Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
https://www.lacittafutura.it/dibattito/lombardia-e-veneto-referendum-inutile-no-utilissimo-a-loro.html
i due quesiti, pur diversi nella forma, hanno carattere meramente consultivo e mirano ad ottenere ciò che è previsto, in altra forma, dalla Costituzione italiana, che disciplina il sistema delle autonomie, per quanto interessa in questo caso, con gli artt. 5 e 116 e, in particolare, in quest\'ultimo articolo con la norma che prevede espressamente la possibilità che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni con legge dello Stato, su iniziativa delle Regioni interessate, sentiti gli Enti locali”.
Non è vero dunque che le due consultazioni siano un puro patrimonio leghista, anche se così vengono presentate. In Lombardia il referendum è stato approvato da tutto il centrodestra e dai cinque stelle. Il Partito democratico, inizialmente contrario, ha poi cambiato posizione: il sindaco Sala di Milano, il futuro candidato alla regione ora sindaco di Bergamo, Gori, insieme a tanti altri si sono pronunciati per il SI.
Nel Veneto il PD si è astenuto sul referendum, poi ha dato indicazione per il SI, tutte le altre formazioni politiche hanno la stessa posizione dei loro omologhi lombardi. In sintesi in Lombardia e Veneto Renzi, Berlusconi, Di Maio e persino Meloni, almeno tramite i loro referenti locali, sono d’accordo con il referendum di Salvini, Maroni e Zaia. È l’unità regionale totale. Che ora il PD vorrebbe estendere anche in Emilia Romagna ed in Puglia, con analoghe consultazioni.
In Lombardia e Veneto le sole voci fortemente contrarie vengono dalla sinistra non rappresentata nei parlamentini regionali, da movimenti sociali, da sindacati di base come USB, voci troppo flebili per rompere la monotonia di una campagna elettorale inquietante, dove è in campo solo il SI sostenuto con ingenti finanziamenti dalle istituzioni regionali.
Ma se sono tutti d’accordo i principali schieramenti politici delle due regioni, a che serve il referendum? La domanda ha una risposta scontata da parte dei presidenti regionali: il voto serve a far contare il popolo. É vero? Assolutamente no.
I due quesiti referendari non fanno domande precise, le uniche sulle quali il pronunciamento popolare potrebbe davvero decidere e contare. Avete presente il nostro referendum costituzionale, quello sulla Brexit, quello greco sul memorandum della Troika, quello sulla indipendenza della Catalogna? Ecco, quelle consultazioni con il voto del Lombardo-Veneto non c’entrano nulla. Quelli sono stati pronunciamenti con domande chiare che esigevano altrettante risposte chiare; e infatti la politica poi ha fatto molta fatica a reggere il responso popolare, anzi a volte lo ha rinnegato proprio.
Questo rischio, per i referendum sull’autonomia, non si corre: essi non chiedono nulla e quindi, quale che sia, la risposta popolare ad essi nulla conterà. Per quelle forze politiche italiane abituate a tradire i propri programmi un minuto dopo averli varati, questo voto è perfetto. Tutti impegnati senza veri impegni.
Il quesito veneto è semplicissimo: volete più autonomia? Quello lombardo, evidentemente frutto di qualche consulenza giuridica più meditata, accenna al rispetto dell’unità nazionale, della Costituzione e esplicita la richiesta di maggiori risorse.
Quali? Qui c’è l’ imbroglio.
L’Italia ha il fiscal compact, quello che Renzi e Salvini dicono di voler cambiare, direttamente inserito nella Costituzione. La modifica dell’articolo 81 è un atto devastante della nostra democrazia, compiuto quasi alla unanimità dal parlamento precedente a quello attuale. Assieme alla costituzionalizzazione dell’austerità ci sono poi il patto di stabilità che distrugge l’autonomia di spesa degli enti locali e il controllo diretto della UE sui bilanci pubblici.
Come si fa a chiedere più autonomia per le regioni, se tutto il meccanismo di governo imposto dalla austerità europea nega ogni libertà di spesa a tutte le istituzioni della Repubblica?
