(PARTE SECONDA E FINE)

Uranio \"impoverito\", aggiornamenti 2015-2017

(in ordine cronologico inverso)

(SEGUE DALLA PARTE PRIMA: https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8758 )
5) La battaglia sui risarcimenti ai militari in Italia (delle vittime civili, invece, se ne fregano):
– Uranio impoverito, in Toscana lo Stato condannato a risarcire un militare (2017)
– Cassazione: SI al risarcimento per il militare morto per l’uranio impoverito (2016)
– Morì per l’uranio impoverito. Condannato il ministero della Difesa (2016)
– Uranio impoverito, Difesa condannata: “Sapeva dei rischi, soldati non tutelati” (2015)
6) Uranio impoverito, la strage silenziosa continua (2015)
Le vittime non si contano soltanto fra i nostri militari di ritorno dalle missioni all’estero, ma anche fra i loro figli...


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Uranio impoverito, in Toscana lo Stato condannato a risarcire un militare

Il Ministero della Difesa dovrà pagare 447 mila euro a un soldato ammalatosi in guerra
19 aprile 2017

Si era ammalato durante una missione militare, dopo essere entrato a contatto con proiettili a uranio impoverito. Ora, dopo anni di battaglie giudiziarie, il Tar della Toscana ha condannato il ministero della Difesa a risarcire di 447.000 euro il militare, capitano dell\'Esercito.
Il dispositivo accoglie la richiesta del militare che e\' stato impiegato in una missione militare dall\'ottobre del 1996 al giugno del 2002. Un impegno che gli e\' costato la salute. In effetti, due anni piu\' tardi, nel 2004 il soldato si e\' visto diagnosticare un carcinoma papillare alla tiroide, per i quale e\' stato sottoposto a un intervento chirurgico di tiroidectomia totale. Il comitato di verifica ha stabilito, alcuni anni dopo, che le cause del tumore erano \"dipendenti da causa di servizio\" e \"riconducibili alle particolari condizioni ambientali ed operative di missione\".
Vale a dire, in missione il soldato e\' entrato a contatto con armamenti e proiettili a uranio impoverito senza le dovute informazioni o protezioni messe a disposizione dal ministero. I giudici amministrativi, guidati dal presidente del Tar della Toscana Armando Pozzi, hanno rigettato le tesi dell\'avvocatura dello Stato sia sulla mancata conoscenza al tempo della nocivita\' dell\'uso dell\'uranio impoverito sia su un carente nesso causale fra la malattia che e\' insorta al termine dell\'operazione e gli armamenti a rischio. Inoltre, per l\'avvocatura dello Stato il ministero avrebbe offerto sufficienti precauzioni per lenire la nocivita\' dell\'uso dell\'uranio sul campo di battaglia. Argomentazioni rigettate in toto dal giudice amministrativo.
Nella sentenza, il Tar ricorda come il massimo organismo previsto dalla pubblica amministrazione per decidere in merito, cioe\' il comitato di verifica delle cause di servizio nel 2008 abbia dato ragione al militare. Inoltre, che l\'uranio impoverito sia responsabile dei tumori alla tiroide e\' avvalorato da una \"sterminata letteratura\" scientifica, gia\' assimilata negli anni dalla giurisprudenza. Peraltro, sin dalla guerra nel Golfo del 1991 sono stati accertati casi di cancro riconducibili alla particolare miscela di proiettili e dal 1992 anche lo Stato italiano e\' stato messo al corrente delle contromisure adottate, per preservare la salute degli uomini in divisa, in ambito Onu e Nato. Il procedimento e\' stato particolarmente travagliato. Il ricorrente inizialmente ha incardinato la causa contro il ministero della Difesa in sede civile, dopodiche\' a seguito di una sentenza favorevole in primo grado, la Corte d\'appello di Firenze ha palesato la propria incompetenza giuridica a beneficio del Tar. Tuttavia, di quella fase processuale i giudici amministrativi hanno salvato un pezzo significativo: la perizia della Ctu con la monetizzazione
 del danno riportato. Il soldato, che continua col grado di capitano a svolgere la propria mansione di paracadutista, si e\' visto riconoscere 27.250 euro derivanti dall\'invalidita\' temporanea, ulteriori 321.678 euro dall\'invalidita\' permanente e altri 98.850 euro per il mancato impiego nelle missioni svolte all\'estero del reggimento di appartenenza. Il ministero della Difesa e\' stato condannato, inoltre, a rifondere gli interessi maturati e 4.000 euro di spese legali.


