Angela Merkel è andata ad Atene. Non ci sono state le grandi contestazioni degli scorsi anni, ma c’è una ragione. Il paese ha perso, durante la crisi economica, quasi 700.000 abitanti: quasi tutti giovani, laureati o diplomati. Un esodo di massa che sta lasciando il paese senza più forze vitali, sia per produrre nuova ricchezza che – eventualmente – innescare un riscatto sociale basato sul conflitto.
Questo articolo, apparso giovedì sul New York Times, pur se scritto nel tono “british” che ci si attende da una testata anglosassone, restituisce un quadro di devastazione che neanche la Seconda guerra mondiale era stata in grado di produrre in quel paese.
Per quanto lo si possa dire in modo freddo e neutro, infatti, la stima della popolazione ellenica – da qui a 30 anni, se si va avanti così, con il “pilota automatico” – è da post attacco nucleare: una riduzione tra 800.000-2,5 milioni. Un mezzo “sterminio” diluito nel tempo, quasi senza spargimento di sangue o campi di concentramento, ma non senza tragedie e dolori, che riguarderà tra il 10 e il 25% della popolazione originaria. Sommando emigrazione e fisiologia umana.
Dietro i numeri dell’economia ci sono le persone in carne e ossa, si usa dire. Beh, in questo caso si dimostra che insieme alla distruzione dell’economia di un paese scompare anche la sua popolazione. Perché costretta ad emigrare (“migranti economici”, che qualcuno magari proporrà di rimandare “a casa loro”, se l’economia peggiorerà – come pare – anche là dove son andati) o non più in condizione di riprodursi.
La lista delle conseguenze umane, antropologiche, culturali, ecc, è tutta da individuare, ma immensa. Una eradicazione così vasta di un popolo, di queste dimensioni, non si era mai vista dai tempi di Gengis Khan. Forse solo il grande arretramento delle popolazioni slave davanti all’invasione nazista può reggere al confronto. Ma, in quel caso, esisteva un ampio retroterra solidale e belligerante, e durò solo due-tre anni, seppure con costi umani mostruosi (la gran parte degli oltre 20 milioni di sovietici morti nella Seconda guerra mondiale erano civili).
Quando diciamo che un sistema di produzione è intimamente criminale e criminogeno, qualcuno finge di stupirsi e grida all’esagerazione ideologica.
La pulizia etnica della Grecia dimostra invece che anche noi abbiamo fatto un errore: siamo stati troppo buoni e “ottimisti”. In proporzioni appena minori, è quello che sta avvenendo anche in Italia, e prima ancora che vengano applicate con altrettanta ferocia le “misure di aggiustamento strutturale” imposte dai trattati europei e dalle tecnoburocrazie della “Troika” (Ue. Bce, Fmi).
E’ quello che sta avvenendo da anni in Africa e altri paesi, stretti tra schiavitù economica e attacchi militari espliciti, moltiplicando fino all’inverosimile fenomeni migratori altrimenti solo “fisiologici”.
Quando ascoltate parlare un Monti, un Giavazzi, un Cottarelli o un Calenda, è questa sorte che ci stanno indicando come “necessaria”, “senza alternative”. Col sorriso sulle labbra.
Se ne sono accorti per tempo, forse, anche in Francia. E, almeno lì, hanno cominciato – solo cominciato – a far capire che non ci sarà più ovina obbedienza e “fiducia in questa classe dirigente”.
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La grande emorragia greca
Nikos Konstandaras
Il governo greco, una coalizione di un movimento radicale di sinistra e un partito di destra nazionalista al potere dal 2015, ha celebrato la fine del terzo piano di salvataggio del paese lo scorso agosto come “ritorno alla normalità”. I nostri partner e creditori dell’Unione europea, che ha erogato 288,7 miliardi di euro di prestiti negli anni precedenti, si sono anche affrettati a dichiarare vittoria sulla crisi iniziata nel 2010.
Tutti vogliono vedere la fine della crisi greca – non ultimo il popolo greco, che è stremato dalla lunga e profonda recessione, dalla continua austerità e dalle riforme i cui benefici non hanno visto.