Maroni e Zaia sono al governo delle due regioni più ricche del paese, che assieme hanno un quarto della popolazione. Immaginate una loro iniziativa istituzionale per cancellare il fiscal compact e il patto di stabilità. Questa sì che avrebbe bisogno del consenso del popolo, proprio perché si tratterebbe di imporre allo Stato una diversa politica economica, anche in conflitto con i vincoli UE.
Ma la Lega nord e tutte le principali forze politiche italiane sono oggi “europeiste”. Meglio quindi chiedere una autonomia che in realtà non è permessa a nessuno, meglio fare domande che non vogliono dire nulla nel sistema economico governato dalla troika. Meglio un referendum finto che impegnarsi davvero in un conflitto col potere centrale. Questo si fa sui venti migranti ospitati a San Colombano, non sulle spese per lo stato sociale.
I referendum lombardo e veneto non propongono alcuna revisione reale delle spese dello Stato e delle regioni, alludono soltanto a più soldi al nord e meno al sud; ma anche in questo imbrogliano, perché con il vincolo europeo di bilancio – che Maroni e Zaia accettano – neanche una redistribuzione iniqua delle risorse potrebbe essere fatta. Si taglia dappertutto e basta.
Dunque il quesito sull’autonomia è fasullo, però dietro di esso se ne nasconde uno vero, che non a caso ha raccolto grande consenso nel mondo imprenditoriale. La domanda nascosta è: visto che l’austerità istituzionale vincola rigidamente il bilancio della regione, possiamo riconquistare autonomia privatizzando?
Trasporti, servizi sociali, istruzione e soprattutto la sanità nelle due regioni a guida leghista sono sempre più regalati al mercato. I milioni di malati cronici della Lombardia saranno affidati ad un gestore privato che avrà il compito di amministrare le loro cure, naturalmente trovando il modo di farci profitti. In Veneto l’appalto ai privati della costruzione e della gestione di uno dei più grandi ospedali della regione è diventato un bengodi senza precedenti per gli affari. La regione Lombardia è più sollecita della ministra Fedeli nell’offrire alle aziende il lavoro gratis degli studenti nell’alternanza scuola lavoro.
Il “Si” chiesto da Maroni e Zaia serve dunque prima di tutto a questo: ad approvare la connessione sempre più stretta tra politica ed affari e la privatizzazione dello stato sociale e dei servizi pubblici, ove Lombardia e Veneto sono all’avanguardia.
I due referendum autonomisti sono un imbroglio a diversi strati di inganni, il cui solo scopo è creare consenso al sistema di potere che governa le due regioni più ricche d’Italia. Che tutte le principali forze politiche delle due regioni siano d’accordo, è solo un ulteriore segno del degrado della nostra democrazia.
Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terranno due referendum promossi dai presidenti (pardon, governatori) leghisti Maroni e Zaia al fine di avere l’avallo per chiedere al Governo e al Parlamento una maggiore autonomia. E già qui si vede che si tratta di referendum farlocchi: una tale richiesta Maroni e Zaia potrebbero tranquillamente farla già da oggi, quindi quello che si vuole è un plebiscito, pura propaganda.
A questi referendum si affiancano le mozioni presentate nelle regioni del sud dall’ormai ineffabile M5S per l’istituzione della giornata della memoria delle vittime dell’Unità d’Italia. Così. Di colpo. Senza nessun preliminare ragionamento sulla complessità del processo unitario e dei suoi effetti, sulla natura di classe dell’unificazione. Aria di elezioni, insomma.
Si tratta sì delle ennesime armi di distrazioni di massa. Ma, in realtà, creano confusione e, per questo, sono cose importanti e pericolose. Sono importanti per la prospettiva del paese e delle classi popolari che lo abitano. Sono pericolose perché coincidono con gli interessi dell’imperialismo statunitense e di quello tedesco (per ora – e ancora per poco? – subordinato al primo, ma per noi non meno letale).
L’Italia vive da tempo una situazione di stallo. Più o meno dall’entrata nell’Unione Europea e dalla firma del trattato di Maastricht: 7 gennaio ’92. Come si vede il periodo coincide con il sorgere della cosiddetta seconda repubblica e degli equivoci ideologici che l’hanno generata ed accompagnata.
