Manlio Dinucci
BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI 

(SEGUE) PARTI 6... 10. Fonti:
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20111498
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20163788
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20233439
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20294771
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20545499


Si vedano anche:

– il libro di Manlio Dinucci
L’arte della guerra. Analisi della strategia USA/NATO (1990-2015)
Prefazione di Alex Zanotelli. Nota redazionale di Jean Toschi Marazzani Visconti
Zambon editore, 2015, pp. 550, euro 18,00

– la serie di Manlio Dinucci del 2014-2015 sul riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda:

Sulla storia della NATO ben prima del 1991 segnaliamo: 

LA NATO. IL NEMICO IN CASA (1968)
Regia: Giuseppe Ferrara. Casa di produzione: Pci. Sezione stampa e propaganda
Abstract: Il documentario, realizzato interamente con materiali di repertorio, è una ricostruzione degli eventi che precedettero la firma del Patto Atlantico e degli avvenimenti spesso drammatici che si sono succeduti in Italia e nel mondo. Le lotte popolari in difesa della pace e per l'indipendenza nazionale, i conflitti armati determinati in diversi paesi dalla politica aggressiva dell'imperialismo americano


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BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 6)

Manlio Dinucci

LA GUERRA USA/NATO IN IRAQ

Il piano statunitense di attaccare e occupare l’Iraq appare evidente quando, dopo l’occupazione dell’Afghanistan nel novembre 2001, il presidente Bush mette l'Iraq, nel 2002, al primo posto tra i paesi facenti parte dell’«asse del male».

Dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, l’Iraq è stato sottoposto ad un ferreo embargo che ha provocato in dieci anni circa un milione di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Una strage provocata, oltre che dalla denutrizione cronica e la mancanza di medicinali, dalla carenza di acqua potabile e dalle conseguenti malattie infettive e parassitarie. Gli Stati Uniti – dimostrano documenti venuti alla luce successivamente – hanno attuato un preciso piano: prima bombardare gli impianti di depurazione e gli acquedotti per provocare una crisi idrica, quindi impedire con l’embargo che l’Iraq possa importare i sistemi di depurazione. Le conseguenze sanitarie erano chiaramente previste sin dall’inizio e programmate in modo da accelerare il collasso dell’Iraq. Altre vittime vengono provocate, negli anni successivi alla prima guerra, dai proiettili a uranio impoverito, massicciamente usati dalle forze statunitensi e alleate sia nei bombardamenti aerei che in quelli terrestri.

La seconda guerra contro l’Iraq si rivela però più difficile a motivare di quella effettuata nel 1990-91. A differenza di allora, l’Iraq di Saddam Hussein non compie alcuna aggressione e si attiene alla Risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, permettendo agli ispettori Onu di entrare in tutti i siti per verificare l’eventuale esistenza di armi di distruzione di massa (che non vengono trovate). Diviene di conseguenza più difficile per gli Stati Uniti creare la motivazione «legale» per la guerra e, su questa base, ottenere un imprimatur internazionale analogo a quello del 1991.

L’amministrazione Bush è però decisa ad andare fino in fondo. Fabbrica una serie di «prove», che successivamente risulteranno false, sulla presunta esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e batteriologiche, che sarebbe in possesso dell’Iraq, e su una sua presunta capacità di costruire in breve tempo armi nucleari. E, poiché il Consiglio di sicurezza dell’Onu si rifiuta di autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca.

La guerra inizia il 20 marzo 2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri centri da parte dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. Il 9 aprile truppe Usa occupano Baghdad. L’operazione, denominata «Iraqi Freedom», viene presentata come «guerra preventiva» ed «esportazione della democrazia». Viene in tal modo attuato il principio enunciato dal Pentagono (Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre 2001): «Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi stati ed entità non-statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati». 

Ma, oltre alla «volontà degli Stati Uniti», c’è la volontà dei popoli di resistere. E’ ciò che avviene in Iraq, dove le forze di occupazione statunitensi e alleate – comprese quelle italiane impegnate nell’operazione «Antica Babilonia» – cui si uniscono i mercenari di compagnie private, incontrano una resistenza che non si aspettavano di trovare, nonostante la durissima repressione che provoca nella fase iniziale della guerra (solo per effetto delle azioni militari) decine di migliaia di morti tra la popolazione. 

Poiché la resistenza irachena inceppa la macchina bellica statunitense e alleata, Washington ricorre all’antica ma sempre efficace politica del «divide et impera», facendo delle concessioni ad alcuni raggruppamenti sciiti e curdi così da isolare i sunniti. Nel caso che l’operazione non riesca, Washington ha pronto il piano di riserva: disgregare l’Iraq (come già fatto con la Federazione Jugoslava) in modo da poter controllare le zone petrolifere e altre aree di interesse strategico, attraverso accordi con gruppi di potere locali.