Ma la Grecia è molto lontana dalla “normalità”. Si è fatto molto per rendere l’economia redditizia, ma il paese ha bisogno di un’esplosione di fiducia e di attività economiche: la ripresa porterebbe nuovi importanti investimenti, stabilità politica e ulteriori riforme alla pubblica amministrazione. Ma non solo il debito pubblico è maggiore di quanto non fosse nel 2009; i redditi dei cittadini sono stati tagliati, i loro beni svalutati, i loro beni persi, i loro debiti moltiplicati.
Le elezioni nazionali devono essere tenute in queste condizioni. I sondaggi mostrano che l’opposizione di centro-destra del partito Nuova Democrazia è davanti a Syriza, il senior partner della coalizione al governo, in un contesto che sta già peggiorando la polarizzazione della politica greca. Il governo, che era sempre a disagio con l’austerità e le riforme, promette aiuti; l’opposizione giura di rovesciare le politiche e le decisioni cui non è d’accordo.
Nella più drammatica dimostrazione di sfiducia, si stima che oltre 700.000 persone abbiano lasciato la Grecia dal 2010, cercando opportunità all’estero. Le morti sono più numerose delle nascite, in quanto le persone fanno meno figli o non osano affatto farne. Ricerche recenti suggeriscono che, ai tassi attuali, la popolazione della Grecia, che nel 2015 era di circa 10,9 milioni, potrebbe ridursi di una cifra tra 800.000 e 2,5 milioni di persone entro il 2050. La forza lavoro è costituita attualmente da circa 4,7 milioni di persone. Una popolazione lavorativa molto più piccola dovrà sostenere un numero crescente di pensionati, con una minore crescita e minori entrate, dovute a costi più elevati della sicurezza sociale.
La crisi ha danneggiato le imprese. Diminuzione della domanda interna, condizioni di credito strette, controlli sui capitali, incertezza politica e trasferimenti all’estero hanno causato il dimezzamento della produzione delle piccole e medie imprese. Tali imprese sono la linfa vitale dell’economia, visto che generano un quarto del Pil e il 76% dell’occupazione del paese.
Con un leggero ritorno alla crescita nel 2017, le imprese hanno iniziato a riprendersi. Nei primi sei mesi del 2018, le 153 società quotate alla Borsa di Atene riportavano profitti pre-tasse per 957 milioni di euro, secondo quanto riferito dalla società di consulenza ICAP. Tuttavia, se confrontate con il debito pubblico, queste cifre indicano la sfida che i greci affrontano nei prossimi anni.
Nel 2009, il debito pubblico è stato di 299,7 miliardi di euro, pari al 130% del PIL. Da allora, la Grecia ha preso in prestito 288,7 miliardi di euro dagli Stati membri e dalle istituzioni dell’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale. Inoltre, nel 2012 sono stati svalutati circa 107 miliardi di euro di debito. Eppure, il debito pubblico nel 2018 è arrivato a 357,25 miliardi di euro – superiore ai numeri che la Grecia non è riuscita a far fronte in precedenza.
Alcuni indicatori suggerirebbero che la Grecia è sulla strada giusta. La disoccupazione è scesa al 18,3%, da un picco del 27,9% nel 2013. Nel 2018 si stima che l’avanzo primario abbia superato l’obiettivo fissato dai creditori per il terzo anno consecutivo. Ma questo ha avuto un costo elevato: i pagamenti ritardati da parte dello stato a privati e aziende, così come ulteriori tagli ai finanziamenti per la sicurezza sociale, ospedali e altri servizi.
La compressione della spesa continuerà per decenni, dal momento che la Grecia è impegnata a mantenere un’eccedenza annuale del 3,5% fino al 2022 e sarà sottoposta a una rigorosa supervisione finché non ripagherà i suoi prestiti entro il 2060. Questo problema è aggravato dall’enorme crescita del debito privato. Quasi la metà dei crediti totali concessi dalle quattro principali banche del paese, circa 86 miliardi di euro, sono inesigibili o vicine ad esserlo. Ciò impedisce alle banche di iniettare denaro nell’economia. Le aziende che cercano di prendere a prestito all’estero devono affrontare alti tassi di interesse.