Ma tale confusione è entrata in una nuova fase. Da una parte avremo l’implementazione dell’Unione a “due velocità”, che accentuerà il baricentro nordico e la germanizzazione dell’Europa (e il recente risultato elettorale tedesco non interromperà il processo, ma lo renderà per noi più pesante). E tutto ciò con l’aiuto contraddittorio della Francia. È dall’avvio dell’Unione che abbiamo sempre dovuto subire gli intrighi, le volontà e l’estorsione del gatto e della volpe, ed ogni idea nostrana di giocare l’uno contro l’altra si è mostrata finora campata per aria: e non soltanto perché non c’è un Cavour. Sempre più il popolo italiano ha tutto da perdere dall’Unione. I paesi mediterranei diventeranno via via più periferici, e così quelli dell’est, che inoltre accentueranno la loro subalternità agli Usa.
Per l’altro verso, l’elezione di Trump e lo scontro in atto negli Usa, hanno reso più blanda la presa statunitense e accentuato i mutamenti e le tendenze multipolari: la Germania sa benissimo che prima o poi dovrà scegliere di percorrere di nuovo la via della politica di potenza, anche se farà di tutto per realizzarla attraverso l’Unione. Infine, terzo e quarto attore, la Russia si presenta come argine militare alle pericolosissime iniziative occidentali e la Cina come alternativa economica (“via della seta”) al deflazionismo (classista) dell’Unione europea: ed entrambi come vasti mercati per le imprese italiane e come soggetti di un ordine finanziario alternativo.
Questa situazione in sé sarebbe positiva, se soltanto si fosse in grado di sfruttarla. Essa infatti amplia gli spazi per costruire una posizione non subalterna agli uni ed agli altri (un ruolo centrale dei paesi mediterranei, o meglio ancora di una confederazione europea radicalmente modificata). Ma a tal fine dovremmo saper riconquistare un po’ di dignità e di indipendenza. In questo contesto, infatti, potremmo meglio sviluppare gli interessi nazionali (cosa a cui abbiamo fatto cenno in un recente articolo: viva la Catalogna abbasso l’Italia) e dall’altra potremmo lavorare meglio per un mondo multipolare, che è l’assetto migliore per tutti i paesi medio-piccoli e per ostacolare l’assoluta mobilità del capitale, causa prima del pluridecennale arretramento dei lavoratori.
Al contrario, se continua questo confusionismo, col nord leghista che vuole diventare il sud della Baviera, col sud che si accontenta di diventare definitivamente la piattaforma USA nel Mediterraneo, il paese rischia la disgregazione, ed ogni sua parte va incontro ed altri secoli di sudditanza.
Ovviamente queste grandi questioni si mischiano alle miserie interne ai partiti. Maroni e Zaia si muovono contro l’ipotesi nazionale di Salvini. Il PD vota Sì ai referendum al nord ed aderisce alle mozioni dei M5S al sud, da un lato mostrando di essere diventato un partito colabrodo, e dall’altro intestardendosi coerentemente con il federalismo: quello fiscale fu un frutto loro. A questo proposito, non tutti sanno che le richieste per le modifiche della “Bassanini” inserite nel recente referendum sulle modifiche Costituzionali erano state avanzate dalle Regioni stesse perché fonti di caos.
Nemmeno il M5S scherza. Al nord stanno col Sì perché si vota con i computer: uno sballo on-line! Al sud propongono una mozione che apre una questione sull’unificazione dell’Italia (cosa, come abbiamo detto, certamente controversa) scegliendo come data della giornata della memoria quella della fine del regno borbonico: un atto reazionario o di estrema stupidità. Perché non scegliere il giorno del massacro di Bronte, sanguinosa espressione del carattere classista dell’unificazione? In questo caso il messaggio storico-politico sarebbe stato chiaro. Forse troppo chiaro. Perché non celebrare il giorno in cui fu ucciso Pisacane, che al cambiamento sociale credeva davvero, e che fu massacrato da contadini istigati dai Borboni e dagli agrari (gli altri decisivi agenti – questi ultimi – di una unificazione che non fu voluta solo dai “piemontesi”)? È su queste questioni che l’Unità d’Italia al sud ha preso la piega gattopardesca che ha dato i risultati che ha dato.
