Sono nata in Kosovo e sono rom, ho frequentato la scuola per alcuni anni, poi ho conosciuto un giovane e mi sono sposata, avevo 15 anni. Sono nata in una famiglia cristiano-ortodossa, poi mi sono avvicinata alla religione musulmana che è la religione di mio marito. Tito, il presidente jugoslavo, è morto nel 1980, quando c'era Tito la vita per i rom in Jugoslavia era buona, c'erano giornali, radio e televisioni in lingua rom, si trovava lavoro, avevamo le case e frequentavamo le scuole. Dal 1982 la situazione generale è iniziata a peggiorare, io lavoravo all'ospedale, facevo le pulizie, aiutavo in cucina, ma mio marito aveva difficoltà a trovare lavoro, così ha deciso di partire per l'Italia per cercare lavoro ed è arrivato a Firenze, era il 1988, ogni tre o quattro mesi mio marito tornava a trovarci, abbiamo avuto quattro figli, un ragazzo e tre ragazze, io vivevo con i miei figli e con la madre ed un fratello di mio marito. Era un grande sacrificio stare per lungo tempo senza mio marito, ma i soldi che guadagnava in Italia servivano per la nostra famiglia in Kosovo, io continuavo a lavorare all'ospedale e in questi anni siamo riusciti a costruire una nuova grande casa ed è venuto a stare con noi anche un altro fratello di mio marito con la sua famiglia.
Siamo scappati a Belgrado, abbiamo vissuto in una palestra, eravamo tante famiglie rom. Volevamo raggiungere l'Italia, ma ci volevano molti soldi, verso metà agosto si pensava di prendere un traghetto, ma proprio in quei giorni un traghetto carico di rom del Kosovo affondò vicino alle coste del Montenegro e morirono 115 persone, si salvò solo un giovane. Così noi si decise di aspettare ancora e cercare di trovare i soldi (migliaia di euro) per poter arrivare in Italia via terra. Finalmente nel mese di ottobre del 2001 siamo riusciti ad arrivare a Firenze.
Roma. “I media smettano di parlare di clan o faide tra rom”. Parla lo zio delle bambine uccise
Graziano Halilovic, lo zio delle bambine rom bruciate vive nel rogo del camper in cui dormivano a Centocelle, ha diffuso pubblicamente un comunicato che riproduciamo qui di seguito integralmente e consigliamo di leggere con grande attenzione:
Sono Graziano Halilovic, cugino di Romano Halilovic e zio di Francesca, Angelica ed Elisabeth,
Qualcuno, un mostro, ha bruciato vive tre bambine nel sonno, con una bottiglia incendiaria che ha trasformato in un rogo il camper di Romano, l’altra notte, a Centocelle, in un parcheggio pubblico, dove stazionavano senza disturbare nessuno.
Non sappiamo chi sia stato potrebbe essere stato chiunque: un rom, un gagiò, un giornalista per fare notizia, un razzista per odio, un italiano o uno straniero….
Un mostro, di certo, che ha commesso un crimine orribile, imperdonabile e disumano, che ha visto dei genitori assistere inermi alla morte dei figli bruciati dal fuoco.
Il punto è che non sappiamo chi sia stato e non possiamo usare la fragilità e il dolore del momento per individuare un colpevole prima che le indagini facciano il loro corso.
Confido che le forze dell’ordine svolgano le indagini senza farsi influenzare da pregiudizi razziali e riescano a dare un nome e un volto al colpevole.
Ma fino ad allora chiedo agli attivisti rom e non rom, alla società civile, a tutte le organizzazioni e ong dei diritti umani, ai politici italiani ed europei di intervenire sui media affinché nel rispetto del dolore della famiglia e nel rispetto delle vittime e della comunità rom, vengano diffidati ad utilizzare termini diffamatori, parlando di “clan” e di “faide tra rom”, associando così la comunità rom ancora una volta a termini che richiamano la criminalità organizzata, finché le indagini di chi ne ha la competenza non porteranno alla luce la verità.
Non sappiamo al momento se il colpevole sia un rom, un italiano, uno straniero, un giornalista o di quale ideologia politica sia. Fare delle illazioni a riguardo, cercando di coinvolgere un’intera comunità, è un gioco inutile e irrispettoso nei confronti dei rom che colpisce la famiglia delle vittime due volte: prima nella irrimediabile perdita e poi nella continua discriminazione.