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CASSAZIONE: SI’ AL RISARCIMENTO PER IL MILITARE MORTO PER L’URANIO IMPOVERITO
 
Da Studio Cataldi
http://www.studiocataldi.it
21/11/16
 
Per le sezioni unite, sono vittime del dovere i militari morti per le malattie contratte dopo la missione in Bosnia
 
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno disposto, con la sentenza n. 23300/2016, che il militare colpito da patologia fatale causata dal contatto con l’uranio impoverito (sostanza notoriamente cancerogena), fa parte della categoria delle “vittime del dovere”. 
 
La vicenda vede protagonista un militare ventisettenne che, in seguito a missioni in Somalia e Bosnia nell’anno 2000, muore a causa di un tumore. I giudici di secondo grado hanno riconosciuto la richiesta di risarcimento addotta dagli eredi del giovane militare ai sensi della Legge 266/05. 
 
Il Ministero della Difesa contesta tale decisione e propone ricorso sostenendo che nella fattispecie si esclude il diritto soggettivo in ragione di ciò che si evince dalle valutazioni del comitato di verifica per le cause di servizio.
 
La Corte precisa, invece, che nel caso in specie i benefici accordati in favore alle vittime del terrorismo e della criminalità si estendono alle cosiddette “vittime del dovere”; detta estensione è dovuta alla disciplina dell’articolo 1 nei commi 562-565 della Legge 266/05.
Inoltre, viene sottolineato che si considerano “vittime del dovere” i soggetti indicati nell’articolo 3 della Legge 466/80 come disposto dal comma 563 della legge sopracitata del 2005. 
In particolare si fa riferimento ai dipendenti pubblici deceduti o invalidi in maniera permanente a seguito di attività di servizio o nell’esercizio di funzioni di istituto conseguenti a lesioni derivanti da eventi verificatisi: 
-         nel contrasto a ogni tipo di criminalità; 
-         nello svolgimento di servizi di ordine pubblico; 
-         nella vigilanza a infrastrutture civili e militari; 
-         in operazioni di soccorso; 
-         in attività di tutela della pubblica incolumità; 
-         a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi, necessariamente, caratteri di ostilità.
 
Altresì, i soggetti beneficiari sono, oltre ai soggetti di cui al comma 563, anche chi a seguito di missioni nazionali o internazionali, muoia o sia colpito da infermità permanente e ciò sia causato dalle condizioni ambientali e operative peculiari del servizio. Quindi, il comma 564 equipara tali soggetti a quelli di cui il comma precedente ampliando la categoria dei beneficiari.
 
Il giovane militare durante le missioni alle quali aveva preso parte era venuto a contatto più volte con uranio impoverito ritenuto la causa dell’insorgere della patologia e della relativa morte. 
Orbene, il ricorso del Ministero della Difesa viene respinto proprio in ragione del nesso di causalità tra la sostanza ritenuta cancerogena e la patologia che ha causato la morte del militare. 
Al rigetto del ricorso segue la condanna in capo al Ministero al pagamento delle spese giudiziarie.
 
