(english / italiano)
Uno sguardo ai confini della Federazione Russa
1) Georgia on their minds: West tries to make a Serbia out of Russia (Neil Clark)
2) Paesi baltici: “democrazia” intermittente tra sfilate di SS e “minaccia russa” (Fabrizio Poggi)
Crescono gli allarmi per le manifestazioni più eclatanti e, in diverse occasioni, sfacciatamente provocatorie, di neofascismo, antisemitismo, neonazismo, revisionismo storico, in vari paesi dell'Europa orientale. La questione ha toccato picchi di aperta esternazione, anche simbolica, con l'apparizione dei battaglioni neonazisti in Ucraina, i cui capimanipolo sono stati a suo tempo addestrati da istruttori USA, quindi usati sul fronte del Donbass, dove hanno terrorizzato la popolazione civile, “istituzionalizzati” dal potere golpista di Kiev e, ovviamente, bellamente ignorati – quando non addirittura romanzescamente riverniciati di buonismo – dalla maggior parte dei media nostrani.
Ma, prima e oltre che in Ucraina, dove l'eroicizzazione di elementi e gruppi a suo tempo al servizio delle SS è frutto della “democratizzazione” degli ultimi anni, l'area di più radicata e stagionata memoria nazista è quella del Baltico. Negli ultimi tempi anche in Polonia e in Moldavia si assiste a un crescendo di distruzione di monumenti dedicati ai soldati sovietici caduti nella Seconda guerra mondiale e alla rimozione dei resti di militari dell'Armata Rossa dai cimiteri e loro trasferimento in località remote. Nel migliore dei casi, i monumenti vengono trasferiti in periferie lontane delle città; in altre occasioni, si recintano aree apposite in cui vengono raccolti busti, monumenti, targhe legati alle gesta dei soldati rossi o che in qualche modo ricordino il periodo sovietico – è stato così, a suo tempo, nella stessa Russia – e, più di recente, in alcuni di quei paesi, è scoppiata la moda dei “musei dell'occupazione sovietica”, a volte semplicemente “musei dell'occupazione”, equiparando il periodo sovietico all'invasione nazista. In Estonia, i veterani russi dell'Armata Rossa, anche i decorati come Eroi dell'Unione Sovietica, sono equiparati per legge agli scagnozzi locali al soldo delle SS naziste: alle parate vengono fatti sfilare insieme come “partecipanti alla Seconda guerra mondiale”! Si demoliscono i monumenti ai caduti sovietici, ma si investono solide cifre in quelli alle Divisioni SS baltiche, i cui reduci possono riunirsi ufficialmente, in uniforme nazista, a differenza dei veterani rossi, cui si vietano le assemblee e persino l'esibizione di decorazioni sovietiche. Il 16 marzo è già dal 1994 pressoché ricorrenza ufficiale in Lettonia, a ricordo dell'ingresso in battaglia delle Divisioni lettoni, contro l’Armata Rossa e nelle file delle SS. E se i membri del Comitato antifascista lettone organizzano controparate con la bandiera dell'Urss, a finire in galera sono proprio loro, per esibizione di “simboli antistatali” e non i nazisti della Legione volontaria SS.
Il sempre più traballante primo ministro ucraino Arsenij Jatsenjuk – costretto ora a inventarsi anche falsi attentati, per cercare di risollevare l'audience intorno alla sua persona – non escogita nulla di nuovo, quando parla di “Untermenschen” a proposito dei russi che vivono in Ucraina o quando, come nel gennaio scorso, nell'intervista alla TV tedesca ARD, aveva parlato di “aggressione dell'Urss alla Germania e all'Ucraina” nel 1941: nei paesi baltici, gli omaggi alle ex SS locali, i pianti contro la “occupazione sovietica” o l'esclusione dalla categoria dei vivi di chiunque non sia “nativo etnico”, sono da tempo istituzionalizzati.