Circa 4,2 milioni di persone sono in arretrato con lo Stato, con debiti non coperti per le imposte di circa 103 miliardi di euro. Le autorità hanno confiscato stipendi, pensioni e beni ad oltre un milione di persone. I debiti arretrati verso i fondi di sicurezza sociale sono attualmente pari a 34,4 miliardi di euro.
Con le tasse elevate e con quasi la metà dei nuovi posti di lavoro a tempo parziale ridotto o lavoro a turni, è probabile che questi debiti cresceranno. Oggi sono classificate a rischio di povertà o esclusione sociale più persone (34,8% della popolazione nel 2017) rispetto all’inizio della crisi (27,7%).
I poveri sono diventati più poveri mentre la classe media ha faticato sotto la pressionecrescente. Le tasse sulla proprietà, da circa 600 milioni di euro prima della crisi, sono salite a 3,7 miliardi di euro nel 2017. Circa il 19% dei contribuenti copre il 90% delle entrate fiscali, ha riconosciuto il primo ministro Alexis Tsipras.
I valori delle proprietà riflettono tasse più elevate e affitti più bassi, con appartamenti che perdono in media il 41% in valore tra il 2007 e il 2017, secondo la Banca di Grecia.
La necessità di pagare le tasse e di soddisfare altri obblighi ha visto i depositi privati nelle banche greche scendere a 131,385 miliardi di euro lo scorso novembre, da 237,8 miliardi nel 2009. Molte persone, per sopravvivere, sono state costrette a vendere monili d’oro e altri oggetti di valore. Le agenzie di pegno e i compro-oro hanno fatto grandi affari in tutto il paese, sciogliendo gioielli e altri oggetti in lingotti d’oro.
La polizia ha recentemente arrestato decine di persone sospettate di contrabbandare oro in Turchia. Il giro d’affari giornaliero era in media di 400.000 euro – l’equivalente di circa 11 chilogrammi d’oro al giorno. Il controllo era un vero disastro: si è scoperto che i concessionari non avevano bisogno di permessi per esportare in Turchia. L’inchiesta, tuttavia, ha fatto luce su uno dei costi personali della crisi meno visibili.
Ma da nessuna parte l’emorragia della Grecia è più grave che nella partenza dei giovani. La Grecia ha visto emigrazioni di massa in passato, perché povertà, guerra, dittature e mancanza di prospettive hanno spinto soprattutto le persone non qualificate a cercare fortuna in America, Australia, Europa e Africa.
Questa volta, però, la maggior parte di coloro che lasciano stanno privando il paese delle proprie capacità e dei propri investimenti. Circa il 92% dei nuovi emigranti è laureato all’università o in istituti tecnici, con il 64% del totale dei diplomi post-laurea, compresi i dottorati, ha scoperto la consulenza ICAP in un sondaggio su 1.068 greci in 61 paesi. Circa 18.000 medici hanno lasciato il paese durante la crisi; secondo l’Associazione medica di Atene, per ciascuno lo stato aveva speso 85.000 euro.
Il paradosso è che la Grecia forma professionisti a costi elevati, ma non può offrire loro la stabilità e le opportunità di cui hanno bisogno per poterli impiegare nel paese. Ciò avvantaggia i paesi destinatari e ostacola la crescita della Grecia, quando le aziende non riescono a trovare dipendenti con le competenze di cui hanno bisogno. Inoltre, quando i più giovani rimangono fuori dalla forza lavoro, non traggono profitto dall’esperienza degli anziani, portando ad un’ulteriore perdita di competenze e ad una minore produttività.
A maggio, le elezioni in tutta l’Unione europea determineranno non solo l’adesione al Parlamento europeo, ma anche chi dirigerà il suo organo esecutivo, la Commissione europea. E un nuovo presidente sarà selezionato per la Banca centrale europea.
In un mondo sempre più instabile, nessuno vuole una crisi greca all’ordine del giorno. Ma la battaglia del Paese è lungi dall’essere conclusa. Il recupero dipende dagli sforzi degli stessi greci e dal sostegno di un’Unione europea che è determinata a procedere nello stesso modo piuttosto che concedere la divisione dei rischi. Quest’anno mostrerà in che modo sono diretti la Grecia e l’Unione europea nel suo complesso.
