[Immagini anni 1960]
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zhPm0Zghoy4
Nel corso di un'intervista rilasciata nel 2009 a una tv russa, Gheddafi tratteggia gli scenari possibili tra Ucraina, Russia e Unione Europea, prevedendo, di fatto, quanto avvenuto con il colpo di stato di Maidan...
In questo discorso, tratto dall'Assemblea della Lega Araba svoltasi in Siria nel 2008, l'allora leader libico Muammar Gheddafi pronuncia un discorso dal contenuto profetico sulla politica USA in Medio Oriente...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=CNEy0_r-IlU
Inizio messaggio inoltrato:Da: Marinella CorreggiaOggetto: Davanti all'ambasciata libica: due manifestazioni molto diverse (una nel 2011, l'altra oggi)Data: 25 novembre 2017
Le menzogne della Nato sull’aggressione alla Libia nel 2011
Marinella Correggia, giornalista freelance, collaboratrice de Il manifesto e storica attivista No War, quattro anni fa scrisse questo che possiamo come un capolavoro di “decostruzione” delle menzogne e della propaganda di guerra della Nato durante l’aggressione alla Libia nel 2011. Questo lavoro è stato pubblicato sul sito No War sibialiria..it. Ci sembra utile ripubblicarlo, ci sono informazioni importanti per comprendere cosa è successo allora in Libia e le sue ripercussioni sull’oggi, ma anche per imparare a non fare giornalismo “embedded” e servile verso gli apparati di potere, in questo caso la Nato.
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Durante i bombardamenti sulla Libia nel 2011, la Nato teneva conferenze stampa settimanali sia a Bruxelles che alla sede di Bagnoli (Napoli). Partecipavano giornalisti-tappetino che chiamavano per nome, affettuosi e deferenti, la portavoce Nato da Bruxelles (“Oanà” Longescu, romena) e il portavoce Nato da Napoli (“Roland” Lavoie, colonnello canadese). Sarebbe bastato uno stuolo di giornalisti decenti per metterli in crisi. Perché portavoce e generali si arrampicavano sugli specchi, per non dare a vedere crimini e illegalità. Ecco un resoconto diretto.
Per proteggere i civili in Libia, come ordinava il mandato della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza, la Nato avrebbe dovuto rivolgere droni e bombe contro se stessa e contro i suoi alleati locali del Cnt (Consiglio nazionale di transizione, i “ribelli”): visto che questi usavano armi indiscriminate sulle città assediate, in particolare Sirte e Bani Walid. E addirittura, per rimanere nei confini del proprio mandato, la Nato avrebbe dovuto bombardarsi e bombardare il Cnt per evitare attacchi alle forze governative libiche quando queste non minacciavano i civili.
Di fatto gli armati del Cnt sono stati gli unici libici che la Nato ha protetto, permettendo dunque che essi minacciassero e uccidessero civili libici (e non libici). Surreale. La Nato ha protetto armati (che minacciavano anche civili) in nome della norma Responsibility to Protect che doveva proteggere i civili. E la Nato ha protetto armati usando a gran forza aerei da guerra simbolicamente sventolanti il mandato della risoluzione 1973 che stabiliva il divieto di volo aereo, appunto a protezione dei civili.
Le implicite ammissioni, in un processo, valgono come prova? Se sì, ecco qui di seguito quelle della Nato, raccolte durante le surreali conferenze stampa al comando di Bagnoli (in mancanza di manifestazioni fuori dallo stesso, alle quali partecipare), od ottenute per email da “Nato source” (così chiedono di essere citati i vari capitani e graduati, italiani e Usa, maschi e femmine, da Napoli o da Bruxelles, quando rispondono per email alle domande dei media).
Dalla sede del comando Nato di Napoli, il colonnello Roland Lavoie ha parlato per mesi alle fedeli truppe mediatiche con un francese dal buffo accento canadese ingannevolmente innocuo. Dalla sede centrale di Bruxelles, la portavoce romena Oana Longescu – più realista del re, incarnando l’estensione dell’Alleanza ai fedeli paesi dell’Est Europa – si è giostrata seccamente fra l’inglese e il francese. Entrambi ripetevano in tutte le salse: impediamo alle “forze di Gheddafi” (mai usato il termine “esercito libico”) di colpire i civili. I giornalisti che frequentano le loro conferenze stampa settimanali da Bruxelles li chiamano per nome affettuosamente (i francofoni pronunciano “Oanà”), consoni al clima di cortesia e disponibilità che li fa sentire ammessi in società e che ricambiano non facendo mai domande scomode; per non diventare dei paria. Con silenzio glaciale e nessuna solidarietà i “colleghi” dei media mainstream accolsero infatti la paria in settembre e ottobre.