Voglio ringraziare Papa Francesco, il Presidente della Repubblica Mattarella, il Pontificio Romano e il Vescovo Don Paolo LoJudice, la Comunità di Sant’Egidio, i cittadini di Centocelle e tutti coloro, politici e cittadini italiani, che hanno espresso solidarietà alla famiglia di Romano in questo momento di insuperabile dolore.
Questo è il momento della preghiera e del silenzio, e non della strumentalizzazione per fini diversi di quanto è accaduto: dobbiamo stare vicini a Romano, a Mela e ai loro figli superstiti, e rispettare il loro lutto.
Grazie
Graziano Halilovic
L’orrenda strage di Centocelle: finalmente la sinistra si mobilita
Chiunque sia l’assassino che nella notte fra il 9 e il 10 maggio scorsi ha ridotto in cenere i poveri corpi di Francesca, Angelica ed Elisabeth, è indubbio che quest’atto atroce sia stato favorito dalla marginalità, dalla stigmatizzazione, dalla condizione di povertà estrema inflitte a una parte della diaspora rom: tali da costringere una famiglia di tredici persone a stiparsi in un camper parcheggiato in un’area della borgata romana di Centocelle.
Non potrebbe essere più surreale il contrasto fra una tale condizione miserabile e il luogo in cui si è consumato il rogo delittuoso: il parcheggio di un grande centro commerciale, freddo e anonimo anche nella struttura, concepita come una sorta di tempio del consumismo. Eppure, allorché, dopo un lungo percorso, vi è approdato il folto corteo del 13 maggio scorso – che rivendicava verità e giustizia per le tre sventurate sorelle di quattro, otto e venti anni – gli slogan e gli interventi al microfono si sono spenti d’un tratto, soverchiati da una commozione corale intensa e palpabile.
In realtà, l’intero corteo si è caratterizzato non solo per radicalità e chiarezza politiche, ma anche per empatia e autentica indignazione. A conferirgli questo tono ha contribuito la presenza di una molteplicità di soggetti: dalle femministe di “Non una di meno” alla locale sezione dell’Anpi, dai partiti della sinistra ai centri sociali, dai rappresentanti di alcune associazioni rom al movimento per il diritto all’abitare, fino agli insegnanti e ai genitori dell’Istituto di via Ferraironi, che comprende scuole primarie decisamente all’avanguardia quali la “Iqbal Masiq” e la “Romolo Balzani”. Il giorno prima ben settecento bambini, accompagnati dalle/dagli insegnanti, avevano raggiunto il luogo della strage a recare fiori e disegni.
Nonostante il processo di gentrificazione, Centocelle conserva tracce di memoria e retaggi concreti della sua storia di borgata “rossa”: ricordo che, insieme al Quarticciolo e al Quadraro, la borgata fu focolaio decisivo della Resistenza romana – cosa pagata con deportazioni e fucilazioni– e, più tardi, fu anche nodo importante dei movimenti degli anni ’70. Di una tale storia è erede la rete di presidî democratici e antirazzisti presente nel quartiere. E’ anzitutto questa – mi sembra – ad aver permesso la riuscita del corteo e ad aver sventato il rischio che prevalesse, anche in un caso così tragico, l’ormai consueto sussulto di razzismo popolare: in realtà, spesso aizzato e organizzato da qualche Casa Pound o Forza Nuova, nondimeno fatto passare per “guerra tra poveri”.
D’altra parte, nel corso degli anni recenti, la sinistra, anche quella detta alternativa, non si era certo contraddistinta per attivismo in favore dei diritti dei rom, se non in qualche occasione e soprattutto per merito dell’associazionismo antirazzista. Né valse a mobilitarla la morte atroce di quattro bambini nel 2011: anch’essi morti carbonizzati da un incendio, quella volta scoppiato nel campo-rom di Tor Fiscale, sull’Appia Nuova.
Per dire di quali pregiudizi alberghino anche nelle nostre file, basta un piccolo esempio: tre giorni dopo l’orrendo attentato di Centocelle, su una testata online d’estrema sinistra qualcuno – evitando il più piccolo cenno alla strage – scriveva dei rom come di “un’etnia i cui usi e costumi non consentono l’integrazione nel tessuto civile”.