Per la verità, ogni tanto anche lì sono costretti a fare qualche passo indietro, quando il passato di qualcuno di quegli “eroi” rischia davvero di compromettere il paese agli occhi della comunità internazionale che, se volge la testa o addirittura amplifica gli urli sulla “invasione bolscevica delle piccole repubbliche” baltiche, è costretta a esternare commenti sdegnati a proposito dell'oltraggio ad alcuni “principi fondanti” della democrazia, come è il caso dell'olocausto. E' così che in Lituania lo scandalo è scoppiato quando si è scoperto che un “eroe nazionale” aveva partecipato, durante la guerra, non solo alle uccisioni di cittadini sovietici – e questo poteva passare: anzi, per questo aveva avuto una medaglia – ma anche alle stragi di ebrei. Dopo quindici anni che Pranas Končius, combattente antisovietico della cosiddetta Unione dei partigiani per la libertà della Lituania (attiva dal 1944 fino a metà anni '50) era stato insignito dell'ordine della Croce di Vytis, la presidente Dalja Gribauskajte si è vista costretta a cancellare il provvedimento, “in considerazione dell'appello del Centro per il genocidio e la resistenza”, che accusava Končius di aver partecipato ad almeno tre fucilazioni in massa di donne e bambini ebrei lituani. Sottufficiale dell'esercito lituano, con l'occupazione tedesca Končius entrò a far parte della polizia al servizio dei nazisti; nel '44, con il ritorno del potere sovietico, si dette alla macchia nelle file dei cosiddetti “fratelli dei boschi”. Accerchiate le bande più volte dai reparti del Ministero degli interni, Končius riuscì sempre a sottrarsi alla cattura, fino al 1965, allorché fu ucciso in un ultimo scontro a fuoco con la polizia sovietica.
Proprio a quei “fratelli dei boschi”, che agivano non solo in Lituania, ma in tutti i paesi baltici, è dedicato il monumento inaugurato lo scorso 11 settembre a Ile, in Lettonia, alla presenza di alte cariche militari ed esponenti della repubblica, tra cui lo speaker della Sejm, il parlamento lettone. Attivi dalla fine della guerra fino a buona parte degli anni '50, i “fratelli dei boschi” erano composti per lo più di ex legionari baltici delle Waffen SS e si resero responsabili dell'uccisione di alcune migliaia di civili sovietici. Di recente, una pubblicazione del Ministero degli esteri di Riga - in Lettonia, nel 1935, gli ebrei costituivano il 5% della popolazione - contiene una perla del tipo: “solo dopo l'indipendenza, nel 1991, si è cominciato a studiare la storia dell'olocausto in Lettonia, durante l'occupazione nazista e sovietica, dal 1940 al 1956” e si sono portati alla luce “aspetti prima distorti dalla propaganda e disinformazione nazista e sovietica”. Bontà sua, si ammette che “alcuni elementi locali” aiutarono i battaglioni di sterminio delle SS anche in Lettonia, per essere poi trasferiti in Russia e Bielorussia; nel massacro di 25mila ebrei del ghetto di Riga, la polizia lettone, secondo la pubblicazione, svolse “solo”(!) il lavoro di sorveglianza, nelle cosiddette “Schutzmannschaften”.
Nei tre paesi baltici, l'odio per le nazionalità diverse si è sempre manifestato sotto forma della loro estraniazione ufficiale dalla vita sociale e pubblica. Se in Estonia, sin dagli anni '20 si sottoposero a emarginazione, discriminazione e saccheggio quelle decine di migliaia (di quel milione di emigrati bianchi russi dopo la rivoluzione d'Ottobre) di “fratelli di classe” russi fuggiti alla “peste bolscevica”, solo per il fatto di non essere estoni puri, ecco che oggi addirittura il preambolo della Costituzione lettone sancisce ufficialmente il principio per cui chi non è lettone è “non cittadino”, e in tale categoria rientra quasi il 15% della popolazione. Vi si parla infatti esclusivamente di “terre lettoni storiche”, “nazione lettone”, “lingua e cultura lettoni”. Nessuna menzione del 27% di popolazione russa, 3,5% bielorussa, 2,2% ucraina e altrettanto polacca; semplicemente, non esistono: non votano, non hanno lingua propria, insomma, come anticipava 90 anni fa il bulgakoviano Poligraf Poligrafič “alla persona senza documenti è severamente vietato esistere”.