Si arrampicano sugli specchi per mesi, Oanà e Roland. Devono negare l’evidenza e cioè che la Nato lotta per il cambio di regime, insieme a una delle parti.
Sostengono a più riprese che non c’è alcun coordinamento con le forze dell’opposizione o forze ribelli; che la situazione viene seguita da “fonti di informazione alleate nell’area”. Dunque, ammettono la presenza a terra di occidentali? “Non ci sono forze Nato a terra” rispondono laconici. Per email i responsabili Nato spiegano: “Sia gli incaricati di individuare e approvare gli obiettivi sia il pilota rinunciavano se c’era il sospetto di ferire o uccidere civili. In alcuni casi l’osservazione video via aerea prendeva 50 ore prima dell’autorizzazione”. Inoltre, “abbiamo avvertito i civili con comunicati stampa, volantini e programmi radio di stare lontani da installazioni militari”.
Tuttavia sono state spesse colpite installazioni civili. Ma praticamente la Nato ha ammesso un solo caso di errore: i sette morti della famiglia Garari il 19 giugno a Tripoli, Suq Al Juma.
Intorno al 10 agosto di fronte alle foto di decine di civili uccisi da un aereo Nato nella notte dell’8 agosto a Zliten, il generale canadese Charles Bouchard (quando c’è lui alle conferenze stampa a Bagnoli la temperatura dell’aria condizionata va tenuta a 16 gradi) dice: “Non posso credere che quei civili fossero lì nelle prime ore del mattino, considerando anche le informazioni della nostra intelligence. Posso assicurarvi che non c’erano 85 civili; non posso assicurarvi che non ce ne fossero”.La Nato per email ribadiva che gli edifici erano un accampamento delle truppe, posto in una fattoria, e che l’osservazione e altri strumenti di intelligence avevano rilevato che non c’erano civili”.
Richiesta per email alla Nato: “Perché la Nato ha colpito un accampamento di soldati di Gheddafi? Un accampamento notturno non minaccia i civili in quel momento”. Risposta: “Sì che erano una minaccia reale. Durante tutto il conflitto, si riposavano per lanciare futuri attacchi ed ecco perché le aree di sosta militare erano obiettivi legittimi. Avrebbero potuto provocare future vittime. Le forze militari e le loro strutture erano attaccate solo se erano direttamente coinvolte o permettevano l’attacco ai civili; le truppe non coinvolte nell’attacco ai civili non erano prese di mira”. L’ultima frase contraddice le precedenti. Zliten era un’area pro-regime oltretutto.
Il 15 agosto spiegano che stanno bruciando a Brega due depositi petroliferi, “ulteriore prova che Gheddafi vuole distruggere o danneggiare infrastrutture chiave delle quali la popolazione avrà bisogno alla fine del conflitto”. Il 16 agosto alla Nato affermano che le forze di Gheddafi hanno “lanciato verso l’area di Brega un missile balistico a corto raggio che avrebbe potuto uccidere molti civili” e che “mostra che il regime di Gheddafi è disperato e continua a minacciare civili innocenti in Libia. Noi proteggiamo i civili per mandato del Consiglio di Sicurezza e continueremo a premere militarmente sulle forze pro-Gheddafi finché necessario”. Ovviamente “l’azione persistente e cumulativa della Nato crea un effetto ovvio: le forze di Gheddafi che attaccano stanno gradualmente perdendo la loro capacità di comandare, condurre e sostenere attacchi alla popolazione civile”. I gruppi armati – gli unici protetti dalla Nato in Libia – dunque sono sempre parificati alla popolazione civile.
Del resto in Tunisia un dirigente degli alleati locali della Nato, di fronte alla timida accusa da parte dei media “ma voi armati usate i viveri che l’Onu destina ai civili…” rispose secco: “Noi siamo dei civili”.