* Nikos Konstandaras è un editorialista del quotidiano greco Kathimerini e collaboratore del New York Times.
"Italiani brava gente"? Spesso lo si è detto e spesso lo si continua a dire. Ma dalla storia emergono anche racconti diversi, che mettono in difficoltà questa narrazione tesa all'autoassoluzione. Domenikon è uno di questi episodi: un massacro in piena regola, al punto da venir definito come la "Marzabotto della Tessaglia", compiuto durante l'occupazione della Grecia da parte delle forze italiane e tedesche.
Di Michele Cotugno Depalma - 10 Novembre 2018
A molti, anzi a moltissimi, la parola Domenikon potrebbe non significare nulla.
Tanti potrebbero fare ipotesi su cosa possa essere. Un nome greco. Un personaggio importante. Un artista, un poeta, uno scultore. No, niente di tutto questo. È semplicemente il nome di un paesino circondato dalla macchia, da ginepri, cardi e rosmarini. Oggi. Già, oggi. Perché 75 anni fa ha significato ben altro.
Un eccidio, e per giunta italiano. Una pagina scura, scurissima della nostra storia. Un crimine brutto. Disgustoso. E, per decenni, sottaciuto e nascosto. Talmente orrendo che per alcuni storici è, addirittura, la “Marzabotto” di Tessaglia. In stile nazista, solo un po’ meno scientifico. È stato il primo massacro di civili in Grecia durante l’occupazione, stabilendo un modello. E sbugiardando il detto che “gli italiani sono brava gente”.
Domenikon – è la convinzione degli esperti – è il primo di una serie di episodi repressivi nella primavera-estate 1943. Il generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, emanò una circolare sulla lotta ai ribelli il cui principio cardine era la responsabilità collettiva. Per annientare il movimento partigiano andavano annientate le comunità locali. L’ordine si tradusse in rastrellamenti, fucilazioni, incendi, requisizione e distruzione di riserve alimentari. A Domenikon sono seguiti eccidi in Tessaglia e nella Grecia interna. Altri 30 cadaveri innocenti morti per “vendetta”.
Il giorno da segnare e da riempire di vergogna è il 16 febbraio 1943. Il dì in cui gli italiani si sono trasformati in bestie feroci e senza scrupoli. Perché dovevano vendicare i soldati, ben nove, uccisi dal fuoco dei partigiani greci.
Era accaduto, infatti, che gli autoctoni, i greci, hanno osato fare fuoco dalla collinetta a un convoglio di militari italiani al loro passaggio. Per questo, allora, come le più spietate delle vendette, i greci andavano puniti: non i partigiani, i civili. Domenikon andava distrutta. Delenda est, avrebbero detto i romani. Per dare a tutti “una salutare lezione”, come scrisse poi il generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo.
Il primo pomeriggio, quindi, i nostri connazionali hanno circondato il villaggio, rastrellato la popolazione e un primo raduno sulla piazza centrale. Poi dal cielo sono arrivati i caccia col fascio littorio bassi, rombando, scaricando le loro bombe incendiarie. Case, fienili, stalle, in fiamme tra le urla delle donne, i muggiti lugubri delle vacche.
Al tramonto, dopo esser stati separati dalle donne, tra pianti e calci, a tutti i maschi sopra i 14 anni e fino agli 80 anni di età, è stato promesso che sarebbero stati trasferiti in un’altra località per gli interrogatori. Menzogna. Come il “Die arbeit macht frei” che riecheggiava nei campi di concentramento. È successo che, di lì a qualche ora, quasi un centinaio di loro sono stati fucilati senza pietà, e la notte e l’indomani i soldati della Pinerolo hanno assassinato per strada e per i campi pastori e paesani che si erano nascosti. Un’altra carneficina. Che ha fatto salire il totale dei morti a 150. Che diventano 180 contando anche quelli delle rappresaglie successive.
L’episodio è stato per decenni occultato, nascosto e dimenticato finché non è arrivato un illuminante documentario chiamato “’La guerra sporca di Mussolini”, diretto da Giovanni Donfrancesco e prodotto dalla GA&A Productions di Roma e dalla televisione greca Ert, a vomitare tutto.