Ma tant'è, in nome della “indipendenza”! Recentemente, Oleg Nazarov, del Club Zinovev, scriveva che “il 10 ottobre 1939 fu firmato il trattato sovietico-lituano di mutua assistenza, secondo cui l'Urss passava alla Lituania la città di Vilna (l'attuale capitale Vilnius) e la regione di Vilna. Su tale conseguenza della cosiddetta "occupazione sovietica" (la cui negazione è punibile per legge) i politici lituani tacciono. Non ricordano che durante "l'occupazione" la popolazione della Lituania era in crescita e ora invece si riduce. Tale silenzio non è un caso. La Lituania, che era nell'Urss la vetrina delle conquiste del socialismo, nei 24 anni dalla sua indipendenza non ha ottenuto prosperità, ma si è trasformata in una colonia dell'UE”. Nel complesso, a partire dal 1920 e durante la guerra civile scatenata dagli eserciti bianchi e dalle potenze straniere contro la giovane Repubblica sovietica russa, la Lituania è passata attraverso l'occupazione polacca di vasti territori, mire bielorusse su altri, dittatura fascista e “lituanizzazione” di territori e popolazione e, infine, invasione nazista. Alla fine della guerra il paese riacquistò i territori persi e inoltre, scrive Nazarov – non certo imputabile di simpatie staliniane – si allargò grazie a Stalin con altre aree, in precedenza tedesche o bielorusse. Nel 1990, in occasione del 50° dei trattati sottoscritti dall'Urss con le repubbliche baltiche, “Meždunarodnaja Žizn”, pubblicava alcuni rapporti inviati nel 1939 a Mosca da fiduciari o plenipotenziari sovietici. In tali rapporti si evidenziava come quei vari patti (di mutua assistenza, commerciali o di non aggressione) facessero sorgere forte apprensione nelle classi dominanti di quei paesi: apprensione per la possibile “bolscevizzazione” che sarebbe seguita all'arrivo di reparti dell'Armata Rossa a difesa delle basi concesse all'Urss e che erano invece salutati con entusiasmo dalle forze rivoluzionarie, convinte della prossima fine dei regimi fascisti locali.
Dunque, ancora una volta, si rileva come il nucleo centrale di ogni contrapposizione – nazionale, culturale, religiosa, ecc. - abbia una radice di classe e come l'odierna canea attorno alla presunta “minaccia russa” o a qualunque tema che abbia a che fare con l'esperienza sovietica, risponda a precisi interessi di classe. Gli atti di contrizione per l'olocausto nazista tacciono di fronte alle odierne sfilate degli ultimi avanzi di quelli che Der Spiegel, nel 2009, definiva “Die Komplizen”, se si tratta di abbattere le frontiere di fronte ai capitali occidentali; le genuflessioni quotidiane dinanzi all'icona della democrazia liberale passano in secondo piano allorché sono in gioco gli interessi del polo imperialista europeo, che ha bisogno di allargare il proprio mercato interno e la propria riserva di forza lavoro. Così che, ben vengano gli eredi delle Waffen SS a irrobustire la UE e a cedere territori alle esigenze dell'Alleanza atlantica contro la “minaccia russa”: dopo tutto, si tratta di repubbliche democratiche, anche se la democrazia è limitata a una fetta sola della popolazione.