Come si vede, non c’è nessun contenuto classista,progrsessita, democratico in nessuna delle due posizioni.
In ogni caso, mettere di fatto in discussione l’Unità d’Italia, frammentarla, esporla alle incursioni di interessi stranieri è da criminali. Così come lo è stata l’entrata nell’Unione e nell’euro. Ciò non può che accentuare l’autorazzismo degli italiani sempre pronti a denigrarsi: un popolo che dimentica la propria storia (e la sua complessità) non va data nessuna parte.
Ma a questo quadro generale si deve aggiungere un altro tema.
I referendum chiedono più autonomia regionale. Il fatto è che, (a parte l’uso politico che PCI e PSI ne fecero all’epoca, usando con qualche successo le Regioni da loro governate come contraltare al governo centrale democristiano) queste istituzioni sono un fallimento. Costano davvero una barca di soldi. L’unico loro ruolo è distribuire i denari della sanità, dell’assistenza e dei trasporti (80/90% del bilancio) e, nel farlo, contribuiscono non poco ad acuire le già pesanti differenze trai servizi sociali nelle diverse zone del paese. Rendono volutamente complicato il processo decisionale. Legano strettamente i partiti ed i loro uomini ai diversi gruppi di interesse. Sono composte da territori storicamente eterogenei. Non sono sentite come istituzioni veramente interessanti a livello elettorale: le votazioni importanti sono quelle nazionali e quelle locali.
Se da una parte, dunque, va fatto fallire il referendum-plebiscito chiesto da Maroni e Zaia, dall’altra bisognerebbe proporre un modello istituzionale alternativo adeguato ai tempi. Questo non può che essere uno Stato centrale autorevole ed efficace all’interno, con una politica adeguata, forte e cooperativa all’esterno. Uno Stato che sappia trasferire parte dei poteri e delle risorse delle Regioni a livello locale: Comuni e Province. E abolire le Regioni. Allo Stato quello che è dello Stato. Agli enti locali quello che è meglio che gestiscano loro.
Serve un nuovo Stato per un nuovo e diverso interesse nazionale. In fondo è qualcosa di simile a ciò che ha proposto Melénchon con France insoumise.
Appello per il No al referendum consultivo: per contrastare la pericolosa ideologia dei partiti maggiori ma anche per opporsi all’inerzia di quella sinistra che cede le piazze ai fascisti.
di Fronte Popolare 09/09/2017
Il prossimo 22 ottobre gli elettori di Lombardia e Veneto saranno chiamati ad esprimersi in un referendum consultivo sulla cosiddetta autonomia. Fatto salvo che in caso di vittoria del SI oggi non cambierebbe niente (rimandiamo ad altre più puntuali riflessioni le analisi economiche e giuridiche sul tema), con questo contributo vogliamo concentrarci soprattutto sul portato ideologico della consultazione, che merita a nostro parere molta attenzione e su cui, da Milano, siamo a fare un appello alla mobilitazione a tutti i Compagni sparsi per l’Italia.
Illustriamo il quadro politico odierno in Lombardia.
Ovvia è la posizione per il SI dei leghisti promotori, dove comunque il referendum è infine uno “spottone” per Maroni in vista delle “vere elezioni” regionali del 2018.
Non stupiscono, e consideriamo pericolose, le posizioni degli altri partiti padronali, 5 Stelle e PD, che si adeguano al generale spostamento culturale del paese sempre più a destra. Dichiarazioni sulla “razza” da difendere, regole da rispettare, meno dipendenza dallo Stato centrale sono slogan che purtroppo colpiscono e raccolgono facili consensi. Mentre il PD Veneto è direttamente schierato per il SI, quello lombardo fa dichiarazioni non così nette, ma manda avanti i cavalli di razza, vale a dire diversi autorevolissimi sindaci lombardi come Sala a Milano(fra i primi a schierarsi per il SI già a primavera scorsa) oppure Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo (e già direttore di Italia 1 anni addietro); quest’ ultimo tra i fondatori di comitati di amministratori del PD per il SI.