D’altro canto se dici a Lavoie che gli alleati Nato sul terreno uccidono civili e fanno (dopo la fine del regime) al caccia al nero e la Nato non protegge quei civili, Lavoie allarga le braccia: “Non siamo una forza di polizia”. Ammissione che un bombardamento non può proteggere i civili . E per email, alla domanda: “Come mai non proteggete gli abitanti di Tawergha deportati e i molti neri perseguitati ai vostri alleati? E anche in generale i civili presi nelle aree assediate?”, ecco la risposta: “Abbiamo fatto appello a entrambe le parti per la protezione dei diritti umani. La leadership del Cnt ha chiesto spesso alle sue forze di contenersi. E si è impegnata come nuova autorità al rispetto dei diritti umani; per metterlo in pratica occorrerà tempo e sforzo, e aiuto da parte internazionale. Mentre le forze pro-Gheddafi attaccavano i civili e le aree civili le forze del Cnt in molti casi prima dell’attacco aspettavano che i civili se ne andassero. Non abbiamo notizia che attaccassero civili deliberatamente e sistematicamente”. E dov’erano le prove degli attacchi sistematici da parte delle forze di Gheddafi?
La partigianeria è diventata evidentissima nel mortale assedio Nato e Cnt a Sirte. Se si faceva osservare a Lavoie che l’assedio a civili è un crimine di guerra, il colonnello rispondeva surrealmente: “Il Cnt ha mostrato l’intenzione di far uscire la popolazione civile”.
Mentre Sirte veniva distrutta dai bombardamenti e dai Grad e artiglieria pesante usati dagli armati del Cnt, il colonnello della Nato Lavoie dichiarava surrealmente: “La maggior parte della popolazione di Sirte e Bani Walid non corre più pericoli perché le rimanenti forze di Gheddafi stanno sulla difensiva, nel tentativo apparente di sfuggire alla cattura. Non controllano alcuna zona densamente popolata e non rappresentano più una vera e propria minaccia al di fuori di queste sacche di resistenza”. Minaccia per chi? Per i protetti dalla Nato: gli armati del Cnt. Ma la risoluzione Onu non doveva proteggere armati! Quando si scriveva alla Nato: “Risulta organizzazioni umanitarie libiche come Djebel al Akhdar, che oltre cinquanta civili siano rimasti sotto il bombardamento di un palazzo crollato all’angolo fra Dubai Avenue e Sept. 1st Avenue, e non poteva che essere un aereo visto il largo cratere prodotto” , la risposta era “non abbiamo indicazioni che sia vero”.
E il bombardamento dell’ospedale Avicenna? “Mai bombardato ospedali, nemmeno vicino a siti militari”. Altra domanda: la Nato sta indagando sui bombardamenti di strutture civili a Sirte? “I nostri obiettivi erano tutti militari dunque legittimi ex risoluzione 1973. Abbiamo agito con cautela, discernimento e precisione. Non siamo a conoscenza di alcuna prova che richiederebbe l’apertura di un’inchiesta formale”. E anche: “L’obiettivo della Nato è sempre stato evitare di colpire i civili. Abbiamo una intelligence solida e processi di selezione degli obiettivi molto stringenti. Consideravano il giorno della settimana, l’ora del giorno e della notte, la direzione dell’attacco. Le munizioni erano tutte di precisione e centinaia di obiettivi sono stata tralasciati per evitare rischi per i civili e le infrastrutture. Anche se in una complessa operazione militare i rischi non possono essere eliminati”.
Sirte distrutta, la Nato la spiega così: “Era l’ultimo bastione di Gheddafi. E’ stata contesta per settimane fra gheddafiani e Cnt”. E qui il surreale: “La Nato incoraggiava una soluzione pacifica. Ma dovevano essere le forze dell’ex regime a deporre le armi e a smettere di attaccare i civili”. Insomma, dovevano arrendersi e agevolare il cambio di regime anziché ostacolarlo.