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Georgia on their minds: West tries to make a Serbia out of Russia
Neil Clark is a journalist, writer, broadcaster and blogger. He has written for many newspapers and magazines in the UK and other countries including The Guardian, Morning Star, Daily and Sunday Express, Mail on Sunday, Daily Mail, Daily Telegraph, New Statesman, The Spectator, The Week, and The American Conservative. He is a regular pundit on RT and has also appeared on BBC TV and radio, Sky News, Press TV and the Voice of Russia. He is the co-founder of the Campaign For Public Ownership @PublicOwnership. His award winning blog can be found at www.neilclark66.blogspot.com. He tweets on politics and world affairs @NeilClark66
Neil Clark is a journalist, writer, broadcaster and blogger. He has written for many newspapers and magazines in the UK and other countries including The Guardian, Morning Star, Daily and Sunday Express, Mail on Sunday, Daily Mail, Daily Telegraph, New Statesman, The Spectator, The Week, and The American Conservative. He is a regular pundit on RT and has also appeared on BBC TV and radio, Sky News, Press TV and the Voice of Russia. He is the co-founder of the Campaign For Public Ownership @PublicOwnership. His award winning blog can be found at www.neilclark66.blogspot.com. He tweets on politics and world affairs @NeilClark66
10 Oct, 2015
Putin calls the West’s bluff on fighting ISIS in Syria. Western elite figures are most unhappy. The Empire badly needs to strike a blow at Russia – and right on cue, the issue of ‘war crimes’ in Georgia miraculously comes to the fore!
This Thursday it was announced that the International Criminal Court was planning to investigate possible crimes committed during the conflict between Georgia and Russia in 2008.
Reuters reports: ‘the court said that Prosecutor Fatou Bensouda had concluded there was a “reasonable basis to believe” crimes had been committed during the short war over the Russian-backed breakaway Georgian province of South Ossetia.”
“A favorable decision by the judges would pit non-ICC member Russia versus the European-backed global war crimes court at a time of high East-West tensions over the conflicts in Ukraine and Syria,” says Radio Free Europe/Radio Liberty.
Now, it could be that the timing of this is a total coincidence. That it just so happened that over seven years after the events in question, the ICC decided to make a statement on Georgia, in the same week that the Western elites were fuming over Russia out-maneuvering them in Syria and leaving their ‘regime change’ plans for Damascus in tatters.
And it could also be a coincidence that NATO too has been talking about Georgia rather loudly this week.
“Georgia is a sovereign nation with internationally recognized borders. It has the right to determine its own future. And its own security arrangements. Yet today, Russia still violates Georgia’s borders. NATO calls on Russia to reverse its recognition of the South Ossetia and Abkhazia regions of Georgia as independent states. Georgia is one of NATO’s closest partners. We are committed to deepening our partnership,” declared NATO Secretary General Jens Stoltenberg.
Isn’t it interesting how the issue of Georgia, the independence of South Ossetia and Abkhazia and war crimes committed in the conflict, has become a ‘hot topic’ in this of all weeks? What was a dead issue has suddenly come alive. Now it’s not just Hoagy Carmichael, but quite a few other people that have Georgia on their minds.
It’s very hard to escape the conclusion that NATO and the West are desperate to use all possible instruments against Russia to ‘punish’ them for having the temerity to drop bombs in Syria – something only NATO powers and its allies believe they have the right to do. If so, it wouldn‘t be anything new.
Seeking to ‘punish’ countries by bringing up events of the past and threatening them with war crimes investigations is something the US and its closest allies have done plenty of times in the past.
With Serbia, politically-motivated war crimes indictments were used to bully the country into toeing the Washington line and taking a pro-Western ‘reform’ path which benefited Western capital.
Think back to the illegal NATO bombing of Yugoslavia in 1999. Washington’s chief hawk, Secretary of State Madeline Albright, thought the Yugoslav government would capitulate in a matter of days. “I don’t see this is a long term operation. I think this is something that is achievable within a relatively short space of time,” she boasted.
But the Yugoslav government did not capitulate and NATO’s campaign started to run into difficulties. The ‘humanitarian’ bombers of the West hit a number of civilian targets including Serbian television, a passenger train, and a convoy of Kosovan Albanians, which they shamefully tried to blame on Yugoslav forces. As the civilian casualties mounted, splits started to grow between NATO member states. The US was rattled. Something needed to be done to increase pressure on Belgrade and isolate the Yugoslavia leadership further.
Right on cue, on the 27th of May, Yugoslav President Slobodan Milosevic and four other leading political and military figures in the country (including the Chief of Staff of the Yugoslav Army) were indicted for war crimes by the ICTY.