In Italia, il documentario è stato rifiutato dalla Rai, e trasmesso dalle emittenti Mediaset il primissimo pomeriggio del 3 gennaio 2010. Il film, che ha riaperto una pagina odiosa dell’Italia fascista, si basa su ricerche recenti della storica Lidia Santarelli, docente al Centre for European and Mediterranean Studies della New York University. Il prodotto ha detto tante cose. Ha svelato molteplici episodi della campagna italiana in Grecia, dove eravamo fin dal 1940 per dare una mano – poi, in realtà, siamo stati un peso – ai tedeschi.
L’occupazione (sino al settembre ’43 gli italiani amministrarono due terzi della Grecia, un terzo i tedeschi) si è caratterizzata per le prevaricazioni continue ai danni di innocenti. Abitanti di Atene morti di fame gettati come stracci agli angoli delle strade. Un altro capitolo poco studiato è la prostituzione: migliaia di donne prese per fame e reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani.
Domenikon è stata riconosciuta città martire nel 1998, ma non è diventata memoria collettiva, come Marzabotto. Perché? Perché molti greci non conoscono queste vicende. Perché? Già nel 1948, con la rinuncia del governo a chiedere l’estradizione dei criminali italiani, la questione si è chiusa.
I processi non sono mai stati istruiti.
ROMA 15 febbraio 2019
La lunga indagine, avviata dall'allora procuratore militare di Roma Marco De Paolis, si è conclusa con una richiesta di archiviazione per 9 degli 11 indagati, perché morti, e per gli altri due perché non è stato possibile identificarli compiutamente.
A Domenikon, piccolo villaggio della Tessaglia, un attacco partigiano contro un convoglio italiano provocò la morte di nove soldati delle Camicie Nere. Come reazione il generale Cesare Benelli, comandante della Divisione 'Pinerolo', ordinò la repressione secondo l'esempio nazista: centinaia di soldati circondarono e dettero alle fiamme il paese, rastrellarono la popolazione e, nella notte, fucilarono circa 140 uomini e ragazzi dai 14 agli 80 anni. La storia di questo massacro dimenticato venne raccontata in un documentario - "La guerra sporca di Mussolini" - trasmesso nel marzo 2008 su History Channel. Fu proprio in seguito a questa trasmissione e ad alcuni articoli di stampa che venne incardinato un primo procedimento, archiviato nell'ottobre 2010. Un anno dopo, però, la denuncia di un cittadino greco, rappresentante dei familiari delle vittime della strage e nipote di uno dei civili fucilati, indusse il procuratore De Paolis (oggi procuratore generale militare) a disporre "ulteriori e più approfonditi accertamenti". Le indagini hanno in primo luogo ricostruito l'organigramma della Divisione 'Pinerolo', responsabile dell'eccidio, e poi i fatti avvenuti a Domenikon. Tutto ciò attraverso l'esame di una gran quantità di rapporti, relazioni e documenti trovati in diversi archivi militari dello Stato, una consulenza tecnica realizzata dalla storica Lidia Santarelli, della Columbia University, e le testimonianze delle pochissime persone "informate dei fatti" ancora in vita. All'esito di queste attività, undici persone sono state iscritte nel registro degli indagati per il reato di "violenza con omicidio contro privati nemici", aggravato dalla crudeltà e dalla premeditazione.
Un crimine di guerra più grave del delitto di rappresaglia, ipotizzato nella precedente inchiesta archiviata, e riguardante la "uccisione deliberata e consapevole di persone civili estranee alle operazioni belliche". L'elenco degli indagati includeva - insieme al generale Benelli, comandante della Pinerolo - il generale Angelo Rossi, comandante del terzo corpo d'armata e nove graduati, in gran parte del Gruppo Battaglioni d'assalto Camicie nere "L'Aquila". Ma tutti i principali autori del fatto - e cioè, scrive il pm, sia "chi dispose e organizzò la spedizione criminale", sia chi "ebbe a eseguire materialmente le uccisioni, obbedendo ad ordini manifestamente criminosi" - risultano essere morti o "ignoti", come i due Capi Manipolo delle Camicie Nere Penta e Morbiducci, che non è stato possibile localizzare e individuare compiutamente. Ugualmente "ignoti" tutti quei militari che hanno proceduto alle fucilazioni, che sono rimasti del tutto sconosciuti. Da qui la richiesta di archiviazione, poi disposta dal gip.