È a questo scopo che interviene ufficialmente la Nato, la quale ha fino a quel momento partecipato alla guerra di fatto con proprie strutture e forze. Nel 2004 viene istituita la «Missione Nato di addestramento», al fine dichiarato di «aiutare l’Iraq a creare efficienti forze armate». Dal 2004 al 2011 vengono addestrati, in 2000 corsi speciali tenuti in paesi dell’Alleanza, migliaia di militari e poliziotti iracheni che vengono anche dotati di armi donate dagli stessi paesi. 

Contemporaneamente la Nato invia in Iraq istruttori e consiglieri, compresi quelli italiani, per «aiutare il paese a creare un proprio settore della sicurezza a guida democratica e durevole» e per «stabilire una partnership a lungo termine della Nato con l’Iraq». 


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 7)

Manlio Dinucci

LA SEMPRE PIU’ STRETTA COOPERAZIONE MILITARE NATO-ISRAELE

Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica. 
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni Novanta. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico. 
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare». 
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento». 
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato, che si svolge in Ucraina. 
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006). 
Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).

LA NATO «A CACCIA DI PIRATI» NELL’OCEANO INDIANO  

Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2), attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Dietro questa missione Nato, vi è quindi ben altro. In quel momento, in Somalia, la politica statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala. 
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono ricorsi alla pirateria. 
Nella strategia Usa/Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan. 


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 8)

Manlio Dinucci

LA DEMOLIZIONE DELLO STATO LIBICO 

La strategia Usa/Nato consiste nel demolire gli Stati che sono del tutto o in gran parte fuori del controllo degli Stati Uniti e delle maggiori potenze europee, soprattutto quelli situati nelle aree ricche di petrolio e/o con una importante posizione geostrategica. Si privilegiano, nella lista delle demolizioni, gli Stati che non hanno una forza militare tale da mettere in pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori. 
L’operazione inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni Stato ha. Nella Federazione Jugoslava, negli anni Novanta, vengono fomentate le tendenze secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici che si oppongono al governo di Belgrado. Tale operazione viene attuata facendo leva su nuovi gruppi di potere, spesso formati da politici passati all’opposizione per accaparrarsi dollari e posti di potere. 
Contemporaneamente si conduce una martellante campagna mediatica per presentare la guerra come necessaria per difendere i civili, minacciati di sterminio da un feroce dittatore. 
Si chiede quindi l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, motivando l’intervento con la necessità di destituire il dittatore che fa strage di inermi civili. Basta il timbro con scritto «si autorizzano tutte le misure necessarie» ma, se non viene dato (come nel caso della Jugoslavia), si procede lo stesso. La macchina da guerra Usa/Nato, già approntata, entra in azione con un massiccio attacco aeronavale e operazioni terrestri all’interno del paese, attorno a cui è stato fatto il vuoto con un ferreo embargo.
Questa strategia, dopo essere stata attuata contro la Federazione Jugoslava, viene adottata contro la Libia nel 2011. 
Vengono prima finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Vengono allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. L’intera operazione viene diretta dagli Stati Uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. 
Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia. In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. 
A questa guerra partecipa l’Italia con le sue basi e forze militari, stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due paesi. Per la guerra alla Libia l’Italia mette a disposizione delle forze Usa/Nato 7 basi aeree (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria), assicurando assistenza tecnica e rifornimenti. L’Aeronautica italiana partecipa alla guerra effettuando 1182 missioni, con cacciabombardieri Tornado, F-16 Falcon, Eurofighter 2000, AMX, droni Predator B ed aerorifornitori KC-767 e KC130J. La Marina militare italiana viene impegnata nella guerra su più fronti: dalle operazioni di embargo navale, alle attività di pattugliamento e rifornimento.
Con la guerra Usa/Nato del 2011, viene demolito lo Stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l’impresa a una «rivoluzione ispiratrice» che gli Usa si dicono fieri di sostenere, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà». Viene demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte all’Italia, manteneva «alti livelli di crescita economica» (come documentava nel 2010 la stessa Banca mondiale), con un aumento medio del pil del 7,5% annuo, e registrava «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 46%, a quella di livello universitario. Nonostante le disparità, il tenore di vita della popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli altri paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in Libia oltre due milioni di immigrati, per lo più africani.
Vengono colpiti dalla guerra, quindi, anche gli immigrati dall’Africa subsahariana che, perseguitati con l’accusa di aver collaborato con Gheddafi, sono imprigionati o costretti a fuggire. Molti, spinti dalla disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa. Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra con cui la Nato ha demolito lo Stato libico.