The timing could not have been better for Washington. We know that the US and Britain were informed of the decision by ICTY Prosecutor Louise Arbour two days before it was publicly announced – with Arbour discussing it in a ten minute telephone call with US President Bill Clinton and British Prime Minister Tony Blair.
An ‘independent’ court? The ICTY was anything but.
Fast forward to May 2011. NATO was once again bombing a sovereign state – this time Libya. Again, things weren’t going quite according to plan as NATO hadn’t made the advances they thought they would have by this stage. The government of Muammar Gaddafi called for a truce and for peace negotiations with the anti-government Western-backed ‘rebels’ based in Benghazi. But a truce and a negotiated settlement was the last thing NATO wanted – they were hell-bent on regime change and turning one of the richest countries in Africa into a failed state.
One day later, it was announced that the ICC’s chief prosecutor was officially seeking an arrest warrant for Gaddafi (and his son Saif al-Islam and Intelligence chief Abdullah Senussi) for ‘crimes against humanity‘ – sabotaging any hopes for a peaceful resolution.
Now of course, the indictments of Milosevic and Gaddafi at times when wars against their countries were not going well for NATO could again have just been one big coincidence. But there was a link between the two cases, as Diana Johnstone noted in her 2011 Counterpunch article ‘The Imperialist Crime Cover Up.’
“In the spring of 1999, David Scheffer, who was then US Secretary of State Madeleine Albright’s Ambassador at large for War Crimes, visited Louise Arbour and provided her with NATO reports on which to base her indictments. Indeed, Scheffer had earlier helped set up the ICTY as instructed by Ms. Albright.”
In 2011, Scheffer was on the scene again, enthusing over the indictment of Gaddafi. “NATO will doubtless appreciate the ICC investigation and indictment of top Libyan leaders, including Kadhafi,” he told AFP.
Johnstone concludes: “Thus the International Criminal Court turns out to be a continuation of the ICTY, that is, an instrument not of international justice but the judicial arm of Western intervention in weaker countries. The ICC could well stand for Imperialist Crimes Cover-up.”
Which brings us back to Georgia.
The ICC’s plan to investigate the Georgia-Russia conflict is noteworthy given other situations it is currently investigating. All nine of them involve Africa. The ICC has indicted 36 individuals to date – all of them were Africans. Mmm, I wonder if you can see any bias here? The crimes of the individuals the ICC has indicted cannot really be compared to those of Western leaders whose ‘interventions,’ whether directly or indirectly through terrorist proxies, have laid waste to vast swathes of the Middle East – CRIMES which the ICC ignores.
ICC = Imperialist Crime Cover Up? What a ludicrous thought!
However, any attempts to use the court to make a Serbia out of Russia are unlikely to succeed. Although Russia signed the Rome Statute which established the ICC, it has not formally ratified the statute. Slobodan Milosevic’s mistake was to recognize the jurisdiction of the ICTY when he signed the Dayton Peace Accords in 1995 – not believing that he would ever be indicted by the court.
Even leaving the issues of legal jurisdiction aside, the ICC is on very shaky ground indeed if it tries to put any blame on Russia for the events which occurred seven years ago.
The war began with Georgia’s cynical attack on the South Ossetian city of Tskhinvali and the Russian peacekeepers stationed there on the night of 7/8th August 2008, as world leaders were gathering in Beijing for the start of the Olympics.
It’s not ‘Russian propaganda’ to claim that Georgia was the aggressor and acted illegally, it’s the simple truth. “There is the question of whether the use of force by Georgia in South Ossetia, beginning with the shelling of Tskhinvali during the night of 7/8 August 2008, was justifiable under international law. It was not,” said the official 2009 EU report on the conflict.
The report also stated:
“There was no ongoing armed attack by Russia before the start of the Georgian operation. Georgian claims of a large-scale presence of Russian armed forces in South Ossetia prior to the Georgian offensive on 7/8 August could not be substantiated by the Mission.”
