia in cui la volontà popolare ha dovuto cedere alle richieste di segno opposto dell’Europa, possiamo parlare di un atto di guerra?
R5. Anche in questo caso dobbiamo riferirci alla guerra senza limiti e, purtroppo, a quella per bande. La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili. Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.
La “narrativa”, la fiction, gli spin doctors, giocano un ruolo fondamentale nella guerra di nuova generazione, può indicarci qualche caso concreto in cui ultimamente ha visto questi elementi in azione?
R6. In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. Dal 2000 in poi in Afghanistan e Iraq furono disseminate dall’alto migliaia di manifestini e radioline con le quali la coalizione tentava di dare la propria versione del conflitto. L’aereo C-130 destinato alla guerra d’informazione, chiamato “Commando Solo”, continua a sorvolare paesi come Iran, Iraq, Afghanistan, Yemen e Siria trasmettendo giornali radio e telegiornali dando la propria versione dei fatti. L’efficacia di tali mezzi tecnologici è minata dal dilettantismo. I primi volantini in Afghanistan e Iraq erano incomprensibili sia nella forma sia nella lingua. Le radioline furono acquistate in fretta dopo aver notato che gli afghani erano immuni alle trasmissioni radio visto che non avevano radio. E quando furono disseminate le radio gli americani si accorsero che oltre il 90% degli afghani non capiva la lingua usata. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della VOA (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma Confucio, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctors del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo). Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: “stiamo perdendo la guerra della narrativa”. Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese. La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito (e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.
Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Irak e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Crede che esistano elementi per ritenere fondata questa affermazione?
R7 Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno tra trent’anni i segreti di stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.
CS è un sito che si occupa molto delle problematiche dell’informazione ed è noto che la prima vittima della guerra è la verità, può dare ai nostri lettori un consiglio per difendersi e cercare di distinguere tra realtà e manipolazione?
R8. Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più.