A mia memoria, la mobilitazione di sinistra più ampia ed efficace risale al 2008. Allorché il ministro dell’interno Maroni predispose la schedatura di massa dei rom, con prelievo forzoso delle impronte digitali anche ai bambini: un provvedimento simile alle schedature razziste dei regimi nazifascisti, finalizzate a costruire archivi per l’individuazione, segregazione, concentramento, deportazione delle minoranze. Fu per merito di tale mobilitazione, oltre che per le condanne anche da parte d’istituzioni internazionali, che Maroni e il sindaco Alemanno furono costretti a fare qualche passo indietro.
Al di là di questa piccola vittoria, nulla è cambiato, a Roma e altrove, nella condizione dei rom in emergenza abitativa. Ricordo che, se in Italia la popolazione di rom e sinti conta al massimo 180mila persone – delle quali almeno 70mila sono di cittadinanza italiana – appena 28mila sono quelle che vivono in baraccopoli istituzionali o in insediamenti informali: cifra che corrisponde a uno scarso 0,05% della popolazione italiana.
Sebbene così esiguo sia il numero dei casi che occorrerebbe risolvere con politiche abitative adeguate, si perpetuano la logica del famigerato Piano nomadi, la politica degli sgomberi forzati – talvolta violenti – dei campi “abusivi”, l’esclusione dall’edilizia residenziale pubblica, la repressione di attività informali, uniche possibili fonti di reddito. In realtà, i campi rappresentano il dispositivo con cui si compie, in modo estremo ed esemplare, il processo di allontanamento spaziale e simbolico dalla società e dalla civitas di persone reputate ed etichettate come altre, dunque indesiderabili per eccellenza.
Per non dire che tuttora insoddisfatte restano le rivendicazioni contenute in una proposta di legge, a sua volta modellata su una d’iniziativa popolare: il riconoscimento quale minoranza storico-linguistica, in rispetto degli articoli 3 e 6 della Costituzione; l’incentivo e la tutela delle associazioni costituite da rom e sinti; il diritto di vivere dignitosamente e secondo il modo liberamente scelto, che sia la sedentarietà o l’itineranza.
Su un numero così esiguo di persone si addensa il massimo non solo di stigmatizzazione, ma anche di valenza simbolica. Quest’ultima vale anche in un altro senso: la legge del 18 aprile 2017, n. 48, in materia di sicurezza urbana, con cui s’intende sorvegliare, criminalizzare e punire la marginalità, la povertà, ma anche la non-conformità sociale, colpirà, sì, in primo luogo i rom, ma pure chiunque si sottragga alla “norma” sociale. Non foss’altro che per questo, tutti/e noi dovremmo sentircene coinvolti/e.
(18 maggio 2017)
Cambiare subito le politiche rivolte a Rom, Sinti e Caminanti. Appello per commissione d’inchiesta
Pubblicato il 19 mag 2017
Rogo di Centocelle. La pista rom si arena sull’alibi. Le altre dove sono?
di F.R., 14 giugno 2017
Seif Seferovic è il giovane rom accusato del rogo del camper di Centocelle in cui morirono bruciate vive tre sorelle, di cui due bambine. Quasi subito si parlò di lui come l’autore dell’orribile omicidio. Lo stesso Seferovic lo apprese leggendo il giornale, ragione per cui si affrettò a chiedere informazioni in Procura tramite il suo avvocato Gianluca Nicolini rendendosi disponibile ad essere interrogato. Dalla sua aveva un alibi a prova di bomba: la notte del rogo di Centocelle stava dormendo in un autogrill lungo l’autostrada Roma-Civitavecchia ed era stato identificato proprio dalla polizia che poi lo aveva pure fermato.
Per precauzione si era allontanato dal campo rom di Salviati dove viveva, (zona Tor Sapienza, periferia Est di Roma). L’idea molto probabilmente era quella di rifugiarsi all’estero. Poi però si fece trovare a Torino, dove aveva dato appuntamento alla sua compagna che però era stata pedinata dalla polizia, la quale ha arrestato Seferovic con l’accusa del rogo omicida di Centocelle.
Gli investigatori della Capitale restano convinti che sia stato Seferovic a lanciare la molotov omicida la notte del 10 maggio.
Seferovic però si professa innocente e deve rispondere di omicidio plurimo, tentato omicidio (nel camper quella notte c’erano tutti e 13 i componenti della famiglia Halilovic), detenzione, porto e utilizzo d’arma da guerra e incendio doloso. Il 6 giugno c’è stato il primo accertamento tecnico irripetibile sulle impronte lasciate sui frammenti della bottiglia. Seferovic è stato scarcerato e non ha dovuto partecipare di persona all’accertamento. Al momento è rimasto a Torino e, secondo il suo legale, è perfettamente reperibile.