Russia successfully repelled the Georgian aggression – to the great annoyance of the West’s endless war lobby, who had desperately tried to paint Russia as the aggressor. Anti-imperialist writer Seumas Milne put the five day Georgia-Russia war into context. “The former Soviet republic [Georgia], was a particular favourite of Washington’s neoconservatives. Its forces, trained and armed by the US and Israel, made up the third largest contingent in the occupation of Iraq. It’s authoritarian US-educated president [Mikhail Saakashvili] had been lobbying hard for Georgia to join NATO, as part of the alliance’s eastward expansion up to Russia’s borders.”
The role of Georgia in neocon machinations against Russia could not be plainer. The plan failed miserably in 2008, but now, as Russia pounds western terrorist proxies in Syria, the Georgian conflict has been resuscitated.
This time, though, any use of international courts to bully and subdue a country that doesn’t toe the Washington line is doomed to failure. And if an investigation is opened into the Georgia conflict, but not those directly involving leading Western countries, the only result will be to discredit the ‘Imperialist Crimes Cover-up’ still further.
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Paesi baltici: “democrazia” intermittente tra sfilate di SS e “minaccia russa”
di Fabrizio Poggi, 29 Settembre 2015
Crescono gli allarmi per le manifestazioni più eclatanti e, in diverse occasioni, sfacciatamente provocatorie, di neofascismo, antisemitismo, neonazismo, revisionismo storico, in vari paesi dell'Europa orientale. La questione ha toccato picchi di aperta esternazione, anche simbolica, con l'apparizione dei battaglioni neonazisti in Ucraina, i cui capimanipolo sono stati a suo tempo addestrati da istruttori USA, quindi usati sul fronte del Donbass, dove hanno terrorizzato la popolazione civile, “istituzionalizzati” dal potere golpista di Kiev e, ovviamente, bellamente ignorati – quando non addirittura romanzescamente riverniciati di buonismo – dalla maggior parte dei media nostrani.
Ma, prima e oltre che in Ucraina, dove l'eroicizzazione di elementi e gruppi a suo tempo al servizio delle SS è frutto della “democratizzazione” degli ultimi anni, l'area di più radicata e stagionata memoria nazista è quella del Baltico. Negli ultimi tempi anche in Polonia e in Moldavia si assiste a un crescendo di distruzione di monumenti dedicati ai soldati sovietici caduti nella Seconda guerra mondiale e alla rimozione dei resti di militari dell'Armata Rossa dai cimiteri e loro trasferimento in località remote. Nel migliore dei casi, i monumenti vengono trasferiti in periferie lontane delle città; in altre occasioni, si recintano aree apposite in cui vengono raccolti busti, monumenti, targhe legati alle gesta dei soldati rossi o che in qualche modo ricordino il periodo sovietico – è stato così, a suo tempo, nella stessa Russia – e, più di recente, in alcuni di quei paesi, è scoppiata la moda dei “musei dell'occupazione sovietica”, a volte semplicemente “musei dell'occupazione”, equiparando il periodo sovietico all'invasione nazista. In Estonia, i veterani russi dell'Armata Rossa, anche i decorati come Eroi dell'Unione Sovietica, sono equiparati per legge agli scagnozzi locali al soldo delle SS naziste: alle parate vengono fatti sfilare insieme come “partecipanti alla Seconda guerra mondiale”! Si demoliscono i monumenti ai caduti sovietici, ma si investono solide cifre in quelli alle Divisioni SS baltiche, i cui reduci possono riunirsi ufficialmente, in uniforme nazista, a differenza dei veterani rossi, cui si vietano le assemblee e persino l'esibizione di decorazioni sovietiche. Il 16 marzo è già dal 1994 pressoché ricorrenza ufficiale in Lettonia, a ricordo dell'ingresso in battaglia delle Divisioni lettoni, contro l’Armata Rossa e nelle file delle SS. E se i membri del Comitato antifascista lettone organizzano controparate con la bandiera dell'Urss, a finire in galera sono proprio loro, per esibizione di “simboli antistatali” e non i nazisti della Legione volontaria SS.