I 5 stelle, a cui va riconosciuto un buon lavoro a livello di consiglio regionale, un giorno attaccano Maroni mentre l’altro sui loro siti ufficiali arrivano a dire che il referendum l’hanno scritto loro, e godono “perché si voterà in maniera elettronica”, ed alla fine del gioco i tablet rimarranno nelle scuole…riesumando antichi slogans alla Berluscones (un computer per ogni scuola, primi anni ’90!). La posizione del sito lombardo grillino (qui è arduo dire “dei loro dirigenti”) è dettata probabilmente e da “studi di settore”, ovvero, visto che l’aria che tira è sempre del tipo “a Roma rubano tutti”, viene loro imposto di schierarsi per il SI, anche se notiamo, da qualche prima inchiesta, che per molti elettori dei 5 stelle non dovrebbe essere semplice votare come lega e PD, ovvero come quella che loro chiamano la “partitocrazia”.
Anche a sinistra la situazione è complessa: diverse organizzazioni hanno dichiarato che faranno “astensione attiva”, cioè campagna elettorale per NON andare al voto, “puntando” sulla presunta bassa affluenza alle urne, dove comunque il SI dovrebbe prevalere grandemente, viste le posizioni politiche espresse dei maggiori partiti.
Noi di Fronte Popolare, quindi, ci siamo chiesti cosa fare. Considerata (purtroppo) la poca influenza, in termini assoluti numerici, della sinistra in Lombardia sul risultato finale della consultazione, noi comunisti, analizzato il quadro politico riassunto qui sopra, abbiamo deciso invece di partecipare e fare campagna elettorale per votare, e votare NO.
Il fatto che la consultazione indetta per ottobre abbia carattere puramente consultivo non solo non ne diminuisce la pericolosità, ma ne sottolinea il portato insidiosamente ideologico: pensare di contenere un simile risultato mediante l\'incentivazione della bassa affluenza è pura illusione.
Ci troviamo, per citare il compagno Antonio Gramsci, in quella fase in cui “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
Ecco compagni, qui al Nord sentiamo, purtroppo più che altrove, il senso di questa frase di Gramsci. Per chi sta “dalla parte del torto” la situazione non è per niente facile. Chi milita, chi partecipa, chi fa qualcosa e non passa le giornate davanti alla TV, tocca con mano ogni giorno la diminuzione degli spazi di agibilità politica, sia dal punto di vista della repressione ufficiale sia da quello di quella culturale: i casi di aggressioni contro gli antifascisti in Lombardia sono in costante aumento, ancora grida vendetta l’ irruzione di fine Luglio a Palazzo Marino, il Comune di Milano, con conseguente ferimento di due compagni.
Non meno importante ricordare che questo è un referendum promosso da due regioni che contano un quarto degli italiani, a cui bisogna provare a rispondere e resistere. Perché quello delle maggiori autonomie gestionali di risorse NON è solo un problema lombardo, ma di tutto il Paese (già altre regioni si dicono pronte ad indire simili consultazioni).
Di fronte al consolidarsi del senso comune reazionario e fascistoide che disgrega l\'unità dei lavoratori del nostro Paese, è necessario sviluppare una forte azione democratica e antifascista di contrasto, che esige prese di posizione chiare.
Noi di Fronte Popolare faremo quindi campagna elettorale per il NO.
Stamperemo manifesti, volantini, e siamo pronti a dare una mano in ogni comune ad ogni sincero antifascista, democratico, comunista che in ottobre, nelle forme che riterrà più opportune, vorrà fare concretamente campagna elettorale e la cui coscienza gli dirà che non si accontenta del concetto di “astensione attiva”, atteggiamento che purtroppo temiamo possa rapidamente scivolare per inerzia verso un più tragico “siccome questo referendum è una presa in giro, ad ottobre ce ne andiamo a funghi”, lasciando totalmente piazza libera a partiti che da diversi anni portano dentro le istituzioni (al governo, sia chiaro) delle grande città individui dichiaratamente fascisti e razzisti.
E’ molto probabile che non vinceremo, ma vogliamo e dobbiamo far vedere nelle piazze, nei mercati e nei posti di lavoro che c’e’ ancora qualcuno, qui al nord, che non mette la testa sotto la sabbia.