I ribelli pro Nato del Cnt lanciano missili Grad dentro le città da essi assediate, e lo ammettevano . Sono considerati un’arma indiscriminata, dunque una minaccia per i civili, dalla stessa Alleanza; proprio all’uso dei Grad da parte dell’ex esercito libico, e all’assedio a Misurata, la Nato si era aggrappata in tutti i mesi passati per giustificare i bombardamenti “protettivi” e relative stragi. Sull’uso dei Grad da parte del Cnt la Nato interpellata via email (non) risponde così, dimostrando tutta la neutralità sbandierata da Oanà: “Fin dall’inizio il Cnt ha posto ogni cura nell’evitare vittime civili e crediamo che continuerà a farlo”. Forse l’intelligence Nato era selettiva e non vedeva i Grad del Cnt, né la caccia ai neri libici e stranieri e ai lealisti.
Surreali le dichiarazioni. Mentre le forze di Gheddafi sono in fuga e si concentrano nel triangolo dove hanno un più forte sostegno popolare, il portavoce il 13 settembre dice che “occupando e reprimendo città come Bani Walid e Sirte le forze di Gheddafi hanno preso in ostaggio la popolazione, esponendola a ovvi rischi, reprimendo la sollevazione e impedendo ai cittadini di andarsene”. Evidente i due pesi due misure rispetto a Misurata, o a Homs e Aleppo e molti altri luoghi in Siria, dove mai i ribelli sono accusati di prendere in ostaggio. “La Nato è riuscita a intercettare e annientare parecchie fonti di minaccia per la popolazione civile, fra cui carrarmati, lanciamissili ecc.; i veicoli della Nato hanno condotto svariate missioni di attacco ben dentro il deserto del Sahara per distruggere le infrastrutture di comando e controllo, un autoreparto e parecchi veicoli blindati impedendo quindi il rafforzamento delle posizioni del regime nel nord del paese”. Poi ricapitola citando la 1973: “Negli ultimi sei mesi le forze della Nato hanno mantenuto costante il ritmo delle operazioni, intervenendo laddove le forze di Ghedafi rappresentassero una minaccia per i civili, che si trattasse di Bengasi, di Misurata, di Sebha, nel sud o di molte altre città e villaggi di tutto il paese.
A riprova della sua imparzialità, la Nato conclude una conferenza stampa il 13 settembre dicendo “La ripresa della Libia è ben chiara e non lascia spazio a dubbi”.
L’assedio a Sirte ha reso la situazione umanitaria disperata. Dall’ospedale – anch’esso centrato da razzi – il dottor Abdullah Hmaid dichiarava alla Reuters che i pazienti morivano per mancanza di materiale ospedaliero e chiedeva a Croce rossa internazionale e Oms di aiutare a rompere il blocco. Ma nessuna organizzazione internazionale ha denunciato l’assedio. Eppure alla conferenza stampa del 27 settembre il colonnello Lavoie da Napoli ribadiva che l’emergenza di Sirte era solo “colpa dei miliziani e dei mercenari di Gheddafi” che non capivano che avrebbero dovuto “arrendersi” e “si piazzano vicino alle case e agli ospedali usando i civili come scudi umani”. Un’accusa che l’Alleanza i suoi paesi membri non hanno mai rivolta ai ribelli asserragliati a Misurata o, in seguito, a BabaAmr in Siria. Per definizione gli scudi umani li usano solo i cattivi.
Anche per email la Nato ribadisce implicitamente di aver lasciato fare agli alleati assedianti, e getta la colpa sugli assediati. In un’altra email: “I pro-Gheddafi si nascondevano nel centro della città per cercare di usare i civili come scudi umani contro il Cnt. La situazione umanitaria a Sirte era precipitata per gli sforzi delle truppe di Gheddafi di controllare punti di accesso. Checkpoint pro-Gheddafi e cecchini impedivano alle famiglie di spostarsi in aree più tranquille. Le forze di Gheddafi inoltre percorrevano le strade alla ricerca di sostenitori anti-Gheddafi, prendevano ostaggi e compivano esecuzioni”. Come fate a saperlo se non avevate militari a terra? “Non avevamo osservatori sul terreno ma usavamo i nostri asset di intelligence e sorveglianza per avere un quadro reale Monitoravamo con cura le linee di fronte per identificare chi attaccasse o minacciasse la popolazione.”. Era ovviamente impossibile monitorare da 10.000 metri. Dunque?