Il sempre più traballante primo ministro ucraino Arsenij Jatsenjuk – costretto ora a inventarsi anche falsi attentati, per cercare di risollevare l'audience intorno alla sua persona – non escogita nulla di nuovo, quando parla di “Untermenschen” a proposito dei russi che vivono in Ucraina o quando, come nel gennaio scorso, nell'intervista alla TV tedesca ARD, aveva parlato di “aggressione dell'Urss alla Germania e all'Ucraina” nel 1941: nei paesi baltici, gli omaggi alle ex SS locali, i pianti contro la “occupazione sovietica” o l'esclusione dalla categoria dei vivi di chiunque non sia “nativo etnico”, sono da tempo istituzionalizzati.
Per la verità, ogni tanto anche lì sono costretti a fare qualche passo indietro, quando il passato di qualcuno di quegli “eroi” rischia davvero di compromettere il paese agli occhi della comunità internazionale che, se volge la testa o addirittura amplifica gli urli sulla “invasione bolscevica delle piccole repubbliche” baltiche, è costretta a esternare commenti sdegnati a proposito dell'oltraggio ad alcuni “principi fondanti” della democrazia, come è il caso dell'olocausto. E' così che in Lituania lo scandalo è scoppiato quando si è scoperto che un “eroe nazionale” aveva partecipato, durante la guerra, non solo alle uccisioni di cittadini sovietici – e questo poteva passare: anzi, per questo aveva avuto una medaglia – ma anche alle stragi di ebrei. Dopo quindici anni che Pranas Končius, combattente antisovietico della cosiddetta Unione dei partigiani per la libertà della Lituania (attiva dal 1944 fino a metà anni '50) era stato insignito dell'ordine della Croce di Vytis, la presidente Dalja Gribauskajte si è vista costretta a cancellare il provvedimento, “in considerazione dell'appello del Centro per il genocidio e la resistenza”, che accusava Končius di aver partecipato ad almeno tre fucilazioni in massa di donne e bambini ebrei lituani. Sottufficiale dell'esercito lituano, con l'occupazione tedesca Končius entrò a far parte della polizia al servizio dei nazisti; nel '44, con il ritorno del potere sovietico, si dette alla macchia nelle file dei cosiddetti “fratelli dei boschi”. Accerchiate le bande più volte dai reparti del Ministero degli interni, Končius riuscì sempre a sottrarsi alla cattura, fino al 1965, allorché fu ucciso in un ultimo scontro a fuoco con la polizia sovietica.
Proprio a quei “fratelli dei boschi”, che agivano non solo in Lituania, ma in tutti i paesi baltici, è dedicato il monumento inaugurato lo scorso 11 settembre a Ile, in Lettonia, alla presenza di alte cariche militari ed esponenti della repubblica, tra cui lo speaker della Sejm, il parlamento lettone. Attivi dalla fine della guerra fino a buona parte degli anni '50, i “fratelli dei boschi” erano composti per lo più di ex legionari baltici delle Waffen SS e si resero responsabili dell'uccisione di alcune migliaia di civili sovietici. Di recente, una pubblicazione del Ministero degli esteri di Riga - in Lettonia, nel 1935, gli ebrei costituivano il 5% della popolazione - contiene una perla del tipo: “solo dopo l'indipendenza, nel 1991, si è cominciato a studiare la storia dell'olocausto in Lettonia, durante l'occupazione nazista e sovietica, dal 1940 al 1956” e si sono portati alla luce “aspetti prima distorti dalla propaganda e disinformazione nazista e sovietica”. Bontà sua, si ammette che “alcuni elementi locali” aiutarono i battaglioni di sterminio delle SS anche in Lettonia, per essere poi trasferiti in Russia e Bielorussia; nel massacro di 25mila ebrei del ghetto di Riga, la polizia lettone, secondo la pubblicazione, svolse “solo”(!) il lavoro di sorveglianza, nelle cosiddette “Schutzmannschaften”.