E con più calore ci rivolgiamo ai tanti antifascisti sparsi per l’Italia, cui chiediamo di darci concretamente una mano. Come scritto prima, più poteri alle regioni vuol dire meno solidarietà fra tutti i lavoratori italiani , e purtroppo già altre regioni si dicono pronte a seguire questo pessimo esempio.
Vi chiediamo di “parlare” del 22/10, di organizzare momenti di discussione, anche nelle vostre città lontano dalla Lombardia e dal Veneto. E poi vi chiediamo, (ed oggi i tanti famigerati strumenti tecnologici sono di grande utilità) di indicare ad amici, parenti e compagni che magari vivono nelle nostre regioni, che NON tutti hanno abbandonato la battaglia, e che qui a Milano c’è ancora chi resiste, e chi volesse impegnarsi in campagna elettorale per il NO da noi troverà validi compagni e interessante materiale di propaganda.
=== 5 ===
Il riferimento normativo a cui fanno riferimento le forze che sostengono il referendum in Lombardia e Veneto (dalla Lega a gran parte del Pd), è l’articolo 116 della Costituzione, il quale dopo la riforma del 2001 prevede al comma 3: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata”. Ma, come si può leggere, non si fa menzione di alcun referendum. Il problema è che nel 2001 è stata aperta la strada con un referendum confermativo sulla modifica del Titolo V (voluto dal governo Amato per “battere la Lega e la destra” ma che anticipò invece una sonora sconfitta del centro-sinistra.
I referendum in Lombardia e Veneto del prossimo 22 ottobre, fortemente sponsorizzati da Maroni e Zaia ma assecondati dal Pd locale, saranno referendum consultivi per cui non è previsto neppure un quorum. In altre parole una battaglia squisitamente politica in cui le due regioni (oltre all’Emilia-Romagna) in cui si concentra quel 22% di imprese che fanno l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni italiane diranno sostanzialmente: “noi siamo agganciati al cuore dell’Unione Europea e il resto del paese si fotta”. In caso di vittoria al referendum le autorità e le classi dominanti di Lombardia e Veneto aprirebbero da una posizione di forza una fase negoziale con il governo centrale.
In un certo senso la trama svelata da questi referendum fotografa una situazione di fatto: la crescente asimmetria del nostro paese. C’è da anni un nucleo geo-economico e sociale costituito da Lombardia, Emilia, Veneto che sia sul piano economico che su quello politico si è sincronizzato con la “locomotiva Germania” lavorando nella sub fornitura alle imprese tedesche e assicurando consenso sociale, ideologico, elettorale al Pd e al blocco politico-trasversale europeista. Lo si è visto con i risultati delle elezioni locali come nei risultati del referendum sulla controriforma costituzionale del 4 dicembre. Una realtà dei fatti che marginalizza Salvini come esponente di questo mondo e che lo ha portato ad abbassare le penne nelle sue ormai rimosse sparate contro l’euro e Bruxelles.
Secondo un sondaggio realizzato dall’Api (associazione delle piccole imprese), il 74% dei rappresentanti delle piccole e medie imprese intervistati ha risposto si alla domanda se conferire maggiori poteri alla Regione Lombardia possa rappresentare un’opportunità. “Questo referendum farà capire a Roma che in Lombardia e Veneto ci sono piccoli imprenditori manifatturieri che chiedono più rispetto” dicono i padroni e padroncini delle due regioni interessate. Secondo gli intervistati nel sondaggio, al primo posto delle azioni prioritarie che la Regione Lombardia, una volta più autonoma, dovrebbe mettere in atto c’è la diminuzione delle imposte regionali (47%). Al secondo posto l’aumento dei fondi per le imprese (34%) e infine il miglioramento delle infrastrutture (19%). Insomma una regione a totale disposizione delle imprese. Ma se i “padrùn” non vedono oltre i propri interessi di bottega, figuriamoci se la loro visione possa estendersi al resto del paese. Un motivo per schierarsi e battersi per il NO nei referendum regionali in Lombardia e Veneto. (segue)
\n