Avvocato Gioia Fragiotta
gioiafra  @hotmail.com

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LA BATTAGLIA VINTA DELLA MADRE GIUSEPPINA 

Morì per l’uranio impoverito
Condannato il ministero della Difesa

Salvatore Vacca, militare di 23 anni, era morto per gli effetti dell’uranio utilizzato negli armamenti. Per i giudici è stato esposto senza adeguate informazioni sulle precauzioni da adottare

di Virginia Piccolillo, 20 maggio 2016

Salvatore Vacca, fante del 151° reggimento della Brigata Sassari, morì a 23 anni, nel settembre 1999, per una leucemia dovuta agli effetti dell’uranio impoverito. A distanza di oltre 16 anni l a Corte d’Appello di Roma, ha dato ora ragione alla battaglia della «madre coraggio» Giuseppina, condannando il ministero della Difesa per omicidio colposo. E nella sentenza, pubblicata ieri, ha messo la parola fine su ciò che è sempre stato negato. «La pericolosità delle sostanze prescinde dalla concentrazione» dell’uranio impoverito delle armi. Il ragazzo venne esposto senza «alcuna adeguata informazione sulla pericolosità e sulle precauzioni da adottare». Secondo i giudici, inoltre, «vi è compatibilità tra il caso ed i riferimenti provenienti dalla letteratura scientifica» nonché «esistenza di collegamento causale tra zona operativa ed insorgenza della malattia». Secondo la sentenza, oltre all’indennizzo già ricevuto, le vittime o i loro familiari hanno diritto anche al risarcimento dei danni subiti. Per Salvatore Vacca è stato calcolato intorno a 1,8 milioni di euro.

«I soldi? Non serviranno»

«Non saranno i soldi, se mai li dovessero dare, a colmare il dolore che ha lasciato Tore» commenta, emozionata, mamma Giuseppina, assistita dall’avvocato Angelo Fiore Tartaglia. «Avrebbe fatto 40 anni domenica scorsa. Anzi ha fatto 40 anni: per noi è sempre qui. Gli amici, come ogni anno nel giorno del suo compleanno, sono venuti a mangiare gli amaretti, a bere una birra. Era un ragazzone alto, 1,82, pesava 80 chili quando è partito per la Bosnia. Alla fine ne pesava 50. Sapeva che stava per morire. Ma scherzava, era sempre lui. Quando uscì l’ultima volta dalla dialisi che non ce la faceva più alzo il braccio e disse al babbo: “Batti il cinque”. Due giorni dopo non c’era più». 

Dicevano: «Sta bene, non ha niente»

Negli occhi ancora quel ragazzone «coccolone, affettuoso, generoso con tutti». Nel cuore ancora la rabbia per la verità negata. «Dicevano: “sta bene, non ha niente”, anche quando lui dimagriva un chilo al giorno. Aveva la leucemia. Quando finalmente lo portarono al reparto oncologico la dottoressa grido: ‘Me lo avete portato già morto!”». E ancora: «Dopo cominciarono a dire che si erra ammalato in licenza. Ma dove avrebbe preso tutti quei metalli e quelle sostanze che aveva nel sangue qui a casa? Io ancora non sapevo nulla. Non sapevo dell’uranio che si irradia dai proiettili sparati. Tutti negavano. Sei mesi dopo Tore era già morto».

La strage dei 333

«Questa sentenza mette la parola fine sul piu’ noto dei casi di quella che può essere considerata una strage: 333 militari morti e oltre 3600 malati» dichiara soddisfatto Domenico Leggiero, responsabile dell’Osservatorio militare, da sempre vicino alle vittime da uranio e ai loro familiari. E auspica che «dopo mille resistenze, ora potrà avere maggiore attenzione il lavoro svolto dalla commissione parlamentare guidata dall’onorevole Gian Piero Scanu, che ha riacceso le speranze delle famiglie che hanno perso il loro congiunto e delle migliaia che stanno soffrendo. La sentenza capita proprio al momento giusto: giovedì sarà audito in commissione il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che non potrà che prendere atto della sentenza». 

I precedenti

Vacca era uno dei soldati italiani morti per malattie contratte dopo la partecipazione a missioni militari nei Balcani e in Albania. Tra gli altri Valery Melis, morto nel 2004 dopo una lunga malattia manifestatasi al ritorno dalla missione in Kosovo. Per questo episodio la Difesa era già stata condannata dal tribunale civile di Cagliari ad un risarcimento di 584 mila euro ai famigliari [ http://www.corriere.it/cronache/11_agosto_14/uranio-impoverito-risarcimento-soldato-morto-kosovo_11811274-c64d-11e0-a5f4-4ef1b4babb4e.shtml ]. Anche in quel caso il giudice aveva sottolineato la conoscenza da parte dei vertici militari della pericolosità dell’utilizzo di proiettili contenenti uranio impoverito e la mancanza di informazioni presso i soldati che non erano stati messi nelle condizioni di adottare precauzioni adeguate. Sempre per l’esposizione alla stessa sostanza era morto nel dicembre scorso, per tumore, Gianluca Danise [ http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_23/uranio-morto-militare-che-ricompose-resti-vittime-nassiriya-d0861a58-a973-11e5-8f07-76e7bd2ba963.shtml ], primo maresciallo incursore dell’Aereonautica Militare, veterano di tante missioni all’estero, che aveva anche partecipato alla ricomposizione dei corpi delle vittime dell’attentato di Nassiriya.

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Uranio impoverito, Difesa condannata: “Sapeva dei rischi, soldati non tutelati”


Sentenza definitiva della Corte d’Appello. Sul caso di un sottufficiale morto di cancro dopo la missione in Kosovo. Con “l\'inequivoca certezza” del nesso di causalità tra esposizione alla sostanza tossica e la malattia. L’avvocato Tartaglia: “Dimostrato che i vertici militari conoscevano i pericoli e non hanno fatto nulla per prevenirli”. Leggiero (Osservatorio militare) chiede un incontro a Mattarella (che declina)


di Antonio Pitoni | 26 maggio 2015

E’ una storia di silenzi, omissioni e verità nascoste. Ma anche di morte e sofferenza. La racconta la prima pronuncia della corte d’appello di Roma, definitiva dal 20 maggio, sui casi dei decessi legati all’uso dell’uranio impoverito in Kosovo. Ed è una sentenza dirompente. Non solo per l’entità del risarcimento record (quasi 1 milione 300mila euro oltre al danno da ritardato pagamento) accordato ai familiari di un militare italiano ammalatosi e deceduto per un tumore contratto dopo aver partecipato proprio a quella missione. Ma anche per le motivazioni con le quali il ministero della Difesa è statocondannato a pagare. Innanzitutto, perché la decisione della prima sezione civile della corte d’appello di Roma conferma, come già accertato dal tribunale, “in termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale”. Ma, sanziona, come già fatto dal giudice di primo grado, anche la condotta dei vertici delleForze Armate per aver omesso di informare i soldati “circa lo specifico fattore di rischio connesso dell’esposizione all’uranio impoverito”.

DIFESA A RISCHIO In pratica, come spiega al ilfattoquotidiano.itl’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, che rappresentava in giudizio i familiari del sottufficiale morto dopo aver prestato servizio in Kosovo tra il 2002 e il 2003, la sentenza “ha accertato non solo che i vertici militari erano a conoscenza dei rischiderivanti dall’esposizione all’uranio impoverito, ma anche che non hanno fatto nulla per prevenirli“. E a niente sono valse, sul punto, le doglianze del ministero della Difesa. Perché perdere la vita in guerra per una pallottola -è il senso della sentenza- fa parte dei rischi del mestiere di un militare. Ma altro conto è morire contraendo un tumore per l’esposizione a sostanze tossicheignorandone i possibili effetti che, invece, come sostiene la sentenza, erano noti ai vertici della Difesa.

TUTTI IN PROCURA “Fino alla decisione della corte d’Appello, anche sulla base delle conclusioni delle varie commissioni parlamentari che si sono occupate dei casi di tumore da esposizione all’uranio impoverito che hanno coinvolto diversi militari italiani, il nesso di causalità era confinato nel campo della probabilità  – aggiunge l’avvocato Tartaglia – Questa sentenza, invece, stabilisce il principio dell’inequivoca certezza, cioè che la causa della malattia contratta dal militare poi deceduto è proprio l’esposizione a questa sostanza”. Aprendo, adesso che è passata in giudicato, scenari giudiziari  imprevedibili. “Perché si tratta di una decisione – prosegue il legale – che potrebbe dar luogo a responsabilità penale per reati gravi perseguibili anche d’ufficio”. Insomma, non è da escludere che la decisione del giudice civile e la condotta dei vertici militari diventino materia d’interesse anche per la Procura della Repubblica.

SILENZI COLPOSI Sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado avevano ripercorso alcune tappe della vicenda legate alla missione in Kosovo poste poi a fondamento delle rispettive decisioni. L’utilizzo dei proiettili all’uranio impoverito (cosiddetti DU) “era stato confermato dal memorandum del Department of the Army – Office of Surgeon General” del 16 agosto 1993, “dalla Conferenza di Bagnoli del luglio 1995″, dalla “relazione della commissione d’inchiesta del Senato approvata in data 13 febbraio 2006″ e “dalla deposizione del dottor Armando Benedetti”, esperto qualificato in radio protezione del Cisam (il Centro interforze studi per le applicazioni militari) ascoltato proprio dalla commissione parlamentare in merito all’utilizzo del DU in Kosovo ed alla riscontrata presenza della sostanza nella catena alimentare. Tutti elementi dai quali «poteva evincersi che ilministero della Difesa fosse a conoscenza dell’esistenza dell’uranio impoverito durante la missione di pace o quanto meno sul serio rischio del suo utilizzo nell’area, nonché degli effetti del DU per la salute umana”. Insomma, secondo i giudici, sussistevano “tutti i requisiti per configurare una responsabilità del ministero della Difesa… per avere colposamente omessodi adottare tutte le opportune cautele atte a tutelare i propri militari dalle conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito”.

SCAMBI AL VERTICE Ma nella vicenda c’è anche un risvolto extragiudiziario sollevato da Domenico Leggiero, responsabile del comparto Difesa dell’Osservatorio militare del personale delle forze armate. Riguarda gli scambi di informazione che ci furono sul tema tra vertici militari e politici.  E che interessa anche l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarellaprima vice presidente del Consiglio (dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999) e poi ministro della Difesa (dal 22 dicembre 1999 all’11 giugno 2001) nei governi D’Alema e Amato.

Quando il militare deceduto, della cui vicenda si occupa la sentenza della Corte d’Appello, prestava servizio in Kosovo tra il 2002 e il 2003, l’attuale capo dello Stato non rivestiva più alcuna carica di governo. “Ma da ministro”, ricorda Leggiero, “sulla questione delle munizioni arricchite con uranio impoverito impiegate nella guerra dell’ex Jugoslavia era intervenuto più volte dopo i primi casi di leucemia che avevano iniziato ad abbattersi sui reduci delle missioni nei Balcani”. Il 27 settembre 2000Mattarella in effettirispose in Parlamento ad un’interrogazione relativa a due episodi di decessi verificatisi tra i militari italiani. “Nel primo caso il giovane, vittima della malattia, non era mai stato impiegato all’estero – spiegò l’allora ministro della Difesa – Nel secondo caso il giovane militare era stato impiegato in Bosnia, a Sarajevoprecisamente, dove non vi è mai stato uso di uranio impoverito”. Circostanza poi rivelatasi non vera. Perché in Bosnia, zona diSarajevo compresa, gli aerei americani scaricarono 10.800 proiettili all’uranio impoverito. E lo stesso Mattarella, tre mesi dopo, il 21 dicembre 2000, ne prese atto.

PROTEZIONE ASSICURATA  Il 10 gennaio 2001, Mattarella intervenne di nuovo al Senato: “Per quanto riguarda il Kosovo, come è noto da allora, la Nato, nel maggio 1999, ha fatto sapere di aver utilizzato in quella regione munizionamento all’uranio impoverito… L’ingresso delle nostre truppe in Kosovo è avvenuto successivamente alla notizia pubblica – ripeto – dell’uso di munizioni all’uranio impoverito… Di conseguenza, fin dall’ingresso dei nostri militari in Kosovo si sono potute adottare misure di protezione adeguate”. Messaggio rassicurante, ma che adesso non trova riscontro nella sentenza della Corte d’Appello di Roma passata in giudicato. Secondo la quale, anzi, il vertice militare ha “colposamente omesso” di adottare misure adeguate per tutelare i nostri soldati. Per cui, domanda Leggiero: “I vertici militari non hanno informato il ministro? Cosa molto probabile. Hanno sdrammatizzato la situazione convinti di controllare le conseguenze della vicenda? Cosa probabile. O, infine, i vertici militari hanno detto la verità al ministro, che quindi sapeva? Cosa molto poco probabile”.

INCONTRO DECLINATO Comunque siano andate le cose, Leggiero ha scritto una lettera al capo dello Stato per avere un incontro e discutere della vicenda dell’uranio impoverito.Richiesta però declinata da un suo collaboratore: “Sono spiacente di doverle comunicare”, recita la risposta dal Quirinale, “che l’agenda presidenziale, per i prossimi mesi, è fitta di impegni istituzionali”.


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Uranio impoverito, la strage silenziosa continua

Le vittime non si contano soltanto fra i nostri militari di ritorno dalle missioni all’estero, ma anche fra i loro figli. La lista dei bambini venuti al mondo con malformazioni e quella degli aborti terapeutici o spontanei continua a salire. E il lavoro della commissione d\'inchiestra della Camera è tutto in salita

DI ARIANNA GIUNTI
31 dicembre 2015


L’ultima a nascere in ordine di tempo è stata una bambina che oggi ha due anni e mezzo, affetta da labiopalatoschisi, quella malformazione della bocca che viene comunemente definita “labbro leporino”. Proprio come è successo con suo fratello - che oggi ha 7 anni - i medici si sono accorti dell’anomalia quando era ancora nella pancia della mamma.

Poi ci sono quelli che, invece, non sono mai nati. Le loro madri hanno scelto di abortire. Una decisione straziante, per evitare che i neonati venissero al mondo in condizioni fisiche già pesantemente compromesse. Infine ci sono gravidanze che si sono interrotte da sole, dopo pochi mesi di gestazione. Lasciando nei genitori un grande vuoto e mille domande.

L’uranio impoverito continua la sua strage silenziosa. E\' di pochi giorni fa la notizia della morte del maresciallo incursore dell\'Aeronautica Gianluca Danise, che nel 2003 a Nassiriya ricompose i corpi dei suoi colleghi uccisi da un attentato terroristico, stroncato da un tumore alla rinofaringe e abbandonato dalle istituzioni - come lui stesso ha denunciato - nei lunghi anni di malattia.

Ma le vittime non si contano soltanto fra i nostri militari di ritorno dalle missioni all’estero – che ancora oggi a distanza di vent’anni continuano ad ammalarsi di tumori e leucemie – ma anche fra i loro figli. La lista dei bambini venuti al mondo con malformazioni e quella degli aborti terapeutici o spontanei continua a salire. Quantificarli con precisione è quasi impossibile, ma secondo le associazioni che da anni si battono per denunciare le conseguenze dei metalli pesanti sui soldati italiani si parla ormai di diverse decine di casi dichiarati.

Le chiamano “vittime terze”, perché le loro vite sono state pregiudicate e danneggiate indirettamente dalle esposizioni dei loro genitori. Fra questi ci sono anche figli di civili, che si sono ritrovati a vivere in prossimità di luoghi contaminati da uranio, torio, gas radon in aree dove si sperimentano gli armamenti, come Salto di Quirra, sede di un poligono interforze a disposizione della Nato.

A tutti gli effetti, si tratta di vittime invisibili. Per la prima volta, però, a occuparsi dei civili sarà la commissione d’inchiesta della Camera (promossa da Sel e Movimento 5 Stelle) incaricata di far luce sui mancati risarcimenti alle vittime dell’uranio, che sta cercando di partire fra mille intoppi e che in questi giorni sta tentando di mettere insieme i nomi delle persone coinvolte. Con un occhio di riguardo ai paesi sardi di EscalaplanoCapo Teulada e Perdarsefogu, che si trovano a pochi passi dai poligoni.

Ma la strada è tutta in salita. Fra i soldati c’è infatti chi è ancora in servizio e, temendo ritorsioni, preferisce non denunciare. E poi c’è chi semplicemente prova vergogna, e non vuole che la sua storia venga alla luce. Più spesso il problema è burocratico. Le anomalie genetiche non sono state denunciate alla nascita e quindi nelle statistiche sanitarie e nei registri della Asl praticamente non esistono. Tantomeno esistono per i tribunali, che non hanno fatto partire alcuna inchiesta.

Però le storie sono moltissime. E alcune delle vittime solo adesso trovano il coraggio di parlare in forma rigorosamente anonima. E’ in questi mesi, infatti, che si deciderà tutto. E solo se quest’ultima commissione d’inchiesta riuscirà a provare un nesso di causalità fra le anomalie genetiche dei bambini e le esposizioni da uranio dei loro genitori ci sarà possibilità di avere giustizia e un legittimo risarcimento economico.

“La paura di parlare è tanta – confermano a l’Espresso dalla neonata Commissione d’inchiesta incaricata di redigere i nomi delle vittime – però noi facciamo un appello anche attraverso la stampa: trovate il coraggio di abbattere questo muro di gomma”.

IMPASSE BUROCRATICA

Ci ha provato, per esempio, S.I., figlia di un militare in forza al poligono di Teulada. “Per ben nove anni – è il resoconto della donna contenuto in una missiva destinata al ministero della Difesa – sono stata una residente del dovere, perché nel poligono ha prestato servizio per molto tempo mio padre, maresciallo dell’Esercito”. “Mi sono ammalata di due gravi malattie, il morbo di Basedow e una forma di sclerosi – spiega – e ho avuto un bambino nato con grossi problemi genetici, che purtroppo di recente è deceduto”.

Secondo la donna – assistita dall’associazione Anavafaf – a provocare le sue malattie e la disabilità del figlio sarebbe stata la prolungata esposizione a nanoparticelle di metalli pesanti. Non solo uranio impoverito ma anche radiazioni di torio, “perché nel poligono sono stati ampiamente utilizzati e sperimentati i missili Milan che contengono, appunto, torio”.

La sua casa sorgeva vicino a un territorio che oggi viene considerato “non più bonificabile e permanentemente interdetto alle abitazioni”. Nonostante questo, però, le sue richieste di risarcimento finora sono state sempre ignorate. E non perché non ci fosse un nesso fra la sua malattia e quella del figlio, ma per semplici intoppi burocratici. “Nonostante fosse chiaro a tutti che io ero una comune cittadina, il mio caso è stato preso in mano dal Comitato Cause di Servizio della Difesa, ovvero l’ufficio che si occupa dei militari, che poi mi ha risposto dicendo che non poteva occuparsi di me, in quanto non militare”.

Una situazione kafkiana, che finora non ha trovato soluzione. E che lascia nella donna un forte amaro in bocca: “Oltre ad aver perso mio figlio e ad aver pagato le spese delle cure di tasca nostra, mi sono trovata a dover subire un atteggiamento di diffidenza e sospetto: hanno persino affidato ai carabinieri locali un’indagine per accertare a quale distanza si trovasse il poligono rispetto all’alloggio nel quale risiedevo, nonostante fosse noto a tutti dove si trovassero le abitazioni per il personale di gestione del poligono”. “Credo che un minimo di rispetto fosse dovuto verso chi, con grandi rischi, è stato al servizio del Paese e verso chi, non facendo parte del corpo militare, non poteva nemmeno chiedere l’adozione di misure protettive, come semplici mascherine, per evitare di respirare quel veleno”, è l’amara conclusione della donna nella sua lettera al Ministero.

Interpellato da l\'Espresso (in data primo dicembre 2015, ndr) , fino a oggi il ministero della Difesa non ha risposto alle nostre domande che erano state poste per fornire una corretta ed equilibrata esposizione dei fatti.

TUMORI INFANTILI

E nessun interesse da parte delle istituzioni - denunciano le associazioni - sembrerebbe esserci stato verso quei genitori che hanno visto, misteriosamente, i figli morire a causa di tumori infantili a poche settimane o addirittura a poche ore dal parto, alcuni di loro nati senza parte del cervello. Casi clinici inspiegabili, capitati fra persone senza precedenti simili nella loro storia familiare. A rompere un dolorosissimo silenzio lungo vent’anni c’è, per esempio, un capitano dell’Aeronautica che oggi chiede di sapere perché suo figlio, concepito dopo sei anni di servizio al poligono interforze di Salto di Quirra, sia nato con un tumore al rene. Per quel bambino non c’è stato scampo: è morto 30 giorni dopo essere venuto al mondo.

Gravi malformazioni sono state registrate alla nascita anche nel figlio di Vincenzo Z., maresciallo dell’Esercito che ha prestato servizio in Bosnia nei primi anni Duemila e che ha effettuato numerose esercitazioni a Capo Teulada.

Affetto da una grave forma di idrocefalia anche il bambino di E.D., un ex soldato reduce da missioni nei Balcani, che oggi chiede di conoscere la verità. Mentre una lunga lista di aborti (terapeutici e non) è stata registrata fra le mogli dei soldati che, nei Balcani e in Kosovo, erano addetti alle bonifiche del terreno dove erano stati esplosi proiettili all’uranio impoverito. Raccontano oggi alcuni di loro: “I nostri superiori erano stati molto chiari: ci avevano consigliato di non fare figli per almeno tre anni dalla fine della missione all’estero”. “Una testimonianza inquietante – conferma l’ammiraglio Falco Accame a capo dell’associazione Anavafaf – che emerse, riferita dagli onorevoli Pisa e Angioni, anche nel corso dell’audizione del generale Michele Donvito alla commissione Difesa della Camera il 29 giugno del 2004”.

“L’emergenza uranio non è finita e le conseguenze continuiamo a pagarle, visto che ancora oggi riceviamo lettere disperate di genitori con figli portatori di anomalie genetiche – spiega Accame – Queste persone meritano, una volta per tutte, che sia data loro una risposta”.

“NASCONDETELI IN CASA”

Chi è in grado di spiegare questa situazione in tutta la sua cruda semplicità è Mariella Cao, battagliera fondatrice del comitato sardo Gettiamo le Basi, che da anni lotta perché l’opinione pubblica sia informata su quello che succede attorno ai poligoni di tiro della Sardegna.

“I casi sono molto più numerosi di quelli che sono stati raccontati finora – è la premessa della donna – solo che da parte dei genitori di questi bambini c’è sempre stata una forte reticenza a parlare, dettata soprattutto dalla paura di subire ritorsioni o addirittura di perdere il proprio impiego nell’Esercito”. E non solo da parte dei militari, visto che l’eventuale chiusura di una base interforze porterebbe alla perdita di lavoro anche per centinaia di civili.

Nel paese di Escalaplano, per esempio, a una manciata di chilometri dal poligono di Quirra, dove in 2.600 abitanti nei primi anni Duemila si è raggiunto un picco di 14 bambini con gravissime malformazioni genetiche, la regola ufficiale era quella di tacere. Qualsiasi cosa accadesse. E dunque, se i casi non venivano denunciati negli ospedali, era come se non fossero mai esistiti. Un copione che si è ripetuto anche nei comuni di JerzuBallao e Tertenia.

“Alle mamme di questi bambini veniva detto senza tanti giri di parole: nascondeteli in casa”, racconta oggi Mariella Cao. E così loro, un po’ per paura un po’ per vergona, eseguivano.

“Chi non ha trovato il coraggio di parlare, o si è ostinato a sostenere che le anomalie genetiche fossero soltanto un caso, non è però da biasimare – riflette la fondatrice di Gettiamo le Basi – immaginate cosa significa, per la madre di un bambino che sta morendo, prendere coscienza che la malattia di suo figlio non è dovuta a una coincidenza o a una tremenda sfortuna, ma a dei responsabili in carne e ossa, che guadagnano su questa situazione. Rendersene conto può portare alla disperazione. O alla follia”.

Non hanno taciuto, ma hanno gridato tutta la loro rabbia e il loro dolore, invece, l

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