Nei tre paesi baltici, l'odio per le nazionalità diverse si è sempre manifestato sotto forma della loro estraniazione ufficiale dalla vita sociale e pubblica. Se in Estonia, sin dagli anni '20 si sottoposero a emarginazione, discriminazione e saccheggio quelle decine di migliaia (di quel milione di emigrati bianchi russi dopo la rivoluzione d'Ottobre) di “fratelli di classe” russi fuggiti alla “peste bolscevica”, solo per il fatto di non essere estoni puri, ecco che oggi addirittura il preambolo della Costituzione lettone sancisce ufficialmente il principio per cui chi non è lettone è “non cittadino”, e in tale categoria rientra quasi il 15% della popolazione. Vi si parla infatti esclusivamente di “terre lettoni storiche”, “nazione lettone”, “lingua e cultura lettoni”. Nessuna menzione del 27% di popolazione russa, 3,5% bielorussa, 2,2% ucraina e altrettanto polacca; semplicemente, non esistono: non votano, non hanno lingua propria, insomma, come anticipava 90 anni fa il bulgakoviano Poligraf Poligrafič “alla persona senza documenti è severamente vietato esistere”.
Ma tant'è, in nome della “indipendenza”! Recentemente, Oleg Nazarov, del Club Zinovev, scriveva che “il 10 ottobre 1939 fu firmato il trattato sovietico-lituano di mutua assistenza, secondo cui l'Urss passava alla Lituania la città di Vilna (l'attuale capitale Vilnius) e la regione di Vilna. Su tale conseguenza della cosiddetta "occupazione sovietica" (la cui negazione è punibile per legge) i politici lituani tacciono. Non ricordano che durante "l'occupazione" la popolazione della Lituania era in crescita e ora invece si riduce. Tale silenzio non è un caso. La Lituania, che era nell'Urss la vetrina delle conquiste del socialismo, nei 24 anni dalla sua indipendenza non ha ottenuto prosperità, ma si è trasformata in una colonia dell'UE”. Nel complesso, a partire dal 1920 e durante la guerra civile scatenata dagli eserciti bianchi e dalle potenze straniere contro la giovane Repubblica sovietica russa, la Lituania è passata attraverso l'occupazione polacca di vasti territori, mire bielorusse su altri, dittatura fascista e “lituanizzazione” di territori e popolazione e, infine, invasione nazista. Alla fine della guerra il paese riacquistò i territori persi e inoltre, scrive Nazarov – non certo imputabile di simpatie staliniane – si allargò grazie a Stalin con altre aree, in precedenza tedesche o bielorusse. Nel 1990, in occasione del 50° dei trattati sottoscritti dall'Urss con le repubbliche baltiche, “Meždunarodnaja Žizn”, pubblicava alcuni rapporti inviati nel 1939 a Mosca da fiduciari o plenipotenziari sovietici. In tali rapporti si evidenziava come quei vari patti (di mutua assistenza, commerciali o di non aggressione) facessero sorgere forte apprensione nelle classi dominanti di quei paesi: apprensione per la possibile “bolscevizzazione” che sarebbe seguita all'arrivo di reparti dell'Armata Rossa a difesa delle basi concesse all'Urss e che erano invece salutati con entusiasmo dalle forze rivoluzionarie, convinte della prossima fine dei regimi fascisti locali.
Dunque, ancora una volta, si rileva come il nucleo centrale di ogni contrapposizione – nazionale, culturale, religiosa, ecc. - abbia una radice di classe e come l'odierna canea attorno alla presunta “minaccia russa” o a qualunque tema che abbia a che fare con l'esperienza sovietica, risponda a precisi interessi di classe. Gli atti di contrizione per l'olocausto nazista tacciono di fronte alle odierne sfilate degli ultimi avanzi di quelli che Der Spiegel, nel 2009, definiva “Die Komplizen”, se si tratta di abbattere le frontiere di fronte ai capitali occidentali; le genuflessioni quotidiane dinanzi all'icona della democrazia liberale passano in secondo piano allorché sono in gioco gli interessi del polo imperialista europeo, che ha bisogno di allargare il proprio mercato interno e la propria riserva di forza lavoro. Così che, ben vengano gli eredi delle Waffen SS a irrobustire la UE e a cedere territori alle esigenze dell'Alleanza atlantica contro la “minaccia russa”: dopo tutto, si tratta di repubbliche democratiche, anche se la democrazia è limitata a una fetta sola della popolazione.