Punture di spillo tra Tirana e Atene
Il caso ciamuriota da una parte, i diritti della minoranza greca in Albania dall'altra. Sono mesi di relazioni tese tra Tirana ed Atene, nonostante i due rispettivi ministri degli Esteri abbiano concordato incontri periodici per dirimere i principali attriti
Dal suo insediamento nel settembre 2013 il governo albanese guidato da Edi Rama persegue una politica estera di intenso avvicinamento all’UE (Tirana spera di aprire i negoziati di adesione l’anno prossimo dopo aver ottenuto una raccomandazione positiva a ottobre) e di “zero problemi” con i paesi vicini. Uno di essi è la Grecia, con la quale l’Albania condivide dal 2009 l’adesione nella Nato e nel cui appoggio spera per velocizzare le tappe di adesione nell’Unione. Il problema maggiore tra questi due vicini è però un caso storico-politico che riaffiora periodicamente, raffreddando il clima di collaborazione tra le due capitali: il caso ciamuriota.
I ciamurioti sono un'importante comunità di etnia albanese proveniente da un'area che nel primo Novecento faceva parte dell’Impero Ottomano e che venne inclusa entro i confini greci dopo le guerre balcaniche del 1912-1913. L’area è incentrata sul fiume Tsamis, dal quale prende il nome. Si trova al confine attuale tra i due paesi.
Gli abitanti albanesi sono fuggiti in massa da quelle terre verso l’Albania subito dopo le guerre balcaniche e nell’ultimo periodo della Seconda guerra mondiale, durante la quale per la storiografia e la politica greca sono accusati di essere stati collaboratori dei nazisti. La migrazione verso nord è stata molto accelerata da violenze subite da parte di militari greci. Nel 1953 hanno poi ottenuto in massa la cittadinanza albanese.
Stato di guerra e caso ciamuriota
Ora un eventuale loro ritorno nelle terre di origine è impedito anche - secondo la parte albanese - dall’esistenza tecnicamente di uno stato di guerra tra Grecia e Albania. Esso fu proclamato il 10 novembre 1940 da Atene perché l’invasione del territorio ellenico da parte degli italiani avvenne dal territorio dell’Albania, occupata e formalmente parte dell’Impero fascista. Il governo greco la abolì il 28 agosto 1987, ma la decisione non è stata ratificata dal Parlamento greco, malgrado l’Albania l’abbia chiesto più volte.
Secondo l'Albania lo stato di guerra viene mantenuto per giustificare il sequestro delle proprietà in Grecia dei ciamurioti migrati. Atene dal canto suo nega sia l’esistenza di un caso ciamuriota che dello stato di guerra, come ribadito più volte dal ministro degli Esteri Nikos Kotzias.
Quest'ultimo, durante una sua visita a Tirana nel giugno di quest’anno – grazie alla quale lui e l’omologo albanese Ditmir Bushati si sono accordati sull’istituzione di un meccanismo diplomatico comune per trattare le problematiche bilaterali - è stata destinatario di manifestazioni di protesta da parte della comunità ciamuriota.
Si inserisce l'UE
Il 28 settembre nel dibattito si è inserita anche l’Unione Europea, attraverso il Commissario all’Allargamento Johannes Hahn. Per la prima volta Bruxelles ha riconosciuto l’esistenza del caso ciamuriota, segnando un punto a favore delle posizioni di Tirana sulla materia. In risposta a un'interrogazione dell'europarlamentare greco Maria Spyraki sul fatto se le azioni del Partito della comunità ciamuriota in Albania (PDIU) fossero o meno in linea con le relazioni di buon vicinato, precondizione per fare avanzare la candidatura albanese di aderire nell’UE, il commissario Hahn ha affermato: “La Commissione ha benevolmente accolto il fatto che entrambi i paesi stiano discutendo la creazione di un meccanismo comune, per promuovere incontri periodici per discutere delle problematiche in sospeso. Queste includono la definizione di una piattaforma continentale e le aree marittime tra Albania e Grecia, i diritti delle minoranze e il caso ciamuriota”.