Il 21 settembre il comandante per le operazioni Nato in Libia Charles Bouchard spiega che “la nostra missione prosegue, perché le forze di Gheddafi minacciano ancora la popolazione”; “invitava i lealisti ad “arrendersi per garantire una fine pacifica del conflitto, anche perché sono circondati e non hanno vie di fuga, in quanto il territorio intorno a loro è nelle mani dei ribelli”. Quanto ai lealisti in fuga, la Nato non li attaccherà perché “si stanno allontanando dalla popolazione e non costituiscono così una minaccia per i civili”.
Ma è stata la Nato a fermare il convoglio in fuga di Gheddafi, e a farlo dunque uccidere.
Italia-Francia: il voltafaccia che ha destabilizzato Italia, Eurozona e Mediterraneo
Chi ancora contrappone – nella sua testa – una visione romantica e “internazionalista” dell’Unione Europea, contrapposta ai “nazionalismi” di destra, è bene che si metta a leggere qualcosa di serio. E rapidamente.
Qualche tonto grave – naturalmente “di sinistra” – è arrivato a comprendere nel mazzo dei “sovranismi” anche i popoli da tempo immemorabile in lotta per l’autodeterminazione (Palestinesi, Curdi, per non dire dei Catalani o dei Baschi), quindi l’urgenza è davvero pressante.
Consigliamo questo editoriale di Milano Finanza, quotidiano economico obbligato a dare notizie utili ai suoi lettori (debbono investire denaro, mica nutrire tristi passioni ideologiche…). Una descrizione impietosa degli interessi e degli obiettivi che negli ultimi dieci anni hanno contrapposto Italia e Francia (sia con governi di centrodestra che di centrosinistra) su quasi tutti i fronti. Economici, naturalmente.
Il quadro che ne risulta non è molto compatibile con l’immagine “sovra-nazionalista” dell’Unione, mentre corrisponde quasi esattamente a un tavolo da gioco dove tutti barano, ma qualcuno sa farlo meglio di altri. Dove, insomma, ciascuno persegue i propri obiettivi dietro lo schermo della “comunità” e i suoi “trattati”, senza minimamente curarsi della presunta “condivisioni di obiettivi e destino”; e tanto meno delle condizioni di vita e riproduzione delle rispettive popolazioni.
Ci sono gruppi industriali persi o a grave rischio di delocalizzazione della proprietà; interessi petroliferi e geostrategici per cui ci si spara per interposta “milizia tribale”, depositi finanziari rimasti senza proprietario originale e per cui si cercano prestanomi… Un tripudio di capitali e fondi neri, industrie rispettate e servizi segreti innominabili, mondo della moda e sgambetti poco diplomatici. Tutto quello che, insomma, ci fa vedere quanto la politica sia la continuazione della guerra con altri mezzi. E non solo il contrario clausewitziano…
Un quadro che rende più urgente fare pulizia anche nel linguaggio che usiamo, ormai quasi più senza la minima avvertenza critica, e che ci costringe a pensare secondo gli schemi del nostro nemico. Di classe, non “nazionale”.
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di Guido Salerno Aletta
Rapporti sempre più complicati, ormai dal 2011, tra Italia e Francia. Come se non bastassero le questioni sollevate dalle incursioni societarie in Tim e Mediaset, le asperità cui ha dato luogo l’acquisizione di Stx da parte di Fincantieri, e le ricorrenti prospettive di fusione tra Unicredit e SocGen da una parte e tra Generali ed Axa dall’altra, c’è un tema politico che ormai sovrasta tutto.
Dopo le polemiche estive sulla questione dell’accoglienza ai profughi e sul rimpatrio di quelli entrati clandestinamente in Francia dal valico di Ventimiglia, il Vice Premier italiano Matteo Salvini ha accusato apertamente la Francia di sobillare talune fazioni armate in Libia per scalzare i nostri interessi economici, suscitando la piccata reazione del Presidente francese Emmanuel Macron, che si è candidato alla leadership europea nel contrasto ai sovranismi ormai dirompenti. E’ una prospettiva, questa, davvero inedita.
Nei rapporti tra Italia e Francia, tutto è cambiato nel 2011. L’intervento anglo-francese in Libia, fortemente supportato dall’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton al fine di mettere fine al regime del Colonnello Gheddafi, ha determinato una frattura analoga a quella che nel 1981 fu causata dalla occupazione di Tunisi, con l’istaurazione di un Protettorato francese che scalzava in malo modo la forte presenza italiana e le prospettive di un suo progressivo rafforzamento. Anche in quella circostanza, come è accaduto nel 2011, l’isolamento diplomatico italiano fu palese e determinante.
Ancora tre anni prima, nel 2008, i rapporti tra Italia e Francia erano estremamente soddisfacenti e le rispettive strategie assolutamente convergenti. Nell’estate, infatti, sia il neo eletto Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy che il neo Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, inaugurarono i rispettivi mandati con un viaggio nelle due ex colonie, Algeria e Libia, per chiudere definitivamente i conti con quel passato e dare l’avvio ad una nuova stagione di collaborazione nel Mediterraneo. Francia ed Italia si muovevano all’unisono.
A Parigi, il 13 luglio, si riunì il Summit istitutivo della Unione Euromediterranea, sotto la co-Presidenza del Premier francese nella qualità di Presidente di turno della Ue e del Presidente egiziano Hosni Mubarak e con la partecipazione di ben 44 Paesi. Erano presenti i rappresentanti di tutti i Paesi dalla UE, dei partner del Processo di Barcellona, dei Paesi balcanici rivieraschi e del Principato di Monaco.
Il successivo 30 agosto, a Bengasi, fu firmato il Trattato di particolare amicizia tra Italia e Libia, che era stato preceduto dalla approvazione da parte del Congresso americano del Libyan Claims Resolution Act, n. 110-301, con cui si dava dato atto alla Libia di non perseguire più politiche di sostegno al terrorismo, accettando a titolo di risarcimento la somma di 1,5 miliardi di dollari per gli attentati di Lockerbie e di Berlino.
A Villa Madama, nel febbraio del 2009, Berlusconi e Sarkozy stipularono un Accordo davvero esemplare per il clima di collaborazione sotteso: fu lo stesso Premier francese ad annunciare una “partnership illimitata”, proclamando che “Italia e Francia parleranno con una sola voce in Europa per prendere decisioni forti”. Ed ancora, affermò che “Italia e Francia vogliono cambiare l’Europa per tutelare i cittadini europei e trarre insegnamenti dalla crisi: vogliamo sanzionare i paradisi fiscali, controllare gli hedge-fund e fissare nuove regole per la retribuzione dei banchieri, dei trader e per i bonus”. La cooperazione sul piano militare sarebbe stata ancor più solida: “Abbiamo gli stessi obiettivi di politica estera e abbiamo una politica economica comune. Potremmo fare un battaglione navale italo-francese”.
A mettere fine a questa intesa, ma soprattutto a scardinare la strategia di creare nel Mediterraneo un’area di cooperazione e di prosperità, fu l’Amministrazione Obama: sotto l’impulso decisivo del Segretario di Stato Hillary Clinton, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 si dette avvio alle cosiddette Primavere arabe. Le “democrature” arabe dovevano essere spazzate via, per fare posto a sistemi genuinamente democratici: la politica di repressione delle opposizioni, e la complicità dell’Occidente nel sostenere questi regimi illiberali, sarebbe stata la causa unificante del terrorismo islamico e dell’ostilità endemica nei confronti degli Usa. A peggiorare i rapporti, si aggiunse l’atteggiamento di irrisione verso Silvio Berlusconi assunto dalla coppia di ferro Merkel-Sarkozy nel corso del drammatico G20 di Nizza del novembre 2011: la debolezza italiana di fronte alla crisi finanziaria fu cavalcata in modo brutale. Il voltafaccia francese fu plateale.
Tutto nasce però dallo squilibrio di fondo nell’asse franco-tedesco, che si è aggravato nel corso degli ultimi anni: Parigi ha un deficit commerciale strutturale crescente, che è arrivato nel 2017 a 62,3 miliardi di euro, rispetto ai 48,3 miliardi del 2016. La Francia è il secondo Paese per destinazione dell’export tedesco, dopo gli Usa, con un attivo che secondo Destatis, l’Istituto di statistica tedesco, è arrivato nel 2017 a 41 miliardi di euro. La Germania, di converso, finanzia questo squilibrio con investimenti crescenti di portafoglio in titoli francesi: l’ammontare complessivo è passato dai 74 miliardi di euro del 2001 ai 212 miliardi del 2008, fino a raggiungere i 404 miliardi di euro nel giugno 2017: la morsa tedesca è sempre più stretta.
La situazione dell’Italia è di gran lunga migliore: non solo ha un avanzo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti pari al 3% del pil, ma nel 2017 il disavanzo commerciale con la Germania è stato di soli 9,6 miliardi di euro. Per quanto riguarda i rapporti italo-francesi, la Direzione delle Dogane di Parigi ha cifrato in 6,7 miliardi di euro lo squilibrio del movimento di merci Cif/Fob tra i due Paesi nel 2017. Dal punto di vista finanziario, a giugno dello scorso anno, le detenzioni italiane in emissioni francesi ammontavano a 163 miliardi di euro, mentre quelle francesi erano di 277 miliardi, in contrazione rispetto al picco di 374 miliardi del giugno 2014.
La Francia cerca quindi di recuperare lo squilibrio con la Germania, che è soprattutto geopolitico, attraverso l’acquisizione di grandi imprese italiane non manifatturiere: dal settore del lusso alla grande distribuzione, dalle telecomunicazioni alle televisioni, dall’alimentare all’energia, dalle banche alle gestioni di risparmio. Cerca inoltre di sottrarre potenziale nella competizione internazionale, sul piano commerciale, politico e strategico.
Il Mediterraneo è dunque l’area di maggior attrito tra Italia e Francia, con la Libia che rappresenta la punta dell’iceberg del confronto: a Tripoli, non ci sono in ballo solo gli interessi petroliferi, con le concessioni gestite dal NOC. Ci sono le detenzioni della LIA, il fondo sovrano libico con cui SocGen ha da sempre strette relazioni, che ammonterebbero ad oltre 50 miliardi di dollari e che comprendono fra l’altro le partecipazioni azionarie in Unicredit, e c’è la gestione degli attivi della Banca centrale libica che arriverebbero ad un valore doppio. In prospettiva, ci sono anche le commesse della ricostruzione, che fanno gola a tutti. Chi avrà dalla sua parte il governo libico, in un contesto pacificato, come è stato per l’Italia durante la prima fase della crisi finanziaria, potrà contare su un polmone finanziario di tutto rispetto.
Italia e Francia stanno giocando sul piano geopolitico due partite parallele, di mediazione in un quadro in continuo movimento. Roma ha margini di manovra assai maggiori rispetto a Parigi. La Francia è legata a filo doppio all’asse con la Germania, ed ha fatto della ostilità verso la Gran Bretagna una sorta di vessillo, dimenticandosi dell’aiuto ricevuto in due Guerre mondiali: punta sulla prospettiva di porsi alla guida di un futuribile esercito europeo per valorizzare il suo arsenale nucleare ed il seggio di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Così facendo, però, si mette ancor più in rotta di collisione con gli Usa e la Gran Bretagna. Anche i recenti disordini in Libia non giovano affatto alla strategia francese, che contempla di arrivare alle elezioni a dicembre: in un contesto ritornato sfilacciato e conflittuale, risulta vincente la strategia italiana, che punta prioritariamente alla pacificazione fra le diverse componenti. A novembre, si terrà in Sicilia una Conferenza a tal fine, con la partecipazione anche di Cina, Qatar, Stati Uniti, Lega Araba e Onu: è un metodo diplomaticamente assai più coinvolgente rispetto agli incontri con i due soli leader libici, Al Sarraj ed Haftar, convocati da Emmanuel Macron all’Eliseo.
A partire dal 2011, Parigi ha scommesso sulla debolezza finanziaria italiana e sulla sua solitudine geopolitica, anziché mantenere fermi l’asse con Roma e la strategia comune a favore di uno sviluppo pacifico del Mediterraneo. Ha ceduto, ancora una volta: sia alle pressioni tedesche che a quelle anglo-americane, contribuendo in modo determinante alla destabilizzazione dell’Italia, dell’Eurozona e dell’intero Mediterraneo, guadagnando ben poco. Nessuna grande potenza ha mai consentito, da secoli, la colonizzazione dell’Italia. A Parigi, dovrebbero saperlo bene.
L’associazione Vittime della Nato in Libia lotta contro l’impunità dei potenti
di Marinella Correggia
Dalla guerra in Iraq nel 1991 a oggi, nessun tribunale internazionale ha mai processato e giudicato i vincitori delle guerre di aggressione condotte dall’Occidente e dagli alleati del Golfo. E dire che la guerra di aggressione è bandita in modo assoluto dalla carta delle nazioni unite ed è considerata il «crimine internazionale supremo» sin dall’epoca del tribunale di Norimberga (che però giudicò solo i vinti).
Alcune volte gli Stati presi di mira hanno provato a reagire ricorrendo a istanze internazionali (si pensi alla Jugoslavia durante i bombardamenti Nato del 1999); altre volte erano i cittadini danneggiati a provare le strade dei tribunali internazionali, sul lato penale e civile. Il primo non ha mai sortito effetti; per il secondo, alle vittime civili – «effetti collaterali» – afghane, irachene, pakistane sono stati elargiti risibili risarcimenti a cura dei responsabili, si vedano gli Usa con gli abitanti dei villaggi sterminati dai droni. Troppo poco, decisamente.
Si sta muovendo con coraggio contro l’impunità Khaled el Hamedi, cittadino libico, fondatore dell’associazione Vittime della Nato. Un bombardamento dell’operazione Unified Protector sterminò la sua famiglia il 20 giugno 2011 a Sorman. Dalle macerie furono estratti i corpi maciullati della moglie Safae Ahmed Azawi, incinta, dei suoi due figli piccoli Khaled e Alkhweldi, della nipote Salam, della zia Najia, del cugino Mohamed; uccisi anche i bambini dei suoi vicini di casa e due lavoratori. Abbiamo rivolto alcune domande al legale di Khaled, Jan Fermon, che sta preparando una conferenza stampa a Bruxelles, il 29 gennaio.
Avvocato Fermon, il 23 novembre 2017 la Corte d’appello di Bruxelles (Belgio, sede del Patto atlantico) ha risposto negativamente al ricorso del suo assistito Khaled el Hamidi; l’immunità della Nato è stata confermata…
E’ stata persa l’occasione di un passo avanti storico nell’applicazione della legislazione internazionale sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Una grande ingiustizia verso tante vittime. Khaled el Hamidi (che ora vive in esilio, ndr) è intenzionato ad andare avanti finché l’impunità non avrà fine.. Il fatto che la sede della Nato sia qui, ha aperto la strada alla possibilità di un processo civile.
Come mai la Nato gode dell’immunità, e dunque dell’impunità?
La Nato è un organismo interstatale e multilaterale; con il trattato di Ottawa del 1951, i paesi fondatori decisero per l’immunità dalla giurisdizione cioè l’impossibilità di processare (cosa diversa dall’immunità di esecuzione cioè l’impossibilità di applicare la punizione). E’ grave, trattandosi di un’organizzazione che può dunque impunemente decidere della vita e della morte delle persone in giro per il mondo. Non è certo un incentivo, per la Nato e per altri, a rispettare il diritto internazionale…Può sfociare nell’impunità per crimini di guerra.
Paradossale. Non ci sono limiti a questa immunità?
Sì, ci sarebbero, e questa è la base della nostra azione legale. Infatti l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti umani e altri strumenti internazionali prevedono che ogni cittadino abbia il diritto di accedere a un tribunale. E, per la Convenzione di Vienna, gli Stati devono rispettare i trattati che hanno firmato. Il diritto di accesso, tuttavia, non è assoluto e può subire limitazioni, appunto di fronte all’immunità delle organizzazioni internazionali, che hanno fini da perseguire. Ma c’è una giurisprudenza, anche da parte della Corte di cassazione belga, secondo la quale la limitazione nell’accesso ai giudici non è accettabile quando l’organizzazione internazionale che dovrebbe essere messa in stato di accusa non ha una sorta di tribunale interno accessibile da parte dei cittadini che hanno subito danni dal suo operato. La Nato è priva di questo meccanismo rispetto alle sue azioni in Libia.