Il provvedimento con cui il Gip di Torino ha convalidato il fermo di Seferovic ma non ha disposto alcuna misura cautelare potrebbe essere impugnato dalla Procura di Roma. I magistrati romani stanno infatti valutando l’ordinanza emessa dalla Procura torinese e non è escluso che possano impugnare il provvedimento davanti al Tribunale del riesame. Ma a otto giorni dall’accertamento tecnico ancora non se ne sa nulla.
Forse è venuto il momento di riporre la stessa domanda che ponemmo il giorno stesso del rogo omicida di Centocelle.
a) Gli investigatori sulla base delle dichiarazioni del padre delle bambine uccise indicarono subito la pista della “faida tra rom”, anzi la indicarono come l’unica pista investigativa. Alla luce di quanto emerso successivamente – incluso l’alibi di ferro di Seferovic rappresentato dai funzionari di polizia che lo hanno identificato e fermato in un luogo distante dal rogo di Centocelle – questa pista può essere ancora considerata l’unica da percorrere oppure si può cominciare a guardare alle indagini con una visione più ampia e non a senso unico?
Porrajmos, il grande divoramento, lo sterminio degli zingari: una parola che non dovremmo mai dimenticare, ma che non abbiamo mai voluto ricordare.
Al grido di “vi uccidiamo”, “siete animali”, “vi cacceremo via”, due giorni fa, il 6 giugno, i comitati anti-rom hanno manifestato a ridosso del campo nomadi di Strada dell’Aeroporto a Torino. Improvvisamente e senza preavviso una colonna di persone, animate da isteria collettiva e odio razziale e munite di torce accese, è spuntata minacciosa dall’oscurità: rituali che, purtroppo, si ripetono sempre più frequentemente in una “ordinarietà” che li sta progressivamente svuotando della loro essenza criminosa. Nel cielo notturno le fiaccole erano puntate come dei riflettori. Poi sono state lanciate nel campo, provocando il panico generale.
“Nessuno aveva preavvisato le famiglie del campo a proposito della manifestazione – racconta Vesna Baxtali Vuletic, presidente di Idea Rom Onlus – con il risultato che alcune donne erano sole al campo con i bambini. Nessun veicolo delle forze dell’ordine era presente all’ingresso del campo nomadi per presidiare eventuali situazioni di emergenza.”
Alcune frange del corteo si sono poi staccate, dirigendosi verso le abitazioni più isolate e costringendo molte persone alla fuga in mezzo ai rovi e in direzione del fiume. I bambini sono fuggiti a piedi lungo la tangenziale, tra le macchine che sfrecciavano ad altissima velocità. Molti di loro si sono persi e sono stati poi ritrovati dopo alcune ore, pieni di graffi causati, durante la fuga, dagli arbusti.
C’è una sola parola che restituisce efficacemente quanto accaduto: pogrom, metastasi di un sistemache criminalizza rom, migranti, senza casa, poveri, disoccupati e che esercita il potere in modosadico, al punto da modificare anche la percezione che i più deboli hanno di sé e della realtà,riducendoli a un sentimento d’impotenza, di fragilità, di solitudine, la condizione dei “sottouomini”.
Il razzismo e la xenofobia possono dare impulso ad accessi di violenza collettiva, a vere e proprie “liturgie” di massa scandite sulla dialettica amico/nemico, a scenari sinistri di cui, purtroppo, la nostra storia è costellata. Gli psicologi delle masse spesso hanno spiegato l’adesione a rituali xenofobi collettivi, riconducendoli alla ricerca di un rifugio di fronte al senso di smarrimento. “Il cerimoniale permette a un gruppo di comportarsi in un modo simbolicamente ordinato così da dare l’impressione di rivelare un universo ordinato; ogni particella acquista la sua identità mediante la semplice interdipendenza con le altre” (Erik Erikson).
Eppure varrebbe la pena interrogarsi non solo sul “perché” le cose accadono ma anche sul “come”.
Quel “come” non è riconducibile solo agli aspetti irrazionali. Sono i dispositivi politici, le strutture giuridiche e le macchine amministrative che fanno apparire accettabile, “ordinario”, se nonaddirittura socialmente giustificabile, il volto della persecuzione. È quanto si sta verificando col nuovo decreto Minniti – Orlando che rappresenta la “normalizzazione” di una politica che</
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