Furioso, il ministero degli Esteri greco ha definito in una nota “non veritiera e inaccettabile” questa risposta di Hahn, ribadendo in seguito con forza: “E’ ben noto che non esiste un 'caso ciamuriota' e che esso non è stato accettato come questione nelle discussioni tra i governi di Albania e Grecia”. Maja Kocijančič, portavoce del commissario, si è limitata a riaffermare di fronte ai giornalisti che la Commissione accoglieva benevolmente le intenzioni di Tirana e Atene di procedere a un continuo dialogo bilaterale. Per Bruxelles, quindi, il caso ciamuriota esiste ed è dovere dei due partner balcanici procedere a risolverlo.
Battibecchi
La dichiarazione di Hahn ha creato un clima nel quale sono cominciate punture di spillo tra le due capitali, non interrotte dalla visita ad Atene del Presidente del Parlamento albanese Ilir Meta.
La nuova posizione di Bruxelles è stata interpretata come un assist dal segretario del PDIU Shpëtim Idrizi, alleato del governo Rama e vicepresidente del Parlamento. Per il suo partito ai danni dei ciamurioti è stato perpetrato un genocidio e, oltre a permettere il ritorno dei membri di questa comunità nelle loro terre di origine e la riappropriazione delle loro proprietà, Atene dovrebbe corrispondergli delle indennità. Idrizi preme pubblicamente sul governo albanese perché porti il caso ciamuriota anche in sede NATO – eventualità che innalzerebbe le tensioni oltre un limite di guardia.
Inoltre, in polemica diretta con Vangjel Dule, segretario del partito della minoranza greca in Albania (PBDNJ), il 3 novembre in parlamento il premier albanese Edi Rama ha chiesto ad Atene di abolire lo stato di guerra.
Le punture di spillo non riguardano solo i ciamurioti. La polemica Rama–Dule era stata scatenata dalla decisione delle autorità albanesi di demolire 19 costruzioni appartenenti a membri della minoranza greca in Albania nella città meridionale di Himara, nel quadro di una riconfigurazione urbanistica dell’area. Oltre che da Dule, la decisione albanese è stata contestata da due note successive del ministero degli Esteri di Atene, che accusava Tirana di violare i diritti delle minoranze.
Nel suo discorso del 3 novembre Rama ha indirettamente polemizzato anche con questa posizione ed ha affermato che la demolizione delle costruzioni ad Himara rientra pienamente nella corretta applicazione del diritto albanese. Una telefonata con l’omologo greco Alexis Tsipras ha tentato di allentare le tensioni.
Dialogo quanto mai necessario
Le posizioni di Rama – riaffermate in un'intervista sulla TV greca SKAI il 22 novembre scorso – sul caso ciamuriota (per lui “una questione albanese”) e lo stato di guerra sono le più assertive mai assunte da un capo di governo dell’Albania postcomunista nei confronti della Grecia e rendono necessaria la continuazione del dialogo sulla base del meccanismo Bushati–Kotzias.
Il caso ciamuriota e le demolizioni di Himara non sono l’unica materia di dialogo bilaterale: rimane sospesa da 7 anni la definizione del confine marittimo tra i due paesi, dopo che nel 2010 la Corte Costituzionale di Tirana, chiamata ad esprimersi dai socialisti di Rama, rigettò come incostituzionale un precedente accordo del 2009. Sicuramente le posizioni albanesi sono rafforzate dalla dichiarazione Hahn e dal fatto che Tirana si aspetta a breve l’apertura dei negoziati di adesione con Bruxelles.
Nel caso le tensioni diplomatiche dovessero intensificarsi e Atene si mettesse di traverso al percorso albanese verso l’UE (dove detiene un diritto di veto che già esercita sulla candidatura macedone), Bruxelles potrebbe però vedersi costretta di passare dagli inviti al dialogo alla mediazione tra le due capitali.
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