LE VERE RAGIONI DELLA GUERRA ALLA LIBIA  

Molteplici fattori rendono la Libia importante agli occhi degli Stati Uniti e delle potenze europee. Le riserve petrolifere – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale. 
Dopo che Washington abolisce nel 2003 le sanzioni in cambio dell’impegno di Gheddafi a non produrre armi di distruzione di massa, le grandi compagnie petrolifere statunitensi ed europee affluiscono in Libia con grandi aspettative, rimanendo però deluse. Il governo libico concede le licenze di sfruttamento alle compagnie straniere che lasciano alla compagnia statale libica (National Oil Corporation of Libya, Noc) la percentuale più alta del petrolio estratto: data la forte competizione, essa arriva a circa il 90%. Per di più la Noc richiede, nei contratti, che le compagnie straniere assumano personale libico anche in ruoli dirigenti. Abbattendo lo Stato libico, gli Stati uniti e le potenze europee mirano a impadronirsi di fatto della sua ricchezza energetica. 
Oltre che all’oro nero, mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato il governo libico, costruendo una rete di acquedotti lunga 4mila km per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre desertiche. Su queste riserve idriche, in prospettiva più preziose di quelle petrolifere, vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi – le multinazionali dell’acqua, che controllano quasi la metà del mercato mondiale dell’acqua privatizzata.
Nel mirino Usa/Nato ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo Stato libico ha investito all’estero. I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Da quando viene costituita nel 2006, la Lia effettua in cinque anni investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre. Tali fondi vengono «congelati», ossia sequestrati, dagli Stati Uniti e dalle maggiori potenze europee. 
L’assalto ai fondi sovrani libici ha un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company aveva effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici erano stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permetteva ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.
Ancora più importanti erano stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi avrebbe potuto permettere ai paesi africani di sottrarsi almeno in parte al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, indebolendo il dollaro e il franco Cfa (la moneta che sono costretti a usare 14 paesi africani, ex-colonie francesi). Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo mortale all’intero progetto.
Le mail di Hillary Clinton (segretaria di stato dell’amministrazione Obama nel 2011), venute alla luce successivamente nel 2016, confermano quale fosse il vero scopo della guerra: bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione africana e una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco Cfa.
Importante, per gli Usa e la Nato, la stessa posizione geografica della Libia. all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Va ricordato che re Idris, nel 1953, aveva concesso agli inglesi l’uso di basi aeree, navali e terrestri in Cirenaica e Tripolitania. Un accordo analogo era stato concluso nel 1954 con gli Stati Uniti, che avevano ottenuto l’uso della base aerea di Wheelus Field alle porte di Tripoli. Essa era divenuta la principale base aerea statunitense nel Mediterraneo. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica aveva costretto nel 1970 le forze statunitensi e britanniche a evacuare le basi militari e, l'anno seguente, aveva nazionalizzato le proprietà della British Petroleum e costretto le altre compagnie a versare allo Stato libico quote molto più alte dei profitti.


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 9)

Manlio Dinucci

L’INIZIO DELLA GUERRA CONTRO LA SIRIA 

Nell’ottobre 2012 il Consiglio Atlantico denuncia «gli atti aggressivi del regime siriano al confine sudorientale della Nato», pronto a far scattare l’articolo 5 che impegna ad assistere con la forza armata il paese membro «attaccato», la Turchia. Ma è già in atto il «non-articolo 5» – introdotto durante la guerra alla Jugolavia e applicato contro l’Afghanistan e la Libia – che autorizza operazioni non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza. 

Quella in Siria inizia nel 2011. Eloquenti sono le immagini degli edifici di Damasco e Aleppo devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati. Circa 200 specialisti delle forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi. 

La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato del Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), i combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, fornisce anche forze speciali. 

Il comando delle operazioni è a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta. A Istanbul viene aperto un centro di propaganda dove dissidenti siriani, formati dal Dipartimento di stato Usa, confezionano le notizie e i video che vengono diffusi tramite reti satellitari. La guerra Nato contro la Siria è dunque già in atto, con la motivazione ufficiale di aiutare il paese a liberarsi dal regime di Assad. Come in Libia, si è infilato un cuneo nelle fratture interne per far crollare lo Stato, strumentalizzando la tragedia delle popolazioni travolte. 

Una delle ragioni per cui si vuole colpire e occupare la Siria è il fatto che Siria, Iran e Iraq hanno firmato nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro grosso giacimento presso Homs, potrebbe divenire in tal modo un hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee. 


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 10)

Manlio Dinucci

IL COLPO DI STATO IN UCRAINA

L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. 

L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come fanno altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani. 

Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. 

Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo. 

Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. 

Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato. 

Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. 

E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare. 

Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati. 

Lo stesso metodo usato dalla Nato, durante la guerra fredda, per formare la struttura paramilitare segreta «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vengono addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato.