Sullo stesso tema si veda anche: Il giornalismo non è più un lavoro (di Alberto Negri, Il Sole24Ore, 8/8/2017)
... La professione giornalistica, ma ovviamente non solo quella, è diventata sempre più “volontariato”. Possono fare questo lavoro coloro che non campano di giornalismo, come professori, esperti vari, già pagati dalle istituzioni, da società pubbliche o private, dal mondo del business, oppure figli di papà mantenuti dalla famiglia. Ma non è gente che va sul terreno e afferra la vita vera. Parlano a vanvera di popoli che non conoscono e posti che non hanno mai visto...




L’informazione è povera, i giornalisti anche. I risultati si vedono


di Federico Rucco, 15 settembre 2017

“La situazione dell’editoria è devastante, ormai il 65% degli iscritti è precario o disoccupato. Otto su dieci hanno un reddito intorno ai 10 mila euro, quindi sotto la soglia di povertà”. A sottolinearlo è stato il presidente nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Nicola Marini, nel corso del suo intervento alla 10/a edizione di ‘Media Memoriae’. Disaggregando ulteriormente il dato, emerge che il 40% degli oltre 35mila giornalisti attivi in Italia, per lo più sotto i 35 anni, produce annualmente un reddito inferiore ai 5.000 euro.

Secondo i dati elaborati dal Rapporto dell’Agcom presentato lo scorso marzo, negli ultimi quindici anni sono andate crescendo soprattutto le fasce di reddito piu’ basse della professione, a testimonianza del fatto che sempre piu’ giornalisti esercitano la professione in modo parziale e precario.

sancire questo pessimo stato delle cose, è stato l’accordo siglato nel 2014 tra il sindacato dei giornalisti (Fnsi) con l’associazione degli editori (Fieg) e l’istituto previdenziale dei giornalisti (Inpgi). Con il meccanismo dell’equo compenso si è prodotta una situazione vergognosa. Ltariffe minime stabilite sono 20,80 euro a pezzo per i quotidiani con una media di 12 articoli al mese, 6,25 euro per le agenzie (con un minimo di 40 segnalazioni/informazioni al mese) e le testate web aumentati del 30% con foto e del 50% con un video. Se la produzione giornalistica è superiore, si procede per scaglioni e, paradossalmente, i pezzi successivi vengono retribuiti in misura ancora inferiore.

I dati ci dicono che in Italia quattro giornalisti freelance su dieci nel 2014 hanno praticamente lavorato gratis . In questa condizione si trovano 16.830 giornalisti «autonomi» sui 40.534 iscritti alla gestione separata dell’Inpgi, vale a dire il 41,5% degli iscritti.

Il rapporto del Lsdi presentato tre anni fa alla federazione della stampa, parlava di «zero redditi». In una situazione ancora più rognosa si trovano anche i 23.704 freelance che nel 2014 avevano dichiarato redditi inferiori o pari ai 10 mila euro lordi all’anno. Nel 2014 è stato inoltre registrato un ulteriore calo della retribuzione media: da 10.941 a 10.935 euro lordi annui. Chi lavora con la partita Iva o con la ritenuta d’acconto in Italia guadagna mediamente il 17,9% di chi invece ha un contratto di lavoro dipendente, 5,6 volte di meno.

Da tempo la logica della “liberalizzazione” ha prodotto devastazioni in ogni settore. Se sul lavoro salariato si è abbattuto lo tsunami della ristrutturazione, delle delocalizzazioni e del blocco dei salari, in settori come l’informazione ha agito il medesimo meccanismo espellendone i settori stabilizzati (sia tra i giornalisti che tra i poligrafici) e ricorrendo sistematicamente al precariato, al lavoro a prestazione e deresponsabilizzando le aziende editoriali da ogni dovere contributivo e fiscale. 

La Fnsi, il sindacato di categoria, da anni viene sollecitato a vedere come sia profondamente mutato anche socialmente il mondo dell’informazione, ma chi ha posto il problema si è trovato di fronte un muro (e neanche troppo di gomma) di chi continua a pensare che le figure da tutelare siano ancora e solo quelle che operano in Rai o nella grandi testate. Nel caso della crisi aziendale al Sole 24 Ore si è scelto di sacrificare i precari e salvaguardare gli stabilizzati.

E’ evidente come la povertà diffusa tra gli operatori della comunicazione riproduca un abbassamento della qualità nel mondo dei media. Ormai lo spettacolo quotidiano su lanci di agenzia, cronache, gestione di servizi televisivi è disperante. Altro che stimoli alla concorrenza, giornalismo di inchiesta, verifica delle fonti, deontologia professionale. E’ una lotta per la sopravvivenza che mette quotidianamente in contraddizione le aspettative sul “lavoro più bello del mondo” e la giungla di miserie messa a disposizione dai grandi e piccoli monopoli sull’informazione. Le cose migliori (ma anche le peggiori) ormai si trovano sulla rete. I monopoli se ne sono accorti e ne temono le conseguenze (vedi il crollo di vendite dei giornali o la diminuzione di telespettatori sui canali in chiaro). Ma la qualità si scontra sempre più spesso con la povertà delle risorse e delle retribuzioni ed anche progetti innovativi sul piano informativo decollano e atterrano bruscamente e pesantemente in pochissimo tempo. Insomma chi ha il pane non ha i denti. Chi ha i denti deve stringerli, per trovare il varco su cui convergere per rovesciare il